isole minori

Piena sostenibilità ferma al 40% per le isole minori: bene Tremiti

In Italia le isole minori sono ancora molto lontane dalla piena sostenibilità: su 27 piccole isole marittime abitate prese in esame, l’indice di sostenibilità medio calcolato per la prima volta dall‘Osservatorio di Legambiente e Cnr-Iia (Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche) tenendo conto delle performance su consumo di suolo, rifiuti, acqua, energia, aree protette, mobilità e regolamenti edilizi, “è fermo al 40%“. E’ quanto emerge dal V rapporto ‘Isole Sostenibili – Le sfide della transizione ecologica nelle isole minori’ curato dall’Osservatorio presentato oggi. Tra le isole più virtuose nel percorso di sostenibilità le Tremiti (53%), le Egadi (Favignana, Marettimo, Levanzo), le Eolie (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Filicudi e Alicudi), le isole Pelagie (Lampedusa e Linosa) che raggiungono il 49% e dall’isola di Capraia che si attesta al 47%. Secondo il rapporto, sono in ritardo, invece, La Maddalena, con un indice pari al 21%, l’Elba (26%) e Ischia (29%). Sette, secondo Legambiente e Cnr-Iia, gli obiettivi che le isole minori si devono prefiggere dal coordinamento con i ministeri a zero consumo di suolo e quattro le azioni pratiche da mettere in campo dall’istituzione di una cabina di regia presso il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica alla redazione di piani di sviluppo sostenibile, alla creazione di un coordinamento unico sulla gestione dei fondi del Pnrr.

Obiettivo del report, spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente , era “tentare di ‘quantificare’ gli sforzi fatti delle amministrazioni e lo stato attuale di sostenibilità di ogni isola. I valori non sono pienamente soddisfacenti, accanto ai punti di forza sono emersi tanti punti di debolezza”. Serve, quindi, un cambio di passo attraverso obiettivi ambiziosi e azioni efficaci. Anche perché, le isole sono dei paradisi di biodiversità, “ecosistemi unici ma allo stesso tempo fragili e stressati da flussi turistici condensati nei periodi estivi”. “Si presentano come laboratori ideali per lo sviluppo di idee innovative nella direzione della transizione ecologica e all’incremento della tutela dei propri territori”, commenta  Francesco Petracchini, Direttore del Cnr-IIA convinto che fondi del PNRR isole verdi rappresentino “un’opportunità unica da cogliere nei prossimi anni per mettere in cantiere progetti virtuosi nel percorso verso la sostenibilità”.
Rispetto alle singole tematiche che vanno a comporre l’indice di sostenibilità complessivo, come rifiuti, perdite di rete, consumo di suolo, emergono le diverse velocità delle isole. Da un lato si evidenziano le buone performance di raccolta differenziata delle isole di San Pietro e Sant’Antioco, in Sardegna, che hanno raggiunto rispettivamente l’84% e l’82%, seguite dalle isole Egadi (80%) e Pantelleria (78%). Indietro nella raccolta differenziata Ponza, Lampedusa e il Giglio, con rispettivamente 9%, 20% e 30%.

Sul fronte delle perdite di rete le isole Tremiti fanno registrare il tasso più basso (9%), seguite da Lampedusa (17%), isola del Giglio (25%), Ischia e Procida (rispettivamente 26% e 27%). La dispersione idrica più alta si registra a Ponza (68%), Maddalena (62%), Sant’Antioco e l’Elba (58% e 54%), e San Pietro (52%). Sul lato della mobilità, il più basso tasso di motorizzazione spetta a Capri (31 auto ogni 100 abitanti), seguita da Procida (46/100), Ponza e Ventotene (entrambe con 51 macchine ogni 100 abitanti). Il parco auto più nuovo spetta all’isola d’Elba e San Pietro con il 49% delle auto con classe emissiva pari o superiore all’Euro5. Le maggiori installazioni di fotovoltaico in termini assoluti si trovano ad Ischia, l’Elba, Sant’Antioco, San Pietro e alle Egadi che da sole rappresentano circa il 73% della potenza installata.
Per quanto riguarda il consumo di suolo, i dati Ispra evidenziano, ad esempio, un’accelerazione a una perdita di superficie agricola pari al 2,6%.  Per questo, secondo Cnr e  Legambiente, “è importante che si rivedano e si integrino i sistemi di pianificazione e controllo territoriale tesi alla lotta all’abusivismo e alla promozione di un uso efficiente del suolo, attraverso il recupero di aree già urbanizzate, la tutela e la valorizzazione delle zone agricole di pregio e la fondamentale tutela delle risorse naturali, passando per il necessario coinvolgimento delle comunità locali”.

Infine, secondo l’Osservatorio CittàClima di Legambiente dal 2010 al 22 maggio di quest’anno sulle isole minori si sono registrati ben 14 eventi climatici estremi di cui 5 allagamenti e alluvioni da piogge intense, 3 danni da mareggiate, 2 frane da piogge intense e un caso ciascuno per danni da trombe d’aria, danni alle infrastrutture, siccità prolungata e danni da grandinate violente. Da sottolineare anche il costo in termini di vite umane con 14 vittime, 12 legate alla tragedia di Casamicciola, a Ischia nel 2022, e 2 alla tromba d’aria di Pantelleria. Per questo “è fondamentale puntare su politiche di adattamento e azioni di mitigazione delle emissioni climalteranti”, spiegano da Legambiente e Cnr.

