emissioni industriali

Clima, il 60% delle maggiori aziende quotate del mondo ha assunto impegni di carbon neutrality

Quasi il 60% delle maggiori società quotate in borsa al mondo ha assunto impegni di carbon neutrality, una cifra in aumento ma che non garantisce che abbiano un piano serio per raggiungerla. A rivelarlo è il consorzio Net Zero Tracker. Nel 2023, all’epoca della precedente edizione dell’analisi condotta dall’agenzia di ricerca, che si definisce indipendente e riunisce Data-Driven EnviroLab (DDL), The Energy & Climate Intelligence Unit (ECIU), NewClimate Institute e Oxford Net Zero, poco meno della metà delle 1.977 società quotate in borsa prese in esame aveva assunto tali impegni.

“Quest’anno il numero continua ad aumentare”, soprattutto tra le società con sede in Asia (da 118 a 184 in Giappone, da 27 a 48 in Cina, da 22 a 41 in Corea del Sud, ecc.), ma “ci sono ancora molte entità che non hanno preso alcun impegno” per la decarbonizzazione, ha sottolineato Takeshi Kuramochi, analista del NewClimate Institute, durante una videoconferenza. “Ci sono ancora problemi sostanziali e le aziende hanno ancora molto margine di miglioramento”, ha aggiunto.

Oggi, la maggior parte delle aziende che promettono di essere neutrali dal punto di vista delle emissioni di anidride carbonica, o che lo saranno entro il 2050 o prima, in realtà emette ancora gas a effetto serra e utilizza compensazioni di carbonio per ridurre la propria impronta, ad esempio finanziando la riforestazione. Ma numerosi studi scientifici hanno dimostrato che questo sistema di compensazione delle emissioni di carbonio è ben lungi dal mantenere le sue promesse, ed è addirittura fuorviante o fraudolento.

Solo il 5% delle aziende (4% nel 2023) rispetta tutti gli 8 criteri valutati da Net Zero Tracker, che includono alcuni di quelli formulati dagli esperti per conto dell’Onu, come la definizione di obiettivi precisi, l’inclusione di gas serra diversi dalla CO2 (come il metano), la priorità alla riduzione delle emissioni piuttosto che alla compensazione, l’impegno a una transizione dai combustibili fossili e l’utilizzo delle compensazioni con parsimonia.

“I progressi sono stati fatti, ma abbiamo bisogno di molto di più. Dobbiamo essere più ambiziosi”, ha insistito Catherine McKenna, presidente del gruppo di esperti delle Nazioni Unite sugli impegni ‘net zero’. Gli esperti raccomandano di ridurre il più possibile le emissioni di CO2 (di oltre il 90%) e di compensare solo le emissioni che non possono essere ridotte, attraverso progetti rigorosi come la cattura del carbonio.

Mastandrea (Incyte): “Sostenibilità culturale per far sì che Italia diventi hub europeo”

Sostenibilità ambientale sì, ma non solo. Nella mission di Incyte c’è molto di più. C’è l’ambizione di sviluppare una sostenibilità integrale, umana e di conoscenza. Lo spiega a GEA Onofrio Mastandrea, associate vice president e general manager Italia della società di biofarmaceutica.

La sua è un’azienda focalizzata sulla scoperta, sullo sviluppo e sulla commercializzazione di terapie innovative, in particolare in aree in cui ci sono ancora alti bisogni terapeutici insoddisfatti. Fondata nel 2002 a Wilmington nel Delaware (Usa) da un team di ricercatori, chimici e biologi, conta oggi più di 2000 dipendenti dislocati nelle principali sedi negli Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone. “Abbiamo una visione sistemica“, scandisce a margine dell’evento ‘Pandemie, strategia farmaceutica e transizione ecologica‘ organizzato a Roma da GEA ed Eunews. L’obiettivo ecologico è ambizioso: raggiungere la carbon neutrality al 2025. “Al di là di questo, però, è la sostenibilità culturale che rappresenta sicuramente uno degli aspetti più innovativi della nostra azione“.

A monte, c’è la ricerca. “Una scienza rigorosa è alla base di tutto ciò che facciamo per scoprire, sviluppare e commercializzare nuovi farmaci in grado di migliorare la vita dei pazienti“, spiega la casa farmaceutica.

Incyte è stata riconosciuta tra le 10 aziende che investono di più in Italia in ambito clinico, ecco perché il general manager insiste sul concetto di ‘sostenibilità culturale’: “Ricerca è trasferimento di conoscenze e di tecnologie – afferma Mastandrea -. Tutto il capitale investito favorisce una crescita dei centri di eccellenza, la possibilità di inserire l’accademia all’interno di network internazionali, di eccellere anche da un punto di vista esistenziale“. I fatti dimostrano che il metodo c’è e funziona: “Tutti i centri inclusi nei nostri trial di ricerca in Italia acquisiscono una maggiore consapevolezza della evidence based medicine e tutto questo diventa beneficio nel trattamento del paziente, patrimonio per il nostro Sistema Sanitario Nazionale, per cui la ricerca rappresenta il trait d’union tra la sostenibilità culturale e tecnologica“.

L’investimento è in prospettiva, l’orizzonte è lungo: “Speriamo che l’Italia possa acquisire un ruolo di leadership internazionale competendo in ambito europeo per diventare un hub della ricerca, traducendo in maniera attiva e ambiziosa la strategia farmaceutica europea in azioni concrete“.

