Tornare alla natura attraverso il cibo ‘buono, pulito e giusto’: a Torino al via Terra Madre

Quando diventa merce, quando entra nella logica del consumo e del profitto, il cibo fa male: alla salute, all’ambiente, al clima. Responsabile del 35% delle emissioni di gas-serra, il sistema alimentare consuma buona parte dell’acqua dolce disponibile, inquina terra, acqua, aria, distrugge la biodiversità. Spreca un terzo di quel che produce e alimenta filiere ingiuste, che in nome del guadagno, tollerano fame, miseria, sfruttamento, schiavitù, morti sul lavoro. Un sistema in cui perdono quasi tutti a vantaggio di pochissimi. Ma c’è un’altra storia, ed è quella che si vuole raccontare a Terra Madre 2024. Ed è la storia del cibo come nutrimento, cultura, convivialità. Come elemento potente che riconduce alla terra, al suolo, all’acqua. Alla natura. Il tutto, immaginando nuovi modelli di agricoltura sostenibile, analizzando i pericoli dei cambiamenti climatici per la pesca e raccontando le battaglie dei guardiani della Terra ai quattro angoli del pianeta.

Da domani, fino a lunedì 30 settembre, va in scena a Torino la quindicesima edizione di Terra Madre Salone del Gusto. Sempre la stessa la stella polare: il cibo “buono, pulito e giusto“, come da manifesto visionario del fondatore di Slow Food Carlo Petrini.  Quest’anno il claim sarà ‘We Are Nature’ per porre l’accento sulla necessità di una nuova relazione con la natura, attraverso il cibo, l’elemento più potente che ci riconduce alla terra. “A Terra Madre parliamo di natura in relazione alla biodiversità, al clima, alle città, all’agricoltura, all’allevamento e la pastorizia, a boschi e foreste, al ruolo delle donne e dei giovani, al sapere delle popolazioni indigene, all’educazione, alla salute, alla coscienza individuale, persino all’intelligenza artificiale”, ha spiegato Barbara Nappini, Presidente di Slow Food Italia.

Circa tremila i delegati, tra contadini, artigiani, pescatori, indigeni e cuochi, provenienti da 120 Paesi, che si danno appuntamento a Torino per raccontare le loro storie, confrontarsi con esperti e colleghi sulle difficoltà ed eventuali opportunità, conoscere e imparare.  180 presìdi Slow Food (un terzo in più rispetto a due anni fa), 900 appuntamenti e 700 espositori al Mercato italiano e internazionale. Circa 12 mila pasti in tutto, realizzati a partire dai prodotti offerti da Coop.

Tornano ovviamente le conferenze e incontri, da sempre il fil rouge per approfondire i grandi temi, grazie agli interventi di ricercatori, esperti e produttori, che si terranno in tre aree. Quella dedicata a Joannah Stutchbury, ambientalista e attivista, impegnata da anni per difendere le foreste del Kenya, uccisa nel 2021 proprio per il suo lavoro, ospita un programma di incontri focalizzati sulla relazione tra natura e differenti ambiti – clima, coscienza, educazione, donne, biodiversità – e tocca temi di attualità – come la giustizia lungo la filiera del cibo – affrontati da personaggi noti in Italia e all’estero. Tra questi, Michele Serra, giornalista, scrittore e autore che, dopo il suo monologo, dialoga con il pubblico presente; il drammaturgo e compositore, Moni Ovadia; Miguel Altieri, dal Cile, coordinatore generale del programma dell’agricoltura sostenibile delle Nazioni Unite; Federico Faggin, uno dei padri della Silicon Valley che sarà a Terra Madre per parlare di rapporto fra natura e coscienza, insieme al teologo Vito Mancuso; Lella Costa, che ci accompagnerà alla scoperta delle lezioni di meraviglia di Rachel Carson, Morgan Ody, dalla Francia, coordinatrice generale di La Via Campesina International; Larissa Mies Bombardi, ricercatrice brasiliana oggi costretta all’esilio per i suoi studi sui pesticidi, Elena Granata, una della maggiori urbaniste italiane, che approfondirà il rapporto fra le città e lo sguardo delle donne, e Filippo Giorgi, esperto internazionale nel campo della modellistica del clima, dello studio dei cambiamenti climatici e dei loro impatti sulla società, unico scienziato italiano nell’esecutivo dell’IPPC, Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, premiato con il Nobel per la Pace nel 2007.

