microplastiche

Migliaia di pellets di plastica sulle coste pugliesi: la denuncia di Greenpeace

Migliaia e migliaia di lenticchie sulle spiagge pugliesi. Osservando con più attenzione, però, è facile comprendere che delle lenticchie quegli oggetti hanno solo la forma. Sono chiamati pellets di plastica, o nurdles, più semplicemente in italiano ‘granuli’. È quello che emerge dal report ‘Inquinamento silenzioso’, diffuso oggi da Greenpeace Italia, nel quale vengono illustrati i risultati dei campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. A seguito dei risultati dell’indagine, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di questi granuli.

Ma cosa sono i pellets? È questa la forma in cui si presenta la plastica vergine, ovvero quella appena prodotta dagli stabilimenti petrolchimici dalla raffinazione di idrocarburi, qualunque sia il polimero in questione. Questi granuli vengono poi inviati alle industrie che producono i singoli, vari oggetti: che sia un paio di occhiali, un sacchetto, il cruscotto dell’automobile o una cannuccia si parte da quelle ‘lenticchie’. Sono microplastiche primarie, ovvero hanno misure comprese tra 0,3 e 5 mm sul lato più lungo e vengono prodotte in quelle dimensioni, ovvero il loro essere ‘micro’ non deriva dalla frammentazione di un oggetto più grande.

microplastiche

Nei mesi scorsi abbiamo effettuato una serie di campionamenti– racconta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeaceseguendo una metodica già messa in atto da alcuni ricercatori a livello internazionale. L’obiettivo era quello di definire l’abbondanza di questi granuli lungo alcune spiagge delle coste pugliesi e soprattutto brindisine, a differenti distanze dal dall’impianto del petrolchimico, tra i più grandi in Italia per la produzione di materie plastiche. Abbiamo campionato spiagge in direzione nord e sud: a ridosso dell’impianto, a 12, 20, 25, 50 chilometri dal petrolchimico e anche un luogo a 100 di distanza. Il dato ci mostra chiaramente che c’è un gradiente di concentrazione variabile in base alla distanza dall’impianto industriale”.

Dei 7938 granuli raccolti nell’indagine, circa il 67% proviene dai tre siti di campionamento più vicini al petrolchimico. Al contrario, nelle aree più distanti i livelli di contaminazione sono risultati, quasi ovunque, nettamente inferiori. Dal rapporto emerge che gran parte dei granuli raccolti e analizzati nel corso dell’indagine, pari a circa il 70% del totale, è traslucido e trasparente: un’evidenza che la letteratura scientifica collega a rilasci recenti nell’ambiente, perché con il trascorre degli anni e dei decenni questi granuli diventano più scuri, giallognoli e quasi marroni. Inoltre, di tutti i nurdles raccolti, il 78 per cento è in polietilene (un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni), mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

microplastiche

I dati che diffondiamo oggi dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – dice Giuseppe Ungherese -. In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche. Chiediamo alla magistratura di intervenire e a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento”.

Ungherese spiega: “Esistono vari programmi volontari da parte dell’industria petrolchimica per azzerare questa contaminazione, come Operation Clean Sweep a cui aderiscono le due aziende in questione, ma non esiste un controllo esterno e indipendente, non c’è un monitoraggio sulle buone pratiche condivise. La sensazione, quindi, è che questi impegni lascino un po’ il tempo che trovano. Un rapporto di qualche anno fa, stilato per conto della Commissione europea, stima che solo nel nostro continente il rilasci di questi granuli nell’ambiente possa arrivare a superare le 167.000 tonnellate annue. Come tutte le microplastiche, anche queste entrano facilmente nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, come i predatori, tonni e pesce spada ad esempio”.

