Una preghiera a ‘Pachamama’ apre la Cop16 a Cali. L’obiettivo? Far pace con la natura

Fare la pace con la natura. E’ l’appello che arriva da Cali, in Colombia, dove lunedì si aperta la Cop16, la conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità. L’ambizione – che dovrà ora essere definita da azioni concrete da mettere in campo – è quella di liberare le risorse finanziarie necessarie per raggiungere l’obiettivo di fermare la distruzione della biodiversità da parte dell’umanità entro il 2030.

PREGHIERA ALLA MADRE TERRA. Ad aprire i lavori è stata la ministra dell’Ambiente colombiana, Susana Muhamad, che ha assunto la presidenza di questa 16aesima Conferenza della Convenzione Onu sulla Diversità Biologica (CBD), in una prima sessione plenaria aperta da una preghiera alla ‘Pachamama’, la Madre Terra, pronunciata dai membri di uno dei 115 popoli indigeni del Paese.

Questa Cop sulla biodiversità, la più grande mai organizzata con 23.000 partecipanti, si svolge sotto stretta sorveglianza a causa delle minacce dei guerriglieri in guerra con il governo colombiano. Circa 11.000 agenti di polizia e soldati stanno rafforzando la sicurezza a Cali, che è in stato di massima allerta e dove sono attesi 140 ministri e una dozzina di capi di Stato.

“NON C’E’ TEMPO DA PERDERE”. “Noi siamo natura”, ha dichiarato la ministra colombiana “ed è da questo senso profondo, quasi spirituale, di umanità che possiamo creare questo obiettivo comune, che dovrebbe essere importante quanto, se non più, della transizione energetica e della decarbonizzazione” dell’economia, trattate dalle Cop sul clima di più alto profilo (la prossima, la Cop29, si aprirà tra tre settimane in Azerbaigian), nonostante gli appelli a conciliare la crisi climatica con quella della natura. “Il pianeta non ha tempo da perdere” e “Cali 2024 potrebbe essere una luce in un mondo molto buio’” ha detto incoraggiando i delegati dei 196 Paesi membri (esclusi gli Stati Uniti) della CBD.

MANCANO LE STRATEGIE PER LA BIODIVERSITA’. Due anni fa, in occasione della Cop15, era stato adottato lo storico accordo “Kunming-Montreal”, una tabella di marcia volta a “fermare e invertire” entro il 2030 la distruzione di terre, oceani e specie viventi essenziali per l’umanità. I Paesi si erano impegnati a presentare una “strategia nazionale per la biodiversità” entro la Cop16, che riflettesse la loro parte di sforzi necessari per raggiungere i 23 obiettivi globali stabiliti: proteggere il 30% della terra e del mare, ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati, dimezzare l’uso di pesticidi e il tasso di introduzione di specie aliene invasive, mobilitare 200 miliardi di dollari all’anno per la natura, ecc.

Ad oggi, però, solo 34 Paesi hanno rispettato l’impegno di presentare strategie complete. E 107 hanno presentato “obiettivi nazionali”, cioè impegni su tutti o alcuni delle tappe da raggiungere.

LA BATTAGLIA FINANZIARIA. La Cop16 deve anche presentare i dettagli di un meccanismo di monitoraggio degli sforzi globali, con indicatori indiscutibili, per responsabilizzare i Paesi e preparare un rapporto ufficiale credibile sui progressi compiuti per la Cop17 del 2026. ACali si dovrà anche negoziare un sistema di ripartizione dei profitti realizzati dalle aziende dei Paesi ricchi, tra cui quelle cosmetiche e farmaceutiche, grazie ai dati genetici derivati da piante e animali conservati dai Paesi in via di sviluppo. Ma il vero nocciolo della battaglia, infatti, sarà finanziario: “Siamo tutti d’accordo che siamo sottofinanziati per questa missione, che abbiamo bisogno di altre fonti di finanziamento”, ha dichiarato la presidente della Cop16, esortando i Paesi sviluppati, che dovrebbero fornire 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025, ad annunciare nuovi impegni.

I popoli indigeni dell’Amazzonia chiedono un “meccanismo di finanziamento diretto” per poter “continuare a conservare e proteggere questi territori”, ha spiegato Oswaldo Muca Castizo, presidente dell’Organizzazione dei popoli indigeni dell’Amazzonia colombiana (OPIAC). Tanto più che, secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), più di un quarto di tutte le specie è minacciato di estinzione.