Maltempo, ricercatrice Cnr-Irpi: Prevenzione, studio e invasi per gestione integrata

Photo credit: profilo Facebook Massimo Olivetti Sindaco di Senigallia

Se c’è una cosa che il cambiamento climatico ci ha insegnato è che non si può tornare indietro, almeno non nel breve periodo. Per questo serve una gestione integrata per affrontare il tema dell’acqua”. Paola Salvati è ricercatrice del Cnr-Irpi (Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche di Perugia) e di fronte agli eventi drammatici causati dal maltempo in Emilia Romagna e Marche parla della necessità di “una strategia”, capace di mettere in campo azioni diverse per mitigare e prevenire gli effetti di “eventi estremi con cui dobbiamo imparare a convivere”. “In futuro – dice a GEAperiodi di siccità possono alternarsi in modo repentino a eventi intensi di pioggia in rapida successione. Non c’è più un passaggio graduale”. Quanto sta accadendo nelle zone colpite dal maltempo, è il frutto, dice Salvati, di “una combinazione di eventi sfavorevoli”, che sono l’intensità (con picchi di pioggia fino a 200 mm nelle ultime 24 ore), la persistenza e l’estensione geografica. Ecco allora le drammatiche conseguenze al suolo: “Allagamenti, esondazione dei fiumi, numerose frane” che, a loro volta portano a “gravi danni, come l’isolamento dei paesi, la chiusura delle strade e ingenti costi economici per il ripristino” delle infrastrutture danneggiare, ma anche per intervenire nelle aree agricole.

Paola Salvati

Paola Salvati, ricercatrice Cnr-Irpi

Il suolo – spiega la ricercatrice – era già saturo a causa delle persistenti piogge estremi dell’inizio di maggio. Non essendo più in grado di assorbire l’acqua, questa resta in superficie e scorre”. E, a differenza delle zone interne dell’Appennino, a valle “il territorio è fortemente antropizzato e quindi il suolo impermeabilizzato. Perciò le ripercussioni nelle aree urbane sono molto gravi”. E se in altre occasioni “le piogge intense si sono manifestate con carattere molto localizzato”, dice Salvati, ora “stiamo vivendo una perturbazione molto estesa territorialmente. L’aumento delle portate dei fiumi avviene contemporaneamente su più bacini, aumentando quindi il rischio di esondazioni e frane”.

E allora cosa fare? “Agire su più fronti”, spiega la ricercatrice del Cnr-Irpi, cominciando dal “potenziare il sistema di previsione e allerta. Questa volta ha funzionato molto bene, anche se ci sono state delle vittime. Ma se un evento del genere fosse avvenuto senza un sistema preventivo di allerta sarebbe andata molto peggio”. Una gestione, dice “che ha funzionato bene. Certo, tutto è migliorabile, ma quando il sistema funziona anche il ripristino delle condizioni di normalità è più semplice”. E, ancora, è fondamentale “potenziare lo studio degli eventi. Cambiando la frequenza e l’intensità delle piogge è necessario conoscere quali sono i valori estremi che causano le frane e portano i fiumi a essere colmi”.

Da ricercatrice e cittadina dico che bisogna puntare a una gestione davvero integrata”, spiega l’esperta. “Non si può pensare di risolvere il problema della siccità e delle piene delle aste fluviale solo con la costruzione di bacini di accumulo o di altre opere di ingegneria idraulica”. Questo aspetto è, però, necessario “per mitigare le conseguenze dei fenomeni estremi. Raccogliere acqua e laminare le onde di piena vicino ai centri abitati è solo una delle tante cose che si devono fare”.

Quindi, conclude Paola Salvati, “bene le misure strutturali, ma puntiamo anche sulla conoscenza di ciò che sta accadendo ai processi fisici con il cambiamento climatico e le ripercussioni delle stesse sui cittadini nella loro vita quotidiana”.

Più ricerca in acque profonde: siglato l’accordo Cnr-Isa sui fondali

Un accordo per far progredire la ricerca scientifica marina e rafforzare l’interfaccia scienza-politica sui temi riguardanti i fondali, bene comune dell’umanità e cruciali per il funzionamento degli ecosistemi.

La partnership la siglano, a Venezia, il segretario generale dell’Isa-International Seabed Authority (Autorità Internazionale dei Fondali Marini), Michael W. Lodge, e la presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Maria Chiara Carrozza, in occasione delle celebrazioni del Centenario del Cnr e dell’inaugurazione della mostra sull’’Antropocene. La Terra a ferro e fuoco‘, che ha uno spazio dedicato ai fondali marini e al paesaggio acustico subacqueo.