microplastiche

Greenpeace ha registrato anche una lunga serie di interviste con gli abitanti dei luoghi in cui sono stati effettuati i campionamenti: raccontano tutti come la presenza di questi granuli sia una costante nel tempo, come queste graziose perline fossero oggetti di gioco durante l’infanzia. Nessuno pensava fossero palline di plastica, ma qualcuno di quei meravigliosi capolavori che l’usura delle onde e del vento su sassolini, conchiglie e sabbia ci lascia spesso ritrovare sulle spiagge.

plastica

Mare, effetto inquinamento: i ‘taxi’ di plastica per le specie aliene

Una delle conseguenze dell’inquinamento da plastica meno conosciute tra il grande pubblico, ma più temuta dagli scienziati è quella del trasporto di specie aliene o di patogeni. Cosa significa e perché avviene? La plastica è un materiale particolarmente resistente: è questa una delle sue caratteristiche positive che ne hanno favorito la diffusione, ma anche una di quelle che rendono particolarmente grave questo tipo di inquinamento. Ogni oggetto, ogni pur piccolissimo frammento resiste secoli, soprattutto in assenza di temperature sufficientemente calde, di luce e di ossigeno: condizioni che in acqua tendono a diminuire o scomparire del tutto con l’aumentare della profondità o della latitudine.

La plastica, qualunque tipo di polimero, rappresenta quindi un supporto perfetto, una superficie su cui insediarsi con grandi vantaggi soprattutto per quegli organismi che non si spostano per moto proprio ma ‘attaccandosi’ a qualche altro organismo o che vivono su diversi substrati geologici. Pensiamo a un’alga, a un corallo o a una spugna, ma anche – solo per fare un esempio – a organismi come i policheti, vermi che costruiscono la propria ‘casetta’ tubolare calcarea: per questi organismi il rifiuto di plastica rappresenta una opportunità immediata e vantaggiosa (apparentemente) per avere una base solida e durature ma anche per intraprendere grandi viaggi.

È vero che in mare, e in particolare sulla sua superficie, c’è molto materiale biologico che offre il supporto ‘naturale’ su cui normalmente poggiano: da grandi alghe ai tronchi d’albero o rami, ai gusci dei molluschi. Ma questo materiale è meno abbondante e meno diffuso nell’intero spazio marino. E spesso è meno facile ‘attaccarsi’ a queste superfici che, soprattutto quelle vegetali, hanno una vita più breve, molto più breve. Alcune specie non sono mai state trovate su materiali biologici flottanti, ma sulle plastiche sì.

Qualunque oggetto in acqua (anche in acqua dolce) viene rapidamente ricoperto da una pellicola biologica: chiunque di noi ha certamente memoria di quella sensazione di viscido che sentiamo quando prendiamo in mano un oggetto rimasto in acqua (anche dolce) per molto tempo, ebbene quella è la pellicola biologica composta prima da particelle organiche (che colonizzano in pochi minuti), poi da microrganismi (in poche ore) e poi da organismi via via più grandi, arrivando alle conchiglie (le cozze ad esempio), spugne, vermi, le grandi alghe ecc… dopo qualche anno. Il risultato finale è quello che, ad esempio, osserviamo sui pali dei pontili nei porti o anche sulle imbarcazioni se la parte che si immerge non viene ripulita spesso e con attenzione.

plastica

La stessa cosa avviene con gli oggetti di plastica, qualunque sia la loro dimensione. Ovviamente, questo comporta un facilissimo, per quanto lento, spostamento nel mare (che ricopre quasi il 71% della superficie terrestre) delle specie che si insediano sulla plastica. È noto che le specie aliene, ovvero specie non esistenti in un certo ambiente e che arrivano all’improvviso, si spostano nel mare globale soprattutto grazie alla navigazione. In particolare, le acque di sentina che le grandi navi imbarcano come zavorra in una certa zona del mondo e vengono poi rilasciate a migliaia di chilometri di distanza contengono quasi sempre specie che sono entrate senza saperlo a bordo della nave. Questi spostamenti rapidi producono shock nell’ambiente ricevente (le specie che arrivano possono essere più voraci o più aggressive di quelle presenti e soppiantarle, oppure possono semplicemente essere più adatte al nuovo ambiente dati i cambiamenti climatici in corso). Gli spostamenti in natura avvengono regolarmente ma con tempi lunghissimi e quindi quelli indotti dalle attività umane rappresentano un rischio.