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INFOGRAFICA INTERATTIVA Amazzonia, tasso di deforestazione quasi dimezzato rispetto al 2022

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, l’andamento della deforestazione dell’Amazzonia dal 2008. TerraBrasilis, piattaforma sviluppata dall’unità di ricerca del Ministero brasiliano della Scienza, della Tecnologia e delle Innovazioni (Inpe), ha rilevato che nel corso del 2023 il tasso di deforestazione si è quasi dimezzato rispetto al 2022 (7.665 km2 contro 12.695 km2). Il monitoraggio satellitare ha quindi evidenziato un trend ‘positivo’, confermando quello dello scorso maggio che aveva mostrato come nei primi mesi del 2023 c’era stato un calo del 64% nell’area deforestata rispetto allo stesso periodo del 2022.

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Si riduce la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana, ma gli incendi sono una minaccia

Giovedì il governo brasiliano ha annunciato un calo del 22,3% su base annua della deforestazione in Amazzonia, il miglior risultato degli ultimi quattro anni, ma la siccità e gli incendi stanno minacciando la più grande foresta tropicale del mondo. Secondo il sistema di monitoraggio della deforestazione PRODES, gestito dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), tra agosto 2022 e luglio 2023 sono stati distrutti 9.001 chilometri quadrati di foresta primordiale. Questo rappresenta una diminuzione del 22,3% rispetto al periodo agosto 2021-luglio 2022 (11.594 km2).

Una coalizione di gruppi ambientalisti ha accolto con favore questi risultati, che “mettono il Paese sulla strada giusta per raggiungere il suo obiettivo climatico“. Si tratta del miglior risultato osservato dall’INPE dal 2019, anno di inizio dell’impennata del disboscamento nella foresta amazzonica, che ha raggiunto un picco di 13.038 km2 distrutti tra agosto 2020 e luglio 2021, il massimo da 15 anni a questa parte.

Il presidente Luiz Inacio Lula da Silva si è impegnato a ridurre a zero la deforestazione in Brasile entro il 2030, invertendo le politiche ambientali del suo predecessore di estrema destra Jair Bolsonaro (2019-2022), scettico sul cambiamento climatico. Durante la conferenza stampa di presentazione dei risultati, la ministra dell’Ambiente Marina Silva ha dichiarato che l’Amazzonia è stata oggetto di una “profusione di crimini” negli ultimi anni “dopo un completo smantellamento della struttura di governance ambientale“.

Secondo il governo brasiliano, la riduzione della deforestazione tra agosto 2022 e luglio 2023 ha evitato l’emissione di 133 milioni di tonnellate di CO2, pari al 7,5% delle emissioni totali del Paese. Mariana Napolitano, direttrice esecutiva del Wwf-Brasile, ha accolto con favore questa “riduzione significativa“, ma ha messo in guardia dall'”altissimo livello di degrado” dell’Amazzonia, che copre il 59% del territorio brasiliano. “Stiamo assistendo a uno scenario di incendi estremi in una foresta tropicale che normalmente non brucia spontaneamente“, ha dichiarato all’AFP. Secondo il Wwf, l’Amazzonia ha registrato il peggior mese di ottobre degli ultimi 15 anni, con 22.000 incendi, un aumento del 59% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Il nord e il nord-est del Brasile soffrono di una grave siccità che ha ridotto i flussi fluviali a livelli storicamente bassi. La situazione è destinata a peggiorare nei prossimi mesi, a causa dell'”alta probabilità” di precipitazioni inferiori alla media e di temperature “superiori ai valori storici“, secondo un recente rapporto del Centro nazionale per il monitoraggio e l’allarme dei disastri naturali (CEMADEN).

L’appello di Lula per l’Amazzonia: I paesi ricchi si facciano avanti

Al termine del vertice sull’Amazzonia, il presidente brasiliano Luiz Ignacio Lula da Silva chiede ai Paesi ricchi di contribuire finanziariamente agli sforzi per frenare la deforestazione. “Non sono i Paesi come Brasile, Colombia e Venezuela ad avere bisogno di soldi. È la natura“, scandisce.

