Sostenibilità, il ‘green’ che piace di più al settore alimentare

L’Energy & Strategy della school of management del Politecnico di Milano lavora per istituire un osservatorio permanente su mercati e filiere industriali dei comparti legati alle energie rinnovabili, all’efficienza energetica, sistema elettrico e smart grid, smart mobility, smart buildings, circular economy,startup e nuove tecnologie per la sostenibilità ambientale. Il Circular Economy Report è alla sua terza edizione.  Davide Chiaroni è professore ordinario al dipartimento di ingegneria gestionale del Politecnico di Milano e cofondatore dell’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano. Ecco il quadro che emerge dai dati d’anteprima del Circular Economy Report dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, che da tre anni monitora gli investimenti delle imprese in Italia.

1) Cresce il numero di aziende in Italia che investono in pratiche di economia circolare. “Ma servono interventi di portata maggiore”, secondo il parere di Davide Chiaroni, dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano.

2) Nel 2022 il 57% delle aziende ha adottato almeno una pratica di economia circolare. Nel 2021 erano il 44%.

3) Il 65% di chi non ha ancora implementato pratiche circolari non ha dimostrato interesse nell’adottarle in futuro.

4) Tra i 7 macrosettori analizzati dal Circular Economy Report, il comparto food & beverage è quello con il più alto numero di aziende che ha già implementato almeno una pratica manageriale di economia circolare (82%). In ultima posizione il settore elettronica di consumo (15%).

5) La pratica di economia circolare più diffusa in Italia è il riciclo di prodotti e di componenti, adottata dal 61% del campione. Recycle: 61%; Design for Disassembly: 32%; Design for Easy Repair: 32%; Design out Waste: 32%; Remanufacturing/Refuse: 29%; Repurpose: 24%; Design for Upgradability: 19%; Take Back System: 15%; Product Service System: 8%

6) La maggior parte degli interventi è supportata da investimenti tra i 50 mila e i 100 mila euro, con una propensione verso i 50 mila. I tempi di ritorno in più della metà dei casi sono compresi in 24 mesi.

7) Solo il 18% del campione intervistato dal Circular Economy Report partecipa a ecosistemi di simbiosi industriale, ovvero l’interazione tra diversi stabilimenti industriali, anche appartenenti a diverse filiere tecnologico-produttive con l’obiettivo di massimizzare il riutilizzo di risorse normalmente considerate scarti e ottimizzando la conoscenza e le competenze tra aziende.

8) La principale barriera all’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare è l‘incertezza governativa. L’incertezza governativa era la barriera principale anche nel report 2021, ma il dato è in aumento. Nel 2021 le aziende avevano assegnato un punteggio di 3,9 punti. Nel 2022 un punteggio di 4,1.

Il futuro delle città si chiama MUSA: un progetto nato da 4 università

Si chiama come le divinità della mitologia classica che ispiravano i poeti a “lasciare una traccia” per il futuro. E non è un caso. Il progetto MUSA, come ha spiegato la rettrice dell’università di Milano-Bicocca (capofila dell’iniziativa) Giovanna Iannantuoni, “dovrà creare innovazione per il benessere dei cittadini e la costruzione delle città del futuro”.

Presentato a Milano – l’acronimo sta per ‘Multilayered Urban Sustainability Action’ – il progetto nasce dalla collaborazione fra università di Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, università Bocconi e università Statale di Milano, e con il coinvolgimento di 24 soggetti pubblici e privati. Finanziato per 110 milioni di euro dal Pnrr, per un valore complessivo di 116 milioni, punta a trasformare nei prossimi tre anni l’area metropolitana di Milano in un ecosistema di innovazione per la rigenerazione urbana con un modello replicabile a livello nazionale ed europeo.

Consentirà, insomma, di sviluppare soluzioni per l’energia rinnovabile e la gestione dei rifiuti, studiare nuovi modello di mobilità green, creare un polo di incubazione e accelerazione per startup, ottimizzare l’utilizzo dei big data per la salute e il benessere dei cittadini, mettere a punto nuove soluzioni di finanza sostenibile e creare le condizioni per una società sempre più inclusiva.

MUSA gestirà e monitorerà l’attività di ricerca e innovazione di 6 specifici ambiti di intervento, ognuno coordinato da uno o più atenei.

Primo fra tutti quello della rigenerazione urbana che passa da un monitoraggio moderno del paesaggio urbano, fino all’efficientamento energetico e lo sviluppo di una mobilità sostenibile. Oltre all’utilizzo di big data e open data per le scienze della vita: dalla medicina di precisione, alla didattica innovativa per formare gli specializzandi in maniera sempre più pronta a riflettere l’innovazione tecnologica in corso. Altro filone sarà la promozione di imprenditorialità high tech e trasferimento tecnologico. Fino ai temi di impatto economico e finanza sostenibile; moda, lusso e design sostenibile (con uno specifico focus sul riutilizzo dei materiali), e innovazione per società sostenibili e inclusive.