I fondali sono uno spazio per infrastrutture e una miniera di risorse biologiche e abiotiche non rinnovabili e in un equilibrio fragile con l’ambiente. Una parte importante di questa nuova partnership riguarda l’implementazione di iniziative mirate di costruzione di nuove competenze su questioni legate al mare profondo, come l’esplorazione, la pianificazione della gestione ambientale e il trasferimento tecnologico, anche attraverso opportunità di formazione ad hoc a bordo della nuova nave oceanografica Gaia Blu del Cnr. Particolare enfasi sarà posta sullo sviluppo di nuovi strumenti educativi per conoscere e decidere circa l’ambiente marino e sull’emancipazione e la leadership delle donne nella ricerca in acque profonde. Attività che contribuiscono alle priorità stabilite nel piano strategico e nel piano d’azione ad alto livello dell’ISA per il periodo 2019-2023 e al piano d’azione a sostegno del decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. “C’è bisogno di cooperazione internazionale, soprattutto dove le domande sono semplicemente troppo grandi per essere risolte da una singola agenzia o istituzione“, osserva Lodge. Ora l’obiettivo, scandisce, “deve essere creare sinergie e allocare risorse economiche dove sono più necessarie, come si evince dal piano d’azione dell’ISA per la ricerca scientifica marina a sostegno del Decennio delle scienze oceaniche delle Nazioni Unite“.

Il segretario dell’Isa mette in luce la responsabilità di rafforzare le capacità di ricerca degli Stati in via di sviluppo e tecnologicamente meno avanzati per garantire la loro effettiva partecipazione ai programmi di esplorazione e ricerca in acque profonde, “uno dei principali driver per l’economia blu sostenibile e la protezione dell’ambiente marino”, osserva Carrozza.

svalbard - cnr

Salvare la ‘memoria’ del ghiacciaio Artico prima che si sciolga: la spedizione alle Svalbard

Un gruppo internazionale di scienziati ha raggiunto il 1° aprile 2023 il ghiacciaio Holtedahlfonna, nell’arcipelago delle Svalbard, iniziando la preparazione di un campo remoto a 1.100 metri di quota nell’Artico (latitudine 79,15 Nord). Obiettivo: raccogliere secoli di dati climatici e ambientali prima che scompaiano sotto l’effetto del riscaldamento globale. La spedizione è guidata dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e coinvolge scienziati del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica (Cnrs), dell’Istituto polare norvegese, dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Università degli Studi di Perugia.

Nel dettaglio, l’obiettivo scientifico è raccogliere due carote di ghiaccio di 125 metri ciascuna per comprendere meglio il fenomeno della ‘amplificazione artica’ ovvero del fenomeno dovuto alla riduzione della copertura del ghiaccio marino che ha tra le sue conseguenze il riscaldamento dell’oceano. Questi effetti a catena hanno un impatto sul riscaldamento dell’Artico, anomalo rispetto alle medie globali. Grazie alla collaborazione con la Ice Memory Foundation, una carota di ghiaccio sarà conservata per i secoli a venire nell’apposito ‘Ice Memory Sanctuary’ in Antartide. Le future generazioni di scienziati avranno così accesso a una carota di ghiaccio di alta qualità per studiare il clima passato del nostro pianeta e anticipare i cambiamenti futuri, anche molto tempo dopo la scomparsa dei ghiacciai a causa del riscaldamento globale.

“I ghiacciai alle alte latitudini, come quelli dell’Artico, hanno iniziato a fondersi ad un ritmo elevato. Vogliamo recuperare e preservare, per le future generazioni di scienziati, questi straordinari archivi del clima del nostro Pianeta prima che tutte le informazioni che contengono vadano completamente perdute“, spiega Carlo Barbante, paleoclimatologo, direttore dell’Istituto di scienze polari del Cnr, professore all’Università Ca’ Foscari Venezia e vicepresidente della Ice Memory Foundation. L’arcipelago delle Svalbard, la terra più settentrionale d’Europa, ha subito alcuni dei più gravi aumenti di temperatura degli ultimi decenni. Secondo studi recenti, la temperatura è aumentata di 4-5°C negli ultimi 40-50 anni. Il gruppo internazionale di scienziati che studia le complesse dinamiche di questa “amplificazione artica” è al lavoro sull’Holtedahlfonna, sull’isola di Spitsbergen. Il team sta installando il campo base e domani inizierà la perforazione con l’obiettivo di estrarre due carote di ghiaccio: una per la scienza di oggi, l’altra per le generazioni future.

I dati contenuti nei ghiacciai delle Svalbard sono infatti seriamente minacciati dal cambiamento climatico. L’obiettivo è aumentare la comprensione scientifica della ‘amplificazione artica’. “Miriamo a determinare il ruolo del ghiaccio marino nell’amplificazione artica e il suo impatto sull’atmosfera, in particolare sui processi chimici del bromo e del mercurio. I dati ottenuti saranno confrontati con i dati satellitari sull’estensione del ghiaccio marino e con le misure di accumulo della neve. Inoltre, i modelli di trasporto atmosferico saranno utilizzati per stabilire le possibili aree di provenienza delle due specie chimiche”, spiega Andrea Spolaor, glaciologo e geochimico dell’Istituto di scienze polari del Cnr e capo spedizione alle Svalbard. Gli scienziati di questa spedizione hanno unito le forze con la Ice Memory Foundation per raccogliere una carota di ghiaccio che sarà conservata, insieme a molte altre provenienti da ghiacciai a rischio in tutto il mondo, per i secoli a venire in un apposito santuario della memoria del ghiaccio in Antartide. Le future generazioni di scienziati dotate di nuove tecnologie e nuove idee di ricerca potranno così continuare a studiare gli archivi di informazioni sul clima e l’ambiente contenute nelle carote di ghiaccio. Le precedenti carote di ghiaccio estratte nello stesso sito hanno fornito registrazioni dettagliate delle condizioni climatiche del passato, tra cui temperatura, precipitazioni e composizione atmosferica. Tuttavia, gli scienziati stanno attualmente indagando se e come la recente accelerazione degli aumenti di temperatura abbia già avuto un impatto sulla qualità dei segnali climatici e ambientali. I risultati preliminari suggeriscono l’urgenza di raccogliere una carota di ghiaccio da preservare. Gli scienziati opereranno per circa 20 giorni a un’altitudine di 1.100 metri, affrontando temperature che possono raggiungere i -25 gradi.

