Studio rivela: “L’inquinamento è la principale minaccia per la salute pubblica”

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L’inquinamento atmosferico rappresenta un rischio maggiore per la salute globale rispetto al fumo o al consumo di alcol, e questo pericolo è ancora più grave in alcune aree del mondo come l’Asia e l’Africa. Lo rivela un rapporto dell’Energy Policy Institute dell’Università di Chicago (EPIC) sulla qualità dell’aria globale, secondo il quale l’inquinamento da polveri sottili – emesso da veicoli a motore, industrie e incendi – rappresenta “la più grande minaccia esterna alla salute pubblica” a livello mondiale.

Nonostante ciò, i fondi stanziati per combattere l’inquinamento atmosferico rappresentano solo una minima parte di quelli destinati, ad esempio, alle malattie infettive, sottolinea il rapporto. L’inquinamento da polveri sottili aumenta il rischio di malattie polmonari e cardiache, ictus e cancro. L’EPIC stima che se la soglia dell’Oms per l’esposizione alle polveri sottili fosse sempre rispettata, l’aspettativa di vita globale aumenterebbe di 2,3 anni, sulla base dei dati raccolti nel 2021. In confronto, il consumo di tabacco riduce l’aspettativa di vita globale di una media di 2,2 anni e la malnutrizione infantile e materna di 1,6 anni.

In Asia meridionale, la regione del mondo più colpita dall’inquinamento atmosferico, gli effetti sulla salute pubblica sono molto pronunciati. Secondo la stima EPIC, gli abitanti del Bangladesh – dove il livello medio di esposizione alle polveri sottili è stimato in 74 μg/m3 – potrebbero guadagnare 6,8 anni di aspettativa di vita se la soglia di inquinamento fosse abbassata a 5 μg/m3, il livello raccomandato dall’Oms. La capitale indiana, Nuova Delhi, è la “megalopoli più inquinata del mondo“, con un livello medio annuo di 126,5 μg/m3. La Cina, invece, ha “compiuto notevoli progressi nella lotta all’inquinamento atmosferico” iniziata nel 2014, ha dichiarato all’AFP Christa Hasenkopf, direttore dei programmi sulla qualità dell’aria dell’EPIC. L’inquinamento atmosferico medio nel Paese è diminuito del 42,3% tra il 2013 e il 2021, ma rimane sei volte superiore alla soglia raccomandata dall’Oms. Se questi progressi continueranno nel tempo, la popolazione cinese dovrebbe guadagnare in media 2,2 anni di aspettativa di vita, secondo l’EPIC.

Nel complesso, però, le regioni del mondo più esposte all’inquinamento atmosferico sono quelle che ricevono meno risorse per combattere questo rischio, osserva il rapporto. “C’è una profonda discrepanza tra i luoghi in cui l’aria è più inquinata e quelli in cui vengono impiegate più risorse a livello collettivo e globale per risolvere questo problema“, spiega Christa Hasenkopf. Mentre esistono meccanismi internazionali per combattere l’HIV, la malaria e la tubercolosi, come il Fondo Globale, che impiega 4 miliardi di dollari all’anno per combattere queste malattie, non esiste un equivalente per l’inquinamento atmosferico. “Eppure, l’inquinamento atmosferico riduce l’aspettativa di vita media di una persona nella RDC (Repubblica Democratica del Congo) e in Camerun più dell’HIV, della malaria e di altre malattie“, sottolinea il rapporto.

Negli Stati Uniti, il programma federale Clean Air Act ha contribuito a ridurre l’inquinamento atmosferico del 64,9% dal 1970, aumentando l’aspettativa di vita media degli americani di 1,4 anni. In Europa, il miglioramento della qualità dell’aria negli ultimi decenni ha seguito la stessa tendenza degli Stati Uniti, ma ci sono ancora grandi disparità tra l’est e l’ovest del continente. Tutti questi sforzi sono minacciati, tra l’altro, dall’aumento del numero di incendi boschivi in tutto il mondo – causati dall’innalzamento delle temperature e da siccità più frequenti, legate ai cambiamenti climatici – che provocano picchi di inquinamento atmosferico. Nel 2021, ad esempio, la storica stagione degli incendi in California ha provocato un inquinamento atmosferico nella contea di Plumas pari a circa cinque volte la soglia raccomandata dall’Oms. I mega-incendi che hanno devastato il Canada nell’estate del 2023 hanno causato picchi di inquinamento in Quebec e Ontario e in diverse regioni degli Stati Uniti orientali.

Vivere vicino a spazi verdi ringiovanisce di due anni e mezzo

In città, parchi e spazi verdi aiutano sicuramente a ridurre il caldo e a favorire la biodiversità… ma permettono anche il rallentamento dell’invecchiamento cellulare: secondo uno studio pubblicato su Science Advances, le persone che vivono vicino alle aree verdi sono in media biologicamente più giovani rispetto agli altri di almeno due anni e mezzo. “Vivere vicino al verde può aiutare a sembrare più giovane“, ha spiegato Kyeezu Kim, l’autore principale dello studio, borsista post-dottorato alla facoltà di medicina dell’Università Northwestern. “Riteniamo che i nostri risultati abbiano importanti implicazioni per la pianificazione urbana nell’espansione delle infrastrutture verdi, nella promozione della salute pubblica e nella riduzione delle disparità di salute“, ha aggiunto.

