Mangrovie a difesa dell’ambiente: con deforestazione +50.000% emissioni CO2

Il tasso annuale di emissioni di CO2, dovuto al degrado delle riserve di carbonio nelle foreste di mangrovie, aumenterà di quasi il 50.000% entro la fine del secolo. Particolarmente colpite sono le mangrovie in regioni come l’India meridionale, la Cina sudorientale, Singapore e l’Australia orientale. E’ l’allarme che emerge da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters della IOP Publishing.

Di fatto, le foreste di mangrovie immagazzinano una grande quantità di carbonio, in particolare nei loro suoli, ma lo sviluppo umano e urbano in queste aree ha portato al degrado di queste riserve. Negli ultimi 20 anni, un numero considerevole di foreste è stato sostituito dall’agricoltura, dall’acquacoltura e dalla gestione del territorio urbano, portando le riserve globali di carbonio a diminuire di 158,4 milioni di tonnellate, rilasciando lo stesso livello di emissioni di carbonio prodotte dal volo dell’intera popolazione degli Stati Uniti da New York a Londra.

Lo studio, condotto da Jennifer Krumins, professoressa di biologia alla Montclair State University, insieme a due dottorandi, Shih-Chieh Chien e Charles Knoble, si è concentrato sulla relazione tra la densità della popolazione umana e le riserve di carbonio nel suolo nelle foreste di mangrovie urbane per quantificare il loro ruolo nel bilancio globale di CO2.

I risultati mostrano che quando la densità di popolazione raggiunge le 300 persone/km2 (simile alla densità di popolazione media del Regno Unito o del Giappone), si stima che il carbonio immagazzinato nei terreni di mangrovie vicino alle aree popolate sia inferiore del 37% rispetto a quelle in aree isolate. Allo stesso tempo, il tasso annuo di emissioni di carbonio derivanti dalla perdita di mangrovie è attualmente stimato a 7,0 teragrammi, in linea con l’aumento della densità di popolazione fino a 3.392 teragrammi secondo le attuali previsioni alla fine del secolo.

Le foreste di mangrovie coprono circa lo 0,1% della superficie terrestre, ma svolgono un ruolo fondamentale nel fornire habitat alla fauna selvatica e nel regolare la stabilità climatica globale. Queste mangrovie immagazzinano una grande quantità di carbonio, in particolare nei loro terreni, e sono essenziali per regolare il ciclo del carbonio su scala globale. I terreni di mangrovie contengono da tre a quattro volte la massa di carbonio tipicamente presente nelle foreste boreali, temperate o tropicali. “Questo lavoro sottolinea l’importanza di proteggere le mangrovie esistenti, soprattutto nelle aree ad alta densità di popolazione – commenta Krumins – Le foreste di mangrovie sono fondamentali per la regolamentazione del sequestro del carbonio ed è importante proteggerle. Il primo passo è comprendere l’impatto delle popolazioni e delle attività umane sugli stock di carbonio delle foreste di mangrovie”.

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Clima, gli alberi faticano a ‘respirare’ per colpa del surriscaldamento globale

Gli alberi faticano a sequestrare l’anidride carbonica (CO2) nei climi più caldi e secchi, il che significa che potrebbero non essere più una soluzione per compensare l’impronta di carbonio dell’umanità con il continuo riscaldamento del pianeta. E’ quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori della Penn State. “Abbiamo scoperto che gli alberi nei climi più caldi e secchi stanno essenzialmente ‘tossendo’ invece di respirare”, spiega Max Lloyd, professore assistente di ricerca in geoscienze presso la Penn State e autore principale dello studio recentemente pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. “Rimandano la CO2 nell’atmosfera molto più di quanto non facciano gli alberi in condizioni più fresche e umide”.

Attraverso il processo di fotosintesi, gli alberi rimuovono la CO2, tuttavia, in condizioni di stress, rilasciano anidride carbonica nell’atmosfera, con un processo chiamato fotorespirazione. Il team di ricerca ha dimostrato che il tasso di fotorespirazione è fino a due volte superiore nei climi più caldi, soprattutto quando l’acqua è limitata. In sostanza, le piante potrebbero essere meno in grado di estrarre CO2 dall’atmosfera e assimilare il carbonio necessario per aiutare il pianeta a raffreddarsi.

Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, attualmente le piante assorbono circa il 25% della CO2 emessa ogni anno dalle attività umane, ma è probabile che questa percentuale diminuisca in futuro con il riscaldamento del clima. La quantità di anidride carbonica nell’atmosfera sta aumentando rapidamente; è già superiore a quella registrata negli ultimi 3,6 milioni di anni, secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration.

Il team lavorerà ora per scoprire i tassi di fotorespirazione nel passato antico, fino a decine di milioni di anni fa, utilizzando legno fossile. I metodi consentiranno ai ricercatori di testare esplicitamente le ipotesi esistenti in merito al cambiamento dell’influenza della fotorespirazione delle piante sul clima nel corso del tempo geologico.
Il lavoro è stato finanziato in parte dall’Agouron Institute, dalla Heising-Simons Foundation e dalla National Science Foundation degli Stati Uniti.

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Le concentrazioni di CO2 di quest’anno minacciano il limite di 1,5°C

L’aumento delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera quest’anno rischia di superare i livelli compatibili con le traiettorie di riscaldamento climatico che rispettano il limite di 1,5°C. Lo rivela uno studio del Servizio meteorologico del Regno Unito, basato sulle rilevazioni di una stazione di riferimento alle Hawaii. L’Accordo di Parigi del 2015 mira a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e a continuare gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C. Ma questo limite più ambizioso – inteso come temperatura media su almeno 20 anni – è considerato dagli esperti sempre più difficile da mantenere. “L’aumento stimato delle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera per quest’anno è ben al di sopra dei tre scenari compatibili con il limite di 1,5°C delineato nel rapporto IPCC“, ha riassunto Richard Betts, ricercatore del Met Office.

Gli autori dello studio reso pubblico venerdì hanno utilizzato tre scenari dell’IPCC, gli esperti climatici incaricati dalle Nazioni Unite, che consentirebbero di rispettare il limite più ambizioso dell’Accordo di Parigi. Le loro conclusioni si basano sulle previsioni di un aumento “relativamente grande” della CO2 presso la stazione di Mauna Loa nelle Hawaii, considerata un buon indicatore della tendenza globale. Gli scienziati hanno anche esaminato le previsioni di quest’anno senza tenere conto dell’attuale fenomeno meteorologico El Niño, che è associato a un aumento delle temperature globali e che indebolisce anche i serbatoi di carbonio come le foreste tropicali.

Anche se mettiamo da parte gli effetti temporanei di El Niño, scopriamo che le emissioni antropiche spingeranno l’aumento di CO2 nel 2024 al limite assoluto delle traiettorie per il rispetto di 1,5°C“, sottolinea Richard Betts. Il clima attuale è già più caldo di circa 1,2°C o 1,3°C rispetto al 1850-1900. E al ritmo attuale delle emissioni, l’IPCC prevede che la soglia di 1,5°C abbia il 50% di possibilità di essere raggiunta in media già nel 2030-2035. “Per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, l’accumulo di CO2 dovrà rallentare sostanzialmente nei prossimi anni e arrestarsi entro la metà del secolo. Ma le previsioni per il 2024 non indicano un tale rallentamento“, avverte Richard Betts. “Sembra davvero improbabile che riusciremo a limitare il riscaldamento a 1,5°C. Tecnicamente parlando, però, potremmo farlo se le emissioni venissero drasticamente ridotte d’ora in poi“, ha dichiarato all’AFP.

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Il lato oscuro del Black Friday: boom di acquisti ma schizzano le emissioni di CO2

E’ arrivato il tanto atteso Black Friday, che per un giorno – ma a dire il vero anche per una settimana – spinge sugli acquisti, complici grandi sconti e offerte speciali. Prezzi ribassati che, se da un lato fanno bene al portafoglio, dall’altro rischiano di far diventare questo venerdì ancora più nero per l’ambiente. E le ragioni sono tante, a cominciare dalla questione trasporti, soprattutto a causa degli acquisti online. Un prodotto comprato sul web, infatti, deve essere imballato, spedito e consegnato al domicilio del cliente, passando da hub e magazzini vari, spesso percorrendo migliaia di chilometri a bordo di aerei e camion prima di arrivare a casa dell’acquirente.

“Quando sono milioni i consumatori che fanno acquisti contemporanei in un arco di tempo ristretto – spiega Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima)i costi ambientali si impennano raggiungendo livelli altissimi”. In base alle stime di Sima, gli italiani che acquisteranno online e nei negozi fisici durante l’intera settimana del Black Friday, contribuiranno all’immissione in atmosfera di circa 500mila di tonnellate di CO2 a livello globale.