Il sito di perforazione di Holtedahlfonna si trova su un “ice field”, ovvero un’interconnessione di più ghiacciai, relativamente accessibile nell’arcipelago, grazie alla sua vicinanza a Ny-Ålesund, la stazione di ricerca più settentrionale del mondo, attiva tutto l’anno. Gli scienziati intendono raggiungere una profondità di circa 125 metri nel ghiacciaio e ricostruire i segnali climatici degli ultimi 300 anni. È previsto che una delle carote di ghiaccio di Holtedahlfonna venga conservata in una grotta di neve dedicata presso la Stazione franco-italiana Concordia in Antartide entro il 2024-2025. Gestito congiuntamente dall’Istituto polare francese e dal Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra), tale archivio consentirà di conservare naturalmente le carote di ghiaccio a -50°C. Garantirà la conservazione a lungo termine, proteggendo così i preziosi campioni dai rischi di interruzione della refrigerazione che potrebbero accadere se venissero stoccati nei congelatori commerciali in Europa (ad esempio, problemi tecnici, crisi economica ed energetica, conflitti, ecc.). Le carote di ghiaccio saranno conservate per un periodo di tempo indefinito, nel pieno rispetto del Protocollo di Madrid per la protezione ambientale dell’Antartide. Grazie al ‘santuario dei ghiacci’ della Fondazione Ice Memory, le prossime generazioni di scienziati avranno accesso a carote di ghiaccio di alta qualità per portare avanti ricerche sull’ambiente e sul clima globale. “Il bello dell’iniziativa Ice Memory non è produrre un valore aggiunto in termini di conoscenza odierna, ma creare le condizioni che permetteranno a chi verrà dopo di noi di produrlo”, sottolinea Jérôme Chappellaz, scienziato del clima e presidente della Fondazione Ice Memory. Il patrimonio della Memoria dei Ghiacci – estratto da circa 20 ghiacciai in 20 anni – è destinato a diventare un bene comune dell’umanità e sarà conservato in futuro sotto una governance internazionale.

Italia indietro sui Piani urbani di adattamento climatico

L’Italia è abbastanza indietro, su scala europea, sul fronte dei Piani di adattamento ai cambiamenti climatici, sia in termini di numero di Piani urbani sviluppati, sia in termini di qualità. E’ quanto emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista ‘Nature Npj Urban Sustainability’, curato da un gruppo di ricerca multidisciplinare coordinato dall’Università di Twente (Olanda) a cui hanno partecipato studiosi di vari stati europei, tra cui l’Italia con l’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Imaa) di Tito Scalo (Potenza) e con il Dipartimento di ingegneria civile, ambientale e meccanica dell’Università di Trento.

I Piani di adattamento climatico rappresentano uno degli strumenti più efficaci a disposizione di Paesi, regioni e comuni per definire misure e azioni a livello territoriale per affrontare la sfida ai cambiamenti climatici e mitigarne l’impatto. Ma come valutarne la qualità e il grado di “progresso”? Quali criteri possono definirne l’efficacia, tanto nel contesto locale quanto in quello nazionale e internazionale? A queste domande ha cercato di rispondere lo studio, in base al quale il giudizio sull’Italia non è proprio lusinghiero. Tra le 32 città italiane incluse nel campione, spiega la ricercatrice Monica Salvia del Cnr-Imaa, “risulta che solo due città – Bologna e Ancona – avevano nel 2020 un Piano di adattamento: una situazione che, probabilmente, risente dell’assenza di un quadro di riferimento nazionale per supportare la definizione di strategie e Piani locali e regionali: il Piano nazionale di adattamento è infatti ancora in fase di adozione”.

Dopo l’Accordo di Parigi del 2015, è cresciuto l’interesse di studiosi e governanti verso la valutazione dei progressi dei Piani di adattamento ai cambiamenti climatici alle diverse scale: in questo contesto, però,” manca una metodologia univoca per valutarne la qualità e verificarne i progressi nel tempo”, dice Salvia. I ricercatori, quindi, hanno per la prima volta definito un indice di qualità, l’ADAptation Plan Quality Assessment (ADAQA), “che ci ha permesso di identificare i punti di forza e di debolezza dei processi di pianificazione dell’adattamento urbano nelle città europee”.