In precedenza, era già stato stabilito un legame tra l’esposizione agli spazi verdi e una migliore salute cardiovascolare, nonché tassi di mortalità inferiori. I ricercatori ritenevano che l’attività fisica e le interazioni sociali legate alla frequenza al parco avessero un ruolo in questa scoperta. Ma non era chiaro se i parchi stessi rallentassero l’invecchiamento cellulare. Il team incaricato dello studio pubblicato mercoledì ha quindi esaminato le modificazioni chimiche del Dna, o “metilazione“.

Precedenti lavori hanno dimostrato che gli “orologi epigenetici” basati sulla metilazione del Dna possono prevedere problemi di salute come malattie cardiovascolari, cancro o funzioni cognitive compromesse, e rappresentano un modo più accurato per misurare la salute dell’età rispetto agli anni solari. Kyeezu Kim e i suoi colleghi hanno seguito più di 900 persone, di origini caucasiche e negroide, provenienti da quattro città americane (Birmingham, Chicago, Minneapolis e Oakland) in 20 anni, dal 1986 al 2006. Utilizzando immagini satellitari, il team ha misurato la distanza tra gli indirizzi dei partecipanti e i parchi, e ha studiato i campioni di sangue prelevati al quindicesimo e poi al ventesimo anno dello studio per determinarne l’età biologica. I ricercatori hanno quindi costruito modelli scientifici per valutare i risultati e hanno preso in considerazione le variabili che potrebbero averli influenzati come l’istruzione, il reddito, il fumo o meno: hanno quindi scoperto che le persone le cui case erano circondate dal 30% di verde entro un raggio di tre miglia erano in media biologicamente più giovani di 2,5 anni rispetto a quelle le cui case erano circondate dal 20% di verde.

Ma i vantaggi non erano gli stessi per tutti: le persone di colore che vivevano vicino a spazi verdi avevano solo un anno in meno della loro età, mentre i bianchi avevano tre anni in meno. “Altri fattori come lo stress, la qualità degli spazi verdi circostanti e altri fattori sociali possono influenzare l’entità dei benefici degli spazi verdi in termini di età biologica“, ha affermato Kyeezu Kim, aggiungendo che queste disparità dovrebbero essere oggetto di una ricerca più ampia. Ad esempio, è probabile che i parchi situati in quartieri svantaggiati e utilizzati per attività illegali siano meno frequentati e quindi meno vantaggiosi. Quindi, la ricerca futura potrebbe esaminare il legame tra spazi verdi e specifiche conseguenze sulla salute, ha affermato. Inoltre, non è chiaro come il verde riduca l’invecchiamento, ha aggiunto, “sappiamo solo che l’impatto esiste“.

Carruba (Centro studi obesità): “Tornare alla dieta mediterranea, la più sana e salubre”

La nostra tradizione alimentare, che è la dieta mediterranea, ci ha protetti fino a oggi. Quindi gli adulti sono più protetti rispetto agli altri Paesi d’Europa, abbiamo meno obesità. Ma non è più così per i bambini, perché questa tradizione si sta interrompendo. Oggi stiamo perdendo le nostre abitudini alimentari e questo ci porta a orrori alimentari che hanno un impatto sulla salute notevole. Noi dobbiamo tornare alla dieta mediterranea che ha dimostrato di essere in assoluto, a livello mondiale, la più sana e salubre. Oggi stiamo perdendo questa abitudine, la gente pensa di mangiar bene ma non sa, perché nessuno glielo insegna”. Così Michele Carruba, presidente Centro studi e ricerche sull’obesità, a margine dell’evento ‘Il nuovo approccio europeo alla salute e le ricadute per il sistema italiano’ organizzato da Withub a Roma.

 

Carruba, intervenuto durante il panel ‘Benessere fisico, mentale, alimentazione e sport: l’Ue punta sulla prevenzione e la salubrità mentale’, aggiunge: “Oggi abbiamo nel reparto adulti una popolazione che per la metà è o sovrappeso o obesa. Per quanto riguarda i bambini, uno su tre è sovrappeso e uno su quattro obeso. Abbiamo una generazione che avrà più obesità di quella attuale. Un bambino obeso ha l’80% di possibilità di rimanerlo da adulti. Il problema è che l’obesità non è vissuta come una malattia e affrontata e curata, ma è vissuta come un problema estetico. La carenza di una presenza della sanità pubblica su questo argomento fa sì che i falsi profeti delle diete si inventino le cose più impensate perché la gente chiede di dimagrire non per stare meglio ma per sentirsi più bella”.

 

L’obesità crea tutta una serie di patologie: il 90% dei casi di diabete sono legati all’obesità, il 55% delle cardiopatie, il 35% dei tumori. Prevenire l’obesità significa ridurre queste malattie che costano. Significa risparmiare nella cura e nell’assistenza ai malati di tutte le patologie causate dall’obesità. Non fare niente costa più di fare qualcosa”, conclude.