L’Arena in ricordo di Sergio Staino, disegnatore, fumettista, giornalista e attento osservatore del nostro tempo, apre il suo programma con l’omaggio a Staino di Paolo Hendel e continua con Francesca Santolini, autrice di Ecofascisti, con Giorgio Vacchiano, nominato dalla rivista Nature tra gli 11 migliori scienziati emergenti nel mondo che stanno lasciando il segno nella scienza, e molti altri. L’Arena Staino guarda alla natura attraverso il racconto delle reti tematiche di Slow Food, gli esempi virtuosi di allevatori che hanno aderito alla campagna Allevare rispettando gli animali e la terra si può, e l’impatto di pratiche intensive e cambiamento climatico sulla pesca e sulle Comunità di Slow Fish. Non solo, si racconta anche il percorso dei progetti di Slow Food a tutela della biodiversità: l’evoluzione dei Presìdi Slow Food; le storie di cuoche e cuochi che fanno parte dell’Alleanza Slow Food, come Laho Lengos, da Taiwan, e Jennifer Rodriguez Rojas, dalla Colombia, e la crescita dell’Arca del Gusto, che dal 1999 ha catalogato patrimonio di 6350 prodotti a rischio di estinzione.

Ma Terra Madre è anche il luogo dove succedono cose… altrove impensabili, dalle dimostrazioni di cucito e di rammendo alle lezioni di pasta fresca nello spazio Slow Food; dalle installazioni artistiche a Parco Dora, organizzate con Paratissima e il contributo della Fondazione Compagnia di SanPaolo all’assaggio del miglior miele millefiori, fino alla passeggiata tra le piante commestibili e officinali con l’etnobotanica Linda Black Elk .

Slow Food: “Le carni sintetiche sono l’affare del futuro”

Carne sintetica, farina di grilli e larve. Secondo chi sta sperimentando i cosiddetti ‘novel food’, quelli cioè o inventati in laboratorio o a base di insetti, sono il cibo del futuro. E lo sarebbero per il suo valore etico, visto che eviterebbero la macellazione di animali, nel caso della carne, ma anche ambientale, perché consentirebbero di fare a meno degli allevamenti. Etica e ambiente ne accompagnano la narrazione, soprattutto negli Stati Uniti. E ora anche in Europa: la Commissione Ue ha infatti autorizzato l’immissione nel mercato europeo di vermi della farina e dell’uso alimentare del grillo domestico in polvere. Per quanto riguarda la carne sintetica, la direzione sembrerebbe quella di approvarne la vendita, a patto che si rispettino gli standard nutrizionali.

Ma, a ben guardare, “sembra più l’affare del futuro per un bel po’ di gruppi finanziari e multinazionali. Il rischio evidente è che il cibo, diventato una commodity, una merce di scambio sui grandi mercati internazionali come tante altre, diventi oggetto di una deriva tecnologica che lo priva di qualunque significato culturale, del legame con i territori e con le comunità che ci vivono, con i loro saperi e tradizioni”. È quanto dichiara Barbara Nappini (nella foto), presidente di Slow Food Italia. Per l’associazione fondata da Carlo Petrini, infatti, sotto il profilo ambientale l’impatto della carne sintetica è tutt’altro che indifferente, per via dei grandi consumi energetici dei bioreattori necessari alla sua produzione. “Un dato importante, ma non sufficientemente rilevato, – spiega Nappini – è che i prodotti a base di carne coltivata sono iperprocessati, contengono coloranti, aromatizzanti, addensanti, necessari per conferire loro la forma di hamburger o crocchetta, per dare consistenza e sapore di carne. La carne è sviluppata grazie a ormoni e lieviti ogm. Come del resto i sostituti della carne a base vegetale, già sul mercato anche in Italia”.

Secondo la filosofia di Slow Food il futuro di una produzione alimentare buona, pulita e giusta per tutti sta in una scelta più consapevole delle proteine da portare in tavola. Ad esempio, ridurre i consumi di carne e privilegiare, in alternativa alle carni da allevamenti industriali, prodotti di aziende sostenibili dove gli animali sono allevati con rispetto. Oppure, la riduzione nel consumo di carne può essere compensata con legumi da coltivazioni che rispettano la terra e non con la soia proveniente da altri continenti. “Non c’è bisogno di altri sostituti altamente processati”, continua Nappini che solleva il tema dei finanziatori del settore della carne sintetica. “Alcuni di questi sono le stesse multinazionali responsabili dei danni prodotti dal sistema agroalimentare e zootecnico negli ultimi decenni – spiega. – Tra i finanziatori della ricerca sulla carne in vitro ci sono ad esempio anche Cargill e Tyson Foods. Come evitare che questo nuovo mercato sia occupato e controllato da potenti corporations? A breve la UE affronterà decisioni analoghe e i consumatori dovranno essere tutelati”.