Dallo studio, però, emerge che i Piani presentano carenze nel livello di partecipazione pubblica al loro processo di definizione(17%), e nella definizione delle fasi di monitoraggio e di valutazione (20%). “Tuttavia – spiega la ricercatrice – la situazione è in continua evoluzione e in rapido cambiamento: monitorare lo stato di avanzamento delle politiche di adattamento nei prossimi anni sarà utile per capire se, e a che ritmo, le città europee (e italiane) si stanno muovendo verso la definizione di Piani sempre più completi e capaci di rafforzare la resilienza dei loro territori”.

L’indice è stato, quindi, calcolato per i 167 Piani di adattamento adottati tra il 2005 e il 2020 in un campione rappresentativo di 327 città medie e grandi di 28 Paesi europei, per valutarne la qualità e l’evoluzione nel tempo. Esaminando le diverse componenti dei Piani, si nota che le città sono migliorate soprattutto nella definizione degli obiettivi di adattamento e nell’identificazione di misure e azioni nei diversi settori. La capitale bulgara Sofia e le città irlandesi di Galway e Dublino hanno ricevuto i punteggi più alti per i loro Piani.

L’Artico si scalda molto più velocemente. Cnr: “Fondamentale finanziare ricerca”

L’Artico è un eccezionale termometro della salute del Pianeta intero. Qui il riscaldamento globale corre più in fretta e gli scienziati stanno cercando di capire il perché.  L’aumento della temperatura è quasi tre volte quello della media mondiale, con alcune regioni che hanno un aumento fino a 2.7°C ogni dieci anni, cioè 5-7 volte il tasso di crescita globale della temperatura. Il ghiaccio marino si riduce, sia in estensione che in spessore, a una velocità che non ha precedenti. A questo si aggiunge la fusione del permafrost terrestre e subacqueo con l’accelerazione dell’immissione di gas climalteranti in atmosfera. La riduzione del ghiaccio marino favorisce poi un incremento del traffico navale nella regione, con un aumento dei rifiuti in mare e soprattutto delle emissioni di fuliggine, che “sporca” il ghiaccio riducendone la capacità di riflettere l’energia infrarossa.

Studi recenti confermano come anche gli incendi nella zona boreale – soprattutto nelle regioni siberiane come la Yakutia – stiano pericolosamente aumentando a causa della crisi climatica in atto. Si osservano anche importanti variazioni nella struttura e nella circolazione dell’oceano e dell’atmosfera, e impatti importanti sull’ecosistema. In questo quadro, “l’interpretazione dei dati raccolti ha un valore strategico altissimo”, sottolinea Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr, che presenta il Programma Nazionale di Ricerche in Artico, un progetto che ha anche l’obiettivo di sostenere la presenza diplomatica nell’area, attraverso la guida da parte del Comitato Scientifico Artico. L’Italia nella ricerca ha qualcosa da dire e “questa grande competenza acquisita può dare un ruolo sempre più importante al nostro Paese”, spiega, lanciando un appello perché si sostenga la ricerca con investimenti che “ci diano prospettive a lungo termine”.

Quello che succede in Artico, non resta in Artico, ma impatta anche le medie latitudini. L’estendersi in Europa, e fino al Mediterraneo, delle conseguenze dei fenomeni di riduzione dell’ozono che hanno caratterizzato l’Artico nel 2011 e il 2020, è stato messo in evidenza dai ricercatori italiani e danno il polso dell’interazione e interconnessione tra le regioni artiche e le nostre latitudini. Per questo, il Pra si è focalizzato sul fenomeno dell’“amplificazione artica”, sugli ecosistemi, sull’atmosfera e sulla colonna d’acqua dei mari artici, sulle ricostruzioni paleoclimatiche e sugli effetti della crisi climatica sulle popolazioni che vivono in Artico.

La norma istitutiva del Pra inserisce il Programma nel quadro delle collaborazioni internazionali dell’Italia relative all’Artico, con esplicito riferimento all’International Arctic Science Committee (IASC), al Sustaining Arctic Observing Network (SAON), al Ny Alesund Managers Committee (NyMASC), all’Arctic Science Ministerial (ASM) ed al Consiglio Artico. Recentemente, l’Italia ha acquisito una nuova nave da ricerca polare da parte dell’Ogs, la nave oceanografica Laura Bassi, che ha già effettuato una prima campagna, con tre progetti di ricerca co-finanziati su fondi Pra, e che auspicabilmente potrà tornare in Artico, in coordinamento con le attività previste in Antartide. A questa disponibilità si aggiunge, a partire dal 2023, quella della nave oceanografica del Cnr, Gaia Blu, in grado di svolgere ricerche in oceano e in aree polari artiche durante la stagione estiva.

Il progetto è stato finora finanziato con 1 milione di euro all’anno: il Cnr, attraverso il CSA, riesce a mettere a call circa l’80% di questo budget. Le call fatte finora sono state due per progetti di ricerca e una per potenziamento di infrastrutture di ricerca. E’ in uscita una terza call per progetti di ricerca, con un budget di circa 1,4 milioni di euro.

