Allarme gomme da masticare: rilasciano microplastiche nella saliva

La plastica è ovunque. E molti prodotti che usiamo nella vita quotidiana, come taglieri, indumenti e spugne per la pulizia, possono esporre le persone a minuscole particelle di plastica larghe un micrometro chiamate microplastiche. Ora, anche le gomme da masticare potrebbero essere aggiunte alla lista. In uno studio pilota, i ricercatori hanno scoperto, infatti, che possono rilasciare nella saliva da centinaia a migliaia di microplastiche per pezzo e potenzialmente essere ingerite. Lo studio è stato presentato in occasione del meeting primaverile dell’American Chemical Society (ACS).

“Il nostro obiettivo non è quello di allarmare nessuno”, afferma Sanjay Mohanty, il principale ricercatore del progetto e professore di ingegneria presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). “Gli scienziati non sanno se le microplastiche siano pericolose o meno per noi. Non ci sono studi sull’uomo. Ma sappiamo che siamo esposti alla plastica nella vita di tutti i giorni, ed è questo che volevamo esaminare”. Le ricerche sugli animali e quelli sulle cellule umane dimostrano che le microplastiche potrebbero causare danni, quindi, in attesa di risposte più definitive da parte della comunità scientifica, i singoli possono adottare misure per ridurre la loro esposizione a queste sostanze.

Gli scienziati stimano che gli esseri umani consumino decine di migliaia di microplastiche (tra 1 micrometro e 5 millimetri di larghezza) ogni anno attraverso cibi, bevande, imballaggi, rivestimenti e processi di produzione o fabbricazione. Tuttavia, la gomma da masticare come potenziale fonte di microplastiche non è stata ampiamente studiata, nonostante la popolarità mondiale di questo dolciume. Così, Mohanty e Lisa Lowe, una studentessa laureata nel suo laboratorio, hanno voluto identificare quante microplastiche una persona potrebbe potenzialmente ingerire masticando gomme naturali e sintetiche.

I chewing-gum sono fatte da una base gommosa, dolcificante, aromi e altri ingredienti. “La nostra ipotesi iniziale era che le gomme sintetiche avrebbero avuto molte più microplastiche perché la base è un tipo di plastica”, dice Lowe, che ha testato cinque marche di gomme sintetiche e cinque naturali, tutte disponibili in commercio. Sono state misurate una media di 100 microplastiche rilasciate per grammo di gomma, anche se alcuni singoli pezzi ne hanno rilasciate fino a 600 per grammo. Un tipico pezzo di chewing-gum pesa tra i 2 e i 6 grammi, il che significa che un grosso pezzo potrebbe rilasciare fino a 3.000 particelle di plastica. Se una persona media mastica da 160 a 180 gomme all’anno, i ricercatori hanno stimato che ciò potrebbe comportare l’ingestione di circa 30.000 microplastiche.

“Sorprendentemente, sia le gomme sintetiche sia quelle naturali rilasciavano quantità simili di microplastiche quando le masticavamo”, afferma Lowe. La maggior parte si staccava dalla gomma entro i primi 2 minuti di masticazione e dopo 8 minuti, il 94% delle particelle era stato rilasciato. È probabile, dice Mohanty, che le particelle di plastica più piccole non siano state rilevate nella saliva e che siano necessarie ulteriori ricerche per valutare il potenziale rilascio di plastiche di dimensioni nanometriche dalle gomme da masticare.

Le microplastiche possono alimentare la resistenza agli antibiotici

Le microplastiche, che si sono fatte strada nelle catene alimentari, si sono accumulate negli oceani e sono state trovate all’interno del corpo umano in quantità preoccupanti, potrebbero avere un nuovo devastante effetto, cioè quello di alimentare la resistenza agli antibiotici.

