Montagna, Cosmave: Piano del Parco Apuane, coerenza è necessaria

“Abbiamo ormai capito tutti che dobbiamo salvaguardare il lavoro sulla montagna e che dalla montagna deriva. Le regole ci sono e disciplinano l’armonizzazione fra cave, ambiente e paesaggio”. Così Cosmave, il consorzio di imprese del marmo apuo-versiliese, sintetizza quanto emerso dal recente convegno organizzato dal comune di Minucciano al quale hanno partecipato il presidente del Parco delle Apuane Andrea Tagliasacchi e il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani. “Una nostra delegazione era presente al convegno e dagli interventi dei relatori, fra cui il presidente Tagliasacchi e il presidente Giani, crediamo sia emersa la consapevolezza dell’importanza del settore lapideo per le comunità della montagna versiliese e della Garfagnana. Le attività estrattive del comprensorio versiliese-garfagnino sono comprese nelle Aree Contigue di Cava (Acc), ovverosia aree espressamente destinate alla escavazione ed all’industria lapidea, che, pur essendo geograficamente situate all’interno del Parco, sono estranee all’area protetta. Non ci sono rischi di intaccare l’area protetta. Le attività estrattive presenti nelle Acc sono comunque già soggette ad una specifica disciplina ambientale e paesaggistica, tanto stringente, e che non si applica alle altre attività estrattive toscane, neppure a quelle del comprensorio carrarino.

Il nuovo Piano Integrato del Parco pretenderebbe di spingersi oltre, assoggettando le Acc alla disciplina propria dell’area protetta, decretando in questo modo la sostanziale chiusura delle attività estrattive presenti. Si tratterebbe di un’iniziativa, oltre che illegittima, dannosa per l’intera comunità della montagna versiliese-garfagnina, determinando l’impoverimento e lo spopolamento dei territori, che invece devono essere presidiati per poter essere mantenuti in ordine e salute, per poter quindi essere fruibili anche a chi, escursionista o semplice turista, vuole visitare le nostre montagne.

Bisogna ricordare tuttavia che il Parco è stato costituito al fine del miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali, nonché della realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema, con la conseguenza che non possono trascurarsi gli effetti economici, sociali e demografici che la chiusura delle attività estrattive produrrebbe sulla Comunità del Parco stesso. Sarebbe la desolazione. Le nostre montagne, ribadiamo “nostre” perché siamo noi quelli che vivono in montagna, che vivono la montagna, che rispettano la montagna, con tutti i problemi connessi, sono aperte a tutti coloro che vorranno visitarle, ciascuno di loro sarà sempre benvenuto. Anzi lo invitiamo a farlo per poter vedere con i propri occhi come lavoriamo e quanto difficile sia. Crediamo oltretutto che sia un atto di civiltà rispettare chi ha investito la propria vita, sia fisicamente che economicamente, per il duro lavoro del marmo.

Va detto anche che le attività presenti nel comprensorio versiliese-garfagnino non si riconoscono nella logica “estrattivista”, forse presente altrove, e sono tutte improntate al massimo rispetto per le esigenze ambientali e paesaggistiche. Tra di esse vi sono poi esempi di eccellenza, come le due cooperative storiche, quella di Levigliani e di Vagli: la prima impegnata oltre che nella coltivazione della cava, anche nel settore turistico con visite guidate alla cava ed all’Antro del Corchia; la seconda, che realizza già da tempo la cosiddetta “filiera corta”, attraverso la segheria ed il laboratorio dove processano direttamente i blocchi estratti nelle loro cave. E’ per questi motivi che riteniamo indispensabile che il nuovo Pip tenga conto dell’importanza delle attività estrattive, svolte in loco da secoli, e si conformi pienamente al Piano di indirizzo territoriale – Piano territoriale paesaggistico regionale (Pit-Ptpr), che reca una specifica disciplina delle attività estrattive delle Alpi Apuane, anche attraverso lo strumento dei Piani attuativi di bacino (Pabe). Pit che, si ricorda, è stato approvato da Regione e ministero dell’Ambiente.