È a Belem, città di 1,3 milioni di abitanti nel nord del Brasile che ha ospitato il vertice, che si terrà la conferenza delle Nazioni Unite sul clima nel 2025. Qui in questi giorni, per la prima volta dopo 14 anni, si sono riuniti i rappresentanti degli otto Paesi membri del Trattato di cooperazione amazzonica (OTCA). Brasile, Colombia, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela hanno firmato la “Dichiarazione di Belem“, che prevede la creazione di un’Alleanza contro la deforestazione, ma senza fissare obiettivi concreti.

Non ci sono misure chiare per rispondere all’emergenza climatica, né obiettivi precisi o scadenze fissate per sradicare la deforestazione“, denuncia Leandro Ramos della sezione brasiliana di Greenpeace. Avrebbe voluto che la dichiarazione menzionasse anche “la fine delle esplorazioni petrolifere” in Amazzonia.

“Per garantire che la nostra visione non resti sulla carta, dobbiamo adottare azioni concrete“, ammette il ministro degli Esteri brasiliano, Mauro Vieira.

Ieri al vertice si sono uniti i presidenti del Congo-Brazzaville e della Repubblica del Congo, Paesi che ospitano vaste foreste tropicali. Presenti anche l’Indonesia e Saint Vincent e Grenadine.

Al termine delle discussioni, è stata rilasciata una dichiarazione congiunta a nome di questi Paesi e degli otto membri sudamericani dell’OTCA, in cui si afferma l’impegno per “la conservazione delle foreste, la riduzione delle cause della deforestazione e la ricerca di una giusta transizione ecologica“.

I Paesi hanno anche espresso “preoccupazione per il mancato rispetto degli impegni finanziari da parte dei Paesi sviluppati“, citando i 100 miliardi di dollari promessi ogni anno ai Paesi in via di sviluppo per combattere il riscaldamento globale. Questo impegno risale al 2009 e aveva una scadenza al 2020.

Se i Paesi ricchi vogliono davvero preservare le foreste esistenti, devono investire denaro e non solo prendersi cura degli alberi, ma anche delle persone che vivono sotto di loro e che vogliono vivere dignitosamente“, insiste Lula, stimando che il vertice sarà “visto in futuro come un punto di svolta per lo sviluppo sostenibile“. “Abbiamo gettato le basi per costruire un’agenda comune con i Paesi in via di sviluppo con foreste tropicali, fino a quando non ci incontreremo di nuovo qui a Belem per la COP30“, aggiunge.

La dichiarazione congiunta dei Paesi dell’OTCA, un documento in 113 punti, ha definito in dettaglio le tappe della cooperazione “per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno” in questa vasta regione che ospita circa il 10% della biodiversità mondiale.
Se si raggiungesse questo punto di non ritorno, l’Amazzonia emetterebbe più carbonio di quanto ne assorba, aggravando il riscaldamento globale.
Secondo i dati raccolti dal progetto di ricerca MapBiomas, tra il 1985 e il 2021 la foresta amazzonica ha perso il 17% della sua vegetazione.

Dal vertice di Belem Alleanza contro la deforestazione dell’Amazzonia

Photo credit: AFP

Nel summit di Belem, i Paesi sudamericani dell’Amazzonia hanno deciso di formare una “alleanza” contro la deforestazione. Non sono stati fissati obiettivi concreti, ma il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva saluta l’iniziativa come un “punto di svolta“.
La creazione di un’entità denominata “Alleanza amazzonica per la lotta alla deforestazione” è contenuta in una dichiarazione congiunta firmata da Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela.

L’alleanza “mira a promuovere la cooperazione regionale nella lotta contro la deforestazione, per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno“. Se questo punto di non ritorno venisse raggiunto, l’Amazzonia emetterebbe più carbonio di quanto ne assorbe, aggravando il riscaldamento globale.

Ma, contrariamente alle aspettative delle organizzazioni ambientaliste, la dichiarazione congiunta pubblicata al termine della prima delle due giornate del vertice non definisce alcun obiettivo comune per l’eliminazione totale della deforestazione, come il Brasile ha promesso di fare entro il 2030.

Il documento, in 113 punti, definisce in dettaglio le tappe fondamentali della cooperazione tra gli otto Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (OTCA), per promuovere lo sviluppo sostenibile in questa vasta regione che ospita circa il 10% della biodiversità mondiale.