Lo spostamento che avviene sui supporti di plastica presenti in mare, però, presenta un fattore che favorisce l’insediamento delle specie aliene nel nuovo ambiente: la lentezza rispetto al trasporto favorito dalle navi. Ovvero: se una specie trasportata da una nave in pochi giorni, al massimo pochissime settimane, può subire essa stessa uno shock (termico, ad esempio), lo spostamento della plastica avviene con tempistiche più lunghe: al massimo decine di metri al giorno e gli organismi hanno così la possibilità di adattarsi con tempi maggiori al mutare delle condizioni fisiche dell’acqua.

Un capitolo a parte lo meritano i microrganismi patogeni: diversi studi si stanno concentrando su questo aspetto che – per le ragioni appena raccontate nella facilità e ‘comodità’ del trasporto su plastica – potrebbe rappresentare un rischio particolarmente grande per interi ecosistemi.

Il Mar Mediterraneo, straordinariamente ricco di biodiversità e prezioso per la cultura e l’economia dei molti, popolosi Paesi che lo circondano, è un grande ricettore di specie: per questo gli scienziati, nelle diverse discipline toccate da questa tematica, sono particolarmente attenti alle dinamiche in corso.

 

plastica

Aumenta riciclo plastica: +67% fatturato per le imprese

Un fatturato annuo di circa un miliardo, con un + 67% rispetto al 2021 per le imprese. Dopo il calo nel 2020, dovuto soprattutto al Covid, il settore torna a macinare numeri positivi. È il quadro rappresentato nel rapporto di Assorimap, l’Associazione Nazionale Riciclatori e Rigeneratori di materie plastiche, realizzato da Plastic Consult, presentato a Roma presso Palazzo Rospigliosi, in cui si fotografa lo stato di salute dell’industria italiana del riciclo meccanico delle materie plastiche nel 2021.

Dal rapporto emerge come la crescita del valore dei riciclati prodotti (fatturato settoriale) sia dovuta non soltanto a un aumento dei volumi di prodotti riciclati, ma anche all’incremento, estremamente elevato, dei prezzi di vendita, legato all’impennata delle materie prime a cui si sono aggiunti, nella parte terminale dell’anno, gli aumenti dei costi energetici. I volumi totali nazionali in output dei riciclatori meccanici si sono attestati lo scorso anno a circa 800mila tonnellate, con un tasso di crescita del 17% rispetto al 2020.

È necessario promuovere una maggiore circolarità della materia, aumentando i tassi di riciclo. Obiettivi che, come Assorimap, auspichiamo vengano perseguiti tramite specifiche iniziative in grado di agevolare le produzioni ecosostenibili di beni e imballaggi e, soprattutto, a partire da un maggiore sviluppo impiantistico. Basti pensare che secondo il Regolamento europeo sulla Tassonomia Verde”, commenta Walter Regis, presidente di Assorimap.

plastica

Nell’attività di riciclo delle materie plastiche sono attive, nel complesso, oltre 350 aziende, inclusi raccoglitori e selezionatori di rifiuti e scarti industriali. Dal calcolo sono escluse le società di raccolta rifiuti urbani. I produttori di materie prime seconde sono circa 200, comprendendo la lavorazione degli scarti industriali e le aziende che producono macinati, così come i trasformatori di plastiche integrati a monte nel processo del riciclo. È nel Nord Ovest, in particolare in Lombardia, che si concentra la maggior parte degli impianti di riciclo meccanico censiti (oltre il 40% del totale). Segue il Nord Est con poco più del 25%, mentre, nel Sud e nelle isole, la percentuale si attesta al 20% e solo al 10% nel Centro Italia. Le fonti per il riciclo post-consumo sono nel complesso concentrate nella filiera degli imballaggi, in particolare quelli da raccolta urbana rifiuti, che hanno rappresentato lo scorso anno poco meno del 70% del totale.

