Una nuova era per il commercio al dettaglio italiano? Rinnovarsi o perire

L’Italia è un Paese nel quale la dimensione comunale viene dalla storia ed impronta di sé il vivere economico, sociale, culturale e civile. Nella stragrande maggioranza le città e le cittadine italiane sono antiche e anche la loro espansione nel tempo e in particolare negli ultimi 70 anni è avvenuta attorno a nuclei centrali di origine medievale. Questi centri detti ‘storici’ sono stati e sono il cuore della vita comunale perché al loro interno sono insediate le principali funzioni direzionali e di servizi.

Tra queste funzioni quelle del commercio e dell’artigianato sono fondamentali: esse rappresentano un presidio della tradizione italiana del bello e dell’eccellenza nella moda e nell’abbigliamento, nel design e nei mobili, nelle gioiellerie e oreficerie, nelle librerie e nelle arti grafiche, nell’alimentazione e nella ristorazione ecc. e in generale in tutte quelle attività che fanno degli stessi centri storici luoghi estremamente attrattivi per gli italiani e per gli stranieri.

Si tratta, quasi sempre, di attività gestite da imprese famigliari che con grande impegno e sacrificio garantiscono ai clienti un servizio di alto livello. Queste attività, per una serie di ragioni che si cercherà di esaminare in questo articolo, prima fra tutte l’invecchiamento dei titolari e il non facile ricambio generazionale, sono minacciate dai grandi cambiamenti di questa epoca e quindi devono costituire oggetto di attenzione molto alta e di azione innovativa.

Storicamente in Italia le attività commerciali nei centri urbani sono state regolate dai ‘Piani del Commercio’, misure di programmazione adottate dai Comuni per evitare sovrapposizioni e ridondanze e per garantire un equilibrio di mercato che il potere oligopolistico della grande distribuzione nascente rischiava di mettere in crisi.

Gli anni ’80 e ’90 segnati nel mondo, ma anche da noi, da una cultura delle liberalizzazioni ad ogni costo e della sedicente tutela del consumatore hanno portato, anche in Italia, a una revisione delle politiche e delle regole del commercio al dettaglio. Nel 1998 la legge Bersani (dal nome del Ministro dello sviluppo economico di allora che aveva competenze anche in materia di commercio) fa sparire ogni forma di pianificazione del commercio piccolo e medio: infatti non sono più previste licenze per gli esercizi fino a 250 mq di superficie. Chiunque può aprire un negozio e vendere ciò che vuole. Spariscono anche le 14 tabelle merceologiche che regolavano il settore e restano solo due settori: alimentare e non alimentare.

Rimangono regole più severe per gli esercizi commerciali più grandi che, alla fine, restano gli unici tutelati.

Lo spirito è quello dei tempi: un’ideologia spinta di libero mercato, anche se poi saranno gli oligopoli ad avere la meglio, con scarsa incidenza e controllo delle attività antitrust. Singolare il fatto che a declinare questa ideologia liberista in Italia sia stato proprio un uomo di sinistra come Bersani: ma in fondo i piccoli commercianti sono sempre stati dei moderati e hanno sempre votato DC e quindi erano probabilmente non meritevoli di particolare tutele.

La liberalizzazione del commercio fatta da Bersani non nasce in attuazione di qualsivoglia direttiva europea: è un’iniziativa completamente autonoma. Ma il clima è quello che si è detto. Pensate che Mario Monti, allora Commissario europeo alla Concorrenza, in un famoso articolo per il ‘Corriere della Sera’ dal titolo ‘Maastricht e il salumiere’, salutando con giubilo la riforma Bersani, scrive: “La riforma avvicina l’Italia all’unione monetaria ed economica e segna un passo importante di smantellamento di alcune rigidità che pesano sull’economia italiana” (sic).