La mancanza di coerenza del Pip rispetto al Pit ne ha sinora precluso l’intervenuta approvazione; il Pip non è ancora stato approvato dal Consiglio regionale, con tutta probabilità proprio a causa dell’incoerenza con il Pit, ma a questo punto la parte politica deve compiere un definitivo atto di coraggio e rimandare il piano al Parco per la sua rielaborazione nel rispetto della normativa vigente. Ci è difficile comprendere come si possa chiedere a noi di seguire alla lettera tutte le norme in vigore, Pit compreso, se poi gli organi competenti approvano un piano palesemente in contrasto con quanto legiferato in precedenza da loro stessi. Siamo fiduciosi che alla fine prevarrà la ragionevolezza e siamo certi che un uomo di grande esperienza ed equilibrio come il presidente del Parco Andrea Tagliasacchi troverà una soluzione alla questione. Concludiamo come sempre abbiamo fatto: nessuno è perfetto e tutto è migliorabile, siamo lieti di ascoltare chi avesse proposte serie e realizzabili per migliorare il nostro lavoro, siamo disponibili a dialogare. Rispettando i ruoli e le implicazioni socio-economiche conseguenti”.

L’allarme di Legambiente: “Neve artificiale sul 90% delle piste italiane. E’ insostenibile”

L’Italia è tra i paesi alpini più dipendenti dalla neve artificiale con il 90% di piste innevate artificialmente, seguita da Austria (70%), Svizzera (50%), Francia (39%). E’ quanto emerge dal dossier di Legambiente ‘Nevediversa 2023’, presentato oggi a Torino. La percentuale più bassa è in Germania, con il 25%. Per l’associazione il sistema di innevamento artificiale “non è una pratica sostenibile e di adattamento, dato che comporta consistenti consumi di acqua, energia e suolo in territori di grande pregio”.

I dati che emergono dalle stime sono preoccupanti: considerando che in Italia il 90% delle piste è dotato di impianti di innevamento artificiale il consumo annuo di acqua già ora potrebbe raggiungere 96.840.000 di m³ che corrispondono al consumo idrico annuo di circa una città da un milione di abitanti. “Inoltre – si legge nel rapporto – l’innevamento artificiale richiede sempre maggiori investimenti per nuove tecnologie ed enormi oneri a carico della pubblica amministrazione“. Senza contare che il costo della produzione di neve artificiale sta anche lievitando, passando dai 2 euro circa a metro cubo del 2021-2022, ai 3-7 euro al metro cubo nella stagione 2022-2023. Per questi motivi Legambiente torna a ribadire “l’urgenza di ripensare ad un nuovo modello di turismo invernale montano ecosostenibile, partendo da una diversificazione delle attività. Ce lo impone la crisi climatica che avanza e che sta avendo anche pesanti impatti sull’ambiente montano. Difronte a ciò l’Italia non può più restare miope, ne può pensare di poter inseguire la neve”.

A preoccupare è anche il numero di bacini idrici artificiali presenti in montagna ubicati in prossimità dei comprensori sciistici italiani e utilizzati principalmente per l’innevamento artificiale. Sono 142 quelli mappati nella Penisola per la prima volta da Legambiente attraverso l’utilizzo di immagini satellitari per una superficie totale pari a circa 1.037.377 mq. Il Trentino Alto Adige detiene il primato con 59 invasi, seguito da Lombardia con 17 invasi e dal Piemonte con 16 bacini. Nel Centro Italia, l’Abruzzo è quello che ne conta di più, ben 4.

In parallelo, nel 2023 aumentano sia gli “impianti dismessi” toccando quota 249, sia quelli “temporaneamente chiusi” – sono 138 – sia quelli sottoposti ad “accanimento terapeutico”, ossia quelli che sopravvivono con forti iniezioni di denaro pubblico, e che nel 2023 arrivano a quota 181.Tutti impianti censiti da Legambiente che quest’anno allarga il suo monitoraggio includendo anche altre categorie: quelle degli “impianti un po’ aperti, un po’ chiusi”, ossia quei casi che con le loro aperture “a rubinetto” rendono bene l’idea della situazione di incertezza che vive il settore. In totale sono 84. La categoria degli “edifici fatiscenti”, 78 quelli censiti. Ed infine la categoria “smantellamento e riuso”, 16 i casi censiti.

Alla ministra del Turismo Daniela Santachè, che questo inverno ha avviato un tavolo tecnico per l’emergenza legata alla mancanza di neve in Appennino, “torniamo a ribadire – dice il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani – che avrebbe più senso investire risorse nell’adattamento e non nell’innevamento artificiale. Con un clima sempre più caldo, nei prossimi anni andremo incontro a usi plurimi dell’acqua sempre più problematici e conflittuali. Per questo è fondamentale che nella lotta alla crisi climatica l’Italia cambi rotta mettendo in campo politiche più ambiziose ed efficace, aggiornando e approvando entro la fine di marzo il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, e rindirizzando meglio i fondi del PNRR”.