Un team di ricercatori dell’Università di Boston ha scoperto che i batteri esposti alle microplastiche diventano resistenti a diversi tipi di antibiotici comunemente usati per curare le infezioni. Un elemento, questo, particolarmente preoccupante per le persone che vivono in aree impoverite ad alta densità di popolazione, come gli insediamenti di rifugiati, dove la plastica scartata si accumula e le infezioni batteriche si diffondono facilmente. Lo studio è pubblicato su Applied and Environmental Microbiology.

“Il fatto che ci siano microplastiche intorno a noi, e ancora di più nei luoghi poveri dove i servizi igienici possono essere limitati, è una parte sorprendente di questa osservazione”, afferma Muhammad Zaman, professore di ingegneria biomedica al Boston University College of Engineering che studia la resistenza antimicrobica e la salute dei rifugiati e dei migranti. “C’è sicuramente la preoccupazione che questo possa rappresentare un rischio maggiore nelle comunità svantaggiate, e ciò non fa che sottolineare la necessità di una maggiore vigilanza e di una comprensione più approfondita delle interazioni” tra microplastiche e batteri.

Si stima che ogni anno ci siano 4,95 milioni di decessi associati a infezioni resistenti agli antimicrobici. I batteri diventano resistenti agli antibiotici per molte ragioni diverse, tra cui l’uso improprio e la prescrizione eccessiva di farmaci, ma un fattore enorme che alimenta la resistenza è il microambiente – cioè l’ambiente circostante di un microbo – dove batteri e virus si replicano. Nel laboratorio Zaman della BU, i ricercatori hanno testato rigorosamente come un batterio comune, l’Escherichia coli (E. coli), reagisce alla presenza di microplastiche in un ambiente chiuso.

“La plastica fornisce una superficie a cui i batteri si attaccano e colonizzano”, afferma Neila Gross, dottoranda in scienza e ingegneria dei materiali presso la BU e autrice principale dello studio. Una volta attaccati a qualsiasi superficie, i batteri creano un biofilm, una sostanza appiccicosa che funge da scudo, proteggendo i batteri dagli invasori e mantenendoli saldamente attaccati. La microplastica ha potenziato i biofilm batterici a tal punto che quando gli antibiotici sono stati aggiunti alla miscela, il farmaco non è stato in grado di penetrare lo scudo.

“Abbiamo scoperto che i biofilm sulle microplastiche, rispetto ad altre superfici come il vetro, sono molto più forti e spessi, come una casa con un isolamento termico molto efficace”, afferma Gross, ed “è stato sconcertante”. Il tasso di resistenza agli antibiotici sulla microplastica era così alto rispetto ad altri materiali, che ha eseguito gli esperimenti più volte, testando diverse combinazioni di antibiotici e tipi di materiale plastico. Ogni volta, i risultati sono rimasti coerenti.

“Stiamo dimostrando che la presenza della plastica non si limita a fornire una superficie su cui i batteri possono aderire, ma sta effettivamente portando allo sviluppo di organismi resistenti”, afferma Zaman. Ricerche precedenti hanno dimostrato che i rifugiati, i richiedenti asilo e le popolazioni sfollate con la forza sono a maggior rischio di contrarre infezioni resistenti ai farmaci, a causa della vita in campi sovraffollati e delle maggiori difficoltà nell’ottenere assistenza sanitaria.

Nel 2024, si stima che ci fossero 122 milioni di sfollati in tutto il mondo. Secondo Zaman, la prevalenza di microplastiche potrebbe aggiungere un altro elemento di rischio ai sistemi sanitari già sottofinanziati e poco studiati che servono i rifugiati. Gross e Zaman affermano che il prossimo passo nella loro ricerca è capire se i risultati ottenuti in laboratorio si traducono nel mondo esterno.

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Effetti cronici sulla salute dei bambini con il cambiamento climatico

I cambiamenti climatici causati dalle attività antropiche influenzano la frequenza e l’intensità di eventi estremi. Fenomeni come ondate di calore, siccità, inondazioni ed incendi hanno potenziali conseguenze sulla salute delle persone e sono collegati ad un rischio più elevato di mortalità, lesioni acute e ricoveri ospedalieri nei giorni e anche nelle settimane successive al loro verificarsi.