Come si potesse pensare che la scomparsa della regolamentazione del commercio al dettaglio e quindi la sua messa in pericolo potesse essere un bene per l’Italia è un mistero, o meglio forse no, perché nel titolo dell’articolo di Monti si intuisce tutto lo snobismo e il senso di superiorità del professore nei confronti dei piccoli commercianti; e perché questa vicenda dimostra come anche quella del libero mercato può diventare un’ideologia. Ciò che colpisce è che (allora come oggi) non si tiene per nulla conto della specificità italiana e non si comprende che il commercio al dettaglio nei centri storici italiani è una rarità e una ricchezza straordinaria che andrebbe tutelata come gli stambecchi nel parco del Gran Paradiso. Firenze, Bologna, Imola, Parma, Chiavari solo per citare alcuni centri storici molto importanti per il commercio al dettaglio non sono come Francoforte, Liegi o Bordeaux.

Sono passati 25 anni da allora. Quali sono stati i risultati di quell’approccio e di quelle scelte liberiste? Ne sono venuti effettivi benefici per i consumatori? Quali sono i nuovi problemi che stanno di fronte al commercio al dettaglio italiano e in particolare a quello che si svolge nei centri storici?

Chiavari da questo punto di vista è un buon osservatorio perché il suo centro storico, il suo ‘carruggio dritto’ e i suoi portici sono una straordinaria e millenaria galleria commerciale dove in un contesto di grande bellezza urbana si è nei secoli manifestata, e in parte ancora oggi si manifesta, una ricchezza commerciale di assoluto rilievo che attrae consumatori e visitatori dal capoluogo e da altre importanti città.

Ma il declino e le difficoltà incombono. Invecchiamento della popolazione, faticoso ricambio generazionale nelle imprese familiari, trasformazioni dell’economia e del commercio. Basta osservare come si è trasformato in questi anni il ‘caruggio’ con una progressiva chiusura di attività tradizionali condotte da famiglie del territorio che sono state sostituite da marchi di grandi catene, con esercizi spesso anonimi e standardizzati. I grandi marchi vincono perché sono gli unici in grado di pagare i fitti richiesti dai proprietari dei fondi.

Anche questo non è stato compreso dall’ideologia iper-liberista. Se non c’è più il Piano del Commercio con la sua regolamentazione, se tutti possono vendere tutto, è chiaro che la ricerca e la disponibilità dei fondi si trasforma in un’asta al rialzo dove, inevitabilmente, vincono sempre i più forti (le catene) e perdono i più deboli (i commercianti tradizionali) con un trasferimento di valore e di ricchezza da questi ultimi alla proprietà e alla rendita immobiliare. Paradossi delle liberalizzazioni!!!

Ma oggi un’altra grave minaccia incombe sul commercio tradizionale: Amazon e in generale tutto il commercio online.

La vastità della scelta (ogni cosa è disponibile in rete), la tempestività della consegna (a domicilio in poche ore dall’ordine), i prezzi competitivi (5% almeno di sconto rispetto al prezzo della bottega tradizionale) sono una minaccia epocale non solo per il piccolo commercio al dettaglio ma in prospettiva anche per la grande distribuzione.

È possibile contrastare questo fenomeno? Anche per Amazon vale quanto detto più volte riguardo ai grandi provider dei social, Google, Facebook ecc. La rete, partita come strumento aperto, libero, di tutela del consumatore si è progressivamente trasformata in un gigantesco meccanismo oligopolistico che cerca di estrarre dai consumatori, attraverso la profilatura, dati, preferenze, gusti, inclinazioni.

Al di là di discorsi etici e filosofici, per quanto importanti, se vogliamo essere realisti dobbiamo considerare che questi fenomeni posso essere al massimo regolati non contrastati. E così è anche per l’online.

Il futuro del commercio al dettaglio, e con esso della dimensione economica, sociale, civile e culturale dei nostri centri storici, sta nella sua capacità di ridefinire una missione, un ruolo economico, un nuovo modello di business, cercando di creare un vantaggio competitivo durevole rispetto ad Amazon.

