L’Europa ha un potenziale problema nell’importazione di principi attivi per la produzione di medicinali

L’estate scorsa era capitato con lo sciroppo per bambini a base di ibuprofene. Introvabile nelle farmacie. Era il medicinale più consigliato contro i sintomi della variante Omicron – quindi richiestissimo – e per venire incontro al boom della domanda gli stessi farmacisti si erano dovuti attrezzare per preparare sul momento le formulazioni richieste. Quando si parla di carenza dei farmaci, le cause sono concatenate e molteplici. La corsa per fare scorte di medicinali legata al periodo di pandemia, le materie prime sempre più difficili da reperire. Di fatto oggi, in Italia, l’ostacolo principale (se si escludono dai dati Aifa i casi di cessata commercializzazione) è rappresentato da problemi produttivi. Anche per questo l’autonomia strategica nel settore farmaceutico è uno dei principali temi di discussione nell’Unione Europea, in cerca di una via per conservare reti globali di approvvigionamento e insieme ridurre ‘pericolose’ dipendenze dalle importazioni. “Avere una disponibilità di produttori di uno stesso medicinale o principio attivo – insomma – aiuterebbe molto”, spiega Paola Minghetti, professoressa alla facoltà di scienze del farmaco all’università degli Studi di Milano.

Da qui siamo partiti: con il team editoriale di GEA e insieme a I-Com, Istituto per la Competitività, abbiamo cercato di mostrare con l’aiuto dei numeri la dipendenza dell’Europa nell’importazione di medicinali e principi attivi. Il risultato? Abbiamo un potenziale problema nell’approvvigionamento di principi attivi, l’ingrediente fondamentale delle formule farmaceutiche.

Abbiamo selezionato un campione rappresentativo di 11 prodotti farmaceutici e 34 principi attivi importati dai Paesi dell’Ue, eliminando antibiotici e vaccini per evitare distorsioni su dati commerciali legati a picchi stagionali o pandemici. Per ognuno di loro abbiamo confrontato, grazie al database Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione europea, che raccoglie ed elabora dati provenienti dagli Stati membri dell’UE) il numero di Paesi esportatori, la percentuale di partner extra-Ue e le diverse quote di mercato. Incrociando tra loro questi dati, abbiamo potuto calcolare un indice di concentrazione, e capire così – a livello economico – per quali e quante categorie di farmaci la dipendenza da import sia potenzialmente vulnerabile. Cioè con poca diversificazione e quote sbilanciate. Secondo l’analisi, un terzo dei prodotti del campione è potenzialmente a rischio. E, a parte un caso isolato, si tratta sempre di principi attivi. Il risultato dell’analisi è visibile qui: https://geagency.it/farmacodipendenti/

L’IMPORTAZIONE DI PRINCIPI ATTIVI? POTENZIALMENTE A RISCHIO – Oggi più del 70% dei principi attivi di uso consolidato in Europa dipende, direttamente o indirettamente, da produzioni primarie in Cina o in India” spiega Carlo Riccini, vicedirettore Farmindustria e direttore del centro studi dell’associazione. “E il 45% dei farmaci commercializzati in Europa è prodotto fuori dall’Ue” aggiunge Michele Uda, direttore generale di Egualia, l’organo di rappresentanza dell’industria dei farmaci generici. L’importazione di principi attivi con elevato indice di concentrazione può quindi essere messa in difficoltà da diversi fattori, come crisi economiche o geopolitiche, aumento dell’inflazione, emergenza sanitaria ed elevata richiesta di prodotti e principi attivi legata alla stagionalità. “Il problema esiste: è reale e documentato”, conferma Uda, “ed è difficile valutare analiticamente la dipendenza dalla Cina nella catena di approvvigionamento. Infatti, oltre alla grande produzione di principi attivi in Cina, molti produttori importano da quel Paese anche principi attivi pre-purificati, Ksm o intermedi di sintesi”. Alcuni dati sono però certi: “La Cina detiene il 13% dei CEP, i certificati di conformità della Farmacopea UE e ospita il 26% dei produttori di principi attivi”. I problemi di approvvigionamento a livello globale, del resto, hanno interessato tutte le filiere industriali, compresa la farmaceutica, “che comunque li ha gestiti in modo molto efficace. Le imprese hanno fatto il massimo”, assicura Carlo Riccini. “Bisogna considerare che gli aumenti dei costi sono strutturali e la farmaceutica li ha assorbiti senza poi trasferirli sui prezzi dei farmaci rimborsabili, con gravi difficoltà per le condizioni operative delle aziende”. Rispetto a quanto accade nella maggior parte delle materie prime ad uso industriale, però, i principi attivi hanno un’importante differenza: possono essere fabbricati. La domanda nasce legittima: perché, allora, in Europa non si è investito, negli ultimi 20 anni, nella produzione massiccia di principi attivi?

