In bici attraverso gli Usa per dire ‘no’ alla plastica: la sfida di due italiani

Oltre 100 km percorsi al giorno, per un totale di oltre 3000 km nel primo mese di viaggio e altrettanti ancora da percorrere. È “2 Italians Across the US”, il viaggio che Pietro Franzese ed Emiliano Fava stanno realizzando in bici da San Francisco (Golden Gate) e Miami (Key West) in totale autonomia, per raccogliere fondi a sostegno dell’associazione Plastic Free. I due viaggiatori sono ora a Houston in Texas a circa metà viaggio. “2 Italians Across the US” è iniziata il 19 gennaio a San Francisco, un viaggio che è un’impresa sportiva e un’azione di sensibilizzazione sull’impatto ambientale dell’uso della plastica monouso: un progetto che parte dall’Italia, viaggia negli Stati Uniti e arriva in Africa, e che ha ricevuto il Patrocinio del Comune di Milano. Pietro Franzese ed Emiliano Fava documentano con immagini video e foto la loro avventura negli USA e restituiscono il racconto chilometro dopo chilometro sui loro social e sui loro canali YouTube (qui e qui due degli ultimi video realizzati da Pietro Franzese, qui il video di Emiliano Fava da Los Angeles, a 800 km di viaggio), tra aneddoti di viaggio, incontri inaspettati e tramonti nel deserto a perdita d’occhio.

“Nei primi 10 giorni – raccontano – abbiamo affrontato molto dislivello, poi il percorso è diventato più pianeggiante e di nuovo molti sali e scendi impegnativi tra El Paso, che supera i 1000 m di altitudine, e Houston. Abbiamo percorso circa 3200 km, con tappe di un centinaio di km al giorno, valutando condizioni di vento e strade. La settimana scorsa, abbiamo approfittato del vento favorevole per percorrere 500 km in soli tre giorni. Abbiamo dormito in tenda, in motel e ospiti di locali. Il freddo di notte ci ha affaticati molto nelle notti in tenda, anche per il terreno molto umido”.

Il viaggio di Pietro Franzese ed Emiliano Fava è accompagnato a una raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe a sostegno di Plastic Free, associazione italiana che dal 2019 si occupa tramite la propria rete di volontari della creazione di appuntamenti di clean up, salvataggio delle tartarughe marine, sensibilizzazione nelle scuole e trasformazione dei Comuni in Plastic Free.
Ad oggi sono stati raccolti oltre 1200 euro, ma la raccolta continuerà fino al loro rientro in Italia. Non a caso hanno scelto, per il loro viaggio negli Usa, di raccogliere fondi per le azioni contro l’inquinamento da plastica. Gli Usa sono infatti il Paese che ha il più alto uso pro capite di plastica, specialmente monouso, al mondo. Anche l’Italia contribuisce negativamente all’inquinamento da plastica: è infatti il secondo Paese consumatore di plastica in Europa e gli italiani sono i più grandi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia.

I soldi raccolti saranno interamente donati a Plastic Free e in particolare a uno dei progetti scelti da “2 Italians Across the US” come destinatario dei fondi raccolti: la salvaguardia della riserva naturale del Mida Creek in Kenya grazie alla collaborazione con l’associazione Sasa Rafiki. Grazie al progetto Plastic Free, la plastica viene raccolta dagli abitanti del luogo e portata in centri appositi per un corretto smaltimento, evitando così che venga bruciata o seppellita. Con il supporto derivato dalle donazioni di “2 Italians Across the Us” sarà possibile continuare la raccolta dei rifiuti e dotare la popolazione locale di ceste per la raccolta della plastica, rafforzando la missione di sensibilizzazione.

L’idea della start-up: imballaggi in alghe commestibili invece della plastica

Come possiamo evitare di confezionare cibi e bevande in plastica e ridurre così l’inquinamento del suolo e degli oceani? A Londra, una start-up ha trovato una soluzione: imballaggi commestibili o naturalmente biodegradabili ricavati dalle alghe. L’idea è valsa a Notpla, questo il nome della start-up, un posto tra i quindici finalisti del premio Earthshot, creato dal Principe William per celebrare le innovazioni che fanno bene all’ambiente e alla lotta contro il cambiamento climatico.