Non solo. Secondo un white paper di Up2You Insight dedicato alle emissioni nel settore retail, in Europa, durante il Black Friday dello scorso anno i camion impiegati per trasportare i pacchi nei magazzini e nei negozi hanno rilasciato nell’aria 1,2 milioni di tonnellate di CO2. Questo dato rappresenta un aumento del 94% rispetto a una settimana media, equivalente alle emissioni di circa 7.000 voli da Parigi a New York. Complessivamente, il 25% delle emissioni globali è attribuibile alle attività commerciali e se si pensa che il giro d’affari in Italia sfonderà la soglia dei 4 miliardi di euro (dati Codacons), in aumento del 15% rispetto al 2022, è evidente che la questione ambientale esiste.

Eppure, secondo la recente ricerca Unguess-Scalapay, un consumatore su due considera decisivo nel comportamento d’acquisto l’impatto ambientale nella scelta di cosa e dove comprare durante questo Black Friday. Ogni italiano spenderà quest’anno tra i 216 e i 238 euro, ma la Gen Z (cioè i giovani fino a 26 anni) sarà quella più propensa agli acquisti green. E in questa direzione spinge anche il Wwf. “Il Pianeta non fa sconti”, dice l’organizzazione ambientalista, che punta il dito contro “il sovra consumo camuffato da affare” che raggiunge l’apice in questo periodo, soprattutto nel settore della moda. “Ci contendiamo vestiti e prodotti di moda, che acquistiamo magari a un prezzo basso – spiega il Wwf – per poi indossarli pochissime volte e buttarli velocemente”.

Dietro il costo molto basso che paghiamo per portare a casa quel capo si nascondono infatti “l’utilizzo di materie prime di bassa qualità e additivi chimici – ricorda l’associazione – elevate emissioni di gas serra, l’utilizzo e lo spreco di risorse come suolo e acqua e l’inquinamento delle falde acquifere e degli ecosistemi acquatici, ma anche lo sfruttamento di lavoratori che spesso vivono dall‘altro capo del mondo”.

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Le emissioni di CO2 della Cina diminuiranno nel 2024 grazie alle rinnovabili

Secondo un nuovo studio, le emissioni di CO2 della Cina sono destinate a diminuire nel 2024, grazie alla crescita record della sua capacità di energia rinnovabile, che ora è sufficiente a coprire la crescente domanda del Paese. La Cina è attualmente il più grande emettitore di gas serra al mondo e prevede di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, respingendo le richieste di un obiettivo più ambizioso. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) stima che il Paese sarà responsabile del 45% delle emissioni di combustibili fossili tra il 2023 e il 2050. Ma la Cina sta anche costruendo capacità di energia rinnovabile a rotta di collo, con nuove installazioni solari che solo nel 2023 rappresentano il doppio della capacità totale degli Stati Uniti, secondo l’analisi del sito web britannico sul clima Carbon Brief pubblicata lunedì.

La nuova capacità aggiuntiva di energia solare, eolica, idroelettrica e nucleare nel solo 2023 genererà circa 423 terawattora (TWh) all’anno, equivalenti al consumo totale di elettricità della Francia“, si legge nel rapporto di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research. Il massiccio aumento della capacità installata e la prevista ripresa della produzione idroelettrica dopo una prevedibile battuta d’arresto a causa della siccità “sono praticamente garantiti per ridurre la produzione di elettricità basata sui combustibili fossili e le emissioni di CO2 nel 2024”, si legge nel rapporto. Questo calo potrebbe essere sostenibile perché “il ritmo di sviluppo dell’energia a basse emissioni di carbonio è ora sufficiente non solo a fornire, ma anche a superare l’aumento medio annuo della domanda totale di elettricità in Cina“, precisa il rapporto. Questa analisi si basa su cifre ufficiali e dati commerciali.

Allo stesso tempo, però, la Cina continua ad espandere la sua capacità di produzione di energia elettrica a carbone, e il rapporto avverte che questo potrebbe portare a “uno scontro” tra gruppi di interesse divergenti. La crescita delle energie rinnovabili “minaccia gli interessi dell’industria del carbone e dei governi locali che dipendono fortemente dal settore del carbone“, avverte Carbon Brief. “Ci si può aspettare che questi attori si oppongano e ostacolino la transizione“.