UNA PRODUZIONE ‘MANCATA’. LE MOTIVAZIONI – Le ragioni di questa mancata produzione “sono essenzialmente economiche”, spiega Uda. Da un lato “la rigidità della tutela brevettuale europea, che ha impedito per lungo tempo la messa in produzione anticipata dei generici entro i confini dell’Ue in vista delle relative scadenze brevettuali”. Dall’altro, “una politica di progressiva riduzione della spesa farmaceutica dei Paesi europei, utilizzando principalmente lo strumento dei farmaci equivalenti e dei biosimilari per forzare i prezzi di rimborso al livello più basso possibile. La nostra industria ha reagito ottimizzando tutti i possibili costi soggetti a variabilità, lavorando at full capacity nei propri stabilimenti per incontrare questa necessità. Allo stesso tempo, però, molte produzioni di principi attivi e di prodotti finiti si sono spostate fuori dai confini dell’Ue”, rendendoci così molto più dipendenti di prima. “Servirebbero politiche complessivamente attrattive”, continua Carlo Riccini, “anche per i prodotti finiti e non solo per i principi attivi. Per esempio, bisognerebbe garantire un finanziamento adeguato, una gestione della spesa compatibile con la presenza industriale e incentivi agli investimenti”. È poi da considerare un elemento in più. “Di tutta la filiera, la componente potenzialmente più inquinante è proprio la produzione di principi attivi” puntualizza la professoressa Paola Minghetti. “I farmaci prodotti in molti Paesi fuori dall’Europa hanno costi più bassi, ma con una qualità assolutamente assimilabile alla nostra. I costi più contenuti sono probabilmente dovuti a normative meno rigide sulla tutela ambientale e degli operatori”.

UN RESHORING POSSIBILE, MA DIFFICILE – Anche per questo, un ritorno della produzione in Europa, per essere competitivo, dovrà passare da meccanismi premianti. “Un reshoring – ovvero il riportare la produzione nel Paese d’origine – è molto difficile da realizzare, senza un cambio della normativa europea sugli aiuti di Stato e di passo nelle politiche di acquisto dei farmaci al massimo ribasso vigenti in tutta l’Unione”, conclude Michele Uda. Anche perché, nei prossimi decenni, l’Europa dovrà recuperare terreno sia nei confronti dei Paesi asiatici che degli USA: in entrambi i casi, i Governi hanno messo sul piatto miliardi di risorse pubbliche. E, come ricorda Riccini, “dobbiamo essere veloci nell’adottare strategie di sistema. Nelle giuste condizioni, l’industria è pronta a investire ancora”.

L’Ue verso nuova strategia farmaceutica tra sostenibilità e innovazione

Una riforma e sei obiettivi chiave. Dall’accesso ai medicinali a prezzi bassi, all’innovazione e la sostenibilità dell’industria farmaceutica, passando per un quadro normativo a prova di crisi. Dopo averne a lungo rimandato la presentazione (era attesa entro fine 2022), la Commissione europea dovrebbe svelare la prossima settimana la sua proposta di revisione della legislazione farmaceutica, uno dei pilastri per la costruzione di un’Unione europea con più competenze in materia di sanità.

Ad anticipare quali saranno le sfide a cui questa revisione cercherà di rispondere è stata la commissaria Ue alla Salute, Stella Kyriakides, confermando nelle scorse settimane che una delle priorità della strategia sarà ridurre l’impatto ambientale dell’industria del pharma. A detta di Bruxelles, valutazioni del rischio ambientale saranno parte integrante dei dossier di autorizzazione dei nuovi farmaci. Già nella strategia farmaceutica presentata a novembre 2020, una parte del piano d’azione è dedicato proprio all’ambizione di far contribuire l’industria farmaceutica all’obiettivo “inquinamento zero” per un ambiente privo di sostanze tossiche, in particolare attraverso l’impatto delle sostanze farmaceutiche sull’ambiente.

La strategia farmaceutica europea sarà uno dei temi che verranno trattati durante l’evento ‘Il nuovo approccio europeo alla salute e le ricadute per il sistema italiano’, organizzato da Withub, con la direzione editoriale di GEA ed Eunews, che si svolgerà a Roma, presso l’Europa Experience David Sassoli, il prossimo 13 aprile.

La strategia farmaceutica apre la strada all’industria per contribuire alla neutralità climatica dell’Ue, con particolare attenzione alla riduzione delle emissioni di gas serra lungo la catena del valore. Tra gli altri pilastri della revisione, Bruxelles vuole garantire che tutti gli europei possano accedere a farmaci innovativi quando ne hanno bisogno. Mentre ora – prende atto la Commissione – la realtà è quella di un mercato interno frammentato in cui i medicinali non raggiungono i pazienti abbastanza rapidamente e non in tutti gli Stati membri allo stesso momento. Poi, la comunicazione prevederà incentivi all’innovazione, per migliorare la competitività del comparto. E ancora, la riforma cercherà di affrontare la sfida della carenza di medicinali, che negli ultimi mesi ha attanagliato l’Europa da una parte a causa del forte aumento della domanda di medicinali a causa di più infezioni respiratorie, dall’altra una capacità produttiva insufficiente. Ci saranno obblighi più severi in materia di approvvigionamento e trasparenza delle scorte. Carenze e ritiri dovranno essere comunicati in anticipo e l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) avrà un ruolo più incisivo nel coordinare le azioni contro le carenze.