L’avventura di Notpla è iniziata in una piccola cucina londinese. Il francese Pierre Paslier e lo spagnolo Rodrigo Garcia Gonzalez, entrambi studenti del Royal College of Art di Londra con una formazione in design di prodotti innovativi, volevano creare un imballaggio ecologico. “Come ingegnere del packaging presso L’Oréal, stavo sviluppando soluzioni di imballaggio in plastica, flaconi di shampoo, vasetti di crema, e mi sono subito reso conto che volevo lavorare su soluzioni piuttosto che creare più plastica che finisce nell’ambiente“, ha dichiarato il 35enne francese all’Afp. I due studenti stavano cercando di progettare imballaggi con materiali naturali e biodegradabili, in contrapposizione alle plastiche dell’industria petrolchimica. Dopo aver testato diverse piante, “abbiamo trovato estratti di alghe e ci siamo resi conto che potevamo creare soluzioni molto simili a quelle che si trovano in natura, e anche eventualmente commestibili“, ricorda Pierre Paslier.

Il video in cui presentano il loro concetto di imballaggio a bolle commestibili, chiamato Ooho, diventa virale su Internet, attirando l’interesse degli investitori. Nel 2014, i due studenti hanno fondato Notpla, che ora si sta espandendo rapidamente con oltre 60 dipendenti ed è in procinto di produrre i suoi prodotti su scala industriale. La loro ‘bolla’, grande come un grosso pomodoro ciliegino, creata con estratti di alghe marine grazie a un processo tenuto segreto, può incapsulare tutti i tipi di liquidi: acqua, cocktail da usare durante i festival o bevande energetiche. In bocca, la sua consistenza è simile a quella di una caramella gommosa.

E mentre producono le loro bolle, i ricercatori continuano a cercare di sviluppare nuovi prodotti, sempre a base di alghe. Ad esempio, il team ha progettato un rivestimento naturalmente biodegradabile per le scatole da asporto, utilizzato per proteggere le confezioni dal grasso o dai liquidi alimentari. Notpla fornisce il gigante del settore Just Eat nel Regno Unito e in altri cinque paesi europei. Il cibo venduto durante la finale della Coppa Europa di calcio femminile allo stadio di Wembley a Londra in luglio è stato confezionato da Notpla.

Una delle ultime innovazioni è l’imballaggio trasparente per prodotti secchi, come la pasta. Le alghe marine “presentano vantaggi incredibili“, spiega Pierre Paslier. “Crescono molto velocemente, alcune delle alghe che usiamo nei nostri laboratori crescono quasi un metro al giorno. (…) Inoltre, non è necessaria alcuna attività umana per farle crescere, non c’è bisogno di aggiungere acqua potabile o fertilizzanti“, aggiunge. E “le alghe esistono da miliardi di anni, quindi ovunque finiscano i nostri imballaggi, la natura sa bene come decostruire e riutilizzare questi materiali senza creare inquinamento“, spiega l’ingegnere.

Per il momento, i prodotti Notpla sono ancora più costosi di quelli in plastica, ma iniziando a produrre le scatole da asporto su larga scala, il costo aggiuntivo si è ridotto al 5-10%. L’azienda vuole essere un’alternativa tra le tante per ridurre il consumo di plastica in un momento in cui molti Paesi stanno inasprendo le loro normative.

Il deserto di Atacama coperto dai rifiuti: minaccia a ecosistema

Una discarica nel deserto. Il deserto di Atacama, nel nord del Cile, è diventato il ricettacolo di tonnellate di vestiti usati, ma anche di auto e pneumatici fuori uso provenienti da tutto il mondo e abbandonati, in quella che è diventata una vera minaccia per il suo ecosistema. Migliaia di vestiti ricoprono le aride colline che circondano il comune di Alto Hospicio, nella regione di Tarapaca, circa 1.800 km a nord di Santiago. Nella vicina città di Iquique si accumulano altre migliaia di auto smantellate provenienti da Stati Uniti, Giappone o Corea, mentre in altre zone del deserto, che si estende per oltre 100.000 km2, il paesaggio è deturpato da centinaia di pneumatici.

