agroalimentare

Boom prezzi ortofrutta: il ‘carrello della spesa’ in un mese passa da +1% a +2,2%

A ottobre l’Inflazione risale a +0,9%, seppure in un quadro di stabilità congiunturale”, fa sapere l’Istat. “Gli andamenti settoriali appaiono, tuttavia, differenziati. Nel comparto alimentare – commenta l’istituto di statistica – la dinamica tendenziale dei prezzi risulta in accelerazione (+2,4% da +1,1% di settembre), con effetti che si manifestano sul ‘carrello della spesa’ (+2,2% da +1,0%). Al contrario, i prezzi dei Beni energetici accentuano il calo su base annua (-9,1% da -8,7%), nonostante l’aumento congiunturale della componente regolamentata. In decelerazione sono infine i prezzi dei servizi ricreativi e culturali (+3,6% da +4,0%) e dei trasporti (+2,8% da +2,4%)”, sottolinea l’Istat, che infine precisa: “A ottobre l’Inflazione di fondo – che esclude voci volatili come cibo ed energia – resta a +1,8%“, ben al di sotto del target Bce che ipotizza un ritorno al fatidico 2% entro il 2025 nell’intera eurozona.

Torna il caro-alimentare? Fra i prodotti “non lavorati, le spinte al rialzo (+2,7% mensile) si ripercuotono sulla crescita del tasso tendenziale (da +0,3% a +3,3%). In particolare – evidenzia l’istituto di statistica – invertono la tendenza portando su valori positivi sia i prezzi di frutta fresca o refrigerata (da -0,6% a +2,8% con un +4,2% da settembre) sia quelli dei vegetali freschi o refrigerati (da -2,2% a +8,8%, segnando un +8,7% congiunturale)“. Per Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, la “tendenza è estremamente preoccupante”, nel senso che “è molto grave la fotografia restituita dal confronto tra i prezzi alimentari alla produzione e al consumo”. Infatti, i prezzi al consumo dell’alimentare lavorato salgono dall’1,5% tendenziale di settembre al 2% di ottobre, mentre quelli alla produzione passano da un tendenziale di agosto del -0,2% ad un crollo di settembre del -1,5%. “Inaccettabile – prosegue Scordamaglia – che la forbice raggiunga i 3,5 punti percentuale: questo vuol dire che soprattutto una parte della distribuzione italiana continua ad aumentare i prezzi al consumatore e a pagare sempre meno chi produce, che non riesce quindi a compensare i propri costi di produzione aggravati anche dagli eventi climatici estremi a cui stiamo assistendo”.

Secondo Filiera Italia siamo di fronte a un fenomeno doppiamente grave che colpendo i consumatori più deboli consolida un crollo degli acquisti di beni alimentari di prima necessità mai visto prima, che negli ultimi due anni ha raggiunto il -8% a volume, ma che contemporaneamente mette a rischio l’esistenza stessa della filiera produttiva italiana. Scordamaglia chiede dunque che si faccia “chiarezza sulla ripartizione del valore lungo la filiera agroalimentare. Agiremo – anche denunciando per pratiche commerciali sleali – verso chi dovesse pensare di approfittare della propria posizione negoziale per mettere in difficoltà le fasi più deboli della filiera”.

Nel frattempo l’indice dei prezzi all’ingrosso, realizzato da Unioncamere e Bmti, ha mostrato tra i prodotti freschi, rialzi mensili per frutta e ortaggi, per le carni di bovino e di pollame e per le uova a settembre. Nel comparto ittico, invece, sono rimasti sostanzialmente stabili i prezzi all’ingrosso, ad eccezione dei crostacei freschi, trainati dai rincari di gamberi e scampi. Tra i prodotti lavorati, si è registrato un ulteriore rincaro per il burro e per i formaggi ed una sostanziale stabilità per l’olio di oliva e gli sfarinati di grano e riso. Nello specifico, per quanto riguarda il settore ortofrutticolo, sono stati due i fattori che hanno impresso aumenti ai prezzi. Da un lato, l’abbassamento delle temperature registrato dopo la prima decade di settembre ha determinando una maggiore richiesta di prodotti autunnali. Dall’altro, diverse coltivazioni estive sono state colpite dal prolungato caldo estivo.

