L’allarme dell’Unesco: “Venezia è in pericolo, le misure adottate sono insufficienti”

Venezia è in pericolo. Colpa del turismo di massa e dei cambiamenti climatici. Ad annunciarlo è l’Unesco che, in una decisione resa pubblica lunedì, raccomanda l’inserimento della città lagunare nella lista del Patrimonio mondiale in pericolo, poiché sono state adottate misure “insufficienti” per contrastare il deterioramento del sito dovuto, appunto, in particolare al turismo di massa e ai cambiamenti climatici. “Il continuo sviluppo di Venezia, gli impatti del cambiamento climatico e del turismo di massa minacciano di causare cambiamenti irreversibili all’eccezionale valore universale del bene“, osserva il Centro del Patrimonio Mondiale, una sezione dell’Unesco. La raccomandazione dovrà essere votata dagli Stati membri dell’Unesco a settembre. Non è la prima volta che accade. Già nel 2021 era stata fatta la stessa proposta, ma la decisione era stata respinta.

Mentre gli “edifici” alti, “suscettibili di avere un significativo impatto visivo negativo“, dovrebbero essere costruiti a distanza dal centro della città, “l’innalzamento del livello del mare” e altri “fenomeni meteorologici estremi” legati al riscaldamento globale “minacciano” la “integrità” del sito, secondo l’Unesco. La risoluzione di questi problemi “annosi ma urgenti” è “ostacolata dall’assenza di una visione strategica comune” e dalla “scarsa efficienza e coordinamento” delle autorità locali e nazionali italiane, ha aggiunto il Centro del Patrimonio Mondiale.

Poiché Venezia si trova di fronte a “un rischio comprovato“, il Centro “raccomanda di iscriverla nella Lista del Patrimonio Mondiale in pericolo“, nella speranza che “questa iscrizione porti a un maggiore impegno e a una maggiore mobilitazione degli attori locali, nazionali e internazionali“. Il parere del Centro per il Patrimonio, che ritiene “insufficienti” le misure adottate dall’Italia, è per il momento indicativo. L’inserimento di Venezia nella lista del Patrimonio mondiale in pericolo richiederà l’approvazione degli Stati membri presenti alla riunione del Comitato del Patrimonio mondiale che si terrà a Riyadh dal 10 al 25 settembre.

Venezia nel suo complesso è uno straordinario capolavoro architettonico, poiché anche il più piccolo monumento contiene opere di alcuni dei più grandi artisti del mondo, come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese e altri“, spiega l’organizzazione delle Nazioni Unite, di cui la città è entrata a far parte nella Lista del Patrimonio Mondiale nel 1987. È anche una delle città più visitate al mondo. Al suo apice, 100.000 turisti vi dormono, oltre a decine di migliaia di visitatori giornalieri. A fronte di una popolazione di circa 50.000 abitanti nel centro della città, in costante diminuzione.

Pronta la risposta del Comune, che fa sapere che “leggerà con attenzione la proposta di decisione pubblicata oggi dal Centro per il Comitato per il Patrimonio mondiale dell’Unesco, e si confronterà con il governo, che è lo Stato parte con il quale l’Unesco si relaziona“.

olio cucina

Commissione nazionale Unesco: “Cucina italiana sia patrimonio culturale immateriale”

La cucina italiana è ufficialmente candidata a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. A presentarla all’esame del Comitato intergovernativo è stato il Consiglio direttivo della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, presieduto da Franco Bernabé. Il dossier di candidatura, dal titolo ‘La cucina italiana fra sostenibilità e diversità bioculturale’, indica tra le motivazioni il suo essere un “insieme di pratiche sociali, riti e gestualità basate sui tanti saperi locali che, senza gerarchie, la identificano e la connotano”.

Questo mosaico di tradizioni territoriali “riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo del pasto a tavola come occasione di condivisione e di confronto”. “Ovunque, in Italia – si legge nella nota Unesco – cucinare è un modo di prendersi cura della famiglia e degli amici o degli avventori. È il frutto di un continuo gioco di connessioni e scambi che dalle precedenti generazioni arriva alle nuove. È anche una manifestazione quotidiana di creatività che rimanda al “buon vivere” italiano per il quale, nel mondo, siamo apprezzati e talvolta invidiati”.