L’ultimo punto sarà come combattere la resistenza antimicrobica, che secondo Bruxelles fa attualmente più di 35mila vittime all’anno. La revisione dovrebbe includere misure sia per stimolare nuovi prodotti antimicrobici, sia per un uso più prudente. Poi ancora uno spazio nella riforma sarà garantito alla semplificazione, modernizzazione normativa e digitalizzazione. Un contesto normativo più snello per gli investimenti con procedure di autorizzazione all’immissione in commercio semplificate e più rapide, un sostegno più forte per i farmaci promettenti e un migliore utilizzo dei dati e della digitalizzazione.

L’approccio One Health: l’unione tra salute umana, animale e ambientale

‘One Health’, ovvero una sola salute per gli umani, gli animali e l’ambiente. L’approccio olistico che vede salute umana, animale e dell’ecosistema che ci circonda legate indissolubilmente, è diventato centrale nelle politiche internazionali in materia di salute pubblica in particolare dopo lo scoppio della pandemia Covid-19. L’idea esisteva già da prima che il Coronavirus invadesse le nostre società: nel 2017, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definiva ‘One Health’ come un approccio integrato per l’attuazione di programmi, scelte politiche e ricerca “in cui più settori comunicano e lavorano insieme per ottenere risultati migliori in materia di salute pubblica”, dalla sicurezza alimentare al controllo delle malattie che possono diffondersi tra animali ed esseri umani (le zoonosi), come l’influenza e la rabbia, passando anche dalla lotta alla resistenza dei batteri agli antibiotici (la cosiddetta resistenza antimicrobica).

Dallo scoppio della pandemia Covid-19 è diventato più urgente tradurre questo concetto astratto in azioni concrete e strumenti tangibili per prevenire problemi di salute pubblica. La scienza stima che, dopo quella del coronavirus, il 70% delle future pandemie deriverà da malattie zoonotiche, ovvero infezioni che possono essere trasmesse direttamente o indirettamente tra animali e l’uomo. Così come uomini e animali possono essere infettati dagli stessi microbi, dal momento che condividono gli stessi ecosistemi. Da qui l’imperativo di comprendere meglio i legami che esistono tra salute umana, animale e anche ambientale, dal momento che far convergere gli sforzi in un solo settore può non essere risolutivo per la prevenzione di malattie che rischiano di mettere in pericolo la salute globale. Intervenendo sul controllo delle malattie degli animali, si può ad esempio limitare anche la loro trasmissibilità all’uomo. Ma c’è anche una forte componente legata all’ambiente e alla salute dell’ecosistema che ci circonda. Ad esempio, proprio nel caso del Covid-19, si ritiene che la sopravvivenza e trasmissibilità del virus siano state influenzate anche da altri fattori legati al clima, come le temperature e l’umidità, oltre che dalle caratteristiche del virus stesso. Inoltre, secondo vari esperti, gli agenti ambientali e atmosferici sono stati fattori che hanno favorito lo sviluppo della pandemia, soprattutto nei primi mesi del 2020 e nelle aree più esposte a inquinamento urbano e industriale.

Un approccio multisettoriale ai problemi di salute pubblica è un “must-have” per la salute globale futura, lo definiva tempo fa il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nel pieno di un’ondata dei contagi nel Continente europeo. Bruxelles, così come le organizzazioni internazionali dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) alla Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e anche i singoli Paesi hanno sposato l’approccio ‘One Health’ e intendono metterlo al centro delle politiche di salute pubblica per essere più efficaci nel prevenire e controllare le malattie che si diffondono tra animali e umani. L’Italia ha fissato l’impegno per una piena attuazione del principio nel suo piano strategico 2021-2023 presentato dall’Istituto Superiore di Sanità per “promuovere la crescita della capacità multidisciplinare necessaria per le sfide sanitarie complesse a livello nazionale e internazionale”.

inquinamento

Laghi (Isde): “Intervenire su cause smog, a rischio esistenza umana”

La visione olistica del ‘One Health’, un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse, è antica e attuale. Si basa sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute del Pianeta siano legate indissolubilmente. Negli ultimi anni, però, le morti per fattori ambientali restituiscono dati impietosi. Ferdinando Laghi, vicepresidente dell’Isde, riflette con GEA di quanto sia importante spostare l’attenzione sulla salute dell’uomo, quando si parla di clima: “Bisognerebbe segnalare come in realtà il Pianeta sta campando benissimo da 4 miliardi e mezzo di anni e noi siamo arrivati solo recentemente. La terrà vivrà si stima altri 5 miliardi di anni. Il problema è la persistenza della razza umana sul pianeta Terra. L’obiettivo di questi interventi non è il Pianeta, ma siamo noi“.