I risultati dello studio ‘Exposure to climate change-related extreme events in the first year of life and occurrence of infant wheezing’, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Enviroment International e condotto da un team di ricerca dell’Epidemiologia della Città della Salute e dell’Università di Torino, suggeriscono che il cambiamento climatico abbia un impatto sulla salute sin dalle primissime fasi della crescita, mettendo in evidenza la necessità di misure di mitigazione e adattamento al clima per proteggere non solo le future generazioni, ma anche per tutelare la salute delle attuali fasce di popolazione più fragili, come i bambini e le bambine nei primi anni di vita.

Condotta nell’ambito del progetto Ninfea, la più grande coorte italiana arruolata tramite Internet che raccoglie dal 2005 dati su più di 7000 coppie di mamme e bambini sull’intero territorio italiano, la ricerca ha riscontrato un aumento del rischio di fischi e sibili al torace associato all’esposizione a siccità estrema e ondate di calore durante il primo anno di vita. A differenza di studi precedenti, focalizzati sugli effetti acuti degli eventi estremi, questo lavoro mette in rilievo gli effetti cronici che si manifestano già nelle prime fasi dello sviluppo e sono associati all’esposizione ripetuta durante il primo anno di vita.

Il campione della ricerca è composto da circa 6000 bambini per i quali si dispone di informazioni sull’insorgenza di fischi e sibili al torace tra 6 e 18 mesi. La comparsa di questi episodi durante l’infanzia è considerata un indicatore di alterata salute respiratoria in età successive. Combinando gli indirizzi di residenza geocodificati dei partecipanti allo studio con i dati climatici, sono state ricavate informazioni sulla loro esposizione, durante il primo anno di vita, a diversi tipi di eventi estremi. L’esposizione agli eventi estremi è stata messa in relazione alla salute respiratoria tenendo conto di multipli fattori (socioeconomici, ambientali ecc.).

“I risultati di questo studio – spiega Silvia Maritano, prima autrice dell’articolo e ricercatrice presso l’ Epidemiologia della Città della Salute e dell’Università di Torino – sottolineano l’importanza di considerare le conseguenze del cambiamento climatico come potenziali determinanti di patologie croniche in ottica longitudinale. Questo lavoro apre la strada a nuove ricerche sui rischi a lungo termine del cambiamento climatico, mettendo in luce l’urgente necessità di politiche congiunte di mitigazione e prevenzione volte a ridurre l’esposizione ai fenomeni meteorologici estremi fin dalle prime fasi di vita delle persone”.

In Europa 7 ospedali su 10 sono obsoleti: dal Politecnico di Milano linee guida per strutture sostenibili

Se il sistema sanitario fosse uno Stato, sarebbe il quinto maggior inquinante al mondo. E in Europa 7 ospedali su 10 sono più obsloleti di quanto dovrebbero, con costi di gestione energetica sempre più alti. Ma allora come dovrà essere l’ospedale del futuro? La piattaforma di ricerca JRP Healthcare Infrastructures del Politecnico di Milano ha presentato le linee guida del progetto Next Generation Hospital: uno strumento per progettare strutture sanitarie capaci di rispondere alle esigenze di una sanità moderna e sostenibile, con indicatori di performance per misurare la capacità di generazione energetica da fonti rinnovabili, l’efficienza dei sistemi di gestione delle risorse idriche, la riduzione dei rifiuti ospedalieri per posto letto, la gestione del rischio infettivo e l’inclusività e l’accessibilità degli spazi per utenti e personale sanitario.

Un progetto durato tre anni. E già messo a terra. Sono cinque, infatti, gli ospedali che per primi applicheranno le nuove linee guida: l’ospedale Niguarda di Milano, l’ospedale Pediatrico Santobono di Napoli, il Nuovo ospedale della Malpensa, l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria in Valpolicella e il Nuovo ospedale Civile di Brescia.