In questo senso SlowFood chiede trasparenza in etichetta perché “è lo strumento più importante a disposizione dei consumatori per sapere cosa mettono nel carrello e fa parte di questo principio non consentire l’uso di termini fuorvianti”. “Se vengono definiti in etichetta i prodotti da agricoltura cellulare con termini quali “carne” o “hamburger” o “bistecca”, la confusione sul mercato sarà totale”, continua Nappini. Già nel 2020 Slow Food aveva realizzato la ricerca ‘I sostituti della carne’, esaminando vari studi scientifici per approfondire gli effetti della loro introduzione sul mercato, con un’attenzione particolare alle implicazioni sulla salute umana, l’ambiente, il mondo produttivo. “Il marketing sbrigativo a favore della carne coltivata e dei sostituti della carne ottenuti da cellule vegetali, potrebbero colpire non solo l’allevamento industrializzato che sta minando le risorse del pianeta, ma anche gli allevatori sostenibili e virtuosi, più fragili, già penalizzati dal mercato e poco sostenuti delle istituzioni”.

Slow fashion

Cavagnero: “La moda, il ‘green nudging’ e la parentela col food”

In principio furono la diffusione della BSE per la carne bovina, seguite da una serie di altri scandali, tra cui le frodi equine e le mozzarelle blu tedesche. Stiamo parlando degli anni ‘70, e proprio da allora si è cominciato a discutere di sicurezza alimentare – intesa come sicurezza igienico sanitaria ma anche sicurezza informativa – in ambito food. Così, alcuni ingredienti hanno cominciato a essere rimossi e sono nate numerose nuove norme, tra cui la regolamentazione delle produzioni biologiche e l’etichettatura obbligatoria, nonché certificazioni di prodotto, che hanno permesso ai consumatori di essere informati su cosa si trovavano nel piatto.

Sostenibilità e food, come dicevamo, vanno di pari passo da quasi 50 anni: si pensi che la prima certificazione in ambito alimentare è del 1978 ed è una vera pietra miliare, a ricordarci quanto siamo attenti a ciò che ingeriamo. “Per quanto riguarda invece il comparto moda“, racconta a GEA Sara Cavagnero, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e dottoranda di ricerca in moda sostenibile e proprietà intellettuale, “non c’è stata la stessa attenzione“. Ma se andiamo a vedere gli sviluppi in questo secondo ambito, “ritroviamo pattern similari a quelli del food: anche in questo caso si parla di elementi che entrano a contatto con il corpo, di sostanze chimiche utilizzate, di coloranti, di modalità di produzione, di tracciabilità della filiera, di interazione sociale e dinamiche culturali. E, come per il mondo food, anche in questo caso abbiamo alcuni “ingredienti” che entrano in gioco“. E che fanno la differenza. Non solo: anche le risorse – ambientali e umane – utilizzate nei due sistemi, a ben guardare, sono le stesse. “Quando parliamo di fibre naturali, quali il cotone o la viscosa (che costituiscono circa il 27% delle fibre presenti sul mercato), facciamo riferimento a materie prime che hanno un’origine agricola e che richiedono lunghe ore di lavoro nei campi. Per l’agricoltura, come per la moda, servono ingenti risorse idriche, legate ai processi di produzione e lavorazione. Ancora, come per le ricette di prodotti alimentari, anche nella moda le tecniche di lavorazione, rammendo e manutenzione variano da luogo a luogo e vengono trasmesse di generazione in generazione“. Pure nel mondo della moda è sorta, molto più recentemente, l’esigenza di ottenere informazioni sui capi e sulle relative modalità di produzione, molto spesso fornite tramite certificazioni nate proprio nel settore alimentare. “Anche i vocaboli utilizzati nel marketing ricordano quelli propri del settore food: ‘moda naturale’, ‘moda vegana’, ‘moda bio’ ricalcano gli stessi termini utilizzati per il settore alimentare“.

ANNO 2008, SVOLTA SOSTENIBILE NEL MONDO FASHION

Nell’ambito fashion, l’anno da tenere presente è il 2008: in quel momento, grazie a Kate Fletcher – professoressa di Sostenibilità, Design e Moda presso il Centre for Sustainable Fashion della University of the Arts di Londra – si è cominciato a parlare di fashion sostenibile con varie accezioni – moda slow, moda etica, moda green o eco.

DA SLOW FOOD A SLOW FASHION

Proprio le molteplici correlazioni con il mondo alimentare hanno portato la Professoressa Fletcher all’elaborazione, ispirata dal concetto di “slow food” coniato e fondato da Carlo Petrini, al termine “slow fashion”, che stabilisce nuovi principi per un approccio più consapevole e responsabile al mondo della moda. Lo slow fashion si basa su alcuni principi fondamentali: la qualità dei materiali (di prima scelta, riciclati, naturali o ecologici), l’estetica (i capi devono essere belli e durare ben oltre una sola stagione), la filiera (dove ogni figura deve poter essere rintracciabile ed eticamente ineccepibile). “Una teoria completamente in antitesi rispetto al fast fashion, dove ormai le collezioni non sono 4, come le stagioni, ma 52, ovvero una per settimana“, ha spiegato, “oppure addirittura 365, per i brand di ultra-fast fashion: escono nuovi prodotti ogni giorno“.