Torresan (McFIT): “Fitness è farmaco naturale, portare Iva al 10% come per farmaci”

Lo Stato italiano dovrebbe incentivare le persone a praticare fitness e dovrebbe motivare le aziende a creare dei piani welfare. Io e altri colleghi abbiamo una posizione ben chiara e ci stiamo battendo per portare due azioni concrete: una è dare la possibilità ai cittadini di portare l’abbonamento alla palestra in detrazione fiscale in dichiarazione dei redditi, la seconda è portare l’Iva al 10% come per i farmaci. Perché di fatto il fitness è un farmaco naturale e se una popolazione è sana e in forma costerà anche meno alla spesa pubblica nazionale. Dunque è un vantaggio per tutti”. Così Luca Torresan, direttore marketing e comunicazione McFIT Italia a margine dell’evento ‘Il nuovo approccio europeo alla salute e le ricadute per il sistema italiano’ organizzato da Withub a Roma.

 

Per Torresan, che ha preso parte al panel ‘Benessere fisico, mentale, alimentazione e sport: l’Ue punta sulla prevenzione e la salubrità mentale’, “a livello europeo i Paesi nordici hanno il doppio della popolazione iscritta in palestra rispetto all’Italia. La Sv4ezia è al 35%, la Germania al 15%, l’Italia all’8%. Siamo indietro, c’è molto da fare. La nostra ambizione è di aumentare di un punto percentuale tramite l’espansione e l’acquisizione di nuovi abbonati”.

 

Per questo, McFIT sta “puntando molto sulla generazione Z, vogliamo che la palestra non sia solo un luogo dove fare allenamento ma che diventi un luogo di incontro e crescita per i giovani. Stiamo investendo per il futuro ma lo stiamo facendo nel presente”.

 

Ue, il nuovo approccio alla salute è integrato: ambiente centrale

Se sta bene il Pianeta, stiamo meglio anche noi, perché salute e ambiente sono facce della stessa medaglia. L’Unione europea l’ha capito bene, con l’approccio One Health. “Solo in Italia ci sono stati 70mila morti per inquinamento da polveri sottili nel 2020. Come legislatori e politici dobbiamo tener presente la grande sfida ambientale”, scandisce Beatrice Covassi, eurodeputata dem della commissione Itre (industria, ricerca ed energia) del Parlamento europeo. Ne ha parlato durante l’evento organizzato da Withub (con la direzione editoriale di Gea ed Eunews) ‘Il nuovo approccio europeo alla salute e le ricadute per il sistema italiano‘, a Roma, nella sede di Europa Experience – David Sassoli.

La salute va tutelata con una politica integrata“, le fa eco Maria Angela Danzì, eurodeputata pentastellata della commissione Envi (ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentare). La salute umana, sottolinea, va preservata “tutelando l’ambiente, l’alimentazione, lottando contro la povertà e il disagio sociale che aggravano alcune patologie, come quelle di natura mentale“, osserva. Tutto questo non si può fare se l’Europa non cambia fino in fondo “e sta cambiando“, garantisce l’eurodeputata. I temi ambientali sono diventati centrali, sottolinea, e “non sono riserva di alcune forze politiche“. “Solo l’Italia – ammette – non ha ancora la consapevolezza che la transizione ecologica vada affrontata in maniera strutturale con risorse e fondi sovrani europei”.

La nuova strategia ‘Farm to fork‘ ha in primo piano non solo il Pianeta, ma la nostra salute, ricorda Carlo Corazza, direttore dell’ufficio di collegamento dell’Europarlamento in Italia. “Alcune iniziative sono controverse, penso a Nutriscore ed etichettatura degli alcolici, ma il dibattito è aperto. Si sta ragionando su come si avrà una politica agricola che tutelerà sempre più la nostra salute. Così la strategia del Green Deal, come le politiche di tutela dell’ambiente, hanno al centro anche la salute delle persone”, conferma.

Salute è anche alimentazione. Su questo fronte, la tradizione italiana della dieta mediterranea è un vantaggio: “Ci ha protetti fino a oggi“, spiega Michele Carruba, presidente Centro studi e ricerche sull’obesità. Gli adulti sono più protetti rispetto agli altri Paesi d’Europa, con meno casi di obesità, ma non è più così per i bambini, avverte: “Questa tradizione si sta interrompendo. Oggi stiamo perdendo le nostre abitudini alimentari e questo ci porta a orrori alimentari che hanno un impatto sulla salute notevole“. Carruba esorta a tornare alla dieta mediterranea che ha dimostrato di essere in assoluto, a livello mondiale, “la più sana e salubre“: “La gente pensa di mangiar bene ma non sa, perché nessuno glielo insegna”.

Cruciale è passare dalle scuole: “Educare i bambini alla sana alimentazione è fondamentale”, ribadisce Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss. Oltre a questo, è la raccomandazione del professore, non bisogna trascurare le abitudini quotidiane: “Cose molto semplici come salire le scale a piedi o fare 30 minuti di camminata veloce sono semplici azioni di attività fisica da integrare nelle nostre abitudini di salute, a cui poi aggiungere l’attività sportiva“.