Alti funzionari cinesi e statunitensi per il clima si sono incontrati questa settimana, prima dei colloqui della COP28 previsti per novembre, e hanno dichiarato di aver avuto colloqui “costruttivi“, senza fornire ulteriori dettagli.

L’impronta di carbonio si dimezza con lo smart working, ma conta anche lo stile di vita

L’impronta di carbonio di un lavoratore in smart working può essere inferiore del 54% rispetto a chi, invece, lavora in sede, ma gli stili di vita e le modalità di lavoro giocano un ruolo essenziale nel determinare i benefici ambientali di questa forma di occupazione. Ad analizzare la questione – divenuta di grande attualità con la pandemia – è uno studio della Cornell University e di Microsoft, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca rivela anche che i cosiddetti lavoratori ‘ibridi’ – cioè chi sta a casa da due a quattro giorni alla settimana – possono ridurre la loro impronta di carbonio dall’11% al 29%, mentre lo smart working un solo giorno alla settimana dà risultati più trascurabili, riducendo l’impronta di carbonio solo del 2%.

“Il lavoro a distanza non è a zero emissioni di carbonio e i benefici di quello ibrido non sono perfettamente lineari”, spiega l’autore dello studio, Fengqi You, professore di ingegneria dei sistemi energetici alla Cornell. “Tutti sanno che senza pendolarismo si risparmia sull’energia dei trasporti – dice – ma ci sono sempre gli effetti dello stile di vita e molti altri fattori”.

Secondo la ricerca, i principali elementi che contribuiscono all’impronta di carbonio dei lavoratori in sede e di quelli ibridi sono gli spostamenti e l’uso dell’energia in ufficio. Questo non sorprende i ricercatori che quantificano l’impatto dello smart working sull’ambiente, ma Cornell e Microsoft hanno utilizzato i dati di un sondaggio e la modellazione per incorporare fattori a volte trascurati nel calcolo dell’impronta di carbonio, tra cui l’uso di energia residenziale, la distanza e il modo di trasporto, l’uso di dispositivi di comunicazione, il numero di membri della famiglia e la configurazione dell’ufficio, come la condivisione dei posti e le dimensioni dell’edificio.

Molte le scoperte fatte dagli autori. Intanto, gli spostamenti non pendolari, come quelli per le attività sociali e ricreative, diventano più significativi con l’aumentare del numero di giorni di lavoro a distanza. Inoltre, condividere i posti a sedere in presenza può ridurre l’impronta di carbonio del 28%. E, ancora, i lavoratori ibridi tendono a spostarsi più lontano rispetto ai lavoratori in sede a causa delle differenze nelle scelte abitative. Gli effetti del lavoro remoto e ibrido sulle tecnologie di comunicazione, come l’uso di computer, telefono e internet, invece, hanno un impatto trascurabile sull’impronta di carbonio complessiva.

“Il lavoro remoto e ibrido mostra un grande potenziale di riduzione dell’impronta di carbonio, ma quali sono i comportamenti che le aziende e altri responsabili politici dovrebbero incoraggiare per massimizzare i benefici?”, dice Longqi Yang, principal applied research manager di Microsoft e autore dello studio. “I risultati suggeriscono che le organizzazioni dovrebbero dare priorità ai miglioramenti dello stile di vita e del luogo di lavoro”.

Secondo Yang, dallo studio emerge che le aziende e i responsabili politici dovrebbero concentrarsi anche sull‘incentivazione del trasporto pubblico rispetto all’auto, sull’eliminazione degli uffici per i lavoratori a distanza e sul miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici adibiti a ufficio. “A livello globale, ogni persona, ogni Paese e ogni settore ha questo tipo di opportunità con il lavoro a distanza. Come potrebbero i benefici combinati cambiare il mondo intero? Questo è un aspetto che vogliamo davvero approfondire”, dice Yanqiu Tao, dottorando e primo autore dello studio.

Lo studio si basa su un lavoro sostenuto dalla National Science Foundation e si è avvalso di dati provenienti da Microsoft, dall’American Time Use Survey, dal National Household Travel Survey e dal Residential Energy Consumption Survey.