Tra i rincari maggiori, si registra un +20% per pesche e nettarine e un +11% per le pere. Forte incremento rispetto al mese precedente per le zucchine: +74,8% rispetto allo scorso anno. Aumenti mensili consistenti anche per le melanzane (+65%) e per i pomodori da insalata (+37%). Tra le carni, aumentano quelle di pollo (+6,4% rispetto al mese precedente e +3,4% rispetto al 2023) e tacchino (+5,2% rispetto a settembre e +12,3% rispetto ad un anno fa), spinti da una domanda superiore alle disponibilità di prodotto. Cresce anche la carne di bovino adulto (+4,4% rispetto ad agosto). Il comparto bovino è alle prese con una minore disponibilità di capi da ristallo, legata anche ai minori arrivi dalla Francia, elemento che sta imprimendo tensioni al mercato. Tra i prodotti zootecnici, aumentano del 2,2% rispetto al mese precedente i prezzi delle uova allevate a terra, sostenuti da una domanda superiore all’offerta.

Nestlé presenta il primo report di impatto sociale positivo generato in Italia

Oltre 3,5 milioni di euro, solo nel 2023, per progetti di rilevanza sociale, più di 140mila bambini e ragazzi coinvolti in progetti educativi. E, ancora, oltre 2mila tonnellate di prodotti alimentari e di prima necessità donati (+10% vs 2022), pari a 41.610 carrelli della spesa, e 2,2 milioni di euro (+65% vs 2022) a organizzazioni ed enti benefici.

E’ quanto emerge dal report ‘Il nido che condividiamo’, il primo studio di impatto sociale, relativo al 2023, presentato da Nestlé e realizzato in collaborazione con Luiss Business School e SCS Consulting. Sono diversi gli ambiti di impegno sociale e in materia di welfare aziendale analizzati dallo studio, sintetizzati in cinque macro-aree: benessere delle persone del gruppo Nestlé in Italia e delle loro famiglie, supporto alle comunità locali, educazione alimentare, salute e benessere nutrizionale, sicurezza sul lavoro. Per ottenere questo importante risultato, il gruppo Nestlé in Italia ha destinato, solo nel 2023, oltre 3,5 milioni di euro in favore di misure e progetti a impatto sociale.

Progetti che si sono trasformati in best practice a livello nazionale. A cominciare dalla ‘Nestlé Baby Leave’ il congedo di tre mesi retribuito al 100% introdotto dall’azienda nel 2022, del quale ha usufruito il 91% dei papà o secondi caregiver che lavorano nel gruppo. Una percentuale decisamente molto più alta del dato nazionale che ha visto fermarsi al 64% i papà che hanno usufruito del permesso di 10 giorni previsto dalla legge alla nascita di un figlio.

Significativo anche l’impulso che Nestlé fornisce all’educazione delle giovani generazioni: sono infatti oltre 140mila i bambini e i ragazzi coinvolti in iniziative promosse dall’azienda su tematiche quali corretta nutrizione, sensibilizzazione sull’uso dell’acqua, cura e rispetto degli animali domestici. Il progetto ‘Nutripiatto’ ha coinvolto 23mila bambini, mentre sono 48.976 quelli che hanno partecipato all’iniziativa ‘A scuola d’acqua’. Sul fronte dell’educazione al benessere animale, invece, sono stati circa 70mila gli studenti sensibilizzati sul tema nell’ambito del progetto ‘A scuola di pet care’.

Il gruppo Nestlé si impegna anche ad aiutare associazioni ed enti benefici, come Banco Alimentare, attraverso donazioni di prodotti alimentari. Solo nel 2023 queste ultime hanno superato le 2mila tonnellate (+10% rispetto al 2022), pari a 41.610 carrelli della spesa, e si aggiungono alle donazioni di natura monetaria, per un totale (sempre lo scorso anno) di 2,2 milioni di euro (+65% rispetto al 2022). 

Marco Travaglia, presidente e amministratore delegato del gruppo Nestlé in Italia sottolinea che “gli importanti risultati conseguiti ci spingono a lavorare con ancora più entusiasmo e dedizione, nella convinzione che la nostra crescita come azienda e come individui sia strettamente legata al valore sociale che riusciamo a generare ogni giorno con il nostro lavoro”.