La maggior parte dei riciclati prodotti (30% del totale) è il PE flessibile (il polietilene utilizzato principalmente per gli imballaggi flessibili) seguito dal PET (bottiglie e vaschette) e dal PE rigido (flaconi), entrambi intorno al 20%. Le quote minoritarie sono relative al polipropilene, ai misti poliolefinici e agli altri polimeri. Le principali applicazioni delle materie prime seconde sono diversificate, pur se concentrate in due principali settori di sbocco: imballaggi rigidi e articoli casalinghi/per giardinaggio, entrambi al di sopra del 30% di quota. Segue il comparto edilizia e costruzioni a poco più del 15% che, lo scorso anno, ha registrato il migliore tasso di crescita in termini di volumi. Nel segmento si rileva la fortissima crescita del polipropilene riciclato, oltre il +50% sul 2020.

Bisogna porre il recupero delle materie – dice Regis – al centro della transizione ecologica e rifuggire da visioni massimaliste che invocano un mondo plastic free nell’immediato. Il riciclo della plastica rappresenta un’eccellenza italiana e un patrimonio industriale che occorre tutelare certamente più di quanto sia avvenuto con il Pnrr che non ha valorizzato tutte le potenzialità del settore”.

maria nassan

In Giordania le opere di Maria Nissan: un’artista del riciclo

Sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei rifiuti plastici è la missione dell’artista di Amman Maria Nissan, che dà vita a opere d’arte originali realizzate con il riciclo. Una delle più note si trova sulla facciata di un edificio della capitale giordana. La gigantesca creazione colorata è composta da oltre 2.000 bottiglie di plastica, quasi 1.000 sacchetti di plastica e più di 150 tubi di narguilè.

L’americana di origine irachena dice di essersi innamorata di Amman quando ha visitato la città per la prima volta tre anni fa. Ma allo stesso tempo ha provato “rabbia” e “frustrazione” nel vedere cumuli di rifiuti nelle strade e nei siti naturali. “Nonostante la bellezza della città, quando si cammina per le strade si vedono rifiuti di ogni tipo“, ha spiegato la 35enne. “Non posso ignorare i tanti sacchetti di plastica, le bottiglie di vetro, le lattine di bibite, gli imballaggi“, dice Maria, che ama indossare un vestito fatto di sacchetti blu dell’Ikea.

Formatasi nel disegno e nella pittura negli Stati Uniti e in Italia, ha deciso di raccogliere rifiuti per dar loro una seconda vita e trasformarli in opere d’arte, come collage di volti di donna o di fiori. La sua casa è piena di ogni sorta di oggetti in plastica, dagli spazzolini da denti ai cucchiai, passando per accendini e penne.

“UN PROBLEMA DI TUTTI”

L’arte creata con la plastica è un modo concreto per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi ambientali che colpiscono i giordani, i loro figli, ma anche la natura“, afferma l’autrice. “Una bottiglia di plastica gettata in una valle impiegherà 450 anni per decomporsi“, ha detto, denunciando gli effetti delle “microplastiche che inquinano il suolo, l’acqua e la natura“. Il lavoro di Maria è stato esposto in 12 mostre in tutta la Giordania, in Italia e in Grecia, ed è presente sul suo canale Instagram @marianissanart, con l’obiettivo di cambiare atteggiamenti e abitudini. Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), i giordani utilizzano tre miliardi di sacchetti di plastica all’anno, di cui solo il 7% viene riciclato. Maria esorta le persone a evitare questi prodotti a favore di borse riciclabili e sostiene una tassa sulle borse di plastica monouso. “Le conseguenze dell’inquinamento causato dai prodotti di plastica monouso non si avvertono subito, quindi è difficile far sentire le persone responsabili delle proprie azioni“, afferma l’autrice. “Non è responsabilità di nessuno finché non diventa un problema di tutti“, aggiunge.