Clima, il meteorologo: “Servono duemila miliardi contro dissesto idrogeologico”

In montagna nevica meno e a quote sempre più alte. È un dato di fatto, una tendenza che si va consolidando anno dopo anno e che trova conferma nel 2022, l’anno con l’estate più calda di sempre.
Cosa significa avere meno neve sulle cime? “Significa molto, soprattutto riduzione dei ghiacciai, aumento del rischio frane, minore disponibilità di acqua”, spiega a GEA il meteorologo Paolo Sottocorona. I ghiacciai hanno ormai un bilancio in perdita tra l’inverno e l’estate, il che significa “mancanze idriche, situazioni siccitose. L’abbiamo visto benissimo questa estate, con i livelli di fiumi e laghi che si stanno abbassando, mostrando questa sofferenza”, osserva. La crisi dei ghiacciai si ripercuote sui fiumi, quindi anche sull’irrigazione e l’elettricità. “Da qualunque punto di vista lo si voglia vedere, abbiamo una serie di criticità”, afferma.
Qualche nevicata sulla zone alpine c’è stata ma, denuncia, “per ora non basta”: “Dovrebbe nevicare molto e bene”, afferma.
Sui prossimi mesi non si sbilancia: “Non esistono previsioni stagionali che abbiano un’attendibilità decorosa, so che ne parlano tutti, ma tecnicamente e correttamente non si può fare, si può vedere la tendenza. E la tendenza è quella che abbiamo visto, siccità, mancanza di piogge e di nevicate, precipitazioni torrenziali e aumento degli eventi estremi”.

Gli eventi estremi non bastano a compensare neanche in parte la mancanza di precipitazioni: “Se alla fine di quest’anno facessimo una media, potremmo trovare che la quantità di pioggia totale è quasi normale, ma si distribuisce diversamente. In media, le piogge mensili si dovrebbero aggirare intorno ai 70-80 millimetri, che fanno 900 millimetri all’anno. Ma se in una zona non piove per mesi e poi piove 200 millimetri in 2 ore, come è successo a Ischia, questo è un problema”.
Ci sono zone, nel mondo, in cui piove 10-15 volte in più che in Italia. Perché lì non ci sono frane? “Perché sono decine di migliaia di anni che succede così, quello che doveva franare è franato, il terreno è assestato per quel regime – scandisce il meteorologo -. I nostri terreni, che sappiamo da decenni essere fragili, sottoposti a questi stress crollano. Emerge quell’assenza di interventi che dura da quando ero bambino io. E adesso si paga: fino a pochi anni fa un evento estremo si verificava una volta ogni 10 anni, sembrava sfortuna, adesso non dico che ne abbiamo uno al mese, ma la frequenza è aumentata in maniera esponenziale. In maniera più rapida di quello che si pensava”.

Del cambiamento climatico molto si è parlato, la strada è segnata, “si sperava che il passo fosse più lento”, osserva Sottocorona, che denuncia una mancanza di coraggio negli interventi di messa in sicurezza del territorio: “Qui parlano di interventi da 2 miliardi, ma servono 2mila miliardi per mettere l’Italia in sesto”.
La mano dell’uomo, sui cambiamenti climatici, è evidente per il meteorologo: “Seimila anni fa non c’erano città, strade, ponti. Oggi questo aumento della temperatura è davanti a tutti e gli effetti non sono identici in tutto il pianeta, ci sono zone in cui è andata meglio e zone in cui è andata peggio. Ma non possiamo contare sulla speranza. Fidarsi della buona stella è criminale, perché muore la gente”.
Al di là di interventi massicci, alcune tragedie sarebbero evitabili. È ancora nel ricordo di tutti la tragedia di Rigopiano: “Quello era un evento più che prevedibile – conferma Sottocorona -, non è neanche un discorso di abusivismo, il problema non è solo costruire in regime abusivo ma anche costruire in zona pericolosa. Quanta leggerezza e disinteresse c’è nel rilasciare i permessi. La certificazione geologica dovrebbe essere rilasciata ogni volta che si intende costruire qualcosa. L’aspetto geologico è fondamentale in qualunque costruzione perché abbiamo un terreno fragile e soggetto a stress idrogeologici fortissimi. Dobbiamo cambiare il sistema e, prima, cambiare testa. Serviranno tempo e competenze”.