Qualità dell’aria, dell’acqua, l’uso di pesticidi e fertilizzanti sono correlati allo stato di salute dell’uomo?

“Sono assolutamente un elemento centrale per le malattie. Il sistema sanitario influisce sulla nostra salute intorno al 15%, tutto il resto dipende da geni, abitudini alimentari, dal livello sociale ed economico. Per l’Oms un quarto delle malattie degli adulti dipende da esposizioni ambientali, un terzo dei bambini sotto i 5 anni che si ammala, si ammala per esposizioni ambientali prevenibili. Dobbiamo aprire gli occhi, anche le malattie neuro-degenerative possono dipendere da un inquinamento ambientale”.

Come affrontare il problema?

“Noi abbiamo una medicina che insegue diagnosi e terapie, non fa prevenzione. Parliamo di screening oncologici come fosse prevenzione, non è prevenzione, ma diagnosi precoce. La prevenzione primaria è evitare che un uomo o una donna si ammalino. Dato che la qualità di aria, dell’acqua e del suolo sono determinanti importantissimi, ecco che tutela della salute significa tutela del Pianeta. Bisogna intervenire sulle cause dell’inquinamento. Ridurre l’utilizzo di fossili o biomasse per l’energia, bisogna spostarsi verso un’energia da fonti rinnovabili. Ripensare complessivamente la produzione di cibo. Bisogna bonificare, i limiti di legge riguardano ogni singolo agente, ma la vita che facciamo ci espone all’effetto cocktail. La risposta non è agganciarci ai limiti di legge, ma tenere il più basso possibile il limite di legge”.

Il Sistema sanitario sta andando in direzione giusta?

Bisogna fare attenzione al regionalismo differenziato: per l’aspetto sanitario creerà una via di non ritorno per una diseguaglianza di cure per i cittadini. Il Covid ha dimostrato che il regionalismo non è efficace nel combattere grandi epidemie. Ha dimostrato come bisognerebbe tornare al Sistema Sanitario Nazionale”.

A proposito di Covid, per i dati esponenzialmente più alti in Lombardia, quanto ha influito l’inquinamento dell’aria in Pianura Padana?

“Tanto. La Pianura Padana è uno dei posti più inquinati al mondo per ragioni orografiche e antropiche. Lo stesso si è verificato in Cina e negli Stati Uniti. Non sono voci, studi lo hanno dimostrato. Il dibattito si è attestato sui motivi: qualcuno ha ipotizzato che il particolato fine potesse fungere da carrier e aumentare la permanenza in aria del virus. Altri hanno sostenuto l’ipotesi che la situazione respiratoria degli abitanti di quelle zone fosse peggiore in partenza, perché vivevano in zone molto inquinate”.

Mercato integratori alimentari in crescita: la filiera guarda alla sostenibilità

Prodotti alimentari destinati ad integrare la comune dieta e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive, quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, in particolare ma non in via esclusiva aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di origine vegetale, sia monocomposti che pluricomposti, in forme predosate“. Questa la definizione degli integratori alimentari contenuta nel decreto legislativo n. 169 del 21 maggio 2004, testo che rappresenta la normativa di riferimento in Italia su questo tema e che ha dato attuazione alla direttiva europea n. 46 del 2002. Gli integratori costituiscono una fonte concentrata di nutrienti o di sostanze e hanno la funzione di complementare la dieta, non di sostituire il cibo. Sono disponibili sotto forma di tavolette, compresse o gocce, da assumere in quantità misurate per ottimizzarne l’effetto e rispondere al meglio a esigenze nutrizionali precise o a condizioni fisiologiche particolari. Si tratta di prodotti che, pur non essendo catalogati come farmaci, devono rispondere a precisi criteri in materia di composizione e di dosi massime di assunzione. Proprio per garantire massima trasparenza e sicurezza ai consumatori, tutti gli integratori alimentari che finiscono sul mercato devono essere dotati di una specifica etichettatura contenente varie informazioni: i nomi delle categorie di sostanze nutritive o sostanze che caratterizzano il prodotto o un’indicazione della natura di tali sostanze o sostanze nutritive; la porzione di prodotto consigliata per il consumo quotidiano; l’avvertimento di non superare la dose quotidiana definita come raccomandabile; la raccomandazione di non usare gli integratori alimentari come sostituti di una dieta varia; la raccomandazione di tenere i prodotti fuori dalla portata dei bambini. Inoltre, l’immissione in commercio di ogni integratore alimentare è subordinata alla procedura di notifica al Ministero della Salute che ne valuta la conformità alle normative in materia.