(Photo by KHALIL MAZRAAWI / AFP)

plastica compostabile

Plastica compostabile, Greenpeace: “Ennesimo cortocircuito green”

L’Italia è tra i pochissimi Paesi in Europa dove la plastica compostabile finisce nell’umido organico, mentre nella maggior parte dell’Ue la plastica cosiddetta ‘green’ viene gettata nell’indifferenziata. Fin qui tutto bene. Peccato che secondo uno studio di Greenpeace Italia almeno il 63% dell’umido italiano finisca in impianti che difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile conferita in questa filiera. La quota restante confluisce in siti di compostaggio dove, secondo il dossier ‘Altro che compost’, “non è detto che la plastica compostabile resti il tempo necessario a degradarsi”. Un’opera di fact checking, quella dell’unità investigativa di Greenpeace, che potrebbe favorire un aumento del controllo da parte delle istituzioni e che potrebbe spingere gestori e società di igiene ambientale a incrementare l’efficienza degli impianti di compostaggio.

IL CORTOCIRCUITO

La maggior parte dei rifiuti organici in Italia – spiega il dossier – finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali usa e getta in plastica compostabile, che così finiscono in inceneritori o in discarica. Come semplifica Utilitalia, la Federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici della gestione rifiuti, acqua, ambiente, energia elettrica e gas, gli impianti oggi esistenti sono stati progettati per trattare prevalentemente rifiuti biodegradabili di cucine e mense o di giardini e parchi; non certo bioplastiche”. L’unità investigativa di Greenpeace Italia ha dunque tentato di vederci chiaro in quel che appare come “l’ennesimo cortocircuito di questa presunta svolta green”, dato che, a differenza di altri Stati europei, “in Italia si fa credere ai cittadini che la plastica compostabile non abbia alcun impatto sull’ambiente. Ma non è così”.

VOLUME D’AFFARI

Secondo i dati del consorzio italiano compostatori, in Italia la presenza di plastiche compostabili nella raccolta degli scarti di cucina è più che raddoppiata, passando dall’1,5% (2016-2017) al 3,7% (2019-2020). Il volume d’affari del settore delle plastiche compostabili sta esplodendo: meno dell’1% della plastica prodotta annualmente a livello globale è compostabile ma in base ai dati di European Bioplastics, la produzione globale è destinata ad aumentare da 2,42 milioni di tonnellate nel 2021 a
circa 7,59 milioni di tonnellate nel 2026, superando la quota del 2%. Spiega Greenpeace che “l’Asia è il principale hub con quasi il 50% della capacità produttiva di plastiche compostabili, ma quasi un quarto della capacità produttiva si trova in Europa, dove la leadership è di un’azienda italiana, la Novamont”. Secondo David Wilken, responsabile del controllo qualità del compost e membro della German Biogas Association, “le pubblicità, le etichette che dichiarano la compostabilità dei prodotti e, in Italia, l’obbligo di gettare questi articoli nell’umido: tutto concorre a immergere il consumatore nel greenwashing, fino a fargli credere che un piatto compostabile avrà lo stesso destino di una mela. Peccato che la realtà sia molto diversa”.

I TEST IN LABORATORIO

Gli ‘investigatori’ di Greenpeace Italia sono andati più a fondo, entrando in laboratori specializzati sul controllo qualità e sul compostaggio. È emerso così che più è grande il materiale plastico compostabile e più tempo impiega per degradarsi. Quasi un’ovvietà. Il problema è che in laboratorio i test che servono per ‘etichettare’ una plastica compostabile si effettuano su piccoli campioni (tra i 5 cm e i 10 cm quadrati), ed è altamente improbabile che un consumatore riduca un rifiuto ai minimi termini prima di gettarlo nell’umido.