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Decarbonizzazione, tante promesse ‘facili’ e i casi di India e Cina

Secondo un’analisi gli Stati, le autorità locali e le aziende stanno moltiplicando gli impegni per la “neutralità delle emissioni di carbonio, ma molti di essi presentano “gravi difetti“. Tra i grandi inquinatori, la maggior parte dei Paesi sviluppati ha assunto l’impegno di essere neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio entro il 2050. Cina e India puntano rispettivamente al 2060 e al 2070. “L’uso di questo concetto è esploso“, afferma Frederic Hans, esperto di politica climatica presso l’ONG NewClimate Institute e autore principale di questa analisi per il Net Zero Tracker. “Ma se si fissa un obiettivo senza comunicare le riduzioni di emissioni che esso comporta, non si può essere ritenuti responsabili delle proprie azioni“, afferma.

Lo studio analizza i dati relativi a 4.000 governi, città, regioni e grandi aziende, concentrandosi sulla qualità degli obiettivi e sul fatto che siano accompagnati da una chiara tabella di marcia. Gli impegni degli Stati coprono circa il 90% del Pil globale, sei volte di più rispetto a tre anni fa. E 235 grandi città hanno ora il loro. Anche un terzo delle maggiori società quotate in Borsa nel mondo ha assunto impegni di carbon neutrality (702 rispetto a 417 nel dicembre 2020). “Siamo in un momento decisivo in cui la pressione dei pari a prendere impegni rapidamente, in particolare nel mondo degli affari, potrebbe portare o a un greenwashing di massa o a un cambiamento fondamentale verso la decarbonizzazione” dell’economia, analizza un altro autore dello studio, Takeshi Kuramochi, anch’egli del NewClimate Institute.

Per quanto riguarda i governi, il 65% degli impegni nazionali è ora oggetto di una legislazione o di documenti ufficiali, rispetto a solo il 10% alla fine del 2020. Ma delle 702 aziende intervistate, solo la metà ha obiettivi intermedi, un livello “inaccettabilmente basso“, secondo lo studio. E solo il 38% delle aziende include tutte le emissioni, sia dirette (produzione) che indirette (fornitori e utilizzo), nei propri impegni di neutralità. Il rapporto osserva anche che i maggiori inquinatori privati, in particolare nel settore dei combustibili fossili, sono tra quelli che hanno più probabilità di avere obiettivi: “Questo riflette senza dubbio la pressione sociale su questi settori, ma è forse più simbolico, o addirittura puro greenwashing, che una vera leadership sulle questioni climatiche“.

Ma l’effetto potrebbe anche essere virtuoso, incoraggiando “le aziende ad aumentare le proprie ambizioni e anche i regolatori“, sostiene Frederic Hans. A marzo, l’Onu ha investito un gruppo di esperti per sviluppare standard e una valutazione degli impegni di carbon neutrality degli attori non statali, in particolare delle aziende. Secondo gli esperti climatici delle Nazioni Unite, le emissioni devono raggiungere il picco entro il 2025 e dimezzarsi entro il 2030 rispetto al 2010 per avere una possibilità di raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi.

Petrolio cina

Schizza il prezzo del carbone, Ue schiacciata da Cina e India

Può sembrare un paradosso, invece non lo è. Nella stagione in cui si spinge il più possibile per trovare (e sfruttare) fonti energetiche alternative, in particolare quelle ‘pulitissime’ generate dal vento e dal sole, il rischio che il processo di decarbonizzazione si fermi è molto alto. I fossili sono tornati di moda, prova ne sia che negli ultimi mesi il prezzo del carbone è in costante ascesa. C’è chi ha calcolato un rialzo del 600% rispetto a gennaio del 2020, parecchio di più degli idrocarburi e del gas, il nostro incubo quotidiano da quando è scoppiata la guerra in Ucraina e ci si sta sforzando per stoppare le erogazioni da Mosca.

Pare che la ‘colpa’ sia di Cina e India, bisognose di compensare il disavanzo della produzione interna insufficiente per soddisfare i propri bisogni. Pare, anche, che a questi due giganti mondiali – ma non sono i soli, sia chiaro – interessi poco di arrivare alla Carbon neutrality nei prossimi anni. L’esatto contrario di ciò che sta accadendo in Europa, fermamente convinta di dover portare a termine la mission stabilita nell’Accordo di Parigi. Nel 2050, in teoria, i gas serra dovrebbero essere azzerati ma, se la situazione continua a essere questa, diventa un esercizio quasi utopistico immaginare il raggiungimento di un obiettivo tanto importante per la vita del nostro pianeta e, più concretamente, di noi e dei nostri figli.

Il percorso virtuoso intrapreso dalla Ue incide appena per il 7% sulle emissioni globali di CO2. Detto male: l’Europa può sforzarsi si essere virtuosa e green il più possibile però si tratterà sempre di una goccia d’acqua nell’oceano dell’inquinamento mondiale. Di sicuro, il conflitto ucraino non aiuta, come testimonia il ritorno prepotente degli idrocarburi sulla scena internazionale. Se il gas manca, ci si aggrappa a tutto pur di far funzionare – banalizzando – i condizionatori d’estate e i termosifoni d’inverno. E la salute nostra e della Terra può aspettare…