È un primo passo, ma non ci sono decisioni concrete, è solo un elenco di promesse“, sostiene Marcio Astrini, responsabile dell’Osservatorio sul clima, ONG brasiliana.
In un momento in cui i record di temperatura vengono battuti ogni giorno, è impensabile che i leader dei Paesi amazzonici non siano in grado di mettere nero su bianco in una dichiarazione che la deforestazione deve essere ridotta a zero“, denuncia.
Il vertice si è aperto nel giorno in cui il servizio europeo Copernicus ha confermato che luglio è stato il mese più caldo mai registrato sulla Terra.

Non è mai stato così urgente riprendere ed estendere la nostra cooperazione“, ribadisce Lula in apertura, facendo riferimento a un “nuovo sogno amazzonico“.

Il suo omologo colombiano Gustavo Petro, da parte sua, chiede che le parole si traducano al più presto in azioni concrete. “Se siamo sull’orlo dell’estinzione, se questo è il decennio in cui si devono prendere decisioni, cosa stiamo facendo, a parte i discorsi?“, domanda.

Lula e Gustavo Petro saranno raggiunti a Belem dai loro omologhi di Bolivia, Colombia e Perù.
L’Ecuador, la Guyana e il Suriname sono rappresentati da ministri, mentre il presidente venezuelano Nicolas Maduro, affetto da un’infezione all’orecchio, è stato sostituito con breve preavviso dal suo vicepresidente Delcy Rodriguez.

Il vertice di Belém è una prova generale per questa città portuale di 1,3 milioni di abitanti nel nord del Brasile, che ospiterà la conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP30 nel 2025.

Tornato al potere a gennaio, Lula si è impegnato a fermare la deforestazione, che è aumentata notevolmente sotto il suo predecessore di estrema destra Jair Bolsonaro, entro il 2030. I terreni deforestati vengono spesso trasformati in pascoli per il bestiame, ma la distruzione è causata anche dai cercatori d’oro e dai trafficanti di legname.

Per Petro però la “deforestazione zero” sarebbe “insufficiente“. “La scienza ci ha dimostrato che anche se copriamo tutto il mondo di alberi, non sarà sufficiente ad assorbire le emissioni di CO2. Dobbiamo abbandonare i combustibili fossili“, insiste. A suo avviso, questa responsabilità ricade principalmente sui “Paesi del Nord“, mentre “noi (i Paesi amazzonici) dobbiamo proteggere la spugna“, come descrive la foresta tropicale.
Ma la transizione energetica è una questione più delicata per i principali produttori di idrocarburi della regione amazzonica, come Venezuela e Brasile.

Il Brasile annuncia: “La deforestazione in Amazzonia si è ridotta di un terzo a luglio”

La deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è stata quasi tre volte inferiore a luglio rispetto allo stesso mese del 2022. Sono i dati ufficiali diffusi dal governo Lula. Questo calo è tanto più significativo se si considera che luglio, nel cuore della stagione secca, è solitamente uno dei mesi peggiori dell’anno in termini di distruzione della più grande foresta tropicale del pianeta. I dati satellitari del sistema Deter, gestito dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), mostrano che in Amazzonia sono stati cancellati 500 km2 di foresta, il livello più basso dal 2017. Questo rappresenta un calo del 66% rispetto ai 1.487 km2 del luglio 2022, ultimo anno in carica dell’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro. Il suo successore di sinistra Luiz Inacio Lula da Silva, che aveva già governato il Paese dal 2003 al 2010, ha iniziato il suo terzo mandato a gennaio promettendo di fare della conservazione dell’Amazzonia una priorità e di fare tutto il possibile per sradicare la deforestazione illegale entro il 2030.

Siamo entrati in un circolo virtuoso: chi commette crimini ambientali non è più sicuro di rimanere impunito, quindi ci pensa due volte prima di agire“, ha dichiarato la ministra dell’Ambiente Marina Silva in conferenza stampa. Prendendo in considerazione i primi sette mesi del governo Lula, la deforestazione è diminuita del 42,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, sotto il presidente Bolsonaro. E nel periodo di riferimento da agosto a luglio, il periodo preferito dagli specialisti per un’analisi anno su anno a partire dal punto di svolta della stagione secca, il calo è stato del 7% rispetto ai 12 mesi precedenti.