GLI IMPIANTI

Altro problema evidenziato da Greenpeace Italia nel report ‘Altro che compost’ è quello degli impianti di smaltimento. “Stando ai dati del Catasto rifiuti di Ispra – spiega Greenpeace – anche se gli impianti di compostaggio sono decisamente più numerosi, sono quelli dove il cuore del processo è la digestione anaerobica a trattare il 63% della frazione umida (di cui il 56% negli impianti integrati e il 7% negli impianti di digestione anaerobica). Peccato che sia proprio quest’ultima tipologia di impianti (digestione anaerobica integrata e non) ad avere i maggiori problemi a trattare la plastica green”. Ugo Bardi, professore di chimica-fisica all’Università di Firenze e delegato della Rete delle università per lo Sviluppo sostenibile sottolinea che “la plastica compostabile non è stata progettata con l’idea che composti negli attuali impianti con il resto dell’umido. È una questione di tempi. La plastica compostabile ha bisogno di stare nell’impianto di compostaggio più a lungo dell’umido”. Un lasso di tempo che Greenpeace Italia calcola in almeno 12 settimane, ovvero circa 4 mesi.

Non tutti gli impianti di compostaggio e digestione anaerobica in Italia sono funzionali alla plastica green. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva ammesso a dicembre che per essere correttamente trattata, la plastica compostabile “richiede impianti con caratteristiche molto diverse in termini di condizioni di temperatura, umidità, tempo di trattamento rispetto a quelle necessarie per gli altri rifiuti organici”. Di più: Utilitalia conferma che gli impianti di compostaggio hanno diversi problemi con la plastica green, ma ne hanno ancora di più gli impianti integrati e anaerobici “perché strutturalmente gli impianti anaerobici e misti non sono in grado di degradare la plastica compostabile”. Partendo dalle dichiarazioni di Cingolani, Greenpeace ha chiesto “quanti sono in Italia gli impianti in grado di trattare gli imballaggi in plastica compostabile e quale quota di prodotto riescono a trattare”. Una domanda che, a detta della stessa associazione ambientalista, “è rimasta tutt’oggi inevasa”.

Gli scienziati chiedono un tetto alla produzione di plastica

Nel marzo del 1972, esattamente 50 anni fa, la rivista Science pubblicò il primo studio in assoluto sull’inquinamento da plastica: ‘Plastics on the Sargasso sea surface’ (Plastiche sulla superficie del mar dei Sargassi), di EJ Carpenter e KL Smith Jr. Ci sono voluti decenni perché la politica, l’industria e l’opinione pubblica iniziassero a prendere sul serio quell’allarme.
Il 28 aprile scorso, la stessa prestigiosa rivista scientifica internazionale ha pubblicato un altro articolo chiave per lo sviluppo di questa tematica: ‘A global plastic treaty must cap production‘ (Un trattato globale sulla plastica deve mettere un tetto alla produzione). Si tratta di una lettera firmata da nove studiosi che – in base alle migliori conoscenze scientifiche in varie discipline, da quelle biologiche a quelle economiche – chiede scelte coraggiose alla politica: limitare – e a lungo termine eliminare – la produzione di plastica nuova. Questo perché, scrivono, “anche applicando tutte le soluzioni politiche e tecnologiche oggi disponibili, tra cui la sostituzione, il miglioramento del riciclaggio, la gestione dei rifiuti e la circolarità (…) dopo il 2040, 17,3 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica saranno ancora rilasciati negli ambienti terrestri e acquatici ogni anno”.