Le emissioni di Co2 minacciano la sopravvivenza degli orsi polari

Photo credit: AFP

Gli orsi polari sono da tempo un simbolo dei danni causati dal cambiamento climatico, che sta sciogliendo il pack ice da cui dipende la loro sopravvivenza. Ma non è mai stato possibile quantificare l’impatto di una singola centrale elettrica a carbone su questi emblematici mammiferi. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, dimostra che è ora possibile calcolare il legame diretto tra una certa quantità di emissioni di gas serra e il numero di giorni senza ghiaccio nelle aree abitate dagli orsi, che a sua volta influisce sulla percentuale di orsi che raggiungono l’età adulta. Grazie a questo grado di precisione, gli autori dello studio sperano di poter porre rimedio a quella che viene percepita come una lacuna nella legge americana. Gli orsi polari sono stati classificati come specie minacciata dal 2008, sotto la protezione dell’Endangered Species Act statunitense. Ma un’argomentazione legale pubblicata lo stesso anno impedisce di utilizzare questa legge per valutare i permessi di nuovi progetti di combustibili fossili alla luce delle considerazioni sul clima e del loro impatto su queste specie.

Scritto da David Bernhardt, avvocato dell’amministrazione del presidente repubblicano George W. Bush, il documento sostiene che la scienza non è in grado di distinguere l’impatto di una specifica fonte di gas serra dall’impatto delle emissioni nel loro complesso. Steven Amstrup, uno degli autori dello studio, ha dichiarato: “Abbiamo presentato le informazioni necessarie per smontare questa argomentazione“.

Gli orsi polari hanno bisogno del ghiaccio per cacciare le foche, muoversi e riprodursi. Quando il ghiaccio si scioglie in estate, gli orsi si ritirano nell’entroterra o sul ghiaccio lontano dalla costa, dove possono rimanere a lungo senza mangiare. Questi periodi di digiuno si stanno allungando con l’intensificarsi del riscaldamento globale. Un importante studio pubblicato nel 2020 è stato il primo a calcolare il legame tra i cambiamenti osservati nel ghiaccio marino dovuti al cambiamento climatico e il numero di orsi polari.

Sulla base di questo lavoro, i due autori del nuovo studio hanno stabilito la relazione tra le emissioni di gas serra, il numero di giorni di digiuno e il tasso di sopravvivenza dei cuccioli. Hanno effettuato questo calcolo per 15 delle 19 sottopopolazioni di orsi polari, tra il 1979 e il 2020. E sono riusciti a trarre una serie di conclusioni. Ad esempio, attualmente il mondo emette ogni anno 50 miliardi di tonnellate di CO2 o gas equivalente nell’atmosfera, il che, secondo lo studio, riduce il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nella popolazione di orsi polari del Mare di Beaufort del 3% all’anno. Nelle popolazioni sane, il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nei primi anni di vita è di circa il 65%. “Non è necessaria una grande variazione verso il basso per non avere abbastanza cuccioli per la generazione successiva“, sottolinea Amstrup.

Lo studio fornisce inoltre alle autorità americane gli strumenti per quantificare l’impatto di nuovi progetti di energia fossile, come nuove centrali elettriche, sugli orsi polari. La tecnica può anche essere applicata retroattivamente per comprendere l’impatto passato di un progetto specifico. Per Joel Berger, ricercatore specializzato nella conservazione della fauna selvatica presso la Colorado State University, questo nuovo studio stabilisce “un legame quantitativo indiscutibile tra le emissioni (di gas serra), il declino del ghiaccio marino, la durata del digiuno e la demografia degli orsi polari“.

La coautrice Cecilia Bitz ritiene che questo lavoro potrebbe avere implicazioni che vanno ben oltre gli orsi polari, e potrebbe essere adattato ad altre specie come i coralli o i cervi delle Keys. “Spero davvero che questo porti a molte ricerche scientifiche“, ha dichiarato all’AFP, aggiungendo di essere sempre alla ricerca di nuove collaborazioni.

L’energia geotermica può aiutare la transizione, l’Italia ha grandi risorse

Abbiamo più volte sostenuto che l’approccio giusto alla transizione energetica e cioè del passaggio dall’energia prodotta con fonti fossili, che comporta grandi emissioni di CO2, all’energia prodotta da fonti rinnovabili senza emissioni di CO2 è quello che si definisce di ‘neutralità tecnologica’.

Applicare il principio della neutralità tecnologica significa sfruttare tutte le tecnologie che producono energia senza emissioni di CO2 e non limitarsi solo ad alcune filiere tecnologiche quali tipicamente fotovoltaico, eolico e idroelettrico, che vanno benissimo ma per varie ragioni, prima fra tutte la loro non programmabilità e intermittenza, non sono sufficienti.