BENEFICI PER IL BENESSERE. A sottolineare l’importanza di un corretto utilizzo degli integratori alimentari per il benessere dell’organismo è FederSalus (Associazione Nazionale Produttori e Distributori di Prodotti Salutistici), associazione nata nel 1999 e confluita di recente all’interno di Integratori & Salute, realtà che fa parte dell’Unione Italiana Food (Confindustria). La principale funzione degli integratori è quella di prevenzione primaria: aiutare a superare stadi temporanei di disagio riducendo il ricorso ai farmaci. In tal senso, questi prodotti possono anche contribuire a una riduzione della spesa del sistema sanitario nazionale. L’utilità degli integratori è suffragata da numerosi studi clinici e pubblicazioni scientifiche riconosciuti dall’Agenzia per la sicurezza alimentare europea (EFSA). Attenzione però: il ricorso agli integratori non può sopperire ai danni causati da un’alimentazione eccessiva, basata su alimenti non sani e non equilibrata, così come non può sostituire uno stile di vite salutare e privo di fattori nocivi come ad esempio fumo e alcol. Altro punto fondamentale è la consapevolezza: l’assunzione di integratori non deve mai superare le dosi giornaliere massime indicate sull’etichetta (se non prescritte dal proprio medico), seguendo le modalità di consumo specificate. Utili i consigli dei professionisti: secondo uno studio Censis del 2019, in Italia il 47% dei casi l’utilizzo degli integratori alimentari è supportato dalle indicazioni di un almeno uno tra medico generico, specialista, o farmacista.

MERCATO IN CRESCITA. Il mercato mondiale degli integratori alimentari mostra un trend di crescita notevole. Secondo i dati elaborati nel 2021 da Intesa Sanpaolo, il giro d’affari globale è passato dai 21 miliardi di dollari del 2007 ai 45 del 2019, con un balzo del 113% in poco più di un decennio. Simile la dinamica in Italia, dove, secondo i numeri forniti da FederSalus, nel 2014 il settore valeva circa 2,3 miliardi di euro ed è salito a quasi 3,9 miliardi nel 2020, con un tasso di crescita media annua dell’8,2%. Il nostro è di gran lunga il mercato più sviluppato in Europa: vale il 29% del totale, seguito da Germania (19%) e Francia (9%). E le prospettive per l’Italia appaiono rosee: secondo l’Area Studi di Mediobanca, il giro d’affari arriverà a sfiorare i 5 miliardi di euro nel 2025. Da quali canali passa la vendita degli integratori alimentari nel nostro Paese? I dati di FederSalus mostrano che la parte del leone è svolta dalle farmacie con il 79% del valore totale, cui si aggiunge l’8% legato alle parafarmacie. Minoritario il ruolo ricoperto dalla grande distribuzione (8%) e dall’e-commerce (5%). Tra i prodotti più acquistati figurano ai primi posti vitamine e minerali (746 milioni di euro nel 2020), quelli per il benessere gastro-intestinale (413) e i probiotici (387).

FILIERA ITALIANA AL TOP. Italia in primo piano anche per quanto riguarda la filiera produttiva, piazzandosi all’ottavo posto mondiale per esportazioni (dati 2019) con un valore di 1,25 miliardi di euro. Buona è stata anche la resilienza davanti alla sfida della pandemia: nel 2020 il calo delle esportazioni è stato contenuto al 4,2% a fronte del 9,7% fatto segnare dall’intero Belpaese, tornando peraltro ai livelli pre-Covid già nel corso del primo trimestre 2021. A caratterizzare il comparto, che dà lavoro a circa 22mila addetti, è l’attenzione alla sostenibilità. Secondo la recente indagine ‘Aggiornamenti sull’impatto della pandemia da Covid-19 sul mercato’ a cura del Centro Studi Integratori & Salute, la sostenibilità è ritenuta un tema cruciale per l’84% delle aziende, mentre oltre una su due (52%) pensa che questo tema avrà un ruolo sempre più rilevante in futuro. Nel 2021 l’impegno in tal senso ha riguardato diverse azioni di responsabilità sociale e riduzione dell’impatto ambientale: investimenti a livello di packaging (27%), sicurezza e salute dei dipendenti (24%), processo produttivo (16%), materie prime (16%) e welfare aziendale (15%). Rilevante anche l’attenzione alle nuove tecnologie: in questo campo al primo posto tra gli investimenti compare l’integrazione e lo sviluppo digitale dei processi aziendali (43%), seguita dagli strumenti digitali per la gestione delle informazioni medico-scientifica (28%) e dall’internet delle cose e delle macchine (20%). “Nel processo di sviluppo, le aziende sono consapevoli che dovranno tener conto anche di nuove sfide determinate da: emergenza ambientale, espansione dei processi di digitalizzazione, e-commerce ed evoluzione della comunicazione sempre più proiettata all’omnicanalità – ha commentato Germano Scarpa, presidente di Integratori & Salute -. La nostra filiera si è mostrata resiliente e in salute, evidenziando dinamiche positive nel fatturato, nella produzione in generale, nell’occupazione e negli investimenti, in particolare in ambito digitale”.