SOSTENIBILE SI’, MA NON PER OGNI ASPETTO

Sviluppo sostenibile è un concetto complesso, che racchiude tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica.
Sebbene oggi i brand tendano a richiamare soprattutto la componente ambientale e molto meno quella sociale, per dichiararsi sostenibile, occorrerebbe soddisfare le tre aree: non basta quindi utilizzare tessuti e tecniche produttive considerate meno impattanti sull’ambiente. “A prescindere da un utilizzo dei tessuti rispettoso, bisogna considerare anche tutto il resto“, puntualizza Cavagnero. “Come la questione della giustizia, dell’etica, del rispetto dei lavoratori, della giusta paga… Ma queste sono questioni decisamente meno esplorate“. Come anche la diversità dei corpi che vengono mostrati – e che oggi porta verso un concetto di “inclusivity“, ma nel 2008 erano temi ancora impopolari. Come il concetto della moda legata alla disabilità, di cui è cominciato a parlare solo recentemente, e che finalmente inizia a coinvolgere sfere di popolazione che erano state, finora, “dimenticate”.

IL GREEN MARKETING

Se si leggono i report delle aziende, la parte ambientale risulta sempre enfatizzata, mentre la parte sociale viene spesso ‘tralasciata’. Anche i colori utilizzati nei marketing sono sempre gli stessi: il verde, associato alla natura, il blu al mare. La comunicazione è usata a scopo pubblicitario ma la componente sociale, con il suo poco appeal, non è mai sviluppata“. Dagli anni ‘80 si è, infatti, diffuso un filone definito “green marketing”, che ha esplorato l’impatto sul consumatore di colori associati alla natura e parole come bio, eco, etc. Il risultato: “Sono stati osservati effetti positivi sul consumatore, che portavano a una maggiore propensione all’acquisto“. Il termine associato a queste strategie di marketing è “nudging” (in particolare “green nudging”), che si traduce come “spingere dolcemente”, ovvero far compiere azioni senza imporle ma creando al contrario le condizioni adatte per influenzare le persone.

LA TRACCIABILITÀ

Il discorso sulla tracciabilità nel mondo della moda “è molto complesso, soprattutto per grandi brand che hanno produzioni dislocate in ogni angolo del Pianeta“, spiega Cavagnero. “Pensiamo a quanto è lunga la filiera di una t-shirt di cotone, che parte dal campo, generalmente in Eurasia, poi porta la fase del trattamento e trasformazione in filato in Cina, che ha il know-how e i macchinari per farlo, per poi passare alla realizzazione del capo che avviene nel sud est asiatico, Bangladesh e India, fino alla vendita, in Europa o negli Stati Uniti… E abbiamo già fatto il giro del mondo!”.
Diverse ricerche hanno dimostrato “che la visibilità della filiera si riduce al primo tassello, ovvero il fornitore diretto. Spesso il fornitore di primo livello, scelto per ragioni di convenienza economica, è l’unico elemento noto, mentre si ignora tutto ciò che sta dietro“, e queste logiche erano le uniche a guidare il settore fino a poco tempo fa.
Oggi siamo agli albori di un cambiamento, ma la scelta di un fornitore rispetto a un altro solo perché sostenibile è pura utopia: “spesso gli Audit sono falsificati, oppure solo “aggiustati”, come dimostra una ricerca della Columbia University“. Da un po’ di anni, però, “le cose stanno cambiando: all’interno delle Nazioni Unite dal 2018 è nato un gruppo di lavoro che si occupa della tracciabilità nella filiera moda e calzature, a cui partecipo come esperta. Essendo un progetto intergovernativo e sovranazionale, si pone come strumento neutrale di ricerca e valutazione“. Ma non basterà se non sarà adeguato sulle diverse tipologie di aziende, anche sulle micro e medio-piccole, vera spina dorsale della filiera.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Ma come sarà lo scenario nei prossimi 10 anni? “Per capire il futuro del settore moda si può guardare quello che è successo al food“, spiega Cavagnero, “ci sarà una maggiore attenzione a tutto ciò che è local, alla produzione più vicina, a una maggior sinergia tra designer e acquirente. Non avverrà dall’oggi al domani, ma sarà un cambiamento lento. Anche se, ammetto, sarebbe meglio che fosse velocissimo“.