Per il coordinatore scientifico Stefano Capolongo, del Politecnico di Milano, le differenze nei requisiti strutturali all’interno dell’Europa erano ormai “non più accettabili”: il 60% degli ospedali in Europa ha più di 50 anni, e il 50% non è adeguato ai nuovi modelli organizzativi.  “Il modello JRP Next Generation Hospital”, ha detto, “è da oggi esportabile e replicabile in tutte le aree geografiche su scala nazionale ed internazionale. Il ministero della Salute e l’Organizzazione mondiale della Sanità trovano finalmente una risposta alle esigenze di ridurre la ‘macchia di leopardo’ nell’offerta infrastrutturale per la salute dei cittadini. Il modello lanciato oggi è applicabile e scalabile in tutti i contesti sociali ed economici. È l’occasione storica per generare nuova cultura e offrire tool per l’applicazione su larga scala di un nuovo modello di ospedale”.

Significativo poi – come ha ricordato l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Guido Bertolaso durante la presentazione – che questo momento di passaggio avvenga esattamente cinque anni dopo l’inizio della pandemia in Italia, un evento che ha accelerato il progetto di un ridisegno della rete ospedaliera. “Siamo in un momento di grandissima rivoluzione tecnologica”, ha detto l’assessore, “Oltre alle nuove realtà per la diagnosi sempre più puntuale e rapida e alle nuove terapie per riuscire a combattere le patologie più serie, abbiamo anche delle innovazioni straordinarie nel campo delle infrastrutture sanitarie, in cui il Politecnico di Milano è punto di riferimento. Con questa struttura fondamentale per noi, intendiamo realizzare tutti quelli che sono i grandi progetti di ospedalizzazione e ospedali di comunità per i quali abbiamo investito come regione Lombardia oltre 6 miliardi di euro”.

Per i prossimi tre anni il progetto della piattaforma di ricerca si concentrerà sulla redazione di nuove linee guida metaprogettuali per le diverse macroaree del sistema ospedaliero che includano strategie per la sostenibilità ambientale e l’integrazione di tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale. Verranno inoltre introdotti tavoli di lavoro su tematiche emergenti nel sistema Salute, tra cui il longevity design e i nuovi modelli di sanità territoriale.

In Italia nel 2022 quasi 72mila morti per l’inquinamento dell’aria

Nel 2022 in Italia sono morte circa 71.870 persone a causa dell’inquinamento atmosferico, il 30% circa di tutti i decessi avvenuti in Europa e attribuibili a questa causa. E’ quanto emerge da un rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA). In particolare, 48.610 morti sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento da polveri sottili (PM2,5) al di sopra della concentrazione raccomandata dall’OMS di 5 µg/m3, 13.640 all’esposizione all’inquinamento da ozono (O3) e 9.620 al biossido di azoto (NO2). Il nostro paese, insieme alla Polonia e alla Germania è quello in cui le vittime hanno raggiunto la percentuale più alta.

Secondo il rapporto dell’AEA, in Italia nel 2022, la concentrazione maggiore di biossido di azoto si trova a Torino, Bergamo, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Catania. In generale la Pianura Padana è il territorio in cui si concentra la maggior parte degli inquinanti.

L’inquinamento atmosferico causato dalle polveri sottili ha ucciso 239.000 persone nell’Unione Europea nel 2022, con un calo del 5% rispetto a un anno fa. “Almeno 239.000 decessi nell’Ue nel 2022 sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento da polveri sottili (PM2,5) al di sopra della concentrazione raccomandata dall’OMS di 5 µg/m3”, spiega l’agenzia con sede a Copenhagen.