Come evidenzia lo storico Massimo Montanari, “la candidatura vuole rappresentare la cucina italiana, domestica e non, come un mosaico in cui le singole tessere permettono di definire un insieme coerente che trascende l’unicità e la specificità di ogni singola tessera”. Tutto ciò è il risultato di una storia plurisecolare caratterizzata da numerosi scambi, interferenze e contaminazioni reciproche. La cucina italiana, come emerge dal dossier di candidatura, “è un elemento essenziale, vivo e attuale dell’italianità, riconosciuto tanto all’interno del paese quanto all’estero”.

Il Consiglio direttivo ha inoltre approvato la candidatura transnazionale ‘Arte campanaria tradizionale’, estensione all’Italia di questo elemento iscritto dalla Spagna lo scorso anno. La partecipazione italiana è promossa dalla Federazione nazionale dei suonatori di campane, che raggruppa 22 associazioni presenti sul territorio italiano. Il dossier contiene diversi elementi, come le differenti tecniche di suonata; i paesaggi sonori quali feste, anniversari, riti; le forme delle campane realizzate da fonderie storiche e le strutture architettoniche dei campanili, come quelli di Piazza San Marco a Venezia e di Santa Maria del Fiore a Firenze.

Da Mohenjo Daro a Olimpia: cambiamenti climatici minacciano patrimoni Unesco

Di una delle prime città della storia, rischiava di non restare nulla dopo le tragiche alluvioni di questa estate in Pakistan. Mohenjo Daro è sopravvissuta, ma il sito incarna la minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per il patrimonio mondiale dell’umanità.
Apparsa intorno al 3000 a.C., la metropoli costruita dal popolo dell’Indo, una misteriosa civiltà fiorita nell’Età del Bronzo nel bacino dell’omonimo fiume, deve probabilmente la sua salvezza al genio dei suoi ideatori. Infatti, questo vastissimo sito in mattoni con strade geometriche, costruito in alto rispetto al corso d’acqua, era dotato di antiche condutture e di un sistema fognario sorprendentemente funzionale, che ha permesso di evacuare parte delle acque dell’alluvione che ha colpito il Pakistan.

Mentre i monsoni eccezionali tra giugno e settembre, corredati da precipitazioni da sette a otto volte superiori al normale in agosto, hanno trasformato il sud del paese in un gigantesco lago, a Mohenjo Daro è stato registrato un “deflusso estremamente importante”, spiega Thierry Joffroy, specialista in terre architettura. I “20-40 cm” d’acqua che “hanno riempito stanze” e causato “molti crolli”, secondo l’esperto che ha visitato il sito in ottobre per conto dell’Unesco, sono però niente rispetto a quanto vissuto nel resto del Paese, a volte letteralmente inghiottito dal fango. Quasi 1.600 pakistani sono morti, altri 33 milioni sono stati colpiti dalle piogge torrenziali “probabilmente” aggravate dal cambiamento climatico, secondo il World weather attribution, una rete di ricercatori. Ma “la situazione non è stata catastrofica” a Mohenjo Daro, che “potrebbe essere restaurata”, stima Joffroy.

Il sito pakistano è comunque “vittima” del clima nonostante la “fortuna”, concorda Lazare Eloundou Assamo, direttore del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Mohenjo Daro doveva infatti celebrare il centenario della sua scoperta, nel 1922, quest’anno. Ma la metropoli rischia di “essere scomparsa con tutte le tracce archeologiche” che contiene, sospira. Dei 1.154 siti del Patrimonio Mondiale, di cui 897 sono beni culturali, 218 sono aree naturali e 39 un misto delle due, molti sono minacciati dai cambiamenti climatici: inondazioni, uragani, cicloni e tifoni ma anche gli incendi “molto più frequenti” hanno un “impatto enorme” sui siti storici.