Il Cile è specializzato da più di quarant’anni nel commercio di abiti usati, tra vestiti buttati dai consumatori, destoccaggio e opere di beneficenza da tutto il mondo. Secondo la dogane cilena, nel 2021 sono entrate nel Paese circa 46.285 tonnellate di indumenti usati. I vestiti, come le macchine, entrano dalla zona franca del porto di Iquique e dono destinati al mercato dell’usato cileno o a quello di altri paesi dell’America latina. La maggior parte delle auto viene riesportata in Perù, Bolivia o Paraguay. Tuttavia, molti finiscono nelle strade di Iquique o sui fianchi delle colline circostanti.
Più della metà dei vestiti e delle scarpe prodotti, a basso costo e in catena, soprattutto in Asia, finiscono sparpagliati nel deserto a causa della congestione del circuito di riciclo. Regolarmente, queste ‘discariche selvagge’ vengono date alle fiamme per ridurre i fastidi, provocando però dense nuvole di fumo tossico. “Questi incendi sono molto tossici, perché ciò i fumi sono creati da plastica bruciata“, ha detto Paulín Silva, avvocato che a marzo ha presentato una denuncia contro lo Stato cileno presso un tribunale dedicato alle questioni ambientali. Originario di Iquique, Silva denuncia in particolare la passività del governo di fronte a queste discariche che, assicura, costituiscono “un rischio ambientale” e “un pericolo per la salute umana”. “Sono le persone senza scrupoli di tutto il mondo che vengono a scaricare qui i loro rifiuti“, ha incalzato Patricio Ferreira, il sindaco di Alto Hospicio, una delle città più povere del Cile. “Abbiamo ripulito una zona e ci stanno inquinando in un’altra area”, si è lamentato sentendosi impotente di fronte al problema. “Ci sentiamo abbandonati. Sentiamo che la nostra terra viene sacrificata”.

Nonostante sia considerato uno dei deserti più aridi del mondo – con precipitazioni che in alcune zone non raggiungono i 20 millimetri all’anno – l’Atacama ospita un ecosistema unico. Nella sua parte più arida, vicino alla città costiera di Antofagasta, gli scienziati, tra cui la biologa cilena Cristina Dorador, hanno scoperto forme di vita estreme: microrganismi capaci di vivere quasi senza acqua o sostanze nutritive nonostante la radiazione solare. Questi microrganismi potrebbero detenere i segreti dell’evoluzione e della sopravvivenza sulla terra, ma anche su altri pianeti, secondo loro.
In alcune zone vicino alla costa, la nebbia permette lo sviluppo di vegetazione e animali vertebrati, ha continuato Pablo Guerrero, professore di botanica all’Università di Concepcion e ricercatore presso l’Istituto di Ecologia e Biodiversità (IEB). “L’esistenza della vita in questi luoghi è, in un certo senso, un evento fortuito”, ha indicato considerando che si tratta di una regione dove l’ecosistema è “molto fragile“. “Qualsiasi cambiamento o diminuzione del regime delle precipitazioni e della foschia ha immediatamente conseguenze per le specie che vi abitano”.
Dozzine di specie di fiori a predominanza viola fioriscono quando le precipitazioni sono superiori alla media. I loro semi, sepolti sotto la sabbia, possono sopravvivere per decenni in attesa che un minimo di acqua germogli e poi fiorisca. A causa dei cambiamenti climatici, ma anche dell’inquinamento e dell’avanzata delle città, alcune specie di cactus sono però scomparse.
Ci sono specie di cactus che sono considerate estinte. Sfortunatamente, questo è un fenomeno che vediamo su larga scala e con un deterioramento sistematico negli ultimi anni“, ha continuato Guerrero.

Il Mar Egeo vittima dell’inquinamento: sul fondale pneumatici, sedie e telefoni

Sull’isola greca di Naxos la pesca è abbondante. Eppure, nelle reti, non ci sono calamari o orate destinate alle taverne che costeggiano il mare. Sulle banchine assolate di quest’isola dell’arcipelago delle Cicladi si svolge il dramma ambientale dell’Egeo: pneumatici, sedie, vecchi telefoni cellulari, forchette e cucchiai, CD, suole, tappetini da bagno e una scopa. Accanto, decine di lattine di metallo, pezzi di plastica sparsi, bottiglie a bizzeffe, macchiate di limo. Improvvisamente, tra le barche dei pescatori che si agitano nel porto, emergono due sommozzatori che si affannano a tirare su una matassa di cavi, corde, sezioni di rete da pesca e persino vecchi vestiti.

In due giorni, “abbiamo tirato fuori dal porto più di una tonnellata di rifiuti marini”, spiega George Sarelakos, cofondatore e responsabile dell’Ong greca Aegean Rebreath. “E nell’altra parte del porto c’è una vera e propria discarica”, continua il 44enne subacqueo. Negli ultimi cinque anni, l’organizzazione ha setacciato le coste greche per estrarre i rifiuti che sporcano i fondali di questo mare cristallino che attrae milioni di turisti ogni estate.