In tutta Europa, il dato è in calo rispetto al 2021, quando le polveri sottili, che penetrano in profondità nei polmoni, hanno causato la morte prematura di 253.000 persone. Questa tendenza è confermata su scala più ampia. Tra il 2005 e il 2022, il numero di decessi è diminuito del 45%, ha osservato con soddisfazione l’agenzia, il che potrebbe consentire di raggiungere l’obiettivo di una riduzione del 55% dei decessi fissato nel piano d’azione dell’UE “Inquinamento zero” per il 2030.

Allo stesso tempo, 70.000 decessi sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento da ozono (O3), dovuto principalmente al traffico stradale e alle attività industriali. Per quanto riguarda il biossido di azoto (NO2), un gas prodotto principalmente dai veicoli e dalle centrali termiche, si ritiene che sia responsabile di 48.000 morti premature.

Salute, nel 2021 Italia prima in Ue per morti da mesotelioma

Nel 2021 l’Ue ha registrato 2.380 decessi evitabili per mesotelioma e l’Italia ha avuto il maggior numero, 518. Sono i dati di Eurostat, l’Ufficio di statistica dell’Ue, che ha ricordato che il mesotelioma è “un tipo di cancro legato all’esposizione all’amianto, che si sviluppa nel sottile strato di tessuto che ricopre molti degli organi interni, noto come mesotelio”. I sintomi del mesotelioma tendono a svilupparsi gradualmente nel tempo e, in genere, si manifestano solo diversi decenni dopo l’esposizione all’amianto. Il numero è in costante diminuzione dal 2013, quando era pari a 3.341 (-961 decessi). A livello nazionale, l’Italia ha registrato il maggior numero di decessi per mesotelioma (518) nel 2021, seguita da Germania (400) e Francia (329). Al contrario, Cipro e l’Estonia hanno registrato il numero più basso, con 2 ciascuno, seguiti da Malta e Lussemburgo, con 3 ciascuno. Nell’infografica INTERATTIVA di GEA sono riportati i decessi Paese per Paese.

L’inquinamento luminoso aumenta il rischio di Alzheimer sotto i 65 anni

In alcuni luoghi del mondo le luci non si spengono mai. I lampioni, l’illuminazione stradale e le insegne luminose possono scoraggiare il crimine, rendere le strade più sicure e migliorare il paesaggio. La luce ininterrotta, tuttavia, comporta conseguenze ecologiche, comportamentali e sanitarie. Ora un nuovo studio statunitense ha scoperto che l’esposizione alla luce artificiale durante la notte potrebbe aumentare la prevalenza dell’Alzheimer più di molti altri fattori di rischio per le persone di età inferiore ai 65 anni.

Il primo autore dello studio Frontiers in Neuroscience, Robin Voigt-Zuwala, professore associato presso il Rush University Medical Centere il suo team hanno studiato le mappe dell’inquinamento luminoso di 48 stati americani e hanno incorporato nella loro analisi dati medici su variabili note o ritenute fattori di rischio per l’Alzheimer. Hanno poi generato dati sull’intensità notturna per ogni stato e li hanno divisi in cinque gruppi, dalla più bassa alla più alta intensità luminosa notturna.

I risultati hanno mostrato che per le persone di età pari o superiore a 65 anni, la prevalenza di Alzheimer era più fortemente correlata all’inquinamento luminoso notturno rispetto ad altri fattori di rischio, tra cui l’abuso di alcol, le malattie renali croniche, la depressione e l’obesità. Altri fattori, come il diabete, l’ipertensione e l’ictus, erano più fortemente associati alla malattia rispetto all’inquinamento luminoso.

Per le persone di età inferiore ai 65 anni, tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore intensità luminosa notturna era associata a una maggiore prevalenza di Alzheimer rispetto a qualsiasi altro fattore di rischio esaminato nello studio. Questo potrebbe suggerire che le persone più giovani potrebbero essere particolarmente sensibili agli effetti dell’esposizione alla luce notturna. Non è chiaro il perché, ma secondo i ricercatori potrebbe essere dovuto a differenze individuali nella sensibilità alla luce. “Alcuni genotipi, che influenzano l’Alzheimer precoce, hanno un impatto sulla risposta ai fattori di stress biologici, il che potrebbe spiegare la maggiore vulnerabilità agli effetti dell’esposizione notturna alla luce”, spiega Voigt-Zuwala.