I mega-incendi boschivi, che stanno aumentando sulla costa del Mediterraneo, sono arrivati molto vicini a Olimpia, in Grecia, nell’estate del 2021. In Perù, quest’anno si sono verificate frane ai piedi di Machu Picchu.
Anche nelle sue variazioni meno spettacolari, il clima sconvolge l’equilibrio dei luoghi. In Australia, la Grande Barriera Corallina sta vivendo episodi di sbiancamento dovuti all’innalzamento della temperatura dell’acqua. In Ghana, l’erosione ha spazzato via parte del forte di Prinzenstein, utilizzato per la tratta degli schiavi.

capodoglio

Siso, il capodoglio che visse due volte: ucciso dall’uomo, rivive con l’arte

Questa è la storia di Siso, che visse due volte. È una storia iniziata con un doppio e differente dramma e proseguita culminando con la gioia, l’educazione, la sensibilizzazione e l’amore per il mare e la vita. Siso è il nome che il biologo marino Carmelo Isgrò ha dato a un giovane capodoglio di circa 10 metri, morto sulla costa di Capo Milazzo dopo essere rimasto con la coda incastrata tra le maglie di una rete illegale nei pressi delle isole Eolie nel giugno 2017. Siso era anche il soprannome di un caro amico di Carmelo Isgrò, che lo aiutò nell’operazione di recupero della carcassa del capodoglio ma che il giorno dopo il completamento di questa operazione morì in un incidente in moto: per questo Carmelo ha scelto questo nome per il cetaceo.

sisoCarmelo Isgrò è un biologo marino, ma soprattutto è un appassionatissimo amante del mare. Siciliano di Milazzo, è la persona che ha reso possibile l’incredibile sviluppo di questa storia, nata dalla morte ma oggi promotrice di bellezza e conoscenza. Un successo così grande da ricevere anche un riconoscimento dalla Commissione europea: il premio Classic Blue dell’EU4Ocean in Action Award, che gli è stato consegnato pochi giorni fa a Ferrara nel corso delle celebrazioni per l’European Maritime Day.
Quando nel giugno del 2017 il capodoglio imprigionato e ferito è arrivato sulla costa nei pressi di Capo Milazzo – racconta Isgrò – sono immediatamente corso a vederlo. Nonostante una lunga operazione condotta dalla Guardia Costiera che l’aveva parzialmente liberato da questa rete, l’animale era purtroppo morto. Stare davanti a lui mi faceva provare delle sensazioni molto contrastanti: da una parte ero affascinato, però dall’altra ero molto triste, perché immaginavo la sua lunga sofferenza e il modo brutale in cui era morto. E soprattutto il fatto che fosse morto a causa dell’uomo. Così ho deciso che non potevo rimanere inerte, dovevo fare qualcosa”.

Carmelo si mette così al lavoro con l’amico Francesco, da tutti detto Siso, per raccogliere e ripulire le ossa dell’animale: voleva evitare che venisse dimenticato, voleva farlo rivivere realizzando una mostra che potesse sensibilizzare gli abitanti della zona. “In soli 15 giorni ho così scarnificato completamente, sotto l’egida del Museo della Fauna dall’Università di Messina, la carne in decomposizione del capodoglio che giaceva in acqua a ridosso della costa. Mentre effettuavo questa operazione, ho avuto la possibilità di analizzare anche lo stomaco del capodoglio e con mio grande stupore e rammarico ho dovuto constatare che all’interno era presente molta plastica”.

SisoIl lavoro è stato completato prima che una mareggiata portasse via i resti dell’animale. Ma il giorno dopo il completamento dell’opera, una tragedia immensa: Francesco morì in un incidente. Carmelo ha quindi voluto dare il suo nome al Capodoglio: “Perché le future generazioni possano sempre ricordare com’era morto quel capodoglio e lo potessero fare nel nome di Siso, che si era tanto impegnato per lasciare questo messaggio positivo di rinascita”. È nato così SisoProject che ha portato alla creazione del ‘MuMa Museo del Mare Milazzo‘, nell’antico Castello di Milazzo. Si tratta di un museo unico nel suo genere, concepito interamente intorno allo scheletro ricostruito – anche con la rete illegale che l’ha ucciso posta intorno alla pinna caudale e la plastica che aveva nello stomaco esposta nei pressi – che incanta magicamente il pubblico all’interno del suggestivo ‘Bastione di Santa Maria’. L’obiettivo è quello di sensibilizzare la gente affinché la morte assurda del Capodoglio Siso, possa condurre a un momento di riflessione e crescita per tutti: adulti e bambini. Una sorta di viaggio spirituale per riscoprire l’armonia tra uomo e mare attraverso scienza e arte.