Alla presentazione i rettori dei quattro atenei coinvolti: Giovanna Iannantuoni (Milano-Bicocca), Ferruccio Resta (Politecnico di Milano), Gianmario Verona (Università Bocconi), Elio Franzini (Università Statale di Milano). ”Non si tratterà di partire da zero”, hanno sottolineato, ma di mettere a sistema la ricerca già in atto su questi filoni per creare modelli scalabili a livello nazionale ed europeo.

E con un coinvolgimento importante in termini di ricercatori: Sono 840 ad essere già reclutati, di cui il 41% donne e fra cui 96 giovani ricercatori. Mentre sono ancora da ricoprire i posti di altri 160 giovani ricercatori. Con un obiettivo preciso: promuovere l’innovazione e ridurre il gap fra mondo accademico a tessuto produttivo. E continuare a farlo anche oltre i tre anni del Pnrr.

Ferruccio Resta

Alla scoperta del Centro nazionale mobilità sostenibile del PoliMilano

Il Centro Nazionale per la Mobilità Sostenibile? Risponde a una delle missioni chiave del Pnrr, ma non si fermerà al 2026. Anzi, “I primi tre anni saranno per noi una fase di startup, nella quale investire in progetti flagship, ma la prospettiva è continuare a sviluppare innovazione valorizzando le competenze sul territorio per dare una risposta concreta ai bisogni del paese”. Ne è convinto Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano, ente proponente del Centro: un progetto di ampio respiro che potrà intervenire nell’ambito della decarbonizzazione, della decongestione delle reti di trasporto, fino alla sicurezza, l’accessibilità e l’inserimento di nuove competenze e professionalità nel mercato.

Siglato a giugno l’atto costitutivo, vedrà l’inizio delle attività dall’1 settembre. Sono coinvolte 25 università e centri di ricerca, con quasi 700 ricercatori dedicati, e 24 grandi imprese. Un investimento da 394 milioni di euro (nel triennio 2023 – 2025) per contribuire a sviluppare un settore che raggiungerà un valore complessivo di 220 miliardi di euro nel 2030, e assorbirà il 12% della forza lavoro.

L’attività del Centro Nazionale si concentrerà su cinque aree strategiche, nell’ottica di renderle più green e digitali: la mobilità aerea, i veicoli stradali, il trasporto per vie d’acqua, il trasporto ferroviario, oltre all’ambito dei veicoli leggeri e della mobilità attiva. Per tutti questi vettori saranno poi considerate tecnologie trasversali (ne sono state individuate nove) sulle quali intervenire: dai materiali innovativi, fino alle smart infrastructures, servizi, urban mobility o sistemi alternativi di propulsione. “La nostra idea è che non esista una tecnologia unica per la mobilità” dice Resta. Sistemi di propulsione basati su biocombustibili, sull’energia elettrica, o sull’utilizzo di idrogeno, rivestono insomma pari importanza per il futuro dei trasporti. “È evidente, per esempio, che non si può parlare di idrogeno soltanto pensando a mezzi ferroviari, navi o mezzi pesanti” continua Ferruccio Resta, “Così come l’elettrico, fino ad oggi associato quasi esclusivamente ai mezzi terrestri, sta già incontrando ragionamenti per un passaggio su acqua a air mobility”.

Un altro esempio importante nel percorso che dovrà portarci a un sistema di mobilità sostenibile è poi il tema della connessione. Da realizzare prima di tutto a livello di infrastruttura: “Un’infrastruttura connessa porta con sé importanti tematiche relative alla capacità delle reti e alla sicurezza” continua il rettore Ferruccio Resta, requisito fondamentale per arrivare poi all’introduzione, per esempio, di veicoli a guida autonoma sulle nostre strade. “Ma passare da una mobilità tradizionale a una mobilità autonoma non sarà come accendere un interruttore” continua Ferruccio Resta, “sarà invece un processo continuo. Già oggi le nostre automobili stanno lentamente assumendo funzioni sempre più autonome, e sempre di più ci aiuteranno durante la guida. Fra 10/20 anni di fatto potranno rendere possibile una mobilità nuova”.

Il lavoro del Centro sarà allora sviluppare competenze per accompagnare una transizione di lungo respiro. La sfida” commenta il rettore, “sarà implementare un modello di business per dare continuità al Centro Nazionale, consolidandosi e aiutando il paese ad avere un ruolo sempre maggiore in questo ambito. “E sono convinto che ciò possa avvenire” conclude, “vedo sempre maggiore esigenza da parte di comuni, regioni, istituzioni locali, ad avere un interlocutore a supporto dello sviluppo di una mobilità adatta alle specifiche condizioni”. Un punto di partenza incoraggiante per un progetto che punta ad accompagnare la transizione green e digitale in un’ottica sostenibile, garantendo la transizione industriale del comparto e accompagnando le istituzioni locali a implementare soluzioni moderne, sostenibili e inclusive nelle città e nelle regioni del paese.