“In un periodo storico in cui la responsabilità sociale è sempre più centrale nel percorso intrapreso da ogni impresa verso il perseguimento del cosiddetto ‘successo sostenibile’, siamo stati felici di collaborare con il Gruppo Nestlé in Italia che ambisce a generare cambiamenti sociali positivi”, spiega Cristiano Busco, professore ordinario della Luiss Business School.

Migliorare la vita delle proprie persone e delle comunità in cui è inserita l’azienda, spiega il gruppo, è uno degli obiettivi. In questa prospettiva, sono diverse le misure introdotte per la gestione dell’esperienza della genitorialità, promuovendo il corretto bilanciamento dell’equilibrio vita-lavoro e l’uguaglianza di genere nella cura dei figli. In aggiunta alla ‘Nestlé Baby Leave’, nel 2023 l’azienda ha contribuito al pagamento di 27 rette di asilo nido per i figli dei suoi collaboratori, per un ammontare di quasi 75.000 euro, oltre a più di 58.500 euro di prodotti alimentari per la prima infanzia forniti gratuitamente ai neogenitori

Il valore sociale generato dalle attività di Nestlé è anche legato all’impegno e alla generosità delle sue persone, che – grazie al pieno sostegno dell’azienda – possono dedicare il proprio tempo a chi ne ha più bisogno. Il volontariato aziendale retribuito rappresenta infatti un importante cardine della responsabilità sociale del gruppo. Nel 2023 sono stati 90 i dipendenti a svolgere attività di volontariato con un permesso aziendale retribuito e l’azienda punta ad arrivare a 450 persone entro il 2026.

Alimentare, Germania, Francia e Italia primi produttori di gelato

Nel 2023, l’Ue ha prodotto 3,2 miliardi di litri di gelato, segnando un calo dell’1,4% rispetto al 2022 (3,3 miliardi di litri). Tra i Paesi, la Germania è stata il principale produttore di gelato nel 2023, producendone 612 milioni di litri, seguita dalla Francia (568 milioni di litri) e dall’Italia (527 milioni di litri). Sono i dati di Eurostat, l’Ufficio di statistica dell’Ue. Nell’infografica INTERATTIVA di GEA sono illustrati i numeri forniti dall’istituto di statistica.

INFOGRAFICA INTERATTIVA Inflazione, dato italiano del caffè si ferma al 2,6% a marzo

A marzo 2024 il tasso di variazione annuo del prezzo al consumo del caffè nell’UE è stato del +1%, rispetto al +13,5% di marzo 2023, e si è avvicinato al livello di luglio 2021 (+0,8%). Lo comunica Eurostat. Il tasso di inflazione del caffè è in calo dall’ottobre 2022, quando era al suo massimo (+17,4%), dopo un forte aumento iniziato nell’ottobre 2021 (+2,0%). Nell’infografica INTERATTIVA di GEA si possono vedere sia l’andamento complessivo negli anni in Ue che i dati di marzo dei singoli Paesi europei.

spreco alimentare

Un miliardo di pasti viene sprecato ogni giorno in tutto il mondo

Secondo le stime dell’Onu, che mercoledì ha condannato la “tragedia globale” dello spreco alimentare, nel 2022 le famiglie hanno gettato via inutilmente l’equivalente di un miliardo di pasti al giorno in tutto il mondo. Si tratta solo di una stima del cibo commestibile scartato e “la quantità effettiva potrebbe essere molto più alta“, secondo il rapporto Food Waste Index del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep). “Lo spreco alimentare è una tragedia globale. Milioni di persone in tutto il mondo soffrono la fame mentre il cibo viene buttato via“, denuncia la direttrice esecutiva dell’Unep Inger Andersen. Richard Swannell, dell’ONG WRAP, che ha contribuito alla stesura del rapporto, dichiara all’Afp: “È semplicemente sconcertante“. “Potremmo sfamare tutte le persone affamate del mondo – ce ne sono circa 800 milioni – con un pasto al giorno, solo con il cibo che viene sprecato“, ha sottolineato.

Le famiglie rappresentano il 60% di questi sprechi, ovvero 631 milioni di tonnellate nel mondo nel 2022 su un totale di oltre un miliardo. I servizi di ristorazione (mense, ristoranti, ecc.) rappresentano il 28% e supermercati, macellerie e negozi di alimentari di ogni tipo il 12%. Secondo le stime, ciò equivale a più di 1.000 miliardi di dollari all’anno buttati via inutilmente. Questo rapporto, il secondo pubblicato dalle Nazioni Unite sull’argomento, fornisce la panoramica più completa fino ad oggi. L’entità del problema è diventata più chiara con il miglioramento della raccolta dei dati. “Più cerchiamo gli sprechi alimentari, più ne troviamo“, afferma Clementine O’Connor dell’Unep.