Il Museo, insomma, facendo incontrare arte e scienza propone e promuove protezione ed educazione ambientale, con un messaggio volto a sensibilizzare soprattutto i più giovani alla tutela e salvaguardia del mare. Video didattici interattivi, realtà virtuale, realtà aumentata e installazioni artistiche multimediali permettono ai visitatori di conoscere il legame che unisce la vita sulla Terra al mare e riflettere sul rapporto uomo-mare. È possibile visitare virtualmente il Museo in qualsiasi parte del mondo attraverso il progetto ‘Let’s digitalize MuMa’ in partenariato con l’Ufficio Regionale UNESCO per la Scienza e la Cultura in Europa e con il supporto Gruppo Prada.

Le attività si stanno sviluppando sempre meglio – racconta Isgrò – perché sono tantissime le scuole che vengono ogni giorno a visitare il MuMa e a fare lezioni educazione ambientale. Per noi le parole che vengono dai bambini e in generale dai visitatori sono il riconoscimento più grande. Siso è vivo grazie alle loro parole. Questo era il mio obiettivo: non rendere vana la sua morte. Far sapere a tutti come è morto per evitare che altre morti come la sua possano accadere. E attorno a questa attività sul territorio è cresciuta notevolmente la sensibilità. Si sono ormai moltiplicate gli eventi, a partire dalla raccolta di plastica in spiaggia, che tengono alta l’attenzione e la sensibilità e che attraverso questi temi fanno crescere la conoscenza e la cultura del mare”.

parco naturale

Giornata europea dei Parchi, nati in Asia nel 1700

La Giornata europea dei Parchi si celebra ogni anno il 24 maggio perché in questa data ma nel 1909 vennero istituiti in Svezia i primi Parchi nazionali del nostro Continente. Ma i Parchi nazionali e le aree naturali protette non sono nati in Europa. E neppure negli Stati Uniti, come generalmente si pensa, bensì in Asia, e per la precisione in Mongolia.

Un Parco nazionale o un’area protetta sono generalmente considerati una risorsa del territorio, sotto diverse forme: culturale, sociale, spirituale ed economica. Questo purtroppo accade meno in Italia. Pochi giorni fa, il dirigente di un importante Parco raccontava: “Noi spesso dobbiamo nell’approccio con gli estranei dal ‘giustificare’ l’esistenza del Parco e delle risorse, sempre scarse, che ad esso vengono destinate. La situazione migliora negli anni, grazie al diffondersi dell’educazione ambientale, ma siamo ancora lontani dal venire ritenuti una grande risorsa strategica della Comunità, purtroppo”.

Questa riflessione è importante proprio in rapporto alla nascita della prima area protetta al mondo, quella di Bogd Khan, in Mongolia, che divenne sito protetto nel 1783.

La montagna, che sovrasta la capitale del Paese, Ulan Bator (Ulaanbaatar in lingua locale) venne considerata tra le cime più sacre della regione fin dal 1300. Ancora oggi è meta di pellegrinaggio da parte delle persone di religione buddista. Fu il governo della dinastia cinese Qing, l’ultima prima della rivoluzione avvenuta nel 1912, a dichiarare Bogd Khan un sito protetto: avvenne appunto nel 1783. Foreste di conifere pregiate, cervi muschiati a rischio estinzione e moltissime specie di fauna e flora sono da allora sopravvissute, malgrado la complessa evoluzione geopolitica dell’area. Nel 1996 Bogd Khan è stato dichiarato Riserva della Biosfera dall’UNESCO. Nonostante ciò, l’incremento della pressione umana sta creando qualche problema, soprattutto per la presenza di rifiuti e infrastrutture.