L’idrogeno? E’ il carburante del futuro, impossibile farne senza

Il carburante del futuro, quello più sostenibile e ‘infinito’, è l’idrogeno, ma per una vera svolta green serve più coraggio. È la conclusione a cui è giunta l’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano nel suo ‘Hydrogen Innovation Report 2022’. Secondo gli esperti senza l’idrogeno verde la decarbonizzazione di alcuni settori industriali e del trasporto pesante è impossibile, ma servono altri 70 GW di rinnovabili e almeno 15 di elettrolizzatori. Invece, il piano italiano al momento è fermo a 5 GW di elettrolizzatori al 2030. Le difficoltà degli ultimi mesi hanno fatto scivolare l’idrogeno in secondo piano, tuttavia le industrie hard-to-abate (acciaio e fonderie, chimica, ceramica, carta e vetro) e alcuni sistemi di trasporto non hanno alternative per ridurre le emissioni climalteranti. Secondo Vittorio Chiesa, direttore dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, “occorre maggiore chiarezza a livello comunitario sulla definizione di green gas, per non rallentare le iniziative in partenza e chiarire le possibili configurazioni di produzione ammissibili. Così come servono specifici strumenti di incentivazione: allo stato attuale, in Italia agli utilizzatori industriali non conviene sostituire il metano o l’idrogeno grigio con l’idrogeno verde”.

Oggi la domanda complessiva di idrogeno in Europa si attesta sulle 8,4 Mton annue: il settore della raffinazione è il principale utilizzatore con il 49% del totale, seguito dalla produzione di ammoniaca (31%) e di metanolo (5%). La produzione annua europea, invece, si aggira attorno alle 10,5 Mton e deriva prevalentemente da impianti di reforming da gas naturale (Smr) posti nei principali siti di consumo, come le raffinerie e gli impianti di produzione di ammoniaca. L’Italia è il quinto Paese europeo per consumo di idrogeno, con circa 0,6 Mton: più del 70% della domanda viene dalla raffinazione, circa il 14% dal settore dell’ammoniaca e il resto dalla rimanente industria chimica. Dal punto di vista tecnologico, per questi comparti non esistono particolari vincoli al passaggio all’idrogeno blu o verde. Ma a quali livelli di prezzo delle emissioni di anidride carbonica sarebbe equivalente adottare idrogeno blu e verde al posto dell’attuale idrogeno grigio? Nel caso dell’idrogeno blu, il costo della CO2 evitata è pari a 100 o 111 €/tonCO2, a seconda che si consideri una percentuale di cattura delle emissioni rispettivamente del 50% o 90%. Questi valori si avvicinano molto all’attuale costo della CO2 sul mercato ETS, che nei primi mesi del 2022 ha superato il valore di 90 €/tonCO2. Nel caso invece dell’idrogeno verde, il costo della CO2 evitata cresce notevolmente, arrivando fino a 900 €/tonCO2. Valori al momento ‘fuori scala’, nonostante la corsa del mercato del CO2 dell’ultimo anno.

Il Politecnico ha quindi indagato alcuni settori industriali hard-to-abate (produzione acciaio, carta, ceramica e vetro) che potrebbero adottare l’idrogeno verde come vettore energetico al posto del gas naturale per il soddisfacimento dei consumi termici, qualora l’elettrificazione diretta risultasse difficilmente percorribile. Per tutte le tecnologie prese in considerazione – cogeneratori a motore alternativo, cogeneratori a turbina, forni e caldaie – l’attuale parco installato risulta già in grado di sopportare una quota di idrogeno in miscela fino al 20%, ma solamente le caldaie sono pronte per essere alimentate al 100% con idrogeno, i cogeneratori ancora no. In più, un taglio significativo delle emissioni di CO2 si raggiunge solo nel caso di completa sostituzione del gas naturale, con una conseguente domanda di idrogeno verde nell’ordine delle centinaia di kton all’anno.

Passando alla policy di sviluppo per la filiera dell’idrogeno in Europa, Polimi riferisce che dei 40 GW di elettrolizzatori previsti dalla Commissione Europa al 2030, circa il 65% dovrebbe arrivare da Italia, Olanda, Germania, Spagna, Portogallo e soprattutto Francia, che con i suoi 6,5 GW, sarà la capofila per la produzione di idrogeno da elettrolisi sfruttando il basso tasso emissivo della propria rete elettrica. Tutti i Paesi hanno già definito gli investimenti da realizzare entro il 2030 per favorire lo sviluppo della filiera dell’idrogeno, destinati in modo trasversale a ogni componente: tecnologie per la produzione, tecnologie/progetti per la penetrazione nei settori hard-to-abate, attività di ricerca e sviluppo, studi di fattibilità per impianti di trasporto e distribuzione. L’aggiornamento della mappatura a livello europeo delle installazioni annunciate o pianificate di impianti per la produzione di idrogeno a basso impatto ambientale mostra come la Germania sia il primo Paese in termini numerici, mentre per capacità è la Spagna a occupare il primo posto con circa 70 GW di idrogeno verde, seguita dalla Gran Bretagna (circa 22 GW di capacità, dove però l’80% sarà idrogeno blu). A parte il caso dello UK, la maggior parte della produzione è stata pianificata mediante elettrolizzatori integrati con rinnovabili dedicate, con una certa prevalenza per gli impianti eolici offshore.