Regioni, Governo e imprese alle prese con il payback sanitario

Governo, Regioni e imprese del settore della sanità sono alle prese con la grana del ‘payback sanitario’, un sistema introdotto per i dispositivi medici con la legge di Bilancio 2015 (e più volte modificato) che prevede che, in caso di sforamento del tetto della spesa sanitaria da parte di una regione, una parte della spesa in eccesso venga rimborsata dalle imprese fornitrici (payback significa infatti ‘restituzione’). Questo in analogia con il meccanismo del payback già in vigore per la spesa farmaceutica (introdotto dalla legge di Bilancio 2007).

Il sistema del payback è stato pensato dai diversi governi proprio per contenere la spesa sanitaria nazionale, coinvolgendo gli attori principali, vale a dire le imprese fornitrici di mezzi e servizi, ma queste non ci stanno, anche perché, solo per i dispositivi medici, si parla di un esborso di oltre due miliardi di euro (per gli anni 2015-2018; sarebbero invece 3,6 aggiungendo gli anni 2019-2020). Le aziende che negli anni hanno partecipato a gare regionali in cui sono stati definiti prezzi e quantità, dopo quasi 10 anni si sono viste chiedere di contribuire al 50% dello sforamento della spesa regionale, con conseguenze drammatiche per un settore che conta in Italia 4.546 imprese e occupa 112.534 addetti.

Ai primi dell’anno 2023 le rappresentanze collegate a Confindustria Dispositivi Medici (DM) hanno contestato il meccanismo e il presidente di Confindustria DM, Massimiliano Boggetti, ha dichiarato che se le Regioni continueranno a bandire gare la cui somma dei valori aggiudicati supera il fondo sanitario a disposizione, e se il Governo non aumenterà le risorse destinate alla sanità, non saranno le imprese dei dispositivi medici a potersi far carico degli sforamenti di spesa pubblica.

Il 10 gennaio è arrivata una boccata di ossigeno per le aziende del settore, ma si è tradotto solo in un rinvio: con un decreto legge il Consiglio dei ministri ha infatti disposto che le aziende fornitrici di dispositivi medici dovranno adempiere all’obbligo di ripiano del superamento del tetto di spesa posto a loro carico per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, effettuando i versamenti in favore delle singole regioni e province, entro il 30 aprile 2023 invece che entro il 31 gennaio come originariamente previsto.

Ma il problema appunto resta. Secondo Fifo Sanità, la federazione italiana fornitori ospedalieri aderente a Confcommercio-Imprese per l’Italia, se la norma del payback resterà in vigore, porterà al rischio concreto di un’imminente mancanza di dispositivi medici negli ospedali e comprometterà l’intera tenuta del settore. Fifo ha quindi stimato lo sforamento della spesa sanitaria e relativo payback da parte delle aziende, per gli anni dal 2015 al 2020 e le cifre sono impressionanti. Solo per fare un esempio: nel 2015 il tetto di spesa doveva essere 4,8 miliardi di euro, ma è salito di circa un miliardo arrivando a una spesa effettiva di 5,7 miliardi di euro. Di questo miliardo in più, circa la metà (416 milioni) dovrà essere coperta dalle imprese sanitarie. Venendo invece al 2020, anno del Covid, il tetto di spesa era fissato a 5,2 miliardi di euro, salito a 6,8 miliardi. A carico delle aziende quindi ci sarebbero dunque 821 milioni di euro da pagare.

Come Federazione che rappresenta le piccole e medie imprese della Sanità – ha dichiarato il presidente di Fifo, Massimo Riem sul sito di confcommercio.it – siamo assolutamente d’accordo a perseguire una spesa pubblica razionale e oculata. Ma questo obiettivo non può passare per una deresponsabilizzazione degli amministratori e un tracollo del tessuto delle pmi italiane. Con l’attuazione del payback centinaia di aziende saranno costrette a chiudere, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Le imprese non saranno più in grado di fornire dispositivi medici, a presto ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”. “Chiediamo la cancellazione di questa norma – ha concluso Riem – che è inapplicabile e chiediamo l’apertura di un tavolo di discussione con il governo“.