La Figc organizza progetti educativi nelle scuole, ma anche per i minori non accompagnati in cerca d’asilo, per i ragazzi con difficoltà cognitive, “sono progetti sociali straordinari“, racconta il segretario generale, Marco Brunelli. “La leva dello sport come educazione ai corretti stili di vita è una chiave fondamentale”, afferma. Secondo l’Ocse, oltre il 44% degli italiani non pratica adeguata attività fisica, siamo il 4° peggior Paese a livello Ocse. L’Italia non lo pratica e non investe neanche abbastanza nello sport. Pochi soldi, ma anche poche infrastrutture e pochi impianti sportivi. La quota di investimenti per rilanciare le infrastrutture all’interno del Pnrr è di un miliardo di euro circa, diviso tra scuole e impianti sportivi, appena lo 0,5 per cento dell’intero Piano, che conta quasi 200 miliardi di euro. Molti dei soggetti beneficiari del Pnrr, come regioni e enti locali, “si trovano di fronte a un aumento dei costi e si rischia di non completare le opere”, denuncia Giovanni Malagò, presidente del Coni, in un videomessaggio trasmesso nel corso dell’evento. Luca Torresan, direttore marketing e comunicazione di McFit Italia, si spinge a chiedere che lo Stato consideri l’attività sportiva come un “farmaco naturale” e in quanto tale preveda degli incentivi allo sport: “la detrazione fiscale dell’iscrizione in palestra e portare l’Iva al 10%”: “E’ inutile prenderci in giro, una popolazione in salute costa meno a tutti“.

L’Europa ha un potenziale problema nell’importazione di principi attivi per la produzione di medicinali

L’estate scorsa era capitato con lo sciroppo per bambini a base di ibuprofene. Introvabile nelle farmacie. Era il medicinale più consigliato contro i sintomi della variante Omicron – quindi richiestissimo – e per venire incontro al boom della domanda gli stessi farmacisti si erano dovuti attrezzare per preparare sul momento le formulazioni richieste. Quando si parla di carenza dei farmaci, le cause sono concatenate e molteplici. La corsa per fare scorte di medicinali legata al periodo di pandemia, le materie prime sempre più difficili da reperire. Di fatto oggi, in Italia, l’ostacolo principale (se si escludono dai dati Aifa i casi di cessata commercializzazione) è rappresentato da problemi produttivi. Anche per questo l’autonomia strategica nel settore farmaceutico è uno dei principali temi di discussione nell’Unione Europea, in cerca di una via per conservare reti globali di approvvigionamento e insieme ridurre ‘pericolose’ dipendenze dalle importazioni. “Avere una disponibilità di produttori di uno stesso medicinale o principio attivo – insomma – aiuterebbe molto”, spiega Paola Minghetti, professoressa alla facoltà di scienze del farmaco all’università degli Studi di Milano.

Da qui siamo partiti: con il team editoriale di GEA e insieme a I-Com, Istituto per la Competitività, abbiamo cercato di mostrare con l’aiuto dei numeri la dipendenza dell’Europa nell’importazione di medicinali e principi attivi. Il risultato? Abbiamo un potenziale problema nell’approvvigionamento di principi attivi, l’ingrediente fondamentale delle formule farmaceutiche.

Abbiamo selezionato un campione rappresentativo di 11 prodotti farmaceutici e 34 principi attivi importati dai Paesi dell’Ue, eliminando antibiotici e vaccini per evitare distorsioni su dati commerciali legati a picchi stagionali o pandemici. Per ognuno di loro abbiamo confrontato, grazie al database Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione europea, che raccoglie ed elabora dati provenienti dagli Stati membri dell’UE) il numero di Paesi esportatori, la percentuale di partner extra-Ue e le diverse quote di mercato. Incrociando tra loro questi dati, abbiamo potuto calcolare un indice di concentrazione, e capire così – a livello economico – per quali e quante categorie di farmaci la dipendenza da import sia potenzialmente vulnerabile. Cioè con poca diversificazione e quote sbilanciate. Secondo l’analisi, un terzo dei prodotti del campione è potenzialmente a rischio. E, a parte un caso isolato, si tratta sempre di principi attivi. Il risultato dell’analisi è visibile qui: https://geagency.it/farmacodipendenti/

L’IMPORTAZIONE DI PRINCIPI ATTIVI? POTENZIALMENTE A RISCHIO – Oggi più del 70% dei principi attivi di uso consolidato in Europa dipende, direttamente o indirettamente, da produzioni primarie in Cina o in India” spiega Carlo Riccini, vicedirettore Farmindustria e direttore del centro studi dell’associazione. “E il 45% dei farmaci commercializzati in Europa è prodotto fuori dall’Ue” aggiunge Michele Uda, direttore generale di Egualia, l’organo di rappresentanza dell’industria dei farmaci generici. L’importazione di principi attivi con elevato indice di concentrazione può quindi essere messa in difficoltà da diversi fattori, come crisi economiche o geopolitiche, aumento dell’inflazione, emergenza sanitaria ed elevata richiesta di prodotti e principi attivi legata alla stagionalità. “Il problema esiste: è reale e documentato”, conferma Uda, “ed è difficile valutare analiticamente la dipendenza dalla Cina nella catena di approvvigionamento. Infatti, oltre alla grande produzione di principi attivi in Cina, molti produttori importano da quel Paese anche principi attivi pre-purificati, Ksm o intermedi di sintesi”. Alcuni dati sono però certi: “La Cina detiene il 13% dei CEP, i certificati di conformità della Farmacopea UE e ospita il 26% dei produttori di principi attivi”. I problemi di approvvigionamento a livello globale, del resto, hanno interessato tutte le filiere industriali, compresa la farmaceutica, “che comunque li ha gestiti in modo molto efficace. Le imprese hanno fatto il massimo”, assicura Carlo Riccini. “Bisogna considerare che gli aumenti dei costi sono strutturali e la farmaceutica li ha assorbiti senza poi trasferirli sui prezzi dei farmaci rimborsabili, con gravi difficoltà per le condizioni operative delle aziende”. Rispetto a quanto accade nella maggior parte delle materie prime ad uso industriale, però, i principi attivi hanno un’importante differenza: possono essere fabbricati. La domanda nasce legittima: perché, allora, in Europa non si è investito, negli ultimi 20 anni, nella produzione massiccia di principi attivi?