La lettera parte dall’importante risultato ottenuto dall’Assemblea dell’UNEP (United Nations Environmental Programme, il programma ambientale delle Nazioni Unite) che a Nairobi, nel mese di marzo, ha preso una decisione fondamentale: entro il 2024 dovrà essere prodotto il testo di un trattato giuridicamente vincolante per affrontare il tema della plastica nel suo complesso, dalla progettazione alla produzione e allo smaltimento. Questo passaggio è fondamentale, dopo il varo della Strategia europea sulla plastica, ma secondo gli autori della lettera non è sufficiente.
Gli scienziati mettono in evidenza come “non è chiaro se il trattato includerà un tetto alla produzione (…) Nonostante gli interventi dell’industria e le obiezioni degli Stati Uniti e di altre delegazioni, ridurre la plastica alla fonte frenando la produzione è fondamentale”.

La quantità di plastica prodotta ogni anno è oggi arrivata a 450 milioni di tonnellate e le stime – in base ai tassi di crescita attuali – prospettano un raddoppio entro il 2045. E le leggi non riescono a regolare e garantire la sicurezza di ogni nuovo composto chimico in tempi stretti: la velocità di comparsa è superiore alla possibilità e capacità dei governi di valutarne i rischi e limitare i problemi. Melanie Bergmann, prima firmataria della lettera-articolo, scienziata dell’Alfred Wegener Institute Helmholtz Centre for Polar and Marine Research ci spiega: “Noi prevediamo un limite progressivo alla produzione di nuova plastica, ogni anno un po’ meno. Secondo le leggi di mercato, questo aumenterebbe il valore della plastica già esistente e creerebbe un incentivo economico a riciclare più plastica. Parallelamente, avrebbe senso stabilire quote progressive per l’uso della plastica riciclata. Infatti, poiché i costi ambientali sono esternalizzati alla società, in questo momento è più conveniente produrre e usare nuova plastica. Questo sarebbe quindi anche un incentivo per inventare nuove soluzioni (sistemi di ricarica e multiuso), aumentare il riciclo, ad esempio attraverso l’uso di prodotti che consistono di un solo tipo di polimero chiaramente indicato e tagliando gli additivi chimici per un riciclaggio sicuro. Per alcuni prodotti, come le applicazioni mediche, potrebbe non esserci un’alternativa, anche se la ricerca di nuovi materiali potrebbe identificare soluzioni più sostenibili nel lungo periodo. Ma tagliando la produzione di articoli monouso usati per l’imballaggio, per esempio, si otterrà già una riduzione significativa”.

I Paesi più poveri sono quelli in cui il passaggio può risultare più complesso. Per fare un esempio: ci sono difficoltà nell’approvvigionamento idrico o nella salubrità dell’acqua disponibile e l’acqua in bottiglia rappresenta una soluzione importante; o sono assenti i sistemi di riciclo. “Come per il clima – aggiunge Bergmann – dobbiamo sostenere finanziariamente i Paesi a basso reddito per migliorare i sistemi di gestione dei rifiuti e i sistemi di riutilizzo e riciclaggio. La quantità di bottiglie d’acqua potrebbe probabilmente essere ridotta attraverso l’uso di sistemi di rimborso-deposito ed eventualmente attraverso il sostegno finanziario per la costruzione di nuovi pozzi, dove questo è possibile. Alcuni paesi come il Kenya e il Ruanda hanno sistemi molto avanzati nella riduzione della plastica. Naturalmente non è un compito facile, ma è un compito che dobbiamo semplicemente affrontare il più presto possibile, poiché le nostre soluzioni attuali non sono già all’altezza dei problemi che abbiamo oggi e la produzione di plastica è destinata a raddoppiare entro il 2045”.