Come accennato precedentemente, la convinzione più diffusa è che quello di Yellowstone, una vasta area delle montagne rocciose – più grande della Corsica – nell’ovest degli Stati Uniti tra Wyoming, Montana e Idaho, sia stato il primo Parco nazionale al mondo. La sua istituzione avvenne però nel 1872. Certamente è il più conosciuto, iconico e comunicato in mille modi, a partire da film e cartoni animati prima ancora che da documentari, fotografie e libri.

La zona è stata abitata dagli esseri umani a partire da 11mila anni fa, ma soltanto alla fine degli anni ’60 dell’800 gli americani di origine europea iniziarono ad esplorare l’area, straordinariamente selvaggia, ricchissima di fauna (anche di grande taglia) e di meraviglie e stranezze (così appaiono ai nostri occhi) geotermiche, a partire dai geyser, dalle pozze di fango ribollente o dagli specchi d’acqua multicolori grazie alla presenza di batteri termofili. Nella prima parte dell’800 solo alcuni cacciatori di pellicce e pionieri si avventurarono in quei luoghi sconosciuti e misteriosi per le manifestazioni naturali.

Fu il geologo americano Ferdinand V. Hayden a convincere il Congresso a fare di Yellowstone un parco nazionale, nel 1872 dopo una serie di spedizioni e studi esplorativi della zona.

Questo ebbe un effetto anche in Europa, dove l’esploratore polare Adolf Erik Nordenskiöld, nel 1880, chiese di adottare una protezione simile per le aree di natura selvaggia presenti nel suo Paese.

La Svezia fu quindi nel 1909 la prima nazione europea a istituire Parchi nazionali sul proprio territorio. Furono ben nove: Hamra, Garphyttan Ängsö, Gotska Sandon, Abisko, Pieljekaise, Sarek, Stora sjöfallet e Sonfjället. Lo scopo era quello di tutelare e rappresentare tutte le diverse peculiarità naturali, ambienti e habitat, del Paese. Oggi in Svezia ci sono trenta Parchi nazionali.

StambeccoIn Italia, i primi Parchi nazionali vennero istituiti nel 1922 e quindi quest’anno si celebrano i cento anni dalla loro fondazione: Parco Nazionale del Gran Paradiso, a cavallo tra Piemonte e Valle d’Aosta, e Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Due straordinari contenitori di bellezza, biodiversità e cultura che conosceremo meglio in alcuni approfondimenti a loro dedicati in questi spazi nelle prossime settimane. Oggi in Italia ci sono 24 Parchi Nazionali, 135 Parchi Regionali, 147 Riserve Naturali Statali, 30 Aree Marine Protette, circa 400 Riserve regionali e una vasta rete di siti protetti, la maggior parte dei quali rientranti nella Rete Natura2000.

Giornata Internazionale della Luce

Giornata della Luce: che assurdo spreco l’inquinamento luminoso

Oggi si celebra la Giornata Internazionale della Luce-International Day of Light, proclamata nel 2015 dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa educazione, scienza e cultura. La scelta della data è caduta sul 16 maggio perché è il giorno in cui nel 1960 il fisico e ingegnere tedesco Theodore Maiman realizzò il primo laser, una invenzione fondamentale per la cura della salute, per le comunicazioni e in molti altri campi. Lo scopo di queste Giornate è quello di portare all’attenzione generale, con una serie di iniziative pubbliche e in molti casi pop concentrate in una sola giornata e diffuse in tutto il mondo, per far comprendere l’importanza e l’urgenza di una certa tematica. La luce è uno di quegli elementi che tendiamo a sottovalutare o dare per scontati. Per questo, abbiamo scelto di celebrarla e raccontarla con le parole di Irene Borgna, ligure di Savona, studiosa di antropologia alpina, divulgatrice ed educatrice naturalistica che nel 2021 ha pubblicato il bellissimo ‘Cieli Neri’, un libro che parte dalla considerazione che tutti abbiamo perfettamente coscienza di cosa significhi la parola ‘notte’, pur senza avere fatto mai davvero provato il buio vero della notte. Perché il buio è parte integrante dell’elemento luce, la parte più a rischio.