UNA PRODUZIONE ‘MANCATA’. LE MOTIVAZIONI – Le ragioni di questa mancata produzione “sono essenzialmente economiche”, spiega Uda. Da un lato “la rigidità della tutela brevettuale europea, che ha impedito per lungo tempo la messa in produzione anticipata dei generici entro i confini dell’Ue in vista delle relative scadenze brevettuali”. Dall’altro, “una politica di progressiva riduzione della spesa farmaceutica dei Paesi europei, utilizzando principalmente lo strumento dei farmaci equivalenti e dei biosimilari per forzare i prezzi di rimborso al livello più basso possibile. La nostra industria ha reagito ottimizzando tutti i possibili costi soggetti a variabilità, lavorando at full capacity nei propri stabilimenti per incontrare questa necessità. Allo stesso tempo, però, molte produzioni di principi attivi e di prodotti finiti si sono spostate fuori dai confini dell’Ue”, rendendoci così molto più dipendenti di prima. “Servirebbero politiche complessivamente attrattive”, continua Carlo Riccini, “anche per i prodotti finiti e non solo per i principi attivi. Per esempio, bisognerebbe garantire un finanziamento adeguato, una gestione della spesa compatibile con la presenza industriale e incentivi agli investimenti”. È poi da considerare un elemento in più. “Di tutta la filiera, la componente potenzialmente più inquinante è proprio la produzione di principi attivi” puntualizza la professoressa Paola Minghetti. “I farmaci prodotti in molti Paesi fuori dall’Europa hanno costi più bassi, ma con una qualità assolutamente assimilabile alla nostra. I costi più contenuti sono probabilmente dovuti a normative meno rigide sulla tutela ambientale e degli operatori”.

UN RESHORING POSSIBILE, MA DIFFICILE – Anche per questo, un ritorno della produzione in Europa, per essere competitivo, dovrà passare da meccanismi premianti. “Un reshoring – ovvero il riportare la produzione nel Paese d’origine – è molto difficile da realizzare, senza un cambio della normativa europea sugli aiuti di Stato e di passo nelle politiche di acquisto dei farmaci al massimo ribasso vigenti in tutta l’Unione”, conclude Michele Uda. Anche perché, nei prossimi decenni, l’Europa dovrà recuperare terreno sia nei confronti dei Paesi asiatici che degli USA: in entrambi i casi, i Governi hanno messo sul piatto miliardi di risorse pubbliche. E, come ricorda Riccini, “dobbiamo essere veloci nell’adottare strategie di sistema. Nelle giuste condizioni, l’industria è pronta a investire ancora”.

L’Ue verso nuova strategia farmaceutica tra sostenibilità e innovazione

Una riforma e sei obiettivi chiave. Dall’accesso ai medicinali a prezzi bassi, all’innovazione e la sostenibilità dell’industria farmaceutica, passando per un quadro normativo a prova di crisi. Dopo averne a lungo rimandato la presentazione (era attesa entro fine 2022), la Commissione europea dovrebbe svelare la prossima settimana la sua proposta di revisione della legislazione farmaceutica, uno dei pilastri per la costruzione di un’Unione europea con più competenze in materia di sanità.

Ad anticipare quali saranno le sfide a cui questa revisione cercherà di rispondere è stata la commissaria Ue alla Salute, Stella Kyriakides, confermando nelle scorse settimane che una delle priorità della strategia sarà ridurre l’impatto ambientale dell’industria del pharma. A detta di Bruxelles, valutazioni del rischio ambientale saranno parte integrante dei dossier di autorizzazione dei nuovi farmaci. Già nella strategia farmaceutica presentata a novembre 2020, una parte del piano d’azione è dedicato proprio all’ambizione di far contribuire l’industria farmaceutica all’obiettivo “inquinamento zero” per un ambiente privo di sostanze tossiche, in particolare attraverso l’impatto delle sostanze farmaceutiche sull’ambiente.

La strategia farmaceutica europea sarà uno dei temi che verranno trattati durante l’evento ‘Il nuovo approccio europeo alla salute e le ricadute per il sistema italiano’, organizzato da Withub, con la direzione editoriale di GEA ed Eunews, che si svolgerà a Roma, presso l’Europa Experience David Sassoli, il prossimo 13 aprile.