Questi dati sono stati resi pubblici una settimana prima di un vertice a Belem, nel nord del Brasile, a cui parteciperanno i rappresentanti degli otto Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (OTCA). “Il calo della deforestazione in Amazzonia nel mese di luglio è un segno importante che la situazione sta tornando sotto controllo“, ha dichiarato Mariana Napolitano, dell’ufficio brasiliano del World Wide Fund for Nature (Wwf), in un comunicato stampa. Tuttavia, le cifre sono molto più preoccupanti per il Cerrado, la savana tropicale ricca di biodiversità a sud dell’Amazzonia. Con 612 km2 disboscati il mese scorso, si è registrato un aumento del 26% dal luglio 2022. Alcuni esperti temono che la concentrazione degli sforzi sull’Amazzonia stia trasferendo i crimini ambientali al Cerrado, dove la deforestazione negli ultimi 12 mesi ha raggiunto i 6.359 km2, il massimo dal 2017.

Effetto Lula, la deforestazione dell’Amazzonia diminuita del 33% nel 2023

Photocredit Afp

 

La deforestazione nella foresta amazzonica brasiliana è diminuita del 33,6% tra gennaio e giugno 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo i dati ufficiali pubblicati giovedì. La lotta contro lo sfruttamento della foresta amazzonica è uno dei principali obiettivi del governo di Luiz Inacio Lula da Silva, rieletto presidente del Brasile il 1° gennaio. Le immagini satellitari dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) mostrano che nella prima metà dell’anno sono stati deforestati 2.649 km2 , rispetto ai 3.988 km2 tra gennaio e giugno 2022. A quel tempo, il leader di estrema destra Jair Bolsonaro, che è stato pesantemente criticato per la sua gestione dell’Amazzonia, era ancora al potere. “Abbiamo raggiunto un punto in cui la deforestazione in Amazzonia sta diminuendo costantemente“, ha dichiarato la ministra dell’Ambiente Marina Silva in una conferenza stampa. Ha dichiarato che questi risultati sono il frutto della “decisione del Presidente Lula di fare della lotta al cambiamento climatico e alla deforestazione una politica di governo“.

Nel solo mese di giugno, la deforestazione è diminuita del 41% rispetto al 2022. Dopo la sua rielezione, Lula ha promesso di annullare le politiche ambientali del suo predecessore e di porre fine alla deforestazione illegale entro il 2030. Durante il mandato di Jair Bolsonaro (2019-2022), la deforestazione in Amazzonia è aumentata del 75% rispetto alla media del decennio precedente. A giugno, Lula ha presentato il suo piano d’azione in materia, che prevedeva il sequestro immediato della metà delle aree disboscate illegalmente all’interno di zone protette, la creazione di altri tre milioni di ettari di queste aree protette entro il 2027 e l’assunzione di migliaia di specialisti del settore.

Questo annuncio ha fatto seguito alla decisione dei parlamentari di limitare in modo significativo il portafoglio del Ministero dell’Ambiente, eliminando i suoi poteri di gestione delle risorse idriche e del catasto rurale. Per raggiungere i suoi obiettivi, Lula cerca regolarmente di convincere i Paesi più ricchi a finanziare la conservazione delle foreste. Norvegia e Germania hanno già contribuito al Fondo per l’Amazzonia creato a questo scopo. L’ambiente è al centro dei negoziati tra il Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Venezuela) e l’UE, che ha recentemente esortato i Paesi sudamericani a essere più esigenti nella lotta contro i crimini ambientali, prima di poter finalizzare un accordo bilaterale di libero scambio.

In Brasile 100 giorni di presidenza Lula: ma per l’ambiente è ancora tutto da fare

Quando è tornato alla presidenza del Brasile, Lula ha promesso di affrontare la questione ambientale con urgenza. Ma dopo 100 giorni di mandato, che saranno trascorsi lunedì, non ha ancora agito e la comunità internazionale sta procedendo a rilento nel fornire fondi al Brasile.