Come si è avvicinata al tema della luce?
“Ci sono arrivata come sempre capita per molte cose importanti della vita: per caso. Tra il 2019 e il 2020, un po’ per celia e un po’ per provocazione, ho proposto al mio compagno di non andare per una volta in vacanza in montagna, come facciamo sempre, ma di attraversare l’Europa in furgone, attraverso luoghi poco popolosi e fermandoci sotto i cieli più scuri – e quindi più affascinanti perché ricchi di stelle – del continente. Abbiamo quindi fatto quello che avrebbe fatto chiunque: aperto google abbiamo scritto ‘cieli neri Europa’. La prima cosa che ci è apparsa è stata un bellissimo collage fotografico dallo spazio, in cui si vede tutta la Terra. Di più: si riesce a ricostruire tutta la mappa delle città, grandi e piccole, su tutti i continenti, come fossero costellazioni nel cielo nero, perché luminosissime di notte. Osservando queste immagini, sembra che in Europa ci sia ancora un sacco di buio, perché tutte le parti dove non ci sono fonti di luce appaiono nere. Ma se ti incuriosisci, come è capitato a noi, e gratti un po’ di più sotto la superficie ti imbatti in mappe sull’inquinamento luminoso, basate su rilievi e dati scientifici di vari enti internazionali, e comprendi che la situazione è molto diversa. Le concentrazioni di luce che vedi nelle mappe ovviamente emanano una luminosità che si diffonde per decine, centinaia di chilometri, anche salendo in atmosfera. Di fatto, comprendi che queste luci inquinano anche le Alpi, che sulle prime mappe che abbiamo ammirato ci apparivano come il cuore più buio d’Europa, o gran parte delle aree selvagge sul Pianeta. Lo si comprende bene guardano la mappa sull’inquinamento luminoso. Il buio sta diventando un bene raro, ma è un bene che ha un’importanza enorme, dal punto di vista naturalistico, sanitario e psicologico”.

Quello è solo stato il punto di partenza. E poi?
“Ci siamo appassionati e abbiamo iniziato a leggere tutto ciò che era possibile leggere sull’argomento e intervistare tutti quelli che era possibile raggiungere e che studiano il tema. Ci siamo fatti illuminare, insomma. Emerge che chi nasce oggi vede già un cielo molto diverso, più appiattito e meno vitale rispetto a chi è nato quarant’anni fa, che già scontava una forte differenza rispetto a 40 anni prima ancora. Alzando gli occhi al cielo di notte in una città, ma anche in un semplice centro abitato non molto grande, invece di tremila stelle ne vedremo trenta, più probabilmente tre. E anche nei luoghi più remoti, sulle montagne, resta comunque un alone di luminosità che arriva dalla pianura e che modifica i ritmi naturali. Oramai la luce è talmente intensa che finiamo per utilizzare pochissimo i fotoricettori chiamati ‘bastoncelli’, presenti nella retina e che ci consentono di vedere in condizioni di scarsa visibilità. Usiamo quasi sempre altri fotoricettori della retina, i coni, che sarebbero dedicati alla visione diurna e ci permettono di percepire dettagli e colori. Ci stiamo veramente facendo del male a livello ecologico: noi rischiamo di perdere una capacità importante ma per gli animali e le piante significa confondere i ritmi naturali dati dall’alternanza giorno/notte, a livello economico e forse anche a livello spirituale. Noi umani siamo scimmie abbastanza esagitate, nervose, manesche e questo viene intensificato dal sottoporci continuamente a luci così intense: pensiamo ai disturbi del sonno provocati anche dalle luci e dagli stimoli visivi dei pc e telefoni. Tutto questo ‘disturbo’, in realtà non ci fa guadagnare nulla”.