Inoltre, come ha sottolineato un altro degli scienziati autori Sedat Gündoğdu, della Facoltà di pesca dell’Università di Cukurova, in Turchia: “La produzione massiccia alimenta anche il trasferimento dei rifiuti dal Nord al Sud del mondo, che oggi aggrava pesantemente la situazione sanitaria e di inquinamento di quei Paesi. Un tetto alla produzione faciliterà l’eliminazione delle applicazioni non essenziali e ridurrà le esportazioni di rifiuti di plastica“.
L’articolo è firmato da: Melanie Bergmann, dell’Alfred Wegener Institute Helmholtz Centre for Polar and Marine Research; Bethanie Carney Almroth, del Dipartimento di scienze biologiche e ambientali dell’Università di Goteborg; Susanne Mò Brander, del Dipartimento di Pesca, fauna selvatica e scienze della conservazione, Stazione di sperimentazione marina, Università statale dell’Oregon; Dey Tridibesh, Dipartimento di Sociologia, Filosofia e Antropologia dell’Università di Exeter; Dannielle S. Green, Gruppo di ricerca sullìecologia applicata, Scuola di Scienze della vita, Anglia Ruskin University, Cambridge; Sedat Gundogfu, Facoltà di Pesca, Università di Cukurova (Turchia); Anja Krieger; Martin Wagner, Dipartimento di Biologia, Università di Trondheim; Tony R. Walker, Dalhousie University (Canada).

bioplastiche

Anche le bioplastiche si degradano lentamente nell’ambiente

Se disperse nell’ambiente, anche le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio. Lo dimostrano i risultati di un innovativo esperimento condotto congiuntamente da Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto per i processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar), Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) e Distretto ligure per le tecnologie marine (DLTM), con il supporto del polizia di Stato – Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS).

Lo studio, pubblicato sulla rivista open access Polymers, ha riguardato il comportamento a lungo termine di differenti tipologie di granuli di plastica vergine (resin pellet) utilizzati per realizzare oggetti di uso comune.

Sono stati comparati due polimeri tra i più impiegati negli oggetti di plastica -HDPE e PP- e due polimeri di plastica biodegradabile -PLA e PBAT-, verificandone il grado di invecchiamento e degradazione rispettivamente in acqua di mare e sabbia: in entrambi gli ambienti, nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa. L’osservazione dei campioni, unitamente all’esito di analisi chimiche, spettroscopiche e termiche condotte presso il laboratorio pisano del Cnr-Ipfc, coordinato dalla ricercatrice Simona Bronco, mostra che nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale.

Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente”, spiega la ricercatrice Silvia Merlino del Cnr-Ismar di Lerici (La Spezia), coordinatrice del progetto.

Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”, aggiunge Marina Locritani, ricercatrice dell’INGV e co-coordinatrice dello studio.

L’esperimento, ad oggi il primo di questo tipo realizzato interamente in situ, ha utilizzato per il set up sperimentale la piattaforma multiparametrica di monitoraggio ambientale ‘Stazione Costiera del Lab Mare’ posta a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa nel Golfo della Spezia. Qui sono state alloggiate particolari ‘gabbie’ progettate per contenere i campioni di plastica; è stata inoltre predisposta una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici per simulare la superficie di una spiaggia. L’esperimento è tuttora in corso e si concluderà nel 2023.

Ulteriori esperimenti riguarderanno lo studio dei processi di degradazione in condizioni di maggiore profondità, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella ‘Stazione profonda del Lab Mare’ a circa 400 metri di profondità, sempre in acque liguri. Inoltre, in collaborazione con l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (IZTO), è già in corso un ulteriore studio che prevede l’analisi comparata dello stato di degradazione dei resin pellet in mare e della presenza di sostanze chimiche (IPA, PCB, pesticidi) ivi disciolti e da essi assorbiti, nonché il confronto con i processi di ritenzione di contaminanti da parte dei mitili, storicamente ritenuti le sentinelle dell’inquinamento.

I cotton fioc dalle case alle spiagge: l’assurdità della plastica usa e getta

I cotton fioc in plastica sono uno degli oggetti finiti nel mirino della Direttiva europea sulle plastiche monouso: per loro, le cannucce, i bastoncini per mescolare il caffè, le aste per palloncini e una serie di altri oggetti letali per l’ambiente e che possono facilmente essere prodotti in altri materiali – che magari non abbiano un ciclo di vita tendente all’infinito – è scattato da oltre un anno il divieto di vendita.