Annunciando una rottura radicale con il suo predecessore Jair Bolsonaro, che si era autoproclamato ‘Capitan Motosega’ dopo aver incoraggiato una deforestazione record in Amazzonia, Luiz Inacio Lula da Silva ha promesso di frenare la lotta contro il riscaldamento globale e di azzerare la deforestazione. Il presidente di sinistra ha persino nominato Marina Silva, un’indiscussa ambientalista, come ministro dell’Ambiente ed è stato accolto come una rockstar al vertice delle Nazioni Unite sul clima in Egitto a novembre, ancor prima di entrare in carica il 1° gennaio seguente. Nel suo primo giorno di mandato ha firmato una serie di decreti, creando una task force interministeriale sulla deforestazione e riattivando il Fondo per l’Amazzonia, che era stato sospeso sotto Bolsonaro.

Ma gli ambientalisti sono ancora in attesa di azioni concrete contro la distruzione dell’Amazzonia da parte di agricoltori, allevatori e cercatori d’oro. “Il governo ha detto le cose giuste. Ora stiamo aspettando che passi dalla modalità di pianificazione a quella di azione“, afferma Cristiane Mazzetti di Greenpeace Brasile, “Abbiamo bisogno di vedere dei risultati”, aggiunge.
Ma Lula sta lottando per ottenere impegni finanziari dai Paesi ricchi per proteggere l’Amazzonia. Dalla sua visita alla Casa Bianca, a febbraio, è tornato solo con una vaga dichiarazione degli Stati Uniti sulla loro “intenzione” di contribuire al Fondo per l’Amazzonia, senza alcun importo o data. A gennaio, la Germania aveva offerto 200 milioni di euro per l’ambiente in Brasile, compresi 35 milioni di euro per il Fondo per l’Amazzonia, lanciato nel 2008 con 1 miliardo di dollari dalla Norvegia. Ma gli sforzi di Brasilia per attrarre finanziamenti dall’Unione Europea, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Spagna non hanno finora prodotto nulla di concreto.

Il governo Lula si trova in un vicolo cieco: ha bisogno di fondi per ridurre la deforestazione, ma deve prima ridurla per creare fiducia e attirare i finanziamenti. Dopo anni di impunità per chi distrugge le foreste, il problema è troppo radicato per essere risolto rapidamente, dicono gli esperti. I dati relativi al secondo mese di presidenza Lula, febbraio, non sono confortanti, con la deforestazione che ha raggiunto un nuovo record mensile in Amazzonia. Lula deve agire su diversi fronti: ristrutturare le operazioni di sorveglianza, smantellare le reti della criminalità organizzata che traggono profitto dalla distruzione delle foreste, investire nell’economia verde e mantenere le promesse di creare nuove riserve indigene. “Per il momento, il governo Lula si è dedicato soprattutto a risolvere i problemi lasciati dall’amministrazione Bolsonaro“, afferma Raul do Valle del WWF Brasile. Ma “non c’è tempo da perdere“, avverte Cristiane Mazzetti, ricordando l’importanza cruciale della conservazione dell’Amazzonia nella lotta al riscaldamento globale.

Cofan Avie - Amazzonia

In Amazzonia sul sentiero dell’ayahuasca e della difesa del suolo

La piccola comunità è famosa per aver ottenuto l’allontanamento delle compagnie minerarie dal suo territorio amazzonico nel nord dell’Ecuador. Ma i Cofan Avie hanno un’altra caratteristica misteriosa e affascinante: sono i maestri dell’ayahuasca, una pianta allucinogena, “medicina” didattica e porta d’accesso al mondo degli “spiriti”.Una volta Dio viveva qui, su questo pianeta“, dice Isidro Lucitante, 63 anni, patriarca e “taitan” (sciamano) di queste nove famiglie distribuite su 55.000 ettari di fiumi e giungle lungo il confine con la Colombia. “Si strappò un capello e lo piantò nella terra. Così nacque la yagé (ayahuasca), fonte di conoscenza e saggezza”.