La strategia farmaceutica apre la strada all’industria per contribuire alla neutralità climatica dell’Ue, con particolare attenzione alla riduzione delle emissioni di gas serra lungo la catena del valore. Tra gli altri pilastri della revisione, Bruxelles vuole garantire che tutti gli europei possano accedere a farmaci innovativi quando ne hanno bisogno. Mentre ora – prende atto la Commissione – la realtà è quella di un mercato interno frammentato in cui i medicinali non raggiungono i pazienti abbastanza rapidamente e non in tutti gli Stati membri allo stesso momento. Poi, la comunicazione prevederà incentivi all’innovazione, per migliorare la competitività del comparto. E ancora, la riforma cercherà di affrontare la sfida della carenza di medicinali, che negli ultimi mesi ha attanagliato l’Europa da una parte a causa del forte aumento della domanda di medicinali a causa di più infezioni respiratorie, dall’altra una capacità produttiva insufficiente. Ci saranno obblighi più severi in materia di approvvigionamento e trasparenza delle scorte. Carenze e ritiri dovranno essere comunicati in anticipo e l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) avrà un ruolo più incisivo nel coordinare le azioni contro le carenze.

L’ultimo punto sarà come combattere la resistenza antimicrobica, che secondo Bruxelles fa attualmente più di 35mila vittime all’anno. La revisione dovrebbe includere misure sia per stimolare nuovi prodotti antimicrobici, sia per un uso più prudente. Poi ancora uno spazio nella riforma sarà garantito alla semplificazione, modernizzazione normativa e digitalizzazione. Un contesto normativo più snello per gli investimenti con procedure di autorizzazione all’immissione in commercio semplificate e più rapide, un sostegno più forte per i farmaci promettenti e un migliore utilizzo dei dati e della digitalizzazione.

L’approccio One Health: l’unione tra salute umana, animale e ambientale

‘One Health’, ovvero una sola salute per gli umani, gli animali e l’ambiente. L’approccio olistico che vede salute umana, animale e dell’ecosistema che ci circonda legate indissolubilmente, è diventato centrale nelle politiche internazionali in materia di salute pubblica in particolare dopo lo scoppio della pandemia Covid-19. L’idea esisteva già da prima che il Coronavirus invadesse le nostre società: nel 2017, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definiva ‘One Health’ come un approccio integrato per l’attuazione di programmi, scelte politiche e ricerca “in cui più settori comunicano e lavorano insieme per ottenere risultati migliori in materia di salute pubblica”, dalla sicurezza alimentare al controllo delle malattie che possono diffondersi tra animali ed esseri umani (le zoonosi), come l’influenza e la rabbia, passando anche dalla lotta alla resistenza dei batteri agli antibiotici (la cosiddetta resistenza antimicrobica).

Dallo scoppio della pandemia Covid-19 è diventato più urgente tradurre questo concetto astratto in azioni concrete e strumenti tangibili per prevenire problemi di salute pubblica. La scienza stima che, dopo quella del coronavirus, il 70% delle future pandemie deriverà da malattie zoonotiche, ovvero infezioni che possono essere trasmesse direttamente o indirettamente tra animali e l’uomo. Così come uomini e animali possono essere infettati dagli stessi microbi, dal momento che condividono gli stessi ecosistemi. Da qui l’imperativo di comprendere meglio i legami che esistono tra salute umana, animale e anche ambientale, dal momento che far convergere gli sforzi in un solo settore può non essere risolutivo per la prevenzione di malattie che rischiano di mettere in pericolo la salute globale. Intervenendo sul controllo delle malattie degli animali, si può ad esempio limitare anche la loro trasmissibilità all’uomo. Ma c’è anche una forte componente legata all’ambiente e alla salute dell’ecosistema che ci circonda. Ad esempio, proprio nel caso del Covid-19, si ritiene che la sopravvivenza e trasmissibilità del virus siano state influenzate anche da altri fattori legati al clima, come le temperature e l’umidità, oltre che dalle caratteristiche del virus stesso. Inoltre, secondo vari esperti, gli agenti ambientali e atmosferici sono stati fattori che hanno favorito lo sviluppo della pandemia, soprattutto nei primi mesi del 2020 e nelle aree più esposte a inquinamento urbano e industriale.

Un approccio multisettoriale ai problemi di salute pubblica è un “must-have” per la salute globale futura, lo definiva tempo fa il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nel pieno di un’ondata dei contagi nel Continente europeo. Bruxelles, così come le organizzazioni internazionali dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) alla Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e anche i singoli Paesi hanno sposato l’approccio ‘One Health’ e intendono metterlo al centro delle politiche di salute pubblica per essere più efficaci nel prevenire e controllare le malattie che si diffondono tra animali e umani. L’Italia ha fissato l’impegno per una piena attuazione del principio nel suo piano strategico 2021-2023 presentato dall’Istituto Superiore di Sanità per “promuovere la crescita della capacità multidisciplinare necessaria per le sfide sanitarie complesse a livello nazionale e internazionale”.

inquinamento

Laghi (Isde): “Intervenire su cause smog, a rischio esistenza umana”

La visione olistica del ‘One Health’, un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse, è antica e attuale. Si basa sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute del Pianeta siano legate indissolubilmente. Negli ultimi anni, però, le morti per fattori ambientali restituiscono dati impietosi. Ferdinando Laghi, vicepresidente dell’Isde, riflette con GEA di quanto sia importante spostare l’attenzione sulla salute dell’uomo, quando si parla di clima: “Bisognerebbe segnalare come in realtà il Pianeta sta campando benissimo da 4 miliardi e mezzo di anni e noi siamo arrivati solo recentemente. La terrà vivrà si stima altri 5 miliardi di anni. Il problema è la persistenza della razza umana sul pianeta Terra. L’obiettivo di questi interventi non è il Pianeta, ma siamo noi“.