Altroconsumo: “Il consumo moderato di vino non è esente da rischi, è giusto informare”

Le bottiglie di vino vendute in Irlanda tra qualche anno cambieranno etichetta per fare spazio a un’avvertenza sui rischi legati al consumo di alcol, simile a quella già presente sui pacchetti delle sigarette. L’abuso di alcol in Irlanda è una vera emergenza, con circa il 70% degli uomini e il 34% delle donne definiti “bevitori a rischio” (fonte: Alcohol Action Ireland). Stando alle indagini compiute dalla Commissione europea, l’alcol è direttamente collegato alla contrazione di gravi malattie, compresi diversi tipi di tumore. Così, insieme agli ingredienti e ai valori nutrizionali – obbligatoriamente presenti sui prodotti alcolici del mercato unico europeo – l’Irlanda ha deciso di inserire in etichetta anche avvertenze sanitarie, in modo da scoraggiare il consumo di alcol in gravidanza e, più in generale, nella vita di tutti i giorni. Si tratta di una misura destinata a essere applicata unicamente entro i confini di questo paese che però ha destato allarme tra i produttori di vino italiani. Per Coldiretti la nuova etichettatura potrebbe costituire un pericoloso precedente, mentre l’Associazione degli agricoltori teme che questo tipo di avvertenze potrebbe compromettere il mercato di esportazione del vino italiano che vanta un fatturato di circa 8 miliardi di euro l’anno.

La questione è oggetto di acceso dibattito. In Italia e in tutta l’Unione Europea le etichette dei vini contengono già una serie di informazioni utili a garantire la salute dei consumatori. “Su ogni vino deve essere specificata la categoria”, spiega Federico Cavallo di Altroconsumo. “Sulle bottiglie DOC (Denominazione di Origine Controllata) e DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita) le etichette devono indicare se si tratta di un vino spumante o liquoroso”. Altre indicazioni obbligatorie sono la quantità espressa in centilitri, la gradazione alcolica e cioè il cosiddetto ‘titolo alcolometrico’, la percentuale di alcol calcolata su 100 ml di vino. Sulle etichette apposte sui vini italiani ed europei, inoltre, ci sono anche avvertimenti su alcuni rischi per la salute. “Viene segnalata la presenza di solfiti e di altre sostanze potenzialmente allergiche, come latte e uova”. Talvolta, infatti, la lavorazione dei vini prevede l’impiego di albumine e caseine che servono a eliminare le impurità, ma che poi vengono rimosse. Insieme a tutte queste informazioni, nelle etichette incollate sulle bottiglie di vino oggi troviamo anche l’annata (che è obbligatorio specificare sulle DOC e le DOCG), gli eventuali dati relativi all’importatore e, negli spumanti, il tenore di zucchero, indicato con scritte come ‘Brut’, ‘Dry’ o ‘Extradry’. Esistono poi diciture facoltative destinate a fornire ulteriori dettagli sul vino: ne sono un esempio le parole ‘riserva’ oppure ‘superiore’ e ‘classico’.

Le etichette del vino messe in commercio in Europa contengono, insomma, una buona quantità di informazioni. Perché, allora, Paesi come l’Irlanda sentono l’urgenza di aggiungerne altre? Il consumo di alcol è davvero dannoso per la nostra salute? “L’iniziativa irlandese nasce per rispondere a una specifica esigenza locale di contrasto ai fenomeni di abuso. In linea generale, da tempo sappiamo che l’uso di alcol è correlato allo sviluppo di malattie, come dimostrano numerosi studi condotti sulla popolazione mondiale, e che questi rischi aumentano in modo proporzionale all’utilizzo. È quindi comprensibile che, specie là dove ci sono più problemi legati agli eccessi, ci si interroghi su come sensibilizzare le persone sui rischi correlati”, puntualizza il rappresentante di Altroconsumo. “Non conoscendo nel dettaglio la realtà irlandese, è giusto lasciare a decisori e consumatori di quel Paese valutare se la proposta sia adeguata o meno, rispetto al contesto che vivono e agli scopi che si propone”.

Altri paesi potrebbero decidere di inserire qualche avvertenza sulle etichette degli alcolici, ma questo è oggetto di dibattito all’interno della Ue. “L’efficacia di ogni strumento spesso dipende da molti fattori legati anche agli specifici contesti nazionali”, prosegue Federico Cavallo. “La cosa più importante, se vogliamo fare un buon servizio ai consumatori, è quindi portare avanti il confronto nel merito, con ragionevolezza ed equilibrio da parte di tutti gli attori coinvolti, evitando quindi eccessive semplificazioni, contrapposizioni strumentali o facili scorciatoie, le quali rischiano di confondere, anziché chiarire, il messaggio che arriva alle persone. In questo caso, quindi, dobbiamo tutti lavorare affinché la discussione sui ‘mezzi’ non rischi di far perdere di vista i ‘fini’”.

Alla fine quello che conta davvero è la salute dei consumatori. Bere alcol fa male anche se assunto in piccole quantità? “Il rischio zero non esiste e non si può pensare a usi totalmente esenti da danni”. Il cosiddetto ‘consumo moderato’, catalogato come 2 unità alcoliche (2 bicchieri di vino o due lattine di birra) al giorno per gli uomini e una per le donne e gli anziani pare sempre correlato a un rischio, seppure catalogato come ‘basso’. “Esattamente: per esempio, se in passato si diceva che uno o due bicchieri non fanno male, i dati di oggi ci dicono che anche se il pericolo di contrarre malattie non è elevato, tuttavia permane. L’importante, ripeto, è conoscere queste informazioni a prescindere dal fatto che siano o non siano richiamate in qualche etichetta, e farne uso libero e consapevole nelle proprie scelte quotidiane”.