I ricercatori sperano che i loro risultati possano contribuire a educare le persone sui potenziali rischi della luce notturna. “La consapevolezza dell’associazione dovrebbe indurre le persone, in particolare quelle con fattori di rischio per l’Alzheimer, ad apportare semplici modifiche allo stile di vita”, come ad esempio l’uso di tende oscuranti o di maschere per gli occhi per dormire. “Questo è utile – dicono gli scienziati – soprattutto per chi vive in aree ad alto inquinamento luminoso”.

foresta

Più alberi meno infarti: dimostrati i benefici di vivere in zone green

Più alberi, meno rischi di infarto e di altre malattie cardiovascolari. Ma anche meno probabilità di sviluppare cancro e diabete. Che vivere nella natura faccia bene all’anima e al corpo è cosa nota, ma un gruppo di ricercatori dell’Università di Louisville si è spinto più in là e ha dimostrato che raddoppiare il numero di alberi in un quartiere ha avuto effetti sorprendenti sulla salute dei residenti. In particolare, la ricerca ha dimostrato che coloro che vivevano nelle aree rinverdite avevano livelli di un biomarcatore dell’infiammazione generale – una misura chiamata proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP) – inferiori del 13-20% rispetto a coloro che vivevano nelle aree che non avevano ricevuto nuovi alberi o arbusti. Livelli più elevati di hsCRP sono fortemente associati al rischio di malattie cardiovascolari e sono un indicatore di infarto ancora più forte dei livelli di colesterolo. Inoltre, indicano anche un rischio maggiore di diabete e di alcuni tipi di cancro. Una riduzione dell’infiammazione di questa percentuale corrisponde a una diminuzione di circa il 10-15% del rischio di infarto, cancro o morte per qualsiasi malattia.

Per capire lo stato di salute della comunità all’inizio dello studio – chiamato Green Heart Louisville – i ricercatori hanno prelevato campioni di sangue, urine, capelli e unghie e hanno documentato i dati sanitari di 745 persone che vivono in un’area di quattro miglia quadrate a sud di Louisville. Hanno anche effettuato misurazioni dettagliate della copertura arborea e dei livelli di inquinamento atmosferico nell’area. I dati sono stati successivamente confrontati con quelli dei residenti dei quartieri adiacenti, dove il team del progetto non ha piantato alcun albero.

Dopo la raccolta dei dati di base, l’Enviroment Institute ha collaborato con The Nature Conservancy e con una serie di partner e appaltatori locali per piantare più di 8.000 grandi alberi e arbusti in determinati quartieri all’interno dell’area del progetto.

Dopo le piantumazioni, il team di ricerca ha rivalutato la salute dei residenti, scoprendo il calo considerevole dell’indice di infiammazione. “Questi risultati del progetto Green Heart Louisville indicano che gli alberi possono migliorare la salute delle persone che vivono intorno a loro”, dice Aruni Bhatnagar, direttore dell’Envirome Institute e professore di medicina dell’Uofl. “Sebbene diversi studi precedenti abbiano riscontrato un’associazione tra il vivere in aree con un elevato livello di verde circostante e la salute, questo è il primo studio a dimostrare che un aumento deliberato del verde nel quartiere può migliorare la salute. Grazie a questi risultati e ad altri studi che speriamo di presentare presto, siamo più vicini alla comprensione dell’impatto della copertura arborea locale sulla salute dei residenti. Questa scoperta rafforzerà la spinta ad aumentare gli spazi verdi urbani”, conclude.