Secondo Richard Swannell, gran parte degli sprechi che avvengono a casa sono legati al fatto che le persone acquistano più di quanto abbiano realmente bisogno, valutano male le dimensioni delle porzioni e non consumano gli avanzi. I consumatori buttano via anche prodotti perfettamente commestibili che hanno superato la data di scadenza. Molti alimenti vanno persi anche per motivi diversi dalla semplice disattenzione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, ad esempio per problemi di refrigerazione. Ma, contrariamente a quanto si crede, lo spreco alimentare non è solo un “problema dei Paesi ricchi” e può essere osservato in tutto il mondo.

Per quanto riguarda le aziende, attualmente è spesso più conveniente buttare via il cibo piuttosto che trovare un’alternativa più sostenibile. “È più facile e veloce perché le tasse sui rifiuti sono nulle o molto basse“, afferma Clementine O’Connor. Questo spreco, che rappresenta quasi un quinto del cibo disponibile, è sinonimo di “fallimento ambientale“, sottolineano gli autori del rapporto: genera fino al 10% delle emissioni mondiali di gas serra e richiede enormi superfici agricole per coltivare colture che non verranno mai consumate. Se fosse un Paese, “sarebbe il terzo emettitore di gas serra dopo Stati Uniti e Cina”, osserva Richard Swannell. “Eppure la gente non ci pensa molto“. “Ci auguriamo che questo rapporto metta in luce l’opportunità per tutti noi di ridurre le nostre emissioni di gas serra e di risparmiare denaro, semplicemente facendo un uso migliore degli alimenti che già acquistiamo“, conclude.

Scoperto il ‘viaggio’ millenario dell’albero di cacao dall’Amazzonia all’America Centrale

(Photo credit: Claire Lanaud)

L’albero del cacao (Theobroma cacao), i cui semi sono utilizzati per produrre prodotti come il cioccolato, il liquore e il burro di cacao, potrebbe essersi diffuso dal bacino amazzonico alle altre regioni dell’America meridionale e centrale almeno 5.000 anni fa attraverso le rotte commerciali. E’ quanto suggerisce un articolo pubblicato su Scientific Reports. Queste scoperte, basate su residui in antichi vasi, suggeriscono che i prodotti a base di cacao erano più ampiamente utilizzati tra le antiche culture del Sud e del Centro America di quanto si pensasse in precedenza.

Il moderno albero del cacao – il cui nome scientifico significa “cibo degli dei” – è una delle colture più importanti del mondo. Esistono undici gruppi genetici conosciuti, tra cui i Criollo e Nacional. Sebbene sia ormai certo che l’albero del cacao sia stato originariamente domesticato nell’alto bacino amazzonico, finora non era chiaro come il suo uso da parte di altre culture si fosse diffuso in tutto il Sud e Centro America.

Claire Lanaud e colleghi dell’Agap Institut dell’Università di Montpellier hanno analizzato i residui di 352 oggetti in ceramica provenienti da 19 culture precolombiane che vanno da circa 5.900 a 400 anni fa in Ecuador, Colombia, Perù, Messico, Belize e Panama. Gli autori hanno analizzato la presenza di Dna di cacao antico e di tre componenti metilxantine (blandi stimolanti) presenti nei ceppi di T. cacao moderni – teobromina, teofillina e caffeina – per identificare i residui di T. cacao antico. Gli autori hanno anche utilizzato informazioni genetiche provenienti da 76 campioni moderni per stabilire l’ascendenza del cacao antico presente negli oggetti di ceramica, che potrebbe rivelare come i ceppi antichi si siano diversificati e diffusi.

I risultati dimostrano che il cacao è stato ampiamente coltivato lungo la costa del Pacifico subito dopo la sua domesticazione in Amazzonia, almeno 5.000 anni fa, con alti livelli di diversità tra i ceppi antichi. Secondo gli autori, la presenza di genotipi di cacao originari dell’Amazzonia peruviana nella regione costiera di Valdivia, in Ecuador, suggerisce che queste culture hanno avuto contatti di lunga data. Ceppi peruviani sono stati rilevati anche in manufatti provenienti dalla costa caraibica colombiana.