Io penso che le piste siano due da praticare in contemporanea: esclusività e complementarietà. L’esclusività è legata alla grande tradizione italiana del bello, della creatività, del design e sta in un intenso legame tra il commercio e l’artigianato nazionale, con la creazione e la vendita di beni e oggetti esclusivi che non è possibile (o almeno non è facile) trovare in rete. Il commerciante deve diventare un ricercatore di questi beni, uno scout delle ricchezze dell’artigianato italiano, come pure della produzione agricola. Anche i sapori e del cibo, la peculiarità delle varietà di frutta o verdura, la qualità di carne o formaggi possono essere punti forti che fidelizzano il cliente. Inoltre il commerciante, se vuole sopravvivere, deve diventare sempre di più il consulente del consumatore, stabilendo con lui un rapporto di amicizia e di fiducia come quello che si crea tra professionisti e clienti.

La complementarietà consiste in due cose. La prima è trasformare le botteghe tradizionali in show room per oggetti che il consumatore ha individuato in rete ma con un’esperienza del tutto immateriale. Un capo prezioso di abbigliamento, un mobile dalle finiture importanti, un gioiello per essere giudicati e apprezzati fino in fondo devono essere toccati e mostrarsi nella loro materialità. Ma anche i sapori e del cibo, la peculiarità delle varietà di frutta o verdura, o carne, o formaggi possono essere oggetto di un rapporto di fiducia tra il commerciante e il consumatore. La seconda è sfruttare la rete per incrementare il volume di vendite del negozio vendendo a clienti lontani attratti dai marchi e dagli oggetti offerti dalla boutique.

Entrambe queste direzioni (esclusività e complementarietà) richiedono da parte degli operatori commerciali del futuro un nuovo approccio culturale, un salto di qualità e la consapevolezza che la loro è un’attività particolarmente difficile e sofisticata che richiede studio e formazione.

Nucleare, presidente AIN: E’ energia più pulita e sicura. Ma servono infrastrutture

Nel mondo si torna a parlare di nucleare. Questa volta nella strategia ambientale, di decarbonizzazione necessaria a contenere il riscaldamento globale del Pianeta. Se in Italia siamo in grado di reggere una pianificazione, nonostante due referendum contrari e quasi quarant’anni di stop alle attività, è grazie alle tantissime imprese della Penisola che hanno continuato a occuparsene all’estero. “Sa quanta gente ci lavora in Italia? Ci sono cento industrie nucleari, sono quelle che hanno salvato il nostro parco nucleare”, spiega Stefano Monti, presidente dell’AIN (Associazione Italiana Nucleare).

Non è paradossale che se ne parli in ottica ecologica?

“No, il nucleare è un’energia pulita. Le emissioni di Co2 sono fra le più basse di tutte le possibili sorgenti, abbiamo un record di sicurezza che non ha nessuno. Se si considera tutta l’energia prodotta, il nucleare è quello che ha meno morti. Per il carbone muoiono cinquecentomila persone all’anno nel mondo. E poi attenzione, quando si parla di sicurezza, si parla di fatalità”.

Cioè del rischio di un’altra Fukushima?

“A Fukushima i morti li hanno fatti il terremoto e lo tsunami. Per colpa della centrale nucleare non è morto nessuno, perché le persone sono state rilocate. C’è stato senza dubbio un impatto, perché 150mila persone hanno dovuto abbandonare la loro casa, muoversi altrove per evitare la contaminazione. In questa maniera però non è morto nessuno per l’incidente. Nel Vajont invece sono morte quasi duemila persone in una notte. E c’è un incidente in un impianto idroelettrico cinese che ha fatto 20mila morti. Anche considerando Fukushima, il nucleare dimostra di essere più sicuro rispetto ad altri. Parliamo di reattori che sono ordini di grandezza più sicuri di Fukushima, che è stato progettato negli anni Cinquanta-Sessanta e in terza generazione tra il Novanta e il Duemila, in tutti questi anni le tecnologie sono avanzate. Non sottostimiamo la rilocazione di 150mila persone, ma così facendo non ci sono stati morti, vogliamo adottare una tecnologia ben superiore, che resista a uno tsunami eccezionale”.

Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, ha citato uno studio che parla di un ritorno sull’economia italiana da 45 miliardi e 42mila posti di lavoro. Sono numeri attendibili?