Infine, conclude lo studio, è stato valutato il potenziale di mercato legato allo sviluppo della filiera dell’idrogeno per i settori hard-to-abate in Italia, in particolare le industrie dell’acciaio, della carta, del vetro e della ceramica. L’attuale domanda annua di 0,51 Mton, legata alle raffinerie e alla produzione di ammonica, se fosse coperta da idrogeno verde si tradurrebbe in un fabbisogno addizionale di energia rinnovabile pari a circa 29,6 TWh. Nell’ipotesi di rispettare il solo vincolo di addizionalità, questo comporterebbe almeno 16,4 GW di nuova capacità rinnovabile, valore che salirebbe notevolmente nel caso si rispettasse anche il vicolo di contemporaneità. Si determinerebbe inoltre la necessità di prevedere nuova capacità di elettrolizzatori compresa tra 3,7 GW, nel caso di funzionamento a pieno carico (8.000 ore equivalenti), e circa 9 GW nel caso di funzionamento a 3.300 ore annue.

Per la valutazione dei consumi di idrogeno verde legati ai settori industriali hard-to-abate che attualmente non utilizzano idrogeno, ma che potrebbero in futuro adottare l’idrogeno verde come vettore di energia termica, sono stati identificati differenti scenari di blend idrogeno verde e-gas naturale pari rispettivamente al 10%, 20% e 100% in volume. Il caso di blend al 100% – l’unico che darebbe un contributo significativo all’abbattimento delle emissioni – determinerebbe un consumo complessivo addizionale di idrogeno verde pari a circa 2 Mton/anno e consumi ulteriori di energia elettrica rinnovabile pari a circa 117 TWh, che potrebbero essere coperti da 64,9 GW di nuova capacità rinnovabile nell’ipotesi di rispettare il solo vincolo di addizionalità. A livello di elettrolizzatori, la nuova capacità necessaria per produrre questi volumi di idrogeno sarebbe compresa tra 14,6 GW, nel caso di funzionamento a pieno carico (8.000 ore equivalenti), e 35,4 GW nel caso di funzionamento a 3.300 ore annue equivalenti.

smart building

Italia non è ancora Smart Building, lo dice un report del Poli Milano

Lo smart building viene spesso utilizzato come parola-simbolo dell’edilizia del futuro: più sostenibile in termini di consumi, più attenta all’uso delle rinnovabili, e capace di migliorare comfort e salute degli abitanti. Il tutto grazie all’attivazione di sistemi automatici di gestione. Ma nella reale applicazione, in Italia, siamo ancora indietro, ed è sempre più urgente mettere a terra questo potenziale. Soprattutto considerando l’impatto degli edifici sull’ambiente, che pesa – stime del Politecnico di Milano – il 40% dei consumi energetici complessivi.

LA MATURITA’ TECNOLOGICA DEGLI SMART BUILDING

L’Italia non è un paese per gli smart building (ma non lo è ancora nemmeno l’Europa). A fine 2021, un report Energy&Strategy della school of management del Politecnico di Milano ha stimato il livello di maturità tecnologica degli smart building nel nostro paese. Il risultato? In ambito residenziale l’85% degli edifici intelligenti è caratterizzato da un limitato numero di device e tecnologie, gestite fra l’altro da piattaforme diverse fra loro.

In uno smart building, gli impianti sono gestiti in maniera intelligente e automatizzata attraverso un’infrastruttura di supervisione e controllo capace di minimizzare il consumo energetico e garantire le migliori condizioni per gli occupanti, assicurandone poi l’integrazione con il sistema elettrico di cui l’edificio fa parte. “Uno smart building completo, però, è quello che riesce ad avere un layer di intelligenza comune che gestisce e automatizza tutti i componenti” spiega Federico Frattini, vicedirettore dell’Energy&Strategy. “Nel residenziale soltanto il 3% degli edifici risponde a queste caratteristiche, e il dato sale a circa il 20% nel terziario”. Continua Frattini: “Pesano ancora i costi infrastrutturali, che rendono necessari investimenti importanti. E, soprattutto, la mancanza di una vera standardizzazione dei componenti, specialmente digitali”.

LA RIPRESA ATTESA DOPO IL COVID

La pandemia non ha aiutato la diffusione di edifici smart. Il trend degli investimenti relativi al 2020 (gli ultimi dati al momento elaborati dalla school of management) aveva infatti restituito un calo dell’11% rispetto ai dati pre-covid. Escludendo le superfici opache, tra residenziale e terziario, siamo fermi a 7,67 miliardi di euro investiti nell’ambito dell’edilizia intelligente.

Ancora presto per conoscerne l’evoluzione, “ma se facciamo un parallelo con l’andamento degli investimenti del settore industriale nell’ambito dell’efficienza energetica” spiega Federico Frattini, “possiamo immaginare per gli smart building uno scenario analogo, con una crescita sul 2020 vicina al 10%, senza però ancora arrivare ai livelli pre-pandemia”.