L’insieme di questi dati indica che i ceppi di cacao hanno subito un’ampia diffusione tra i Paesi e sono stati incrociati per adattarsi a nuovi ambienti man mano che le diverse culture ne adottavano l’uso, suggeriscono gli autori.

Per gli scienziati “una maggiore comprensione della storia genetica e della diversità del cacao può aiutare a contrastare le minacce, come le malattie e i cambiamenti climatici, che incombono sui ceppi di cacao moderni”.

agroalimentare

Da Eurocamera ok al taglio degli sprechi alimentari. Ma non vale per gli agricoltori

I nuovi obiettivi proposti dall’esecutivo dell’Ue per ridurre i quasi 60 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari generati ogni anno dai Paesi membri non sono abbastanza. La commissione ambiente (Envi) del Parlamento europeo rilancia e chiede di aumentare i target, imponendo di tagliare gli sprechi del 20 per cento nella produzione e trasformazione alimentare e del 40 per cento nella vendita al dettaglio, nei ristoranti e nelle famiglie, entro il 2030. Con 72 voti favorevoli, nessun voto contrario e tre astensioni, gli eurodeputati hanno adottato la loro posizione sulla proposta di revisione della direttiva quadro sui rifiuti. La Commissione europea aveva indicato come obiettivi vincolanti la riduzione del 10 per cento per la trasformazione e la produzione e del 30 per cento per vendita al dettaglio, servizi di ristorazione e famiglie. Ma gli eurodeputati insistono per percentuali più ambiziose, sempre sulla base della media annuale generata tra il 2020 e il 2022. La commissione Envi ha chiesto inoltre che la Commissione valuti la possibilità e presenti proposte legislative adeguate per introdurre obiettivi più elevati per il 2035 (rispettivamente almeno 30 e 50 per cento).

Anche l’Eurocamera, così come già previsto nella proposta della Commissione, è d’accordo nell’escludere – almeno inizialmente – gli agricoltori dai vincoli sulla produzione dii rifiuti alimentari. Ma i deputati Envi hanno inserito nel testo la richiesta di una valutazione, entro il 31 dicembre 2025, dei “livelli appropriati per la definizione di obiettivi di riduzione di tutti i rifiuti alimentari di produzione primaria, compresi gli alimenti maturi non raccolti o utilizzati nelle aziende agricole”. Per arginare lo spreco alimentare – che va a braccetto con una perdita economica di 132 miliardi di euro all’anno, più 9 miliardi per la raccolta e il trattamento dei rifiuti – l’Ue è pronta ad adottare ulteriori misure, sintetizzate dalla relatrice per l’Eurocamera, Anna Zalewska: “Forniamo soluzioni mirate per ridurre gli sprechi alimentari, come promuovere frutta e verdura ‘brutte’, tenere d’occhio le pratiche di mercato sleali, chiarire la data di etichettatura e donare alimenti invenduti ma consumabili”.

Accanto ai 131 kg di rifiuti alimentari che ogni cittadino europeo produce all’anno, ci sono anche 12 kg pro-capite di rifiuti tessili. In totale, nei 27 Paesi membri vengono buttate 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui ne viene riciclato meno dell’1 per cento. Le nuove norme, suggerite e adottate in commissione Envi, istituirebbero regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR), per rendere gli operatori economici che immettono i prodotti tessili nel mercato responsabili dell’intero ciclo di vita dei prodotti tessili. In altre parole: per fare in modo che siano loro a coprire i costi per la loro raccolta differenziata, cernita e riciclaggio. Gli Stati membri dovrebbero istituire questi regimi 18 mesi dopo l’entrata in vigore della direttiva, rispetto ai 30 mesi proposti dalla Commissione. E parallelamente dovrebbero garantire, entro il primo gennaio 2025, la raccolta separata dei rifiuti tessili – abbigliamento e accessori, coperte, biancheria da letto, tende, cappelli, calzature, materassi e tappeti – per il riutilizzo e il riciclaggio. Il percorso per l’adozione dei nuovi target è ancora lungo: l’intera Eurocamera voterà la sua posizione durante la sessione plenaria di marzo 2024, per poi lasciare il dossier – e le trattative con gli Stati membri – al nuovo Parlamento, che si insedierà dopo le elezioni europee del 6-9 giugno.