PNEUMATICI, RETI E PLASTICA. Dopo Zante e Creta, la squadra si è fermata a Naxos per il fine settimana. Tra quindici giorni, effettuerà un’ultima missione a Corfù, un’altra isola turistica greca nel Mar Ionio, prima di riporre le bombole di ossigeno e le pinne per l’inverno. In 75 operazioni di ‘pulizia’, i circa 300 subacquei volontari di Aegean Rebreath hanno recuperato più di 1.700 pneumatici, 21 tonnellate di reti abbandonate o perse, 90.000 bottiglie di plastica, per non parlare delle centinaia di migliaia di sacchetti di plastica, uno dei principali flagelli del mare. “I pescatori gettano i rifiuti in mare. Non sono consapevoli dei problemi ambientali”, dice Theodora Francis, 29 anni, una delle sub di Aegean Rebreath. Anche il sindaco di Naxos, Dimitrios Lianos, deplora l’atteggiamento di alcuni isolani. I pescatori “vivono del mare e quindi devono proteggere l’ambiente marino, è la loro ricchezza!”.

LE RESPONSABILITA’ DEI TURISTI. Da diversi anni l’Ong ambientalista Wwf lancia l’allarme, visto che il settore turistico rappresenta un quarto del Pil greco. “Circa il 25% della produzione di rifiuti di plastica in Grecia è dovuta all’afflusso di turisti durante l’estate”, afferma Achilleas Plitharas, responsabile del programma di riduzione dei rifiuti di plastica del Wwf Grecia. La Grecia, che ha una popolazione pari a circa un sesto di quella della Francia o dell’Italia, produce circa 700.000 tonnellate di rifiuti di plastica all’anno, pari al 2,5% dei rifiuti di plastica prodotti dai Paesi del Mediterraneo, contro il 21,1% dell’Italia e il 15,1% della Francia, secondo uno studio della Ong. “Molte delle misure adottate nelle direttive europee purtroppo non sono applicate in Grecia”, spiega l’esperto ambientale. I sacchetti di plastica vengono ancora distribuiti nei mercati e nelle panetterie. E le cannucce di plastica non sono rare, nonostante l’Ue ne abbia vietato la commercializzazione da oltre un anno. Eppure la Grecia ha imposto una tassa di 9 centesimi sui sacchetti di plastica dal 2018.

gaza

A Gaza la plastica bruciata diventa ‘benzina’ artigianale

A Gaza il prezzo della benzina è uno dei più alti del Medio Oriente e la popolazione una delle più povere. Per ovviare a questa crisi, Mahmoud al-Kafarneh e i suoi fratelli hanno avuto un’idea: bruciare le bottiglie di plastica per ricavarne carburante. Una soluzione economica e pratica, visto che nell’enclave ci sono molti abitanti sottoposti a un rigido blocco israeliano da 15 anni, ma che rappresenta anche una potenziale “catastrofe” ambientale e sanitaria, dicono allarmati gli specialisti.

In un campo polveroso di Jabalia, nel nord di Israele, Mahmoud accende dei tronchi sotto un serbatoio metallico riempito con una tonnellata di plastica per distillare l’olio. Il serbatoio – coperto di fango per conservare il calore – è collegato a un tubo che fa passare i fumi in un serbatoio d’acqua che condensa il vapore e lo raffredda per produrre un combustibile ‘Made in Gaza’, ma non senza causare fumi nerastri e tossici. “Abbiamo iniziato i nostri esperimenti nel 2018. Abbiamo fatto una ricerca su Internet, un sacco di prove ed errori e dopo otto mesi di test siamo riusciti a estrarre il nostro primo carburante“, racconta Mahmoud, 25 anni.

Ogni lotto produce circa mille litri di carburante. Ma tra un’operazione e l’altra, la sua squadra deve aspettare otto ore per far raffreddare il serbatoio e pulirlo. Secondo Mahmoud, la plastica fonde a più di 200 gradi. “Il nostro metodo è davvero rudimentale e prevede solo attrezzature locali. L’estrazione dura dalle 12 alle 14 ore“, spiega. Alcuni dipendenti indossano guanti e maschere, altri no. “Non ci sono rischi e questa è una zona industriale, non abitata“, dice Mahmoud.

Ma Ahmed Hillis, direttore dell’Istituto nazionale per l’ambiente e lo sviluppo di Gaza, è allarmato per la natura “catastrofica” del fenomeno, che è completamente incontrollato.  “Il metodo utilizzato è rudimentale e danneggia molto i lavoratori“, ha spiegato all’AFP, in particolare a causa dell’inalazione di gas tossici. E il serbatoio arrugginito è “una bomba a orologeria perché può finire per esplodere” con il caldo, aggiunge.