 

(Photocredit: Vittorio Tulli – Cnr)

Tags:
, ,
pesci

Il Mediterraneo è il più invaso al mondo: 200 nuovi pesci

Con centinaia di specie esotiche, il Mar Mediterraneo viene oggi riconosciuto come la regione marina più invasa al mondo. Una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Global Change Biology e coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e biotecnologie marine (Cnr-Irbim) di Ancona, ricostruisce questa storia per le specie ittiche introdotte a partire dal 1896. E la causa è – anche – il cambiamento climatico.

Lo studio dimostra come il fenomeno abbia avuto un’importante accelerazione a partire dagli anni ’90 e come le invasioni più recenti siano capaci delle più rapide e spettacolari espansioni geografiche”, spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim e coordinatore della ricerca. “Da oltre un secolo, ricercatori e ricercatrici di tutti i paesi mediterranei hanno documentato nella letteratura scientifica questo fenomeno, identificando oltre 200 nuove specie ittiche e segnalando le loro catture e la loro progressiva espansione. Grazie alla revisione di centinaia di questi articoli e alla georeferenziazione di migliaia di osservazioni, abbiamo potuto ricostruire la progressiva invasione nel Mediterraneo”. Questo processo ha cambiato per sempre la storia del nostro mare.

Sono due le porte di ingresso di questa colonizzazione: “Le specie del Mar Rosso, entrate dal canale di Suez (inaugurato nel 1869), sono le più rappresentate e problematiche. Ci sono, tuttavia, altri importanti vettori come il trasporto navale ed il rilascio da acquari. I ricercatori hanno considerato anche la provenienza atlantica tramite lo stretto di Gibilterra”, continua Azzurro.

Ma quali sono gli effetti ambientali e socio-economici di queste ‘migrazioni ittiche? “Alcune di queste specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo”, spiega il ricercatore Cnr-Irbim. “Allo stesso tempo, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta”.

montagna

Montagne in pericolo: sempre più crolli, il caldo può essere una concausa

Scalare le vette alpine sta diventando sempre più pericoloso. Prima il crollo del seracco del ghiaccio della Marmolada che il 3 luglio scorso ha fatto 11 vittime, poi la frana sul Cervino avvenuta il 2 agosto a quota 3.715 metri, infine una frana di grandi dimensioni che si è verificata nel primo pomeriggio del 3 agosto in val Fiscalina, nelle Dolomiti di Sesto in Alto Adige.

Alla luce di questi eventi, il 14 luglio a causa delle condizioni in alta quota legate alla siccità e al connesso rischio di crolli, in via precauzionale le società Guide alpine del Cervino e di Courmayeur hanno sospeso la vendita della salita alla vetta del Cervino e del Monte Bianco, le vie per il Dente del Gigante e la Cresta di Rochefort. Ieri invece il sindaco di Saint-Gervais, in Francia, ha disposto la chiusura dei rifugi di Tete Rousse e del Gouter, lungo la via normale al Monte Bianco più frequentata. Appena qualche giorno prima aveva annunciato una cauzione da 15mila euro per eventuali spese di soccorso e sepoltura per quegli alpinisti che si arrischiavano a salire.

Anche secondo il sindacato delle Guide Alpine il caldo eccessivo e prolungato delle ultime settimane può essere il responsabile della più debole tenuta del permafrost sulle pareti delle vette più elevate. Il permafrost è il substrato costituito da rocce e ghiaccio tenuto insieme dal gelo, che caratterizza il corpo delle montagne al di sopra dei 3.300-3.500 metri.

Per Daniele Giordan, ricercatore del Cnr Irpi, raggiunto da GEA, “il perdurare dello zero termico a quote molto elevate può costituire un fattore destabilizzante aggiuntivo, ma non è la causa principale delle frane, può essere invece una concausa. Il crollo delle montagne, non solo delle Alpi, è infatti un processo naturale; questi fenomeni in estate si sono sempre verificati. La sensibilità attuale però, dopo i fatti della Marmolada, deve far aumentare l’attenzione su questi processi fisiologici. Va ricordato come in realtà il trend climatico attuale ed estremamente evidente, costituisca un elemento di disturbo aggiuntivo, soprattutto a quote più alte. Esistono zone con permafrost, il ghiaccio contenuto nelle fratture della massa rocciosa che fa da collante, che possono venire sottoposte a stress. Ma l’elemento su cui ragionare è che queste condizioni stanno facendo aumentare la quantità di rischi aggiuntivi. Le montagne non sono zone a rischio zero, tanto è vero che nei giorni precedenti al crollo sul Cervino, le guide alpine avevano smesso di utilizzare la via principale per la salita in vetta. Allo stato attuate delle cose dunque vanno prese in considerazione cautele aggiuntive. In queste condizioni è necessario valutare con estrema attenzione gli itinerari da seguire e le vette che si vogliono scalare, quindi è fondamentale affidarsi ai consigli e all’accompagnamento di guide esperte“.

Quindi, cosa porta le montagne a frammentarsi?