Carne sintetica, scoperto sistema per abbattere i costi di produzione

L’agricoltura cellulare – cioè la produzione di carne a partire da cellule coltivate anziché prelevate da animali da allevamento – sta compiendo passi da gigante, tanto da renderla l’opzione più praticabile per l’industria alimentare. Uno di questi progressi è stato compiuto dal Tufts University Center for Cellular Agriculture (TUCCA), guidato da David Kaplan, Stern Family Professor of Engineering, che ha creato cellule muscolari bovine in grado di produrre i propri fattori di crescita. Una svolta che potrebbe ridurre significativamente i costi di produzione.

In questo studio, pubblicato sulla rivista Cell Reports Sustainability, i ricercatori hanno modificato le cellule staminali per produrre il proprio fattore di crescita dei fibroblasti (FGF), che innesca la crescita delle cellule muscolari scheletriche, quelle che si trovano in una bistecca o in un hamburger.
“L’FGF non è esattamente un nutriente”, ha dichiarato Andrew Stout, all’epoca ricercatore principale del progetto e ora direttore scientifico del Tufts Cellular Agriculture Commercialization Lab. “È più che altro un’istruzione per le cellule a comportarsi in un certo modo. Quello che abbiamo fatto è stato ingegnerizzare le cellule staminali muscolari bovine affinché producessero questi fattori di crescita e attivassero da sole le vie di segnalazione”.

I fattori di crescita contribuiscono alla maggior parte del costo di produzione della carne coltivata (fino a oltre il 90%) anche perché devono essere reintegrati ogni pochi giorni. Questo limita la possibilità di fornire un prodotto accessibile ai consumatori. L’eliminazione di questo ingrediente dai terreni di coltura consente un enorme risparmio sui costi.

Stout è a capo di diversi progetti di ricerca presso il Cellular Agriculture Commercialization Lab della Tufts University, uno spazio di incubazione tecnologica creato per prendere le innovazioni dell’università e svilupparle fino al punto in cui possono essere applicate su scala industriale in un contesto commerciale.

“Anche se abbiamo ridotto in modo significativo il costo dei supporti, c’è ancora qualche ottimizzazione da fare per renderli pronti per l’industria”, ha spiegato. Ad esempio, è stata riscontrata una crescita più lenta con le cellule ingegnerizzate, “ma credo che potremo supere” l’intoppo. Questo approccio potrebbe anche portare a una più semplice approvazione normativa del prodotto alimentare finale, poiché la regolamentazione è più severa per l’aggiunta di geni estranei rispetto alla modifica di quelli nativi.

La strategia funzionerà anche per altri tipi di carne, come il pollo, il maiale o il pesce? Stout pensa di sì. “Tutte le cellule muscolari e molti altri tipi di cellule si affidano tipicamente all’FGF per crescere”, ha precisato. “Crediamo che progressi come questo – hanno aggiunto i ricercatori – ci porteranno molto più vicini a vedere carne coltivata a prezzi accessibili nei nostri supermercati locali entro i prossimi anni”.

La polpetta (avvelenata) del ‘meat sounding’ altra grana europea

Se davvero di polpetta si tratta è sicuramente avvelenata. Perché intorno al ‘meat sounding’ si sta scatenando una battaglia tra Roma e Bruxelles. Qual è il nodo di questa vicenda che può sollevare qualche sorriso ma che in realtà cela una grana grande e grossa? Sintetizzando: si tratta di quei prodotti a base vegetale che vengono venduti con nomi che richiamano o citano espressamente prodotti a base di carne. Alzi la mano chi di noi non ha mai sentito parlare dell’hamburger vegetale, o della bistecca di soia, o delle polpette vegane, o – esagerando – della bresaola di grano? Ecco, tutti questi nomi che solleticano (in teoria) le papille gustative sono fuorilegge nel nostro Paese dall’anno scorso, in concomitanza con il ‘no’ alle carni sintetiche. Qui nasce il ‘meat sounding’, vietato peggio dei rave party, perché – lamentano – ti illudi di mangiare una chianina e invece ti trovi a ingurgitare soia.