Ma a Gaza, un microterritorio popolato da 2,3 milioni di palestinesi, il problema sanitario è raddoppiato dalle condizioni economiche. Controllata dagli islamisti di Hamas dal 2007, la Striscia di Gaza ha un’economia senza sangue. Il tasso di disoccupazione è vicino al 50% e il salario medio orario è di circa due euro. Quando il prezzo del gasolio spedito da Israele è salito a circa 2,45 euro in seguito alla guerra in Ucraina, la situazione è diventata insostenibile. Di conseguenza, il carburante fatto in casa da Mahmoud ha fatto girare la testa a molti. Nel porto di Gaza, Abd al-Muti al-Habil, 23 anni, lo usa per riempire il serbatoio della sua barca. “Costa la metà del prezzo dell’equivalente israeliano. Non ha difetti, è della stessa qualità, non influisce sul motore e ha persino una resa elevata“, ha dichiarato all’AFP.

Ogni notte o quasi, i pescatori partono per ore nel Mediterraneo con barche motorizzate. “Abbiamo bisogno di circa 900 litri di gasolio al giorno e non posso fare affidamento sul carburante proveniente da Israele perché è troppo costoso. Purtroppo le quantità (di carburante artigianale) consegnate non sono sufficienti. Ho solo 500 litri ogni due giorni“, spiega.

Sul Mediterraneo, ma senza una sufficiente capacità di desalinizzazione, Gaza è il regno delle bottiglie d’acqua di plastica. In un garage nella parte orientale di Gaza City, alcuni uomini selezionano pile di plastica alte diversi metri, raccolte per strada prima di essere trattate da Mahmoud Al-Kafarneh. “Compriamo la plastica, la selezioniamo e la maciniamo in una macchina per renderla morbida come un chicco di riso. Poi lo avvolgiamo in sacchetti e lo vendiamo“, racconta uno di loro, Imad Hamed. Ma anche questa macchina ha bisogno di energia. A Gaza, l’unica centrale elettrica non è sufficiente a soddisfare la domanda e le interruzioni di corrente durano 11 ore al giorno. “Ci fermiamo quando va via la corrente. A volte dobbiamo lavorare di notte, se c’è elettricità“, sospira. E per rifornire la centrale elettrica di Gaza di olio combustibile, la piccola officina di Mahmoud e dei suoi fratelli non basta.

(Photo credits: MOHAMMED ABED / AFP)

Vento e microplastiche e minacciano le piante

Non solo dalle microplastiche accumulate nel suolo, una pianta deve difendersi anche da quelle diffuse dal vento. E, peggio ancora, dalle microplastiche rese ancora più tossiche dalle alte temperature e dall’azione dei raggi del sole.

È il tema di uno studio appena realizzato dall’università di Firenze. Una parte dello stesso team aveva già lavorato, un anno fa, a un altro esperimento per testare gli effetti delle microplastiche rilasciate nel suolo sulla crescita degli ortaggi (zucchine, in quel caso), ma ora per la prima volta − argomenta la ricerca − i risultati riportano prove degli effetti negativi sulla salute delle piante dell’inquinamento atmosferico da microplastiche.

Per simulare l’azione dell’aria nel trasporto delle microplastiche, le piante esaminate (del genere Tillandsia) sono state disposte all’interno di box progettati ad hoc, dove un sistema di ventole e di ricircolo dell’aria provvedeva a tenere sempre sospese le particelle. Inoltre, durante l’esperimento i polimeri sono stati ‘invecchiati’ artificialmente attraverso irradiazione UV e calore, per stimolare i processi a cui le particelle andrebbero normalmente incontro in atmosfera.

Risultato: una forte riduzione della crescita, ma anche un’alterazione dello stato fisiologico delle piante, con meno efficienza durante la fotosintesi e cambiamenti nei nutrienti contenuti nei tessuti della pianta.

Le plastiche somministrate sono fra le più comuni. Policarbonato (PC), polietilene (PE), polivinilcloruro (PVC), polietilentereftalato (PET). Tutti materiali contenuti normalmente nell’edilizia, nelle bottiglie di plastica, negli elettrodomestici, negli imballaggi. Ma ridotti, in questo caso, a meno di un micron di grandezza. Il più tossico? il PCV. Ma dopo il processo di invecchiamento il policarbonato diventa il più dannoso.