Qualità dell’aria, dell’acqua, l’uso di pesticidi e fertilizzanti sono correlati allo stato di salute dell’uomo?

“Sono assolutamente un elemento centrale per le malattie. Il sistema sanitario influisce sulla nostra salute intorno al 15%, tutto il resto dipende da geni, abitudini alimentari, dal livello sociale ed economico. Per l’Oms un quarto delle malattie degli adulti dipende da esposizioni ambientali, un terzo dei bambini sotto i 5 anni che si ammala, si ammala per esposizioni ambientali prevenibili. Dobbiamo aprire gli occhi, anche le malattie neuro-degenerative possono dipendere da un inquinamento ambientale”.

Come affrontare il problema?

“Noi abbiamo una medicina che insegue diagnosi e terapie, non fa prevenzione. Parliamo di screening oncologici come fosse prevenzione, non è prevenzione, ma diagnosi precoce. La prevenzione primaria è evitare che un uomo o una donna si ammalino. Dato che la qualità di aria, dell’acqua e del suolo sono determinanti importantissimi, ecco che tutela della salute significa tutela del Pianeta. Bisogna intervenire sulle cause dell’inquinamento. Ridurre l’utilizzo di fossili o biomasse per l’energia, bisogna spostarsi verso un’energia da fonti rinnovabili. Ripensare complessivamente la produzione di cibo. Bisogna bonificare, i limiti di legge riguardano ogni singolo agente, ma la vita che facciamo ci espone all’effetto cocktail. La risposta non è agganciarci ai limiti di legge, ma tenere il più basso possibile il limite di legge”.

Il Sistema sanitario sta andando in direzione giusta?

Bisogna fare attenzione al regionalismo differenziato: per l’aspetto sanitario creerà una via di non ritorno per una diseguaglianza di cure per i cittadini. Il Covid ha dimostrato che il regionalismo non è efficace nel combattere grandi epidemie. Ha dimostrato come bisognerebbe tornare al Sistema Sanitario Nazionale”.

A proposito di Covid, per i dati esponenzialmente più alti in Lombardia, quanto ha influito l’inquinamento dell’aria in Pianura Padana?

“Tanto. La Pianura Padana è uno dei posti più inquinati al mondo per ragioni orografiche e antropiche. Lo stesso si è verificato in Cina e negli Stati Uniti. Non sono voci, studi lo hanno dimostrato. Il dibattito si è attestato sui motivi: qualcuno ha ipotizzato che il particolato fine potesse fungere da carrier e aumentare la permanenza in aria del virus. Altri hanno sostenuto l’ipotesi che la situazione respiratoria degli abitanti di quelle zone fosse peggiore in partenza, perché vivevano in zone molto inquinate”.

Mercato integratori alimentari in crescita: la filiera guarda alla sostenibilità

Prodotti alimentari destinati ad integrare la comune dieta e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive, quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, in particolare ma non in via esclusiva aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di origine vegetale, sia monocomposti che pluricomposti, in forme predosate“. Questa la definizione degli integratori alimentari contenuta nel decreto legislativo n. 169 del 21 maggio 2004, testo che rappresenta la normativa di riferimento in Italia su questo tema e che ha dato attuazione alla direttiva europea n. 46 del 2002. Gli integratori costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o di sostanze e hanno la funzione di complementare la dieta, non di sostituire il cibo. Sono disponibili sotto forma di tavolette, compresse o gocce, da assumere in quantità misurate per ottimizzarne l’effetto e rispondere al meglio a esigenze nutrizionali precise o a condizioni fisiologiche particolari. Si tratta di prodotti che, pur non essendo catalogati come farmaci, devono rispondere a precisi criteri in materia di composizione e di dosi massime di assunzione. Proprio per garantire massima trasparenza e sicurezza ai consumatori, tutti gli integratori alimentari che finiscono sul mercato devono essere dotati di una specifica etichettatura contenente varie informazioni: i nomi delle categorie di sostanze nutritive o sostanze che caratterizzano il prodotto o un’indicazione della natura di tali sostanze o sostanze nutritive; la porzione di prodotto consigliata per il consumo quotidiano; l’avvertimento di non superare la dose quotidiana definita come raccomandabile; la raccomandazione di non usare gli integratori alimentari come sostituti di una dieta varia; la raccomandazione di tenere i prodotti fuori dalla portata dei bambini. Inoltre, l’immissione in commercio di ogni integratore alimentare è subordinata alla procedura di notifica al Ministero della Salute che ne valuta la conformità alle normative in materia.