Il caro energia minaccia la stagione dello sci. Ghezzi: “Se chiudiamo la montagna muore”

Stagione sciistica a rischio tra aumenti, per via degli alti costi dell’energia, e chiusure settimanali. Gli operatori del settore sono in allarme a fronte di bollette che sembrano triplicare rispetto al 2021 in una stagione 2022-2023 che sarebbe dovuta essere essere quella della rinascita e del boom dopo i due inverni difficili caratterizzati dalla pandemia da Covid. “Se chiudiamo noi muore tutta la montagna e non vogliamo prenderci questa responsabilità, si tratta di posti di lavoro. Ma qualcuno dovrà pagare le nostre bollette perché non ce la si fa”, ammette a GEA Valeria Ghezzi, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari (Anef). I dati parlano di costi di bollette triplicate, in base poi ai diversi contratti siglati negli anni con le aziende di energia: chi a stagione pagava 1 milione di euro ora ne pagherà 3, chi ne pagava 400mila ora sfiora 1-1,2 milioni. A poche settimane dall’avvio della stagione invernale, già si annunciano aumenti delle tariffe delle strutture ricettive e della ristorazione, con un incremento fino al 10% del costo dello skipass e costi per l’innevamento programmato con i cannoni. Ma c’è anche chi valuta se, con un ulteriore aumento dei costi dell’energia, non sia opportuno alzare bandiera bianca, e saltare la stagione. “È una provocazione, ovviamente, ma se nella sola stagione estiva a fronte di 500mila euro di guadagni 300mila euro sono spesi in bollette, è ovvio che i conti esplodono”, spiega Nicola Bosticco, amministratore delegato della Colomion, società che gestisce i 20 impianti di risalita a Bardonecchia, rinomata località sciistica nel Torinese. Quello che manca, secondo Bosticco, è un ragionamento di settore che preveda, ad esempio, dei prezzi calmierati sull’energia per 5 mesi. “La nostra stagione dura 5 mesi, è vero, ma in quei 5 mesi facciamo il 70 percento delle nostre bollette”, precisa Ghezzi. Per questo, come Anef, si è chiesto che gli impianti di risalita vengano inseriti nel pacchetto di misure per le aziende energivore. “Siamo in un momento di impasse, senza interlocutori al governo – aggiunge – ma continueremo a chiedere. Perché se chiudiamo noi si ferma tutto: dal maestro di sci al servizio noleggi, dalle baite fino agli alberghi e ristorante. E la montagna muore“.

Per ora, l’imperativo, come in tutta Italia, è cercare di contenere i costi. A Bardonecchia si cercherà di ridurre la velocità o, alla peggio, di chiudere gli impianti in settimana favorendo il week end e i giorni festivi tra dicembre e gennaio. Senza considerare un quasi certo ritocco verso l’alto dei prezzi degli skipass previsto per novembre, quindi prima della stagione vera e propria: è la soluzione a cui sta guardando Giovanni Brasso, presidente della Sestriere spa. Per il comprensorio delle valli olimpiche, dunque, si prevede un aumento del giornaliero di almeno il 7 percento, portando il costo da 41 euro a 42-44 euro. “Con un ritocco dei prezzi, con una doverosa operazione di risparmio energetico sugli impianti, e sacrificando gli utili dovremmo resistere, se la situazione non peggiora”, cerca di essere ottimista Brasso, anche se, è evidente, “c’è molta preoccupazione”. Di certo, a fronte di una maggiorazione dei prezzi, “toccheremo i nostri utili, perché siamo imprenditori, e siamo chiamati anche reggere nei momenti più bui”. E poi, se le famiglie sono chiamate a risparmiare è giusto che lo si debba fare tutti. “Questo – continua Brasso – non vuol dire sacrificare la stagione ma fare uno sforzo, ad esempio, nelle giornate di tempo brutto rallentando gli impianti o fermando 2 o 3 nei giorni feriali”.

Sull’altro versante delle Alpi, ad esempio, per sciare sulle piste del Dolomiti Superski tra Natale ed il 7 gennaio, il giornaliero per un adulto costerà 74 euro (lo scorso anno era 67 euro). A Pila in Val d’Aosta hanno optato per la tariffa unica dall’apertura alla chiusura con il costo del giornaliero a 50 euro. A Cervinia nel periodo di Natale un giornaliero internazionale (collegamento con Zermatt) costerà 81,50 euro.