I prossimi esperimenti − spiegano dal gruppo di ricerca − potrebbero rivolgersi verso piante edibili, e utilizzare microplastiche di dimensioni ancora minori. Sono risultati che certificano la minaccia dell’inquinamento atmosferico da micro e nano plastiche: la loro dispersione dovrà essere monitorata per evitare che entrino in maniera massiva nella nostra catena alimentare attraverso le specie vegetali destinate al consumo animale ed umano.

app rifiuti mare

In Francia l’app per mappare in real-time i rifiuti galleggianti

Si chiama ‘The Collector’ ed è un catamarano che ogni giorno perlustra la costa di Biarritz alla ricerca di rifiuti di plastica causati dai turisti. L’imbarcazione – le cui attività sono finanziate dal Comune – è collegata a un’app (I clean my sea), che consente agli utenti di segnalare la presenza dei rifiuti. Si tratta, principalmente, di diportisti, surfisti, nuotatori o semplici cittadini che passeggiano sulla spiaggia. I due marinai a bordo della barca ricevono una notifica, con la foto scattata dall’utente e la posizione GPS, come spiega Aymeric Jouon, ricercatore in oceanografia e ideatore della società che gestisce la barca, omonima dell’applicazione. L’augurio è che con l’aiuto degli utenti, si riesca a creare “una mappa dei rifiuti galleggianti in tempo reale“.

La raccolta, a cui la città di Biarritz ha assegnato 60mila euro, è stagionale e segue il picco di affluenza turistica sulla costa, spiega Mathieu Kayser, assessore all’ambiente. “Se potessimo, useremmo la barca tutto l’anno, ma avrebbe un costo“, troppo elevato. Sulle spiagge di Biarritz, ogni mattina, i dipendenti comunali raccolgono anche i rifiuti arenati, riportati dalle correnti. Ogni anno, spiega Kayeser, i rifiuti aumentano a causa del problema del “consumo globale“, ma “noi cerchiamo di trovare tutte le soluzioni per affrontare la questione. ‘The collector’ terminerà la sua missione a settembre.

I rifiuti raccolti in mare vengono smistati a mano dal personale che si trova a bordo. Come Valetin Ledée, 22 anni. “L’80% dei rifiuti – racconta – è costituito da plastica molto fine o microplastica, a volte intrappolata in un mucchio di alghe“. I venti e le maree hanno un grande impatto sulla raccolta. “Il vento leggero da ovest spinge la plastica indietro, verso la costa, e quando il livello dell’acqua si alza, raccoglie tutto ciò che è sulle sponde o ciò che si è depositato sulle spiagge“, afferma Aymeric Jouon. Così, assicura Mathieu Kayser, “l’80% dei rifiuti raccolti in mare arriva da terra“.

Oltre la fascia costiera di 300 metri, in cui opera The Collector, un’altra barca attraversa le acque tra la foce dell’Adour, a Bayonne, e il confine spagnolo, a Hendaye. Sostenuta dal dipartimento dei Pirenei atlantici, nel 2021 ha raccolto diverse tonnellate di rifiuti di plastica.

(Photo credits: GAIZKA IROZ / AFP)

spiaggia

La responsabilità degli italiani passa anche dalle spiagge. Quanto ce ne prendiamo cura?

L’esperienza della sporcizia sui litorali è comune a gran parte della popolazione: 27,4 milioni gli italiani che l’hanno vissuta. Pochissimi (solo il 12%) quelli che dicono di non averla mai provata. Il sentimento più diffuso che questo stato di degrado provoca è il fastidio, provato da circa 25 milioni di persone. Per fortuna ci sono anche buone notizie: 19 milioni di italiani (circa il 62% del totale), i ‘responsabili’, si prendono cura del luogo in cui si trovano, rimuovendo se necessario gli oggetti abbandonati che incontrano. Lo fanno con stati d’animo diversi: la maggior parte di loro (circa 14 milioni) prova fastidio e sdegno, una piccola parte sembra invece non essere particolarmente colpita dalla presenza dei rifiuti in spiaggia; nonostante due sentimenti così diversi, la reazione è la medesima: fare la propria parte. I responsabili sono per lo più giovani, con meno di 24 anni, vivono in prevalenza nelle grandi città del sud, sono lettori e appassionati di sport e vita all’aperto. È quanto emerge in una indagine di Sorgenia tramite Human Highway sul sentimento degli italiani rispetto alla pulizia delle spiagge.

Ci sono poi i vorrei ma non posso (18,7%): persone che provano rabbia di fronte ai litorali sporchi ma non agiscono. Le ragioni? Non ritengono sia compito loro, non hanno gli strumenti adeguati o sono preoccupati per ragioni igieniche, ancora più sentite dopo questi anni di Covid. In fin dei conti pensano sia pressoché impossibile cambiare lo status quo.