È comunque vero che il ruolo centrale della casa fra lockdown e smart working ha ridato attenzione alla qualità dell’abitare, tanto è vero che, a differenza di quanto accade per gli edifici, ha ripreso a correre il mercato della ‘smart home‘ (in questo caso i dati vengono dell’osservatorio Internet of Things del Politecnico), con un +29% nel 2021 guidato dall’acquisto di elettrodomestici connessi, smart speaker, soluzioni per la sicurezza, caldaie, termostati e condizionatori connessi per riscaldamento e climatizzazione. “In generale, anche nelle tecnologie per il building ci aspettiamo una crescita di alcune tecnologie con livelli di investimenti consistenti, come sistemi per il monitoraggio e l’ottimizzazione dell’aria, serrature intelligenti, o sistemi di videosorveglianza”, spiega Frattini, “ma va sempre considerato il freno dovuto all’oscillazione dei prezzi che ha colpito il settore dei microchip e dell’elettronica”.

IL VOLUME D’AFFARI NEGLI SMART BUILDING

La ricerca verso una gestione sempre più efficiente dell’energia guida gli investimenti negli smart building in Italia. Degli oltre 7 miliardi e mezzo investiti, il 63% viene dall’implementazione di ‘building device and solutions’, vale a dire tecnologie e impianti per la generazione di energia, per l’efficienza energetica, safety&security e comfort. Di tutta la categoria, oltre la metà del valore investito (circa 4,8 miliardi di euro) è relativa a tecnologie per la produzione di energia elettrica e produzione efficiente di energia termica.

Nel caso della generazione di energia termica, sono i sistemi di climatizzazione e le pompe di calore a rappresentare la maggioranza degli investimenti. Mentre “nell’ambito della generazione elettrica il fotovoltaico è la tecnologia più diffusa (94% del totale), spinta anche da costi sempre minori che la rendono sostenibile anche senza incentivi” spiega Federico Frattini. “Ma la crescita più interessante è nei sistemi di accumulo associati al fotovoltaico, anche nel residenziale. Accoppiare batterie a un impianto, infatti, permette di aumentare la quota di autoconsumo dal 30% fino al 70-80%. Un dato importante in un momento di aumento dei prezzi dell’energia”. Il restante 37% degli investimenti totali, invece, è riferito agli attuatori e alla sensoristica per la raccolta dati dagli impianti, oltre ai software che compongono la piattaforma di controllo e gestione e l’infrastruttura di rete.

UN CAMBIO DI PASSO

Ma su quali leve dovremmo intervenire per immaginare un buon livello di maturità tecnologica negli smart building italiani, e avvicinarci di conseguenza agli obiettivi europei di decarbonizzazione? “Gli stanziamenti del Pnrr sono un buon inizio ma non possono bastare per raggiungere gli obiettivi richiesti dal pacchetto Pniec e dal Fit for 55” dice Federico Frattini, “soprattutto perché il tasso di ristrutturazione è ancora troppo basso”. Gli edifici italiani registrano infatti un consumo di energia termica più alto della media europea. “Serve un passo diverso, insomma, e non solo nel residenziale” continua Frattini, “promuovendo interventi importanti anche negli edifici della pubblica amministrazione”.

Un aiuto in più potrebbe arrivare dall’Europa, con l’avvio dello ‘Smart readiness indicator’, l’indice comune dell’Unione europea introdotto per valutare la predisposizione degli edifici a utilizzare tecnologie intelligenti. “Molto dipenderà da come verrà implementato” conclude Frattini, “ma potrebbe dare un incentivo importante a predisporre edifici all’uso di tecnologie smart per migliorare la qualità complessiva della vita e del lavoro nelle strutture”. Con effetti sulla qualità della vita e sull’ambiente.

Eolico

In Italia il 2021 è stato l’anno dell’eolico. Ma l’obiettivo al 2030 è lontano

Se il 2021 ha rappresentato un anno di crescita per le energie rinnovabili in Italia – pur essendo ancora lontani gli obiettivi del 2030 – è, almeno in parte, merito dell’eolico. Lo scorso anno le nuove installazioni sono aumentate del 150% (oltre 400 MW del 2021 contro i 160 MW del 2020), tornando quindi ai valori di crescita pre-pandemia. A fotografare il quadro delle energie alternative in Italia – e quindi anche dell’eolico – è il Rapporto sulle energie rinnovabili (RER) realizzato dall’Energy & Strategy della School of Management del Politecnico di Milano. Nel 2021 sono 76 gli impianti eolici installati in Italia: di questi, i 19 di potenza superiore a 1 MW cubano il 95% della nuova potenza (386 MW). I nuovi impianti di grande taglia (superiore a 10 MW) di Puglia, Sicilia, Basilicata e Calabria sostituiscono la disinstallazione di 15 MW in Abruzzo.

Attualmente sono 5777 gli impianti eolici in Italia, che producono complessivamente 11 GW di potenza. Il 9% degli impianti ha potenza superiore o uguale a 1 MW che cuba il 96% di quella installata totale. Le Regioni italiane con il maggior numero di impianti sono la Basilicata, la Puglia, la Sicilia, la Campania, la Sardegna e la Calabria, dove ovviamente il vento è più forte. Confrontando la capacità installata in MW nelle diverse regioni tra il 2020 e il 2021, si evidenzia un trend più marcato in Basilicata, Puglia e Sicilia con rispettivamente 134, 115 e 88 MW aggiunti nel 2021. Analizzando la capacità installata pro-capite in kW nelle regioni italiane, la Basilicata si distingue con un valore nettamente superiore rispetto a tutte le altre regioni (2,6 kW per abitante nel 2021). La seconda Regione in questa particolare classifica risulta essere il Molise, con 1,3 kW per abitante nel 2021. La media italiana risulta essere pari a 0,2 kW/abitante.