Dal 1931 a oggi dimezzato il volume dei ghiacciai svizzeri

I ghiacciai svizzeri hanno perso metà del loro volume dal 1931 a oggi. È quanto emerge da uno studio dell’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo (ETH Zurigo) e dell’Istituto Federale per la Ricerca su Foresta, Neve e Paesaggio (WSL), che ha ricostruito la topografia dell’insieme dei ghiacciai svizzeri, che esiste dal 1931. Lo scioglimento dei ghiacciai delle Alpi – che gli esperti attribuiscono al riscaldamento globale – è stato monitorato da vicino dall’inizio degli anni 2000. Ma i ricercatori non sapevano molto della loro evoluzione nei decenni precedenti, perché allora solo pochi ghiacciai erano stati seguiti da vicino. “Sulla base di queste ricostruzioni e del confronto con i dati degli anni 2000, i ricercatori concludono che il volume del ghiacciaio è stato dimezzato tra il 1931 e il 2016“, hanno affermato ETHZ e WSL in una nota.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica La Cryosphère. I glaciologi hanno utilizzato immagini d’archivio (21.700 fotografie scattate tra il 1916 e il 1947) in grano di raffigurare l’86% della superficie glaciale svizzera e la stereofotogrammetria, una tecnica che determina la natura, la forma e la posizione di un oggetto usando le immagini. “Se conosciamo la topografia della superficie di un ghiacciaio in due momenti diversi, possiamo calcolare la differenza nel volume del ghiaccio“, spiega l’autore principale dello studio, Erik Schytt Mannerfelt.

Il ghiacciaio Fiescher, ad esempio, di cui nel 2021 erano rimaste solo alcune minuscole macchie bianche, nel 1928 sembrava un enorme mare di ghiaccio. I ghiacciai, però, non si sono ritirati continuamente nell’ultimo secolo, affermano gli scienziati. Hanno anche sperimentato episodi di crescita di massa negli anni ’20 e ’80 del 1900. Nonostante questa crescita nel breve periodo, “il confronto tra gli anni 1931 e 2016 mostra chiaramente che si è verificato un significativo ritiro glaciale“, dice uno degli autori dello studio, Daniel Farinotti, professore di glaciologia all’ETHZ e WSL. E ora i ghiacciai si stanno sciogliendo a un ritmo sempre più rapido.

Mentre hanno perso il 50% del loro volume tra il 1931 e il 2016, ci sono voluti solo sei anni – tra il 2016 e il 2022 – per perderne il 12%, secondo la rete svizzera di rilevamento dei ghiacciai GLAMOS. Per Farinotti l’evidenza è inconfutabile: “Il ritiro dei ghiacciai sta accelerando“.

(Photo credits: Fabrice COFFRINI / AFP)

Mucche

Mucche adottate a distanza: la Valsugana punta sulla sostenibilità

È stata una delle prime destinazioni al mondo a ottenere una certificazione per il turismo sostenibile, grazie alla natura incontaminata in cui fare trekking o pedalare tra laghi e montagna e vivere esperienze nel pieno rispetto dell’ambiente. E ora la Valsugana ha deciso di fare un passo in più, provando a coinvolgere, anche da lontano, chi desidera avvicinarsi al territorio. Valsugana-Lagorai hanno organizzato un originale concorso, accessibile dal sito www.visitvalsugana.it, con il quale è possibile vincere…una mucca. O meglio, la sua adozione a distanza.

Tutti gli utenti (residenti in Italia) che avranno compilato il form di registrazione parteciperanno all’estrazione finale dei premi, che consistono in tre adozioni simboliche a distanza di una mucca della Valsugana del valore di 65 euro ciascuna, di cui 15 euro destinati alla gestione del progetto e di altre iniziative territoriali. Inoltre, i vincitori riceveranno 50 euro di prodotti caseari in occasione di una visita estiva alla mucca adottata da effettuare entro il 15 settembre 2022 o, in alternativa, dal 15 giugno 2023 al 15 settembre 2023 C’è tempo fino al 3 agosto per partecipare all’iniziativa.

Il concorso è legato al più ampio progetto ‘Adotta una mucca’, organizzato da Valsugana e Lagorai (sud-est del Trentino), per far conoscere la natura incontaminata delle montagne, insegnare come si produce il formaggio secondo metodi antichi e aiutare a scoprire cosa significa vivere in una malga e portare le mucche all’alpeggio. Ad oggi sono circa 17 le malghe che hanno aderito all’iniziativa e 12.500 le adozioni a distanza sottoscritte. Oltre 50, invece, i singoli progetti sostenuti grazie all’iniziativa.