Dati che sembrano in qualche modo scontrarsi con l’opinione popolare che vuole, per esempio, che il vino rosso aiuti a mantenere bassi i livelli di colesterolo ‘cattivo’: è noto il cosiddetto ‘paradosso francese’, che vede i cittadini d’Oltralpe mantenere buoni tassi di colesterolo nel sangue nonostante l’elevato uso di burro e grassi in cucina e questo, si dice, grazie a un parallelo consumo di vino rosso. “In realtà non si può considerare un solo aspetto alla volta, magari attribuendogli supposti benefici per via di credenze consolidate: la buona salute è il risultato generale di molti comportamenti virtuosi”, specifica Cavallo. “Il ‘paradosso’, infatti, si risolve quando si osserva che chi fa un uso moderato di alcol spesso ha un comportamento moderato anche su altri fronti, come quello della tavola o del fumo, e questo ha delle ricadute positive sullo stato di salute, a prescindere da quanto si beve. La chiave del benessere risiede in uno stile di vita sano ed equilibrato in tutti i suoi aspetti, consumo di alcol compreso”.

Fondamentale è essere pienamente consapevoli delle proprie scelte. “Certamente. Come per le sigarette, le informazioni al consumatore sono importanti ma – bene ribadirlo – ancora più importante è la consapevolezza e il comportamento individuale. Per questo, serve innanzitutto una buona educazione all’informazione e al consumo responsabile: in primis a vantaggio dei più giovani, spesso esposti a una gran mole di messaggi pubblicitari, ma anche a beneficio di tutti noi”.

Quando sano è anche buono. Il concetto innovativo dello ‘snack salutistico’

Sano ma buono. Senza contraddizioni. I nuovi trend di alimentazione, ed i nuovi prodotti sfornati da aziende virtuose, hanno sfatato un mito. “Era necessario sfatare il mito – spiega Simona Fiorentini, Export Manager di Fiorentini Alimentari, intervistata a War Room da Monica Satriano – che impedisce di coniugare insieme buon gusto e salute in termini di alimentazione. Il concetto si snack salutistico nasce appunto per questo. L’idea di snack – spiega – nella mente delle persone è normalmente legato a qualcosa di buono ma di poco sano. Viceversa l’idea di salute (in termini di cibo), è associata a qualcosa che fa bene ma non è buono. Lo snack salutistico lo abbiamo voluto per rompere gli schemi perché è buono, contrariamente non viene messo in produzione, ma al contempo molto sano. Il gusto insomma diventa ingrediente fondamentale del prodotto salutistico e/ o dietetico”.

Filippini (Sanofi): Da Pnrr grande opportunità, avanti con Digital health

Il Pnrr è una opportunità che non può andare persa, neanche per la farmaceutica. Fulvia Filippini, Country Public Affairs Head di Sanofi, spera che nulla sia lasciato al caso: “Con i suoi quasi 200 miliardi è una occasione unica in Europa e l’investimento che l’Italia ha fatto è veramente significativo anche rispetto ai principali Paesi europei“, osserva con GEA, a margine dell’evento ‘Pandemie, strategia farmaceutica e transizione ecologica’ a Roma.

 

Si riferisce, in particolare, alle missioni 4 (Istruzione e Ricerca) e 6 (Salute), che arrivano in un momento di grande trasformazione del sistema: “Un’azienda come la nostra vuole essere parte di questo cambiamento“, garantisce. La parola chiave è ‘partnership‘, non dimenticando gli insegnamenti lasciati dalla pandemia. Anche in Italia ci sono progetti strategici, “penso al progetto Ipcei – spiega – e le aziende sono qui per coglierle“. C’è da migliorare, “soprattutto sul funding e sui tempi della burocrazia, ma servono nuove collaborazioni per la riorganizzazione dell’health care“.

 

La farmaceutica non vuole mancare all’appuntamento con il cambiamento e muove dalle “collaborazioni internazionali“: “Ci sono tantissime partnership, in particolare per l’area della Digital health“, sfera sulla quale il colosso francese si sta impegnando in prima linea. “In Italia ci sono progetti interessanti, ad esempio per ottimizzare il percorso del paziente in alcune aree terapeutiche“, ricorda Filippini. Del rapporto con le istituzioni, parla durante all’evento organizzato da Gea ed Eunews: “Lavoriamo per rafforzare l’ecosistema dell’innovazione in Europa e in Italia”, ribadisce. Per questo, investire nella salute diventa fondamentale non soltanto per i pazienti, ma per l’intero sistema Paese: “E’ un ambito che ha un impatto evidente sull’economia”. L’essenziale, ancora una volta, è “lavorare tutti insieme, con diversi interlocutori, non trascurando la partnership pubblico-privato”.