Gli esperti spiegano che le catene montuose non sono elementi statici, ma corpi vivi. Ma la destabilizzazione delle pareti rocciose non è un fenomeno che si verifica all’improvviso; a un occhio inesperto potrà sembrare così, perché si valuta solo il momento della frana, ma l’evento ‘cedimento’ è invece il risultato di un lungo processo che può durare diverse migliaia di anni. A seconda della struttura delle rocce e della topografia i processi di erosione possono agire in modo più lento o più veloce. In alta montagna assumono poi un ruolo importante anche i ghiacciai e il permafrost. Diversi fattori possono portare alla formazione e all’apertura di fessurazioni, tra questi le variazioni di temperatura nell’alternanza delle stagioni, la pressione del ghiaccio nelle fessurazioni (pressione criostatica), l’erosione ad opera dei ghiacciai, i cambiamenti dei livelli dei ghiacciai e le intense precipitazioni.

Secondo l’istituto svizzero per lo studio della neve e delle valanghe (Slf), il riscaldamento climatico accelera alcuni processi: “In molti luoghi – spiega infatti la dottoressa Marcia Phillipssi osserva un aumento della temperatura del permafrost roccioso, come evidenziato dalle misurazioni dell’Slf e della rete di rilevamento Permos presso diverse località delle Alpi svizzere. Questo avviene all’incirca nella stessa misura in cui si innalza anche la temperatura dell’aria. Quando il ghiaccio si riscalda, la sua azione stabilizzante sulle fessurazioni perde efficacia. Poco sotto gli 0° la sua stabilità diminuisce rapidamente. In questo modo i versanti montuosi ripidi possono diventare instabili, con un conseguente aumento dei crolli di rocce nelle regioni caratterizzate dal permafrost. I ghiacciai possono fornire un supporto meccanico alle pareti rocciose. Lo scioglimento dei ghiacci in seguito al riscaldamento globale fa venir meno tale sostegno, per cui la roccia già fragile può in alcuni casi crollare“.

incendio malagrotta

Incendio Malagrotta, l’esperto del Cnr: “Pericoli in alimenti e terreni”

Quando accadono fatti come quello dell’incendio alla discarica di Malagrotta, il primo pensiero che salta in mente, legato al pericolo per l’ambiente e alla salute pubblica, è la diossina. Questo composto, però, non è il primo aspetto che dovrebbe preoccupare. “Innanzitutto si dovrebbe parlare di diossine, e non di diossina, perché parliamo di 210 composti“, spiega a GEA Ettore Guerriero, ricercatore dell’istituto inquinamento atmosferico del Cnr. Le diossine, dice, “sono utilizzate come tracciante, ma merita attenzione anche il resto di inquinanti che si sprigionano in un fatto grave come questo. Durante un incendio infatti si sviluppa particolato fine inalabile e nell’aria finiscono anche idrocarburi policiclici aromatici, come il benzo(a)pirene che solitamente viene misurato nelle stazioni di monitoraggio ambientale“. L’alta concentrazione di questi composti, spiega l’esperto, ha un’elevata rilevanza di cancerogenicità. “Il problema però non è tanto inalare questi composti; per rappresentare un rischio la concentrazione dovrebbe essere altissima e l’esposizione prolungata, più preoccupante è, invece, assumerli attraverso gli alimenti”.

A questo punto torna alla mente il disastro di Chernobyl del 1986, quando anche in Italia fu sconsigliato di mangiare verdure a foglia larga e di bere latte.

Il 95% delle sostanze potenzialmente cancerogene infatti – prosegue Guerriero viene assunto attraverso l’alimentazione, non attraverso la respirazione. Ricadendo sull’ambiente questi composti si accumulano sulle piante e vengono ingeriti soprattutto da animali che producono grassi che vengono poi mangiati dall’uomo“. Negli animali dunque la concentrazione è molto alta e “ricordiamo che al vertice ci sta il neonato che assume latte materno. Il problema è particolarmente serio ad esempio per gli ovini, più che per i bovini. Gli ovini infatti nella loro dieta assumono il 15% di terra; mangiando erba infatti strappano anche la radice con la terra e la assumono; e se questa è inquinata poi la trasferiscono al loro organismo, al latte che producono e alla carne che poi sarà consumata dall’uomo. Il problema è minore nei bovini che assumono solo il 7% di terra”.

Grande attenzione, inoltre, va prestata alle piante a foglia larga, proprio perché in quei casi la superficie su cui si possono posare i composti è più ampia di altre. “Ora ci dirà l’Arpa, attraverso l’analisi dei terreni, quanta superficie è interessata dal potenziale inquinamento – spiega l’esperto – e in quel caso gli ortaggi che insistono su quella superficie non andranno consumati. Se la contaminazione è elevata dovrà essere evitata la raccolta di cucurbitacee come zucchine, cetrioli, meloni e cocomeri. Queste piante infatti riescono ad assorbire le diossine direttamente dalle radici e non dalle foglie. Negli altri casi, un lavaggio delle foglie elimina la presenza di composti potenzialmente cancerogeni, ma le cucurbitacee li assorbono dal terreno”.

Il rischio inquinante è dovuto anche alla presenza, nel materiale bruciato, di composti chimici? “No, tutto quello che brucia produce inquinamento – prosegue Guerriero -. Che si tratta di combustione di una sigaretta, dell’incenso di casa o del caminetto, si formano sempre composti inquinanti. Le plastiche – ma è meglio parlare di polimeri – non fanno la differenza. Chiaramente in quel caso si parla di tonnellate di polimeri, ma comunque, paradossalmente, inquina di più la biomassa”.