Con l’adozione a distanza si sostiene il lavoro dei malghesi e, quindi, la possibilità per le mucche di trascorrere l’estate tra i prati della montagna. Inoltre, si garantisce un reddito per i malghesi che in maniera tradizionale si occupano della produzione dei formaggi in maniera naturale. Si tratta di una vera filiera corta a testimonianza che l’economia circolare può essere una nuovo modo per sostenere anche da parte dei consumatori l’economia locale. L’iniziativa è sostenibile anche perché molte della malghe del progetto conferiscono il letame prodotto dalle mucche presso l’impianto di biogas nel comune di Castel Ivano che ha generato sino ad oggi oltre 5 milioni di Kwatt di energia pulita, contenendo da una lato la creazione di gas serra dannosi per l’ambiente e producendo energia pulita.

Una volta che che è stata inviata la richiesta di adozione a distanza, l’utente riceve un attestato e la carta d’identità della mucca scelta. Già, perché sul sito dedicato al progetto è possibile scegliere sia la malga, sia l’animale. Carolina, Lola, Ginevra, Fauna, Melissa, Pamela: ogni mucca ha una scheda dedicata, con foto, origine, residenza e malghese di riferimento. Sarà possibile andare in malga a far visita alla mucca adottata durante il periodo dell’alpeggio, indicativamente da metà giugno a metà settembre.

montagna

Montani (Cai): Turismo dolce ed ecocompatibile, impariamo a goderci la natura

Dall’esplosione della pandemia di Covid, il turismo in montagna ha conosciuto un boom davvero notevole. Questa crescita di interesse spesso si scontra con la sostenibilità: molto si può fare per migliorare la situazione, con effetti positivi anche per gli stessi turisti. Il Club Alpino Italiano (CAI) da 159 anni si occupa della diffusione delle conoscenze – culturali, sociali, ambientali, alpinistiche ed escursionistiche – sulla montagna, della sua tutela e valorizzazione. L’Italia è circondata dal mare, ma è anche completamente innervata da montagne che costituiscono il suo scheletro, la struttura che regge il Paese e non solo da un punto di vista fisiologico-simbolico, ma anche sostanziale. La montagna, infatti, è da sempre fonte di materie prime, di energia, di cibo… Il ruolo del CAI, quindi, è storicamente prezioso. E lo è particolarmente in questi anni in cui il turismo nelle aree montane ha conquistato nuovi frequentatori e appassionati.

Il presidente Antonio Montani, piemontese di Verbania eletto da poche settimane alla guida nazionale del Club Alpino Italiano, racconta a GEA quanto e come l’impegno di questa immensa rete di volontari si stia sviluppando per accompagnare una nuova epoca d’oro – almeno potenziale – del turismo montano. “Incominciamo con qualche numero: siamo circa 330mila soci, quindi una grande organizzazione molto diffusa e radicata sul territorio attraverso 800 sezioni e sottosezioni che gestiscono 714 strutture tra rifugi e bivacchi per un totale di oltre 20mila posti letto. Attraverso questa rete e i gestori a cui sono affidate le strutture ci occupiamo di accoglienza e turismo in montagna, turismo sostenibile per definizione. La grande crescita nella frequentazione della montagna di questi ultimi tre anni ha comportato alcune conseguenze non positive: un aumento di oltre il 20 per cento degli interventi del Soccorso Alpino, passati da 8000 a circa 10mila, che è anche il risultato di un approccio poco consapevole e poco dolce alla montagna. Moltissimi si sono sentiti attratti dagli ambienti aperti, selvaggi, dai paesaggi meravigliosi e dalla natura incontaminata ma senza avere consapevolezza del fatto che la natura richiede rispetto, tempo e attenzione. Ad esempio: l’utilizzo di scarpe e abbigliamento adatti, una frequentazione che lasci l’impronta umana più leggera possibile per quello che riguarda rifiuti o emissioni con auto e moto. Al contrario, abbiamo avuto una frequentazione fatta soprattutto di gite giornaliere, per prendere un po’ di fresco qualche ora”.