“Sono numeri attendibili. Bisogna poi concretizzarli nella situazione del nostro Paese. Possono diventare reali se iniziamo l’implementazione del nucleare il prima possibile. Diventeranno reali quando si creeranno le condizioni perché un’utility possa prendere la decisione di realizzare un impianto nucleare e vederne l’efficacia sul territorio e sull’economia. Ci sono metodi ben consolidati per fare queste valutazioni di impatto sull’economia e sulla forza lavoro, ma per poter concretizzare è ora di mettere a terra le cose concrete da fare”.

Quali sono le cose da mettere a terra?

“Sono condizioni indipendenti dalle tecnologie. Qualsiasi tecnologia richiede che vengano sviluppate le tecnologie materiali e immateriali nel rispetto dei più alti standard di sicurezza e di salvaguardia, perché bisogna difendersi dai problemi di non proliferazione. Sono quelle infrastrutture che l’International Atomic Energy Agency ha individuato in un milestone approach che accompagna i Paesi che intendono introdurre il nucleare nel proprio mix energetico e vanno sviluppati in maniera armonica durante il progetto. Sono 19, tra queste la legislazione, la regolamentazione di sicurezza e salvaguardia e poi l’infrastruttura principe, cioè le risorse umane. Ci vogliono risorse umane in tutti i campi”.

In quanto tempo in Italia potrebbe iniziare a funzionare una centrale?

“Io chiedo sempre alla politica di dirci quali sono i suoi tempi, quando ha bisogno di avere energia nucleare in quantità apprezzabile dal punto di vista della decarbonizzazione e della sicurezza degli approvvigionamenti. Invece di buttare sempre il cuore oltre l’ostacolo e affaticarlo per nulla, cerchiamo di mettere in fila le cose da fare in maniera che a un certo punto avremo le condizioni per poter produrre in quantità. Ovviamente al 2025 è impossibile. Ma ci reattori già molto avanzati”.

E’ la terza generazione?

“Questa questione delle generazioni è molto ‘misleading’, molto legata alla commercializzazione. Parliamo dei reattori esistenti che sono i più avanzati del mercato, collaudati, provati e operati, connessi alla rete per anni. Questi reattori, volendo si possono comprare oggi. Una utility può comprarla oggi? A mio parere no, perché mancano le infrastrutture di base”.

I tempi per costruirli quali sarebbero?

“Per mettere assieme un programma nucleare, che preveda le infrastrutture di base, la realizzazione di un impianto e la connessione in rete, un periodo di tempo dell’ordine di 10 anni è ragionevole. Lo hanno fatto gli emirati Arabi partendo da zero”.

Per i piccoli reattori di cui parla il governo invece?

“Quanto agli Smr, la Francia, che è il Paese più avanzato da questo punto di vista, ha detto che di quelli ne avrà uno all’orizzonte nel 2030-2032, dunque è ragionevole per noi averlo nel 2035. Ma servono sempre le infrastrutture. Poi se il reattore è piccolo probabilmente si riescono a trovare schemi di finanziamento più semplici. I possibili finanziatori aumentano e i tempi di realizzazione di riducono”.

Enav, Monti: Carbon neutrality traguardo importante portato avanti negli anni

Enav è carbon neutral: “E’ un traguardo molto molto importante, fatto da tutta la squadra portato avanti negli anni e che oggi si è finalmente concretizzato. Per l’80% acquistiamo e produciamo energia da fonti rinnovabili, abbiamo trasformato tutta la nostra flotta garantendo alimentazione elettrica, accelerato i processi che consentono di recuperare un 20% su iniziative internazionali”. Lo ha detto a GEA Pasqualino Monti, ad di Enav, a margine del 5th Sustainability Day che si è svolto a Roma.

Enav, Monti: Parte importante del piano industriale dedicata a sostenibilità

“Sono molto interessato a portare avanti tutte le iniziative che abbiamo programmato, a metterle a terra, così come la realizzazione del piano industriale, del quale parte importante sarà proprio la sostenibilità”. Così l’amministratore delegato di Enav, Pasqualino Monti, a margine del quinto Sustainability Day.