Se da un lato il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e il senatore leghista Gianmarco Centinaio sono scesi in campo per contrastare questo presunto ‘tarocco’ alimentare a tutela dei consumatori, dall’altro le aziende che producono alimenti vegetariani sono sul piede di guerra e hanno scritto una lettera alla Ue per modificare la legge italiana e lasciare così alla polpetta la possibilità di esistere sia sotto forma di carne sia di proteine vegetali. La tanto vituperata Bruxelles, questa volta viene invocata per sanare un contrasto interno. Che succederà? In teoria dovrebbe essere l’etichettatura a fare da spartiacque tra i due prodotti anche per quelle persone che sono più svagate e magari tendono a confondersi.

E’ chiaro che di fronte alla guerra tra Israele e Hamas, alla crisi del Mar Rosso e al conflitto tra Russia e Ucraina, la vexata quaestio del ‘meat sounding’ è una briciola (il pane non rientra nella contesa…) ma i numeri fanno riflettere. Solo in Italia sono 22 milioni le persone che consumano abitualmente prodotti di natura vegetale, mentre quel 25% di italiani che ancora non ha testato le prelibatezze vegetariane/vegane ha confessato di essere intenzionata a farlo. Insomma, non proprio riscontri trascurabili. “Speriamo che usino un po’ di fantasia”, l’auspicio rivolto da centinaio a Unionfood. Una battuta che non ha fatto ridere i produttori ma che rischia di sollevare un ulteriore polverone. Nemmeno un ‘buon appetito’ ci sta bene in mezzo a tanta tensione. Insomma, a questo giro deve apparecchiare tavola Bruxelles

Coltivare insalata nello spazio? Troppo alto il rischio di infezioni batteriche

Coltivare l’insalata nello spazio? Potrebbe non essere una buona idea. La lattuga e le altre verdure a foglia verde fanno parte di una dieta sana ed equilibrata, anche per gli astronauti in missione. Sono passati più di tre anni da quando la National Aeronautics and Space Administration ha inserito la l’insalata coltivata nello spazio nel menu degli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Accanto alle tortillas di farina e al caffè in polvere, i cosmonauti possono mangiare lattuga coltivata in camere di controllo a bordo della Iss che tengono conto della temperatura ideale, della quantità di acqua e di luce di cui le piante hanno bisogno per maturare.

Ma c’è un problema. Sulla Stazione spaziale internazionale sono presenti molti batteri e funghi patogeni e molti di questi microbi sono molto aggressivi e possono facilmente colonizzare i tessuti della lattuga e di altre piante. Una volta che le persone mangiano verdura colpita da E. coli o Salmonella, possono ammalarsi.
Con i miliardi di dollari che la Nasa e le aziende private come SpaceX investono ogni anno nell’esplorazione dello spazio, alcuni ricercatori temono che un’epidemia di malattie alimentari a bordo della Stazione spaziale internazionale possa far deragliare le missioni

In una nuova ricerca pubblicata su Scientific Reports e su npj Microgravity, i ricercatori dell’Università del Delaware hanno coltivato lattuga in condizioni che imitavano l’ambiente senza peso a bordo della Stazione spaziale internazionale. Gli scienziati hanno hanno scoperto che le piante sottoposte alla microgravità simulata erano in realtà più inclini a contrarre infezioni da un agente patogeno umano, la Salmonella.

Gli stomi, i minuscoli pori delle foglie e degli steli che le piante usano per respirare, normalmente si chiudono quando percepiscono un fattore di stress, come i batteri, nelle vicinanze. Ma quando i ricercatori hanno aggiunto batteri alla lattuga durante la simulazione di microgravità, hanno scoperto che le verdure a foglia aprivano gli stomi invece di chiuderli.

Secondo la Nasa, circa sette persone alla volta vivono e lavorano sulla Stazione spaziale internazionale. Non è un ambiente minuscolo – è grande quanto una casa con sei camere da letto – ma è comunque il tipo di luogo in cui i germi possono creare scompiglio. Quindi, se le piante aprono gli stomi in un ambiente di microgravità e permettono ai batteri di entrare facilmente, cosa si può fare?

La risposta non è così semplice. “Iniziare con semi sterilizzati è un modo per ridurre i rischi di avere microbi sulle piante”, spiegano i ricercatori. “Ma poi i microbi possono trovarsi nell’ambiente spaziale e in questo modo possono arrivare sulle piante”. Gli scienziati potrebbero dover modificare la genetica delle piante per impedire loro di aprire gli stomi nello spazio ed è in questa direzione che sta andando la ricerca.