La proposta del CAI è diversa. Spiega Montani: “Noi sconsigliamo questo tipo di approccio perché molto impattante e anche poco efficace per lo stesso turista: in primo luogo crea grossi volumi di traffico su ambienti che sono fragili; poi perché dal punto di vista economico è l’approccio che lascia meno ai territori; infine, perché chi resta tre-quattro ore su un prato o sulla riva di un ruscello a cento metri dal parcheggio non potrà apprezzare e godere granché. Noi, viceversa, proponiamo e promuoviamo una frequentazione più lenta, muovendosi a piedi e con soggiorni ed escursioni di più giorni. Ci sono livelli di difficoltà adatti a tutti, non è necessario essere provetti alpinisti per godere di luoghi meravigliosi. Questo consente di immergersi davvero nella bellezza e ricchezza della natura, apprezzando fino in fondo dei benefici che essa ci porta. E fermandoci a dormire e mangiare nelle strutture locali consentiamo anche a questi territori di sviluppare economia, di vivere e di continuare ad essere popolati, magari da famiglie giovani, contribuendo così alla loro buona conservazione. Inoltre, restare in montagna per alcuni giorni ci permette di apprezzare momenti speciali come la sera o il mattino presto, pieni di fascino e di meraviglia che ci perdiamo con le gite in giornata. Insomma: c’è un fattore economico, uno ambientale ma c’è un fattore culturale, se vogliamo, di percezione della immensa ricchezza rappresentata dalla natura nel suo insieme”.

È una questione in gran parte di sensibilizzazione e formazione delle persone che si avvicinano alla montagna con entusiasmo ma scarsa conoscenza e privi di consapevolezza. Basta veramente poco per assecondare questa fame di montagna e aprirla a una frequentazione attenta e più duratura nel tempo. “Considerando che non siamo un operatore economico ma una associazione di volontari – racconta il presidente del CAI – cerchiamo di fare la nostra parte in questo senso ogni giorno, anche con la divulgazione che ciascun socio fa nella propria rete di conoscenze. In particolare, però, ci stiamo concentrando su due progetti emblematici che fanno un po’ da calamita per attirare le persone sulla tipologia di turismo che intendiamo proporre. Il primo è il rilancio del grande progetto del Sentiero Italia CAI, che è stato definito il trekking più lungo del mondo: circa 7600 chilometri, 518 tappe attraverso tutte le regioni italiane. Ovviamente può essere affrontato a tratti di tre-sette giorni in base alle capacità, esigenze e possibilità di ciascuno. Ma la sua frequentazione negli anni ci permetterà di apprezzare la grande varietà e la grande bellezza del nostro Paese. Abbiamo realizzato una guida, 10 volumi e 3500 pagine per racchiudere tutto questo immenso patrimonio. Abbiamo realizzato un nuovo sito (https://sentieroitalia.cai.it/), lavoriamo sui social e adesso abbiamo in programma, proprio da quest’anno, una forte promozione all’estero, grazie anche ai fondi che abbiamo avuto dal Ministero del Turismo con cui stiamo sviluppando una collaborazione veramente eccellente in ogni sua articolazione”.

Perché i turisti stranieri, in particolare quelli del centro e nord Europa, apprezzano particolarmente questo tipo di vacanza: “Abbiamo già qualche riscontro positivo – chiosa Montani – attraverso le strutture. Sono già 300 quelle che hanno sottoscritto un disciplinare ed espongono la targa del punto accoglienza del Sentiero Italia CAI”. Un altro “elemento importante – racconta ancora il Presidente CAI – è quello che riguarda più in generale la grande infrastruttura per il turismo dolce e per il turismo ecocompatibile: la rete sentieristica italiana. Nel nostro Paese abbiamo 180.000 km di sentieri. Noi stiamo lavorando al catasto nazionale dei sentieri, che vuol dire attribuire a ogni singola tratta, da bivio a bivio per intenderci, un codice univoco che permetterà di poter programmare la manutenzione: tenere in buone condizioni questa infrastruttura, che è un’infrastruttura totalmente ecologica, è una delle basi necessarie per poter sviluppare un turismo sostenibile. Su 180.000 km totali il CAI si occupa della manutenzione su 64.000 km di sentieri: la rete Autostrade per l’Italia misura 6500 km, noi ne abbiamo 10 volte tanto e questo dà l’idea di quello che fanno i nostri volontari”.