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Nel 2021 l’Europa ha investito 41 miliardi di euro in nuovi parchi eolici (-11% rispetto al 2020), per un totale di 25 GW di nuova capacità. Ma gli investimenti – come ricorda l’associazione Wind Europe – sono ben al di sotto di quelli necessari a far raggiungere al continente i suoi obiettivi di sicurezza energetica e climatica per il 2030. L’agenda REPowerEU, infatti, prevede che l’UE espanda la sua capacità eolica da 190 GW di oggi a 480 GW entro il 2030. Ciò significa costruire 35 GW di nuove turbine eoliche all’anno fino al 2030.

Nonostante la crescita dell’eolico in Italia nel 2021, è la Germania a guidare la classifica europea, con quasi 64 GW nel 2021. Anche UK e Francia mostrano un trend di crescita sostenuto dal 2010 ad oggi, mentre nel nostro Paese e in Spagna si evidenzia una crescita più contenuta. Ma sono molti i Paesi europei che hanno dato vita a progetti ambiziosi. La Norvegia, ad esempio, ha presentato un piano di sviluppo eolico offshore (quindi su piattaforme galleggianti) che, con la tecnologia attuale, aumenterebbe il numero delle sue turbine eoliche offshore da due a 1.500 entro il 2040. Per allora, le concessioni dovrebbero essere assegnate per permettere l’installazione di 30.000 MW di capacità offshore.

CINA VERSO IL RECORD EOLICO OFFSHORE

A livello mondiale, però, il 2021 non è stato un anno favorevole per l’eolico: quello onshore (cioè con le turbine collocate a terra) è crollato del 32% rispetto all’anno precedente. Per il 2022 – secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) – ci si attende uno slancio dell’eolico offshore (quello su piattaforme galleggianti): le nuove piattaforme dovrebbero superare dell’80% quelle del 2020. Entro la fine del 2022, la Cina dovrebbe superare l’Europa e diventare la prima regione del mondo in termini di capacità eolica offshore.

Rinnovabili

PoliMi: “Il 2021 un anno sprecato per le rinnovabili”

1,3 Gigawatt. È la capacità di rinnovabili installata in Italia nel 2021. Tanto? Poco? Dipende. È molto più rispetto all’anno precedente, e allo stesso tempo è un tasso di installazione troppo debole per gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050. Ma 1,3 Gigawatt – e qui viene il dato più curioso – equivale anche alla potenza che abbiamo perso fino ad oggi a causa dell’invecchiamento di impianti fotovoltaici installati oltre dieci anni fa, e mai rinnovati. In altre parole: installiamo oggi per colmare una perdita che potrebbe essere evitabile.

La proiezione è calcolata all’interno del Renewable Energy Report del Politecnico di Milano, appena pubblicato. Un report che, non a caso, ha parlato del 2021 come ennesimo “anno sprecato” per il mercato delle rinnovabili. Ma che indica il tema del revamping e del repowering delle installazioni esistenti come una delle leve per investire sul futuro in maniera integrata.

Anche perché il patrimonio di impianti ormai datati è grande. Il 75% delle potenza fotovoltaica oggi a disposizione in Italia è stata installata tra il 2010 e il 2013, nell’ambito degli incentivi del Conto Energia. Una stagione importante quella, “che ha avuto il pregio di farci prendere coscienza sul ruolo e sul potenziale delle rinnovabili nel mix energetico” spiega Davide Chiaroni, cofondatore dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, “anche se, col senno di poi, un sistema di incentivazione forse troppo generoso”, che aveva portato in pochissimi anni a una corsa all’installazione improvvisa.

Una delle eredità di quella stagione”, continua Chiaroni, “è stata una diffusione sul territorio di progetti non sempre ben ottimizzati, spesso realizzati da imprese che installavano per la prima volta. Impianti che oggi producono tra il 6,2% e 8,5% in meno”. Diventa allora fondamentale intervenire per non perdere gli sforzi fatti. Con ricostruzioni, rifacimenti, riattivazioni e potenziamenti. “Anche perché dal punto di vista tecnologico” continua Chiaroni, “un impianto fotovoltaico oggi, a parità di superficie coperta, riuscirebbe a produrre oltre il 20% in più”.