BENEFICI PER IL BENESSERE. A sottolineare l’importanza di un corretto utilizzo degli integratori alimentari per il benessere dell’organismo è FederSalus (Associazione Nazionale Produttori e Distributori di Prodotti Salutistici), associazione nata nel 1999 e confluita di recente all’interno di Integratori & Salute, realtà che fa parte dell’Unione Italiana Food (Confindustria). La principale funzione degli integratori è quella di prevenzione primaria: aiutare a superare stadi temporanei di disagio riducendo il ricorso ai farmaci. In tal senso, questi prodotti possono anche contribuire a una riduzione della spesa del sistema sanitario nazionale. L’utilità degli integratori è suffragata da numerosi studi clinici e pubblicazioni scientifiche riconosciuti dall’Agenzia per la sicurezza alimentare europea (EFSA). Attenzione però: il ricorso agli integratori non può sopperire ai danni causati da un’alimentazione eccessiva, basata su alimenti non sani e non equilibrata, così come non può sostituire uno stile di vite salutare e privo di fattori nocivi come ad esempio fumo e alcol. Altro punto fondamentale è la consapevolezza: l’assunzione di integratori non deve mai superare le dosi giornaliere massime indicate sull’etichetta (se non prescritte dal proprio medico), seguendo le modalità di consumo specificate. Utili i consigli dei professionisti: secondo uno studio Censis del 2019, in Italia il 47% dei casi l’utilizzo degli integratori alimentari è supportato dalle indicazioni di un almeno uno tra medico generico, specialista, o farmacista.

MERCATO IN CRESCITA. Il mercato mondiale degli integratori alimentari mostra un trend di crescita notevole. Secondo i dati elaborati nel 2021 da Intesa Sanpaolo, il giro d’affari globale è passato dai 21 miliardi di dollari del 2007 ai 45 del 2019, con un balzo del 113% in poco più di un decennio. Simile la dinamica in Italia, dove, secondo i numeri forniti da FederSalus, nel 2014 il settore valeva circa 2,3 miliardi di euro ed è salito a quasi 3,9 miliardi nel 2020, con un tasso di crescita media annua dell’8,2%. Il nostro è di gran lunga il mercato più sviluppato in Europa: vale il 29% del totale, seguito da Germania (19%) e Francia (9%). E le prospettive per l’Italia appaiono rosee: secondo l’Area Studi di Mediobanca, il giro d’affari arriverà a sfiorare i 5 miliardi di euro nel 2025. Da quali canali passa la vendita degli integratori alimentari nel nostro Paese? I dati di FederSalus mostrano che la parte del leone è svolta dalle farmacie con il 79% del valore totale, cui si aggiunge l’8% legato alle parafarmacie. Minoritario il ruolo ricoperto dalla grande distribuzione (8%) e dall’e-commerce (5%). Tra i prodotti più acquistati figurano ai primi posti vitamine e minerali (746 milioni di euro nel 2020), quelli per il benessere gastro-intestinale (413) e i probiotici (387).

FILIERA ITALIANA AL TOP. Italia in primo piano anche per quanto riguarda la filiera produttiva, piazzandosi all’ottavo posto mondiale per esportazioni (dati 2019) con un valore di 1,25 miliardi di euro. Buona è stata anche la resilienza davanti alla sfida della pandemia: nel 2020 il calo delle esportazioni è stato contenuto al 4,2% a fronte del 9,7% fatto segnare dall’intero Belpaese, tornando peraltro ai livelli pre-Covid già nel corso del primo trimestre 2021. A caratterizzare il comparto, che dà lavoro a circa 22mila addetti, è l’attenzione alla sostenibilità. Secondo la recente indagine ‘Aggiornamenti sull’impatto della pandemia da Covid-19 sul mercato’ a cura del Centro Studi Integratori & Salute, la sostenibilità è ritenuta un tema cruciale per l’84% delle aziende, mentre oltre una su due (52%) pensa che questo tema avrà un ruolo sempre più rilevante in futuro. Nel 2021 l’impegno in tal senso ha riguardato diverse azioni di responsabilità sociale e riduzione dell’impatto ambientale: investimenti a livello di packaging (27%), sicurezza e salute dei dipendenti (24%), processo produttivo (16%), materie prime (16%) e welfare aziendale (15%). Rilevante anche l’attenzione alle nuove tecnologie: in questo campo al primo posto tra gli investimenti compare l’integrazione e lo sviluppo digitale dei processi aziendali (43%), seguita dagli strumenti digitali per la gestione delle informazioni medico-scientifica (28%) e dall’internet delle cose e delle macchine (20%). “Nel processo di sviluppo, le aziende sono consapevoli che dovranno tener conto anche di nuove sfide determinate da: emergenza ambientale, espansione dei processi di digitalizzazione, e-commerce ed evoluzione della comunicazione sempre più proiettata all’omnicanalità – ha commentato Germano Scarpa, presidente di Integratori & Salute -. La nostra filiera si è mostrata resiliente e in salute, evidenziando dinamiche positive nel fatturato, nella produzione in generale, nell’occupazione e negli investimenti, in particolare in ambito digitale”.