I risultati sono stati presentati da Daniel Riggs, professore assistente di medicina ambientale dell’Uofl, alla 36a Conferenza annuale della Società internazionale di epidemiologia ambientale a Santiago del Cile il 26 agosto.

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I morti per caldo triplicheranno in Europa entro 2100. In Italia saranno 28mila all’anno

I decessi dovuti al caldo potrebbero triplicare in Europa entro il 2100 in base alle attuali politiche climatiche, soprattutto tra le persone che vivono nelle zone meridionali del continente. Lo rivela uno studio del Joint Research Centre della Commissione Europea pubblicato su The Lancet Health. Complessivamente, con un riscaldamento globale di 3°C – una stima massima basata sulle attuali politiche climatiche – il numero di decessi legati al caldo in Europa potrebbe aumentare da 43.729 a 128.809 entro la fine del secolo. Nello stesso scenario, i decessi attribuiti al freddo – attualmente molto più alti di quelli dovuti al caldo – rimarrebbero elevati, con una leggera diminuzione da 363.809 a 333.703 entro il 2100.

In Italia questa stima si tradurrebbe con più di 28mila morti all’anno, un numero che è quasi il triplo di quello registrato tra il 1991 e il 2020 (poco più di 10mila). Secondo gli esperti, se l’aumento delle temperature restasse entro +1,5°, così come indicato dall’Accordo di Parigi, le morti per calore nel nostro Paese sarebbero circa 14mila entro la fine del secolo, che diventerebbero poco più di 18mila con un incremento di 2 gradi. Nello scenario peggiore ipotizzato, cioè +4° C, le vittime quintuplicherebbero rispetto a oggi, arrivando a 45mila circa.

“Il nostro studio identifica anche i punti caldi in cui il rischio di morte per le alte temperature è destinato ad aumentare drasticamente nel prossimo decennio. È necessario sviluppare politiche più mirate per proteggere queste aree e i membri della società più a rischio di temperature estreme”, spiega David García-León del Centro comune di ricerca della Commissione europea.

Lo studio stima che le temperature calde e fredde causino attualmente 407.538 decessi all’anno in Europa, di cui 363.809 legati al freddo e 43.729 al caldo. Quelli causati dalle temperature più basse sono più elevati nell’Europa orientale e negli Stati baltici e più bassi nell’Europa centrale e in alcune parti dell’Europa meridionale, con tassi che vanno da 25 a 300 decessi ogni 100.000 persone. Quelli legati al caldo, invece, variano da 0,6 a 47 decessi per 100.000 persone, con tassi più bassi nel Regno Unito e nei Paesi scandinavi e più alti in Croazia e nelle parti più meridionali del continente. Attualmente in Europa si muore circa otto volte di più per il freddo che per il caldo (rapporto 8,3:1), ma si prevede che questo rapporto diminuirà notevolmente entro la fine del secolo.

Si stima che i decessi legati al calore aumenteranno in tutte le regioni d’Europa in caso di riscaldamento di 3°C, con un forte aumento dei tassi di mortalità, con un aumento di tre volte del tasso medio in tutta Europa, fino a raggiungere un numero di decessi compreso tra 2 e 117 per 100.000 persone in tutti i Paesi europei. Tra le zone calde che saranno particolarmente colpite da un maggiore riscaldamento e da popolazioni sempre più anziane figurano Spagna, Italia, Grecia e parte della Francia.

Ue: “Inquinamento e caldo minacciano salute, servono piani d’azione e verde in città”

Misure preventive per migliorare la salute generale della popolazione, riduzione delle emissioni di inquinanti atmosferici e gas serra da tutte le fonti, pianificazione urbana che dia priorità a spazi verdi, mobilità attiva e trasporto pubblico, potenziamenti edilizi, più consapevolezza della situazione: sono alcuni esempi di misure che l’Unione europea e i 27 Paesi membri sono chiamati ad adottare visto l’aumento, presente e atteso per il futuro, di problemi sanitari e di decessi legati all’inquinamento, alle alte temperature e alla combinazione di questi due fattori.