Certo, non è semplice attivare una campagna di riqualificazione efficace. Soprattutto per stimolare chi, dieci anni fa, ha investito su taglie di impianti né troppo grandi né troppo piccole, e che quindi può non avere un interesse economico importante nell’intervenire nuovamente. “Un punto di partenza possono essere proposte che invitano i proprietari a sentirsi responsabili verso la comunità” conclude Chiaroni. Il futuro energetico ci riguarda da vicino.

fotovoltaico

Nel 2021 il fotovoltaico vince il primato tra le rinnovabili (+30% installazioni)

Con il via libera della Commissione Ue al ‘RepowerEU‘, la corsa verso le rinnovabili si fa più veloce. Attraverso una strategia solare europea sarà necessario raddoppiare la capacità fotovoltaica entro il 2025 e installare 600 Gigawatt entro il 2030. I tetti solari saranno una parte fondamentale del piano, con l’obbligo legale per gli Stati membri di installare i pannelli sui nuovi edifici pubblici e commerciali e su quelli residenziali, cioè le case. Ma l’Italia è pronta davvero ad accogliere questa sfida? Sul fronte delle rinnovabili il Paese è ancora indietro. Come ha ricordato il Politecnico di Milano nel Rapporto sulle energie rinnovabili (RER), realizzato dall’Energy & Strategy della School of Management, l’Italia è decisamente indietro ed è lontana dal raggiungimento degli obiettivi al 2030. Mancano – spiega il rapporto – una programmazione integrata e coerente e gli investimenti.

Il fotovoltaico, però, tra le fonti rinnovabili, è quella che nel 2021 ha conquistato il primato delle nuove installazioni, con 935 MW di nuovi impianti (+30% rispetto al 2020). Attualmente nel nostro Paese il volume complessivo di potenza fotovoltaica installata è pari a circa 22,6 GW. Si tratta di 1.015.239 impianti: il 92% di questi è di potenza inferiore a 20 kW e si concentra nelle regioni del Nord Italia (che ospita il 56% degli impianti di piccola taglia, per un totale di 2,7 GW). Al contrario, la potenza installata in impianti di media taglia è distribuita tra Nord, Sud e Isole. Per quanto riguarda gli impianti di grande taglia, le regioni del Sud e le isole cubano l’11% dell’intera potenza installata, suddivisa tra 536 impianti. Lombardia e Veneto sono le Regioni che hanno fatto registrare una crescita maggiore di impianti (+10%) tra il 2020 e il 2021. La potenza pro-capite è di circa 0,38 kW/abitante.

Dal rapporto del PoliMi emerge come i dati del 2021 confermino la crescita degli impianti di piccola e media taglia a discapito degli impianti con potenza superiore a 1 MW. In particolare, lo scorso anno non è stata registrata nuova potenza da impianti di taglia superiore a 10 MW: il 10% della nuova capacità fa unicamente riferimento a impianti di taglia compresa tra 1 MW e 10 MW. Degli oltre 79mila impianti installati nel 2021, il 92% è di piccola taglia (potenza minore di 12 kW) e le regioni del Nord cubano il 58% del totale delle nuove installazioni di fotovoltaico del 2021 (935 MW). Sul fronte europeo, si evidenzia per tutti i Paesi un trend di crescita dal 2010 al 2021. In valore assoluto, è la Germania a possedere la maggiore capacità installata con oltre 58 GW nel 2021, seguita dall’Italia con quasi 23 GW.

Rinnovabili

Italia indietro sulle rinnovabili: l’obiettivo del 72% è lontano

Non è una novità – lo ha ribadito più volte il premier Mario Draghi, invitando il Paese a una “accelerazione” – ma la realtà dei fatti è che l’Italia è indietro sullo sviluppo delle energie rinnovabili. Lo conferma anche il Politecnico di Milano nel Rapporto sulle energie rinnovabili (RER), realizzato dall’Energy & Strategy della School of Management, da cui emerge un quadro di evidente lentezza sul fronte della transizione energetica nel nostro Paese.

Se è vero che il 2021 è stato caratterizzato da un incremento complessivo delle installazioni di rinnovabili pari al +70% in termini di potenza rispetto al 2020, è anche vero che questa crescita è “unicamente giustificata – spiega il rapporto – dalla ripresa seguita alla pandemia“. Le nuove installazioni di impianti fotovoltaici ed eolici si sono, cioè, riallineate ai numeri osservati nel 2019.

Un anno sprecato insomma, che ci allontana decisamente dal raggiungimento degli obiettivi al 2030 (72% di fonti rinnovabili nella generazione elettrica secondo le ultime indicazioni del Piano per la transizione ecologica) e ancora di più quelli al 2050. A differenza dell’Europa, che procede a passi molto più spediti ed è ormai prossima al traguardo complessivo dei 700 GW.

La capacità di rinnovabili installata in Italia durante il 2021 è stata complessivamente di 1.351 MW (+70% di potenza rispetto ai 790 MW del 2020, quando era diminuita del 35%) e questo ha portato il Paese a superare la soglia dei 60 GW: l’aumento è stato trainato dalla nuova capacità di fotovoltaico (+935 MW, +30% rispetto al 2020), seguito dall’eolico, che ha registrato la crescita più marcata (+404 MW, +30%) e, ben distanziato, dall’idroelettrico (+11 MW), mentre le bioenergie sono addirittura in diminuzione (-14 MW).