Le industrie, gli ospedali, altri servizi essenziali hanno bisogno di energia elettrica h 24 e cioè anche quando il sole non c’è, il vento non tira e c’è poca acqua nei fiumi.

Tra le fonti energetiche che possono fornire energia continua e senza emissioni di CO2 c’è certamente il geotermico.

Un caro amico geologo, il dottor Sandro De Stefanis che legge regolarmente i miei articoli sulla transizione energetica e che insieme alla Confederazione Italiana libere professioni sta organizzando per settembre un bel convegno a Genova sulla sicurezza energetica, mi ha sollecitato ad occuparmi anche dell’energia geotermica come importantissimo strumento per la decarbonizzazione, per la produzione di elettricità continua, per l’utilizzo di grandi risorse naturali ancora da sfruttare , nel rispetto dell’ambiente circostante.

Come si vedrà l’Italia ha un potenziale importantissimo per la produzione di questa energia, un potenziale che per ragioni difficilmente spiegabili non viene adeguatamente sfruttato.

L’energia geotermica è la forma di energia ottenibile dal calore proveniente da fonti geologiche presenti nel sottosuolo.

Si tratta di una forma di energia alternativa e rinnovabile che si basa sullo sfruttamento del calore naturale del pianeta Terra dovuto all’energia termica rilasciata da processi di decadimento nucleare naturale di elementi radioattivi quali uranio, torio e potassio contenuti nelle rocce presenti nel sottosuolo terrestre (nucleo, mantello, crosta terrestre). Ma come è possibile recuperare il calore della terra?

La temperatura del suolo aumenta mano a mano che si scende in profondità, registrando un incremento di 3 gradi ogni 100 metri. Le acque sotterranee a contatto con rocce ad alta temperatura si trasformano in vapore.

Il grande interesse dell’energia geotermica è che si tratta di una fonte stabile da cui si può ricavare energia costante (il famoso base load decarbonizzato) e che determina un’occupazione di suolo più contenuta rispetto alle altre fonti di energia rinnovabile. Inoltre l’assenza di processi di combustione contribuisce alla riduzione delle emissioni di inquinanti e di CO2 in atmosfera; infatti l’energia termica fuoriesce dalla superficie terrestre attraverso vettori fluidi quali acqua e vapore.

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici esistono diverse tipologie di centrali geotermiche che sfruttano il vapore e l’acqua calda per azionare turbine e produrre energia elettrica.

Molti e significativi sono i vantaggi dell’energia che sfrutta il calore della terra.

  • Si tratta di un’energia verde e continua, indipendente dalle temperature esterne, dalle condizioni metereologiche e dall’alternanza notte-giorno;
  • Tra le energie rinnovabili è quella che riesce a produrre maggiore quantità di elettricità;
  • Gli impianti geotermici sono silenziosi, non creano problemi acustici e non emettono anidride carbonica né polveri sottili;
  • L’assenza di processi di combustione riduce al minimo la necessità di interventi di manutenzione sugli impianti.

Dal punto di vista geotermico l’Italia ha grandissime risorse ed è un paese privilegiato con un potenziale enorme che sarebbe capace di soddisfare, secondo gli studiosi, il 40% del fabbisogno interno di energia elettrica. Nel nostro Paese le zone ad alta geotermia si trovano in Toscana: si tratta del triangolo Lardarello-Travale -Radicondoli e del Monte Amiata.

Proprio gli italiani sono stati all’inizio del ’900 i primi a sfruttare a Lardarello questa fonte energetica. Oggi gli impianti toscani, tutti gestiti dall’Enel producono 6 miliardi di Kwh l’anno coprendo circa il 30% del fabbisogno elettrico regionale. La centrale elettrica più grande è quella di Valle del Secolo a Lardarello che ha una capacità di 120 MW e oggi è in manutenzione.

Sono in attesa di autorizzazione impianti per oltre 700 GWh/anno che da soli, secondo stime dell’ex ministro dell’Energia e dell’Ambiente Cingolani, potrebbero dare il 10% dell’energia rinnovabile da immettere in rete nel 2030.

Infine, oltre le grandi centrali elettriche di cui si è detto sopra, possono risultare interessanti anche più piccole applicazioni domestiche del geotermico per riscaldare e climatizzare le abitazioni con consumi molto bassi e costi di manutenzioni irrisori.