Troviamo anche gli indifferenti, ovvero 2,5 milioni di italiani che, pur notando la sporcizia, non provano alcun fastidio né sentono il bisogno di intervenire.

Infine, abbiamo i distratti (l’11,7% del totale), persone che addirittura non vedono i rifiuti; difficile risalire alle possibili motivazioni: abitudine oppure frequentazione di litorali molto curati dove la pulizia è impeccabile? È questo il quadro che emerge dal sondaggio di Sorgenia realizzato da Human Highway su un campione statisticamente rilevante, con l’obiettivo di misurare i sentimenti di 31 milioni di italiani che frequentano abitualmente le spiagge del Paese. L’indagine arriva a conclusione delle iniziative di plogging promosse da Sorgenia in alcuni lidi italiani in concomitanza con il progetto M.A.R.E. (Marine Adventure for Research & Education), ideato da Centro Velico Caprera e One Ocean Foundation per studiare la salute del Tirreno.

Ma quali sono i rifiuti più diffusi? Al primo posto i mozziconi di sigaretta (notati dal 72,3% del campione), poi bottiglie, lattine e plastiche (intorno al 50%) e, new entry tra gli oggetti d’uso quotidiano, le mascherine (39,8%). Nella classifica degli oggetti indebitamente abbandonati sui litorali anche avanzi di alimenti, carte e giornali, escrementi di animali domestici e indumenti.

Per prevenire il degrado, il 40% degli italiani suggerisce un maggior numero di cestini e bidoni a margine dei lidi e una quota simile reclama la figura della “guardia marina” per far rispettare le regole. Tra le altre proposte, aumentare i cartelli informativi e dare ai bagnanti gli strumenti per portare via i propri rifiuti. Soprattutto i responsabili sono favorevoli a nuove forme di interventi condivisi, come flashmob da organizzare periodicamente sulle spiagge: il 22,8% di loro vorrebbe istituire la “mezz’ora di pulizia” e uno su sette consiglia di puntare sulla tecnologia, segnalando gli appuntamenti di plogging su canali social o promuovendo apposite App che indichino le spiagge più sporche e convochino i volontari a pulirle.

plastica spiaggia

Plastica, mascherine e cotton fioc: così Legambiente ripulisce le spiagge

Le spiagge italiane? Sono sporche, senza distinzioni geografiche e con la costante di una tendenza all’aumento della quantità di rifiuti. Che, comunque, non rappresentano l’unica problematica per le nostre coste ma – come emerge dai risultati dell’indagine ‘Mare Monstrum’ firmata da Legambiente – sono in compagnia dell’insidioso diffondersi di scarichi illegali di liquami e dell’aggressivo abusivismo edilizio ‘vista mare’. Senza calcolare gli effetti prodotti dalla pandemia che ha ‘popolato’ le spiagge di dispositivi di sicurezza come mascherine e guanti.

Legambiente si occupa di pulizia delle spiagge fin dal 2014, e lo fa in un’ottica di citizen science, ossia coinvolgendo direttamente le persone perché si prendano cura con impegno del pianeta”, racconta a GEA Stefania di Vito, Ufficio Scientifico di Legambiente. “Attraverso la recente indagine Beach Litter è stato effettuato un monitoraggio accurato dei litorali italiani applicando un protocollo comune messo a punto da Ministero dell’Ambiente e basato sulla valutazione di 11 parametri, tra i quali rientra anche la presenza di rifiuti marini. Degli oltre 44mila rifiuti censiti nell’indagine svolta quest’anno la plastica ha rappresentato il materiale di composizione dominante, costituendo oltre l’80% degli oggetti rinvenuti”, aggiunge.

Proprio sugli oggetti in plastica – dalle stoviglie usa e getta per arrivare ai cotton fioc – è necessario intervenire. Ad esempio, agire in maniera mirata sulla riduzione della plastica monouso permetterebbe di limitare considerevolmente la portata del problema, diminuendo una parte importante dei rifiuti. In questa direzione si inserisce la direttiva europea Single Use Plastics, che contempla anche il ripensamento del design degli oggetti: ne costituisce un modello la produzione di tappi che restano attaccati per un lembo al collo delle bottiglie. Per attutire invece l’impatto dei mozziconi – ne vengono abbandonati nelle spiagge 5 milioni ogni giorno – è stato incentivato il coinvolgimento dei produttori di sigarette nelle attività di raccolta e smaltimento.