Chiudere le finestre serve davvero a ridurre i rischi? “È sicuramente una pratica di buon senso che serve a limitare i danni, ma il particolato è finissimo e chiaramente certe particelle entrano ugualmente. Quelle più grandi, però, vengono bloccate. In casa abbiamo alimenti in cucina, sulla tavola, per non esporli al rischio è quindi giusto seguire le raccomandazioni di Arpa”.

Insomma, questo danno per l’ambiente e la salute ce lo porteremo avanti a lungo? “In questi casi molto dipende dalla fortuna – conclude Guerriero – cioè dalle condizioni meteo. Se questo incendio fosse accaduto in inverno, con un basso rimescolamento dell’aria, i problemi sarebbero stati maggiori e più dilatati nel tempo. Possiamo dire di essere stati fortunati, nel dramma, che sia capitato in estate. La concentrazione massima dei composti inquinanti c’è stata a ridosso dell’evento, ma poi il vento disperderà la nube e la concentrazione di inquinanti si abbasserà”.

 

stormi

Le coreografie spettacolari degli storni spiegate dalla matematica

Ogni anno, in alcuni periodi, gli stormi di storni incantano i cieli, disegnando coreografie spettacolari. In un recente articolo pubblicato su Nature Communications, i ricercatori del gruppo Cobbs (Collective behaviour in biological systems, nato dalla collaborazione Cnr e Università ‘Sapienza’ di Roma) propongono un nuovo modello matematico che spiega la regolazione del loro volo.

Gli uccelli sincronizzano il loro movimento con lo scopo di mantenere il gruppo coeso e reagire collettivamente agli attacchi dei predatori e agli stimoli esterni“, spiega Stefania Melillo, dell’Istituto dei sistemi complessi del Cnr (Cnr-Isc) di Roma e componente del gruppo di ricerca ‘Cobbs’.

Un fenomeno collettivo generato da un meccanismo imitativo: “Ogni uccello adatta la propria direzione di volo e la propria velocità a quella di una decina di uccelli nel suo vicinato. In questo modo, quando un uccello cambia il proprio moto, i suoi vicini lo imitano e, con una sorta di passaparola, il cambiamento si propaga in tutto il gruppo”, dice. La necessità fondamentale per il verificarsi di questo spettacolare fenomeno (in gergo chiamato ‘flocking’) è che gli individui rimangano all’interno del gruppo, muovendosi in maniera coordinata, tra frenate e accelerate, dovendo sottostare a una serie di vincoli meccanici e fisiologici richiesti da una dinamica complessa come quella del volo. Quello che ancora non è ben chiaro è come gli uccelli regolino la loro velocità all’interno del gruppo.

Immaginiamo di sperimentare su noi stessi un meccanismo simile al volo degli storni quando siamo nel traffico o in autostrada e regoliamo la nostra andatura in base alle autovetture davanti a noi. Quando una vettura frena, quelle nelle sue immediate vicinanze la imitano. Il cambio di velocità si propaga poi a tutta la fila di macchine, che collettivamente rallentano”, afferma Antonio Culla, del gruppo Cobbs, dottorando in fisica all’università ‘Sapienza’ di Roma e tra gli autori dell’articolo scientifico. “Ma c’è un altro elemento da tenere in considerazione. La velocità di un’autovettura è limitata dal motore: un’utilitaria non può raggiungere la velocità di una macchina sportiva. Allo stesso modo, a causa della sua struttura fisiologica, uno storno non può volare veloce quanto un falco”.

Ma come si modellizza questo controllo delle velocità? “Gli storni hanno un valore preferenziale della velocità di volo (circa 43 Km/h), chiamato velocità di riferimento, dovuto alla loro struttura fisiologica. Quando si trovano in volo all’interno di un gruppo di loro simili, è estremamente facile muoversi ad una velocità di poco diversa da quella di riferimento, mentre è incredibilmente difficile muoversi molto più veloci o molto più lenti”, prosegue Culla. “Nel modello teorico che proponiamo, il singolo elemento dello stormo regola la sua velocità individuale all’interno della dinamica del gruppo, purché resti su valori ragionevoli, come una sorta di limitatore su una autovettura, che permette all’autista di deviare dal valore di riferimento, ma non di oltrepassare un limite fissato”.

L’eccezionale database di stormi di storni costruito dal gruppo Cobbs negli ultimi 15 anni, unico nel suo genere poiché comprende le traiettorie tridimensionali di 45 stormi di varie dimensioni (da 10 a 3000 uccelli), ha permesso di provare l’efficacia dello studio. “Il nuovo modello permette agli elementi all’interno dello stormo di coordinare i loro movimenti e di essere molto correlati tra di loro, pur mantenendo una velocità vicina a quella di riferimento, proprio come negli stormi osservati sul campo”. Lo studio del gruppo di ricerca ‘Cobbs’, per descrivere il movimento collettivo, apre nuove strade verso la comprensione dei sistemi biologici ma anche nell’ambito della robotica e dell’ingegneria.