Nel bene e nel male, l’ayahuasca, un decotto tradizionalmente preparato dalla liana Banisteriopsis caapi dalle popolazioni del bacino amazzonico occidentale, ha acquisito una notorietà internazionale. A seconda delle versioni, viene vista come una cura miracolosa, uno strumento per l’esplorazione interiore e per lo “sviluppo personale”, un allucinogeno o una pericolosa droga psicotropa. In Perù, e in misura minore in Ecuador, si è sviluppata una lucrosa industria del ‘turismo psichedelico’ intorno a questa pianta, che ora si può trovare in vendita, in capsule o infusi, anche su internet.
Tra i Cofan Avie, l’ayahuasca – chiamata “yagé” – è rimasta una cultura viva, condivisa tra le generazioni, legata alla natura rigogliosa che li circonda e alla loro cosmogonia ancestrale. Lontana da qualsiasi folclorizzazione o commercializzazione, ma aperta al mondo e a pochi visitatori privilegiati. Ogni fine settimana, i membri della famiglia, i vicini e i visitatori si siedono sulle amache sotto una maloca (una casa di legno comune) piantata nel cuore della grande foresta, e bevono questa bevanda brunastra e amara. Sotto la supervisione del “taitan” Isidro e dei suoi assistenti, tra l’odore del tabacco, i canti rivolti agli “spiriti”, la nausea e i monologhi febbrili dei partecipanti, è un viaggio caotico, ipnotico, interiore e collettivo, che proietta la coscienza in un nuovo spazio sconosciuto.

Raccolta nella foresta, la liana viene “schiacciata, mescolata con acqua e fatta bollire per ore. Chi la prepara deve digiunare o seguire una dieta speciale. È in questo momento che si prepara l’energia della pianta“. Nella famiglia Lucitante, la cerimonia si svolge al calar della sera nella maloca di famiglia, dipinta con pappagalli, serpenti e teste di pantera multicolori, oltre che con i volti di illustri anziani.
I Cofan Avie sono noti in Ecuador per aver ottenuto nel 2018 una storica vittoria legale contro l’industria mineraria, con l’annullamento da parte del tribunale locale di 52 concessioni per l’estrazione di oro assegnate dallo Stato ecuadoriano senza consultare o informare la comunità. Questa lotta è stata coronata nel 2022 dal Goldman Prize, il premio Nobel per gli attivisti ambientali, assegnato ad Alex Lucitante, uno dei leader della piccola comunità.

Alex, 30 anni e uno dei figli dello sciamano Isidro, è colui che ha organizzato la lotta contro i minatori d’oro, istituendo una guardia indigena, pattuglie e un sistema di droni di sorveglianza per raccogliere le prove delle violazioni del loro territorio. “È stata una lotta lunga e difficile, per proteggere il nostro territorio e la natura, un percorso in cui siamo stati ispirati dalla saggezza degli anziani e dalla conoscenza degli yagé“, spiega. “La pianta è tutto per noi, proprio come il nostro territorio. Non potremmo vivere senza nessuna delle due. È attraverso la medicina yagé che possiamo connetterci con gli spiriti e (…) riequilibrare il mondo. Lo yagé è un percorso sacro che ci invita a vivere in armonia con la natura”.
È scientificamente riconosciuto che l’ayahuasca non crea dipendenza, anzi, agisce contro la dipendenza. “Vengono qui persone malate, alcune dipendenti da droghe. Vanno via tranquilli o in migliore salute”, assicura Isidro, secondo il quale “la yagé è un dono di Dio per prendersi cura dell’umanità”. “La pianta può guarire tutto, se lo si fa con fede e rispettando le regole”, aggiunge Alex, sollevando un velo discreto sulla dimensione esoterica e iniziatica di questa conoscenza nascosta.

Ecuador, il petrolio è l’oro nero ma sta uccidendo l’Amazzonia

Tutto ebbe inizio un giorno di febbraio del 1967. Il ‘pozzo Lago Agrio n. 1’ fu il primo pozzo petrolifero trivellato in Ecuador, dal consorzio americano Texaco-Gulf, aprendo l’era dell’oro nero nell’Amazzonia ecuadoriana. “Quel giorno, ministri e funzionari fecero il bagno nel petrolio. Poi gettarono tutto nel fiume dietro di loro… fu un buon inizio”, racconta Donald Moncayo, coordinatore generale dell’Unione delle vittime della Texaco (Udapt). Cinquantasei anni dopo, il petrolio, principale esportazione del Paese, continua a scorrere. Lago Agrio è diventata la capitale petrolifera del Paese, la foresta si sta costantemente ritirando e l’inquinamento continua a causare danni, dicono gli attivisti locali.