A riportare l’attenzione sul tema è l’Agenzia europea dell’Ambiente, l’Aea, che ha ricordato come, ogni anno, nell’Ue ci siano ben oltre 200 mila persone che muoiono per cause legate all’inquinamento atmosferico da particolato fine (Pm2.5): un numero “troppo alto” e che riguarda in particolar modo “i gruppi più vulnerabili della popolazione”, come anziani e bambini e chi ha uno status socio economico più basso. Ad essere più esposte sono le città e il contesto viene aggravato dall’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico. “A causa di fattori come l’effetto isola di calore urbano, le città possono essere significativamente più calde delle aree circostanti. Gli eventi di calore estremo nell’estate del 2022 hanno causato oltre 60 mila decessi stimati in Europa”, ha precisato l’Agenzia.

Questa è una preoccupazione crescente poiché si prevede che il numero di giorni con temperature estreme aumenterà a causa del cambiamento climatico. Secondo le proiezioni climatiche, entro la fine del 21° secolo possiamo aspettarci 60 giorni con condizioni di ondate di calore pericolose per la salute in alcune parti dell’Europa meridionale. Tali proiezioni – ha scritto l’Aea -, unite alla crescente vulnerabilità della popolazione per l’invecchiamento, alla prevalenza di malattie croniche e all’urbanizzazione, potrebbero aumentare il numero di decessi correlati alle ondate di calore in futuro, a meno che non vengano adottate misure di adattamento”.

L’Agenzia ha puntualizzato che, storicamente, gli impatti di fattori ambientali come rumore, inquinamento atmosferico e calore tendevano a essere valutati separatamente. Ma nella pratica è probabile che le persone siano esposte a più fattori di rischio contemporaneamente. “Uno studio recente ha identificato che l’aumento del rischio di mortalità correlato all’esposizione al calore estremo era del 6,1% e per PM2,5 elevato era del 5%, tuttavia il rischio di mortalità per esposizione combinata sia al calore estremo che al PM2,5 è stato stimato al 21%, ovvero significativamente maggiore del rischio di esposizione a uno qualsiasi dei due fattori da solo”, ha spiegato l’Aea. Oltre all’aumento delle temperature in Europa, si prevede che il cambiamento climatico avrà un impatto sulle emissioni di inquinanti atmosferici, ad esempio per gli incendi boschivi più numerosi e più grandi, e sulla loro formazione nell’atmosfera, ad esempio ozono a livello del suolo.

In questo scenario, la riduzione dell’inquinamento atmosferico è fondamentale perché “si tradurrà in un minor numero di decessi causati dal cambiamento climatico”. E dato che le principali fonti di inquinamento atmosferico includono trasporti, riscaldamento domestico, agricoltura, produzione di energia e industria, “riducendo le emissioni in questi settori possiamo abbassare ulteriormente i livelli di inquinamento nelle nostre città”. Inoltre, si possono anche introdurre una serie di misure per ridurre l’impatto del calore sulla salute. Quattro in particolare: “lo sviluppo di piani d’azione per la salute dovuti al calore e sistemi di allerta precoce per garantire che vengano adottate misure pertinenti prima e durante le ondate di calore”; “adottare azioni appropriate nella pianificazione urbana delle nostre città, ad esempio aumentare gli spazi verdi urbani e garantire dintorni verdi di scuole e ospedali per ridurre l’effetto isola di calore urbano in queste località: un ambiente più verde tende anche a incoraggiare le passeggiate e l’uso della bicicletta, con conseguente riduzione delle emissioni dei trasporti”; “migliorare l’efficienza energetica dell’ambiente costruito e ridurre le temperature interne (ad esempio, tende solari; tetti e facciate riflettenti; ventilazione meccanica)”; “adottare misure per proteggere i lavoratori, come l’adeguamento dell’orario per quanti operano all’aperto per evitare le ore più calde”.