Per centrare gli obiettivi europei al 2030 – spiega Davide Chiaroni, vicedirettore di Energy&Strategy – si dovrebbero installare in Italia almeno 60-65 GW di nuova capacità produttiva da fonti rinnovabili non programmabili, ma non è possibile senza una semplificazione normativa, in particolare nelle autorizzazioni, e un più facile accesso agli incentivi“. Qualcosa è stato fatto, assicura, ma bisogna fare di più perché “le rinnovabili rappresentano una grande opportunità“: l’Italia vedrebbe non solo drasticamente ridotta la propria dipendenza energetica “ma potrebbe anche raggiungere livelli molto competitivi del costo dell’energia grazie alla disponibilità di risorse come sole e vento“.

E allora cosa serve per l’accelerazione? “Una programmazione integrata e coerente“, spiega Chiaroni, e “ingenti investimenti“, stimati tra i 40 e 50 miliardi di euro al 2030, senza considerare quelli per gli accumuli e il potenziamento delle infrastrutture di rete.

Eppure, guardando alle aste per i grandi impianti, i sette bandi predisposti dal Decreto FER1 sono giunti a conclusione, ma con risultati non soddisfacenti: la partecipazione durante il 2021 è rimasta bassa, in larga misura a causa dell’andamento intermittente del rilascio delle autorizzazioni, e questo ha lasciato per tutti i gruppi un contingente non assegnato che andrà colmato con due ulteriori bandi previsti per il 2022.

Quanto al Pnrr, sono poco meno di 6 i miliardi di euro dedicati alle energie rinnovabili all’interno dei 25,36 miliardi destinati a ‘Rivoluzione verde e transizione ecologica’, in cui rientrano anche l’idrogeno e la mobilità sostenibile. “Si tratta però ancora una volta – precisa Chiaroni – di singoli progetti specifici che non costituiscono un piano strutturato“.

Insomma, tutto è ancora troppo lento. Con questo ritmo, è la conclusione del Rapporto, tra otto anni arriveremmo a un parco eolico e fotovoltaico di poco superiore ai 50 GW, ben lontani dai 125-130 GW che sono il target di installato totale. Per raggiungerlo dovremmo crescere tra le 4 e le 7 volte più velocemente.

Idrogeno

Cos’è e cosa studia Hydrogen JRP

COS’È L’HYDROGEN JRP

Joint Research Platform (Hydrogen JRP) è un progetto realizzato dalla Fondazione Politecnico di Milano, insieme al Politecnico di Milano e a Edison, ENI e Snam, A2A e NextChem. Lo scopo del progetto è promuovere studi e ricerche innovative che riguardano la produzione di idrogeno pulito, compreso l’idrogeno verde e “low carbon”; soluzioni per il trasporto idrogeno e relativi sistemi avanzati di accumulo; usi elettrochimici e termici innovativi in applicazioni residenziali, industriali e di trasporto. Dando così impulso alla creazione di una filiera dell’idrogeno in Italia che favorisca la competitività delle aziende e la crescita di imprese high tech.

UTILIZZO IN ITALIA AL 2050

Secondo i primi studi dell’Hydrogen JRP, la piattaforma che sta elaborando scenari per la produzione e il consumo di energia a zero emissioni, l’idrogeno ricoprirà nel 2050 oltre il 20% dei fabbisogni energetici complessivi nei settori chiave dell’economia italiana ed è atteso ad un ruolo altrettanto rilevante in tutti i Paesi impegnati nella transizione verso una piena decarbonizzazione.

IMPATTO DELL’IDROGENO

L’Hydrogen JRP stima che l’idrogeno, usato in maniera complementare con le altre tecnologie, può avere un impatto sui settori di destinazione che si tradurrebbe in oltre 80 milioni di tonnellate di CO2 in meno, oltre il 20% delle emissioni totali di oggi. Il settore su cui si prevede un impatto maggiore è quello dei trasporti pesanti. Segue poi l’industria, gli altri settori della mobilità (light mobility, aviation, navigation), la power generation e il riscaldamento domestico. L’idrogeno ha la capacità di porsi come elemento di congiunzione tra i settori delle rinnovabili e degli usi finali dell’energia e di consentire l’accumulo e lo spostamento nel tempo e nelle diverse aree del Paese di grandi quantità di energia; in questo modo può garantire flessibilità al sistema energetico, favorendo la diffusione delle rinnovabili in settori “hard to abate”.

ANTEPRIMA A EXPO DUBAI

I primi risultati dell’Hydrogen JRP sono stati discussi in occasione di Expo Dubai, dove Politecnico di Milano, Fondazione Politecnico di Milano e Regione Lombardia hanno contribuito a realizzare il progetto “Innovation House”. Nei mesi della manifestazione, Innovation House ha coinvolto più di 1500 partecipanti tra imprese, istituzioni, centri di ricerca, realtà grandi e piccole e quasi 200 relatori in più di 50 eventi e iniziative. Con l’obiettivo di consolidare la sinergia tra industria, università e istituzioni per garantire nuovi mercati alle imprese italiane. Fra i temi affrontati: mobilità sostenibile, energie alternative, agrifood, stem. L’idea sarà ora replicare il modello in altri grandi contesti internazionali come le Olimpiadi Milano – Cortina 2026.