Ma che fine fanno poi i rifiuti raccolti? Una domanda che non può restare sospesa nell’aria: “Ci sono alcuni progetti sperimentali per il recupero della plastica – racconta di Vito –. Tuttavia soltanto una minima parte, quella che non ha subito eccessive degradazioni, può essere riutilizzata e avere una seconda vita. Non si tratta di una filiera strutturata in quanto il materiale risulta spesso danneggiato in maniera importante”.

La presenza di plastica e microplastica è un pericolo per gli organismi marini sotto diversi versanti: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze tossiche come additivi e composti persistenti che si insinuano nei tessuti delle specie ittiche causando problematiche in tutta la filiera trofica. “A questo proposito – dichiara di Vito – Legambiente sta seguendo un progetto di studio in collaborazione con i dipartimenti di Ecologia ed Ecotossicologia dell’Università di Siena per approfondire l’impatto delle microplastiche in mare”.

Come si diceva, ad aggravare la situazione, complici gli ultimi anni di pandemia, le spiagge italiane e di tutto il mondo si sono ‘sporcate’ dei rifiuti legati all’emergenza sanitaria, come mascherine e guanti. Tanto che i dispositivi di sicurezza individuale sono presenti in quasi la metà delle spiagge censite dall’iniziativa ‘Clean up the Med’ svoltasi lo scorso maggio: i quantitativi maggiori sono stati rinvenuti in Grecia, seguita da Algeria, Croazia, Libano e Spagna.

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In Vaticano differenziata al 70% e software di tracciamento rifiuti

Un’altissima percentuale di differenziata e campagne anti-spreco: così lo Stato Città del Vaticano, plastic free dal 2018, gestisce i suoi rifiuti. Percorrendo i viali acciottolati dei grandi giardini, in parte ancora lastricati da sanpietrini, si raggiunge una piccola isola ecologica.

Rifiuti elettronici da un lato, compost dall’altro, un compattatore per la carta, cumuli di plastica, un raccoglitore di oli esausti. Tutto è separato. Spicca, in un angolo, un trituratore industriale: serve a fare a brandelli documenti sensibili che non possono uscire dallo Stato, un modo per limitare quanto possibile nuove fughe di notizie. Qui gli abitanti o i lavoratori possono portare fisicamente i rifiuti che non sanno come smaltire e i piccoli camion depositano i sacchi in attesa di trasportarli fuori dalle mura.

Quest’anno le 1.100 tonnellate di rifiuti urbani prodotte sono state differenziate per il 70% (fino al 2017 si arrivava al 42%): “In quattro anni abbiamo fatto un passo importante, è stato veramente impegnativo“, racconta a GEA Rafael Tornini, responsabile del Servizio giardini e ambiente. Obiettivo? “Puntiamo al 75% e, se riusciamo, ad andare anche oltre“. Con il tipo di rifiuto prodotto e una campagna di sensibilizzazione ben fatta “si potrebbe superare l’80-85%, prevede.

Tutta la tracciabilità dei rifiuti è gestita da un software che tiene sotto controllo i movimenti: “Il Sistema di controllo, la pesatura, il riconoscimento del materiale, tutto è gestito in automatico“, spiega il dirigente.

Il 90% della spazzatura vaticana va in Italia, “il 30% di indifferenziato finisce a Malagrotta o dove possiamo“, afferma. La carta invece viene recuperata, con un contributo: “Quindi per noi è una risorsa, lo scorso anno abbiamo fatto 180 tonnellate di recupero di carta e cartone“.

carta vaticano

La catena dei rifiuti speciali si gestisce dall’interno, “82 codici cer, differenziati al 99,8% del materiale“, afferma il dirigente. Di questi il 70% va a riciclo (rifiuti elettronici, oli esausti, batterie, acidi, pitture, vernici, frigoriferi, materassi…).

La frazione umida finisce invece in compostiera e viene poi utilizzata come fertilizzante per i giardini. Prima, veniva inviata nell’impianto di compostaggio Celano, che ne gestisce 150mila tonnellate all’anno.

Oggi possiamo gestire 200 tonnellate all’anno di umido. Facciamo un compost di qualità, miscelato all’altra catena che abbiamo: una linea viene dall’umido delle mense, l’altra dagli scarti di potature e sfalci con due catene separate (la compostiera elettromeccanica e i cumuli). A processo finito, viene prodotta una miscela“, riferisce Tornini. In questo modo, si riesce a gestire il 100% dell’umido. “Quest’anno siamo un po’ in crisi – confessa -, finita la pandemia stanno aumentando le utenze nei musei soprattutto, quindi siamo quasi al limite della capienza della compostiera. Stiamo pensando di ampliarla“.