Del pozzo n. 1 rimane la pompa in acciaio con la testa di cavallo, congelata in mezzo a un prato verde, sormontata da un bel segno di ricordo. È stato chiuso nel 2006, dopo aver prodotto quasi 10 milioni di barili. Ma in tutta la regione, che è stata colonizzata economicamente dallo Stato fin dagli anni ’60, milioni di ettari di pozzi, oleodotti, cisterne, autocisterne, stazioni di lavorazione e torce sono tutti lì… in una strana sovrapposizione di petrolio nero e vegetazione lussureggiante.

Il petrolio in Ecuador significa quasi 500.000 barili al giorno e una media di 13 miliardi di dollari all’anno di entrate. Una benedizione per le casse dello Stato e per lo “sviluppo” del Paese, secondo le autorità. Una maledizione sinonimo di debito, povertà e inquinamento su larga scala, afferma Donald Moncayo senza alcuna concessione. L’uomo, 49 anni, “nato a 200 metri da un pozzo petrolifero”, dagli anni ’90 conduce una difficile e interminabile crociata contro la Texaco, insieme a un manipolo di altri attivisti.

La storia è nota: nel 1993, circa 30.000 abitanti della regione hanno presentato una denuncia contro il gigante americano (dal 2001 di proprietà della Chevron) presso un tribunale di New York. In 30 anni di attività, l’azienda ha scavato 356 pozzi e per ognuno di essi ha creato bacini di ritenzione (880 in totale) che raccolgono resti di petrolio, rifiuti tossici e acqua contaminata (60 milioni di litri in totale, secondo l’Udapt). Queste ‘piscine’, sparse per la foresta, hanno causato un grave disastro ecologico, spesso citato come uno dei peggiori disastri petroliferi della storia. Dopo molti procedimenti e colpi di scena, nel 2011 la Texaco, ora Chevron, è stata condannata dalla giustizia ecuadoriana a pagare 9,5 miliardi di dollari per riparare i danni. Nel 2018, però, il colosso americano ha ottenuto l’annullamento della sentenza davanti alla Corte permanente di arbitrato dell’Aia. “Texaco ha saccheggiato questa parte dell’Amazzonia. Da allora, hanno fatto di tutto per sfuggire alla giustizia e non hanno pagato un centesimo per riparare i danni. Che paghino”, ha detto Moncayo. La Chevron ha dichiarato che la Texaco ha pagato 40 milioni di dollari per ripulire l’area.

Abbandonato nel 1994, il pozzo “Agua-Rico 4” è ora nascosto nella foresta alla fine di un piccolo sentiero. Basta un bastone per rompere lo strato di humus che ricopre la vecchia vasca e far uscire un liquido nero e denso. Anche un ruscello sottostante è sporco. “È così dappertutto”, dice Donald Moncayo, i cui guanti bianchi da chirurgo sono imbrattati dalla spugna grezza sul terreno. Qui è stata costruita una capanna di legno accanto a una vecchia piscina. Qui le mucche pascolano sull’erba, mentre il greggio emerge dal sottosuolo. “Il bestiame lo mangia come una gomma da masticare”, brontola l’attivista.

All’epoca, fu la Chiesa cattolica locale a lanciare l’allarme per l’inspiegabile aumento di problemi di salute, aborti e tumori. Quando Texaco ha lasciato l’Ecuador negli anni ’90, ha ceduto i suoi pozzi alla Petroecuador, di proprietà dello Stato, che ha continuato a operare. Secondo l’Udapt, le piscine lasciate dalla compagnia statunitense non sono state in gran parte decontaminate. Chevron sostiene che Texaco era allora “solo un partner di minoranza” in un consorzio con Petroecuador. E che quest’ultima, nonostante un accordo del 1995 con Texaco, “non ha effettuato la bonifica ambientale che era obbligata a fare e ha continuato a operare e sviluppare le sue attività”.

“I problemi sono continuati con Petroecuador”, dice Moncayo. Dal 1995, la compagnia ha reiniettato l’acqua contaminata nel terreno, un processo considerato più pulito. “Ma a mio parere, solo dove monitoriamo. Altrove, gettano l’acqua tossica nei fiumi”, dice. L’inquinamento deriva anche dalle perdite di greggio dagli oleodotti (tra 10 e 15 al mese, secondo uno studio dell’Università di Quito e dell’Udapt) o dalle 447 torce che bruciano notte e giorno.

Dopo essere salito al potere nel 2021, il presidente Guillermo Lasso ha promesso di raddoppiare la produzione di petrolio fino a un milione di barili al giorno.