Anzi, soprattutto in Italia, ci costa parecchio. In queste settimane di discussioni ed emergenze per la produzione energetica, anche questo potrebbe essere un elemento di riflessione.
“In uno studio del 2018, l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università del Sacro Cuore di Milano, diretto da Carlo Cottarelli, mostrava come la spesa complessiva per l’illuminazione pubblica in Italia nel 2017 fosse stata di 1,7 miliardi di euro pari a 28,7 euro pro capite contro i 16,8 della media europea. Il consumo complessivo era stato di 6000 gigawatt, una media di 100 chilowatt per italiano, praticamente il doppio della media continentale, ferma a 51. Ma se andiamo a osservare un Paese come la Germania, notiamo come la spesa pro-capite fosse di 5,8 euro: praticamente un quinto di quella italiana. E non mi pare che in Germania vivano al buio, non abbiano vita notturna o siano tutti chiusi in casa dal crepuscolo all’alba. Tra l’altro solo una parte dell’energia che utilizziamo per l’illuminazione pubblica è destinata direttamente allo scopo: gran parte di disperde, viene sprecata e finisce solo per impattare negativamente sull’ecosistema. Ma come? Abbiamo così tanti problemi con la produzione di energia e la sprechiamo, ne usiamo più di altri? È davvero un assurdo che grida vendetta. Con una revisione seria e massiccia del sistema, finiremmo per risparmiare milioni di euro. E torneremmo a vedere le stelle, la Via Lattea, le costellazioni… Per molti sarebbe una scoperta assoluta, uno straordinario bene recuperato. Al Planetario di Bolzano è possibile vivere questa esperienza: ti mostrano come è il cielo stellato sulla città e poi inseriscono l’inquinamento luminoso e così ti accorgi di cosa perdi e dello straordinario spettacolo che avresti sulla testa, ogni giorno. Uno spettacolo che dobbiamo recuperare: per vivere meglio, per far vivere meglio la natura con cui condividiamo il Pianeta e per risparmiare”.

Giornata Internazionale della Luce

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Barriera corallina

Grande Barriera Corallina bianca per il 98%, Unesco: Sito in pericolo

La Grande Barriera Corallina è ancora una volta colpita da uno sbiancamento “diffuso”. Lo riferiscono le autorità, spiegando che le temperature oceaniche superiori alla media al largo dell’Australia nord-orientale minacciano il già travagliato sito patrimonio dell’umanità. “Lo sbiancamento è stato rilevato in tutto il parco marino”, ha scritto la Great Barrier Reef Authority nel suo aggiornamento settimanale.

Il fenomeno dello sbiancamento, che provoca lo scolorimento, è causato dall’aumento della temperatura dell’acqua – una conseguenza del riscaldamento globale – che porta all’espulsione delle alghe simbiotiche che danno al corallo il suo tipico colore. I voli di sorveglianza sulla barriera, che copre un’area di 2.300 km, hanno rivelato danni dovuti allo stress termico, ha detto l’autorità.

Durante la settimana, le temperature del mare in tutto il parco marino sono state tra 0,5 e due gradi Celsius sopra la media, mentre l’estremo nord e le zone costiere hanno registrato temperature tra due e quattro gradi sopra la media. L’autorità ha riferito che “la mortalità precoce” è stata segnalata “dove lo stress da calore era maggiore”. L’Unesco a breve effettuerà un’ispezione del sito per verificarne lo stato di salute.

Se i risultati della missione, che sarà presentata al Comitato del patrimonio mondiale nel giugno 2022, risulteranno negativi, la Grande barriera corallina potrebbe unirsi alla lista dei siti in pericolo, ha detto l’Unesco. Nel 2015, quando l’Onu ha minacciato di declassare lo status della Grande Barriera Corallina, che è patrimonio dell’umanità dal 1981, l’Australia ha lanciato un piano di investimenti multimiliardario per combattere il deterioramento della barriera. Ma, da allora, la barriera ha molto sofferto dopo tre episodi molto gravi di sbiancamento dei coralli, nel 2016, 2017 e 2020. Secondo uno studio recente, lo sbiancamento ha colpito il 98% della Grande Barriera Corallina australiana dal 1998, risparmiando solo una piccola parte della barriera. “Questo dimostra la pressione costante che la nostra barriera corallina subisce oggi a causa del riscaldamento globale”, ha allarmato Lissa Schindler dell’Australian Marine Conservation. “Una barriera corallina sana può riprendersi dallo sbiancamento dei coralli, ma ci vuole tempo. L’aumento della frequenza delle ondate di calore marine, dovuto principalmente alla combustione del carbone e del gas, significa che non avrà quel tempo”, ha aggiunto.