Turismo sostenibile significa tutela della montagna, ambientale e sociale. “È una risorsa fondamentale per l’uomo, non solo per il nostro Paese. Per questo siamo impegnati su tutti i tavoli di Asvis, l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, e proprio con un occhio particolare a questi valori ecosistemici. Pensiamo a quello che sta accadendo quest’anno con la siccità e lo scioglimento dei ghiacciai, in particolare al Nord. Portare le persone in montagna è importante anche per questo: camminando e stando sui luoghi ci si rende conto di quale sia la situazione e di quanto sia importante contribuire e fare la propria parte. Noi vogliamo stare sui territori anche per discutere gli ambiti di sviluppo, le opportunità di crescita, di vita in montagna, con un’attenzione particolare alle persone, alle popolazioni di montagna. Anche per questo un turismo sostenibile è la miglior chiave di sviluppo possibile”.

Marmolada, una tragedia annunciata: la colpa è del cambiamento climatico

Sei morti accertati, almeno 17 dispersi e otto feriti: il bilancio – provvisorio – di quanto accaduto domenica sul ghiacciaio sommitale di Punta Rocca, in cima alla Marmolada, è destinato a crescere. Una tragedia che, da subito, è apparsa molto lontana dalla fatalità. Il cambiamento climatico è entrato a gamba tesa nei fatti di cronaca, trasformandosi nel fatto più concreto e tangibile che l’uomo sia in grado di riconoscere: la morte.

Oggi a Canazei (Trento) arriveranno il premier Mario Draghi e il capo della protezione civile, Fabrizio Curcio, per fare il punto della situazione e incontrare chi da ieri, senza sosta, lavora alla centrale operativa allestita per coordinare le operazioni di ricerca dei dispersi. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato al governatore trentino, Maurizio Fugatti per esprimere cordoglio e vicinanza

Le cause del crollo, però, sono lì, sotto gli occhi di tutti. Da settimane le temperature in quota sulle Alpi sono molto al di sopra dei valori normali, mentre l’inverno scorso c’è stata poca neve, che ormai quasi non protegge più i bacini glaciali. E allora cosa è accaduto? “Il caldo estremo di questi ultimi giorni, con questa ondata di calore dall’Africa spiega il glaciologo Renato Colucci dell’ Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche, Cnr-Ispha verosimilmente prodotto una grossa quantità di acqua liquida da fusione glaciale alla base di quel pezzo di ghiacciaio che in realtà è una “pancia”: infatti è, o era, una via che si chiama proprio Pancia dei Finanzieri”. Siamo quindi proprio nelle condizioni peggiori per distacchi di questo tipo, quando c’è tanto caldo e tanta acqua che scorre alla base. “Non siamo ancora in grado di capire se si tratti di un distacco di fondo del ghiacciaio o superficiale – spiega l’esperto – ma la portata sembra molto importante, a giudicare dalle prime immagini e informazioni ricevute”. L’atmosfera e il clima, soprattutto al di sopra dei 3.500 metri di quota, sono in totale disequilibrio “a causa del “nuovo” clima che registriamo e quindi, purtroppo, questi eventi sono probabilmente destinati a ripetersi nei prossimi anni e anche per questa estate dobbiamo mantenere la massima attenzione”.

Nel 2019 era stato lo stesso Colucci a lanciare l’allarme attraverso uno studio che aveva mostrato come tra il 2004 e il 2015, il ghiacciaio avesse ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale era stata del 22%. Ne era emerso che il ghiacciaio, un tempo massa glaciale unica, era frammentato e suddiviso in varie unità, dove in diversi punti affioravano masse rocciose sottostanti. La ricerca aveva inoltre evidenziato che, con quel tasso di riduzione, nel giro dei prossimi 25-30 anni il ghiacciaio sarebbe praticamente scomparso, lasciando il posto solo a piccole placche di ghiaccio e nevato, alimentate dalle valanghe e protette dall’ombra delle pareti rocciose più elevate, non più dotate di crepacci e di movimento. “Il ghiaccio, quindi – aveva spiegato Colucci – non esisterà più. E se, come da scenari climatici, la temperatura nei prossimi decenni dovesse aumentare a ritmo più accelerato, questa previsione potrebbe essere addirittura sottostimata e la scomparsa del ghiacciaio potrebbe avvenire anche più rapidamente”.

Ma la situazione di tutti i ghiacciai italiani non è migliore. Nel 1965, quelli censiti nel catasto italiano erano 1.397, nel 2015 soltanto 900. In 50 anni hanno perso il 40% del loro volume.

 

(Photo by Pierre TEYSSOT/AFP)