Il principio anche in questo caso è molto semplice: si manda acqua in profondità, oltre i 100 metri, per scaldarla di 3-4 gradi centigradi; questo gradiente termico è sufficiente a trasformare un fluido contenuto in un serbatoio della centrale termica in un gas che espandendosi crea energia e calore alimentando caloriferi e scambiatori di calore. Ideale per le case in montagna dove non è difficile scendere di 100 metri con i tubi dell’acqua. Si tratta di un investimento piuttosto costoso che però viene ripagato nel tempo dalla totale assenza di consumi di combustibile. L’unica energia che viene consumata nel processo è quella della piccola pompa elettrica che manda l’acqua in profondità. Ma anche qui basta mettere qualche pannello solare sul tetto per coprire con fonti verdi anche questo fabbisogno energetico.

Il geologo: “Stoccare CO2 nel Mediterraneo? Si può fare, ma in Norvegia è più facile”

Nel Mare del Nord sono oggi in costruzione i 110 chilometri di pipeline che trasporteranno lontano dalla costa norvegese tonnellate di CO2 catturata dagli impianti industriali del Nord Europa. La pomperanno ad altissima pressione a 2.700 metri di profondità nella crosta terrestre, per immagazzinarla in un giacimento geologico naturale – un acquifero salino formatosi quasi 200 milioni di anni fa – che la intrappolerà in modo duraturo. La Norvegia investe da anni per stoccare anidride carbonica sotto i fondali del mare. Nel 2024 è previsto l’inizio dell’attività operazioni del progetto ‘Northern Lights’: promette di immagazzinare in modo sicuro un milione e mezzo di tonnellate di CO2 ogni anno, con la previsione di salire a 5 dopo metà secolo. Ma è possibile immaginare la stessa tecnologia nel Mar Mediterraneo? “Dal punto di vista geologico, sì, anche se con caratteristiche diverse”, come spiega a GEA Marco G. Malusà, professore di geologia stratigrafica e sedimentologica all’università di Milano-Bicocca. Più semplice, certo, nel Mare del Nord. In particolare per una questione numerica: i siti potenzialmente utilizzabili sono molti di più.

Quali condizioni devono esserci per poter stoccare CO2 sotto il fondale del mare?

“Dobbiamo immaginare i siti di stoccaggio come dei serbatoi costituiti da rocce porose e permeabili. Quando al di sopra di queste rocce è presente uno strato impermeabile si può creare una sorta di trappola: la CO2 iniettata sotto pressione non può più risalire verso la superficie. L’ideale, per questo tipo di tecnologia, è utilizzare pozzi petroliferi già esauriti, oppure acquiferi salini non adatti al consumo umano a causa dell’elevata percentuale di sali disciolti”.

Ci sono differenze tra iniettare gas in un vecchio giacimento o in un acquifero salino?

“Tecnicamente no. Il metodo è lo stesso. È vero però che utilizzare giacimenti esauriti di idrocarburi accelera i tempi, perché, semplicemente, sono più studiati. Il gas iniettato dovrà prendere il posto lasciato dagli idrocarburi estratti. Andrà pompato a una pressione leggermente maggiore rispetto alle condizioni che troverà in profondità. Ma non eccessiva, per non indurre fratturazioni indesiderate. Il vantaggio è che la “trappola” è già testata naturalmente per resistere a ere geologiche. Sono inoltre già state realizzate in passato indagini sismiche e geologiche, e sarà più semplice analizzare tutti i parametri del pozzo. È quindi possibile minimizzare i possibili rischi con appropriate strategie di monitoraggio”.

Quanto tempo servirebbe per valutare invece le caratteristiche geologiche di un acquifero salino?

“Bisogna in questo caso conoscere come è fatta la ‘trappola’, e accertarsi che non ci siano faglie che la mettano in comunicazione con i livelli permeabili sovrastanti. Un acquifero salino difficilmente sarà già studiato con questo livello di dettaglio, anche se non si parte da zero. In ogni caso parliamo di anni, non decenni”.

Il Mediterraneo è una zona molto sismica, a differenza del Mare del Nord. Questo può rendere un eventuale stoccaggio più rischioso?

“Ci sono faglie attive. Ma non bisogna immaginare che un terremoto al largo dell’Italia possa liberare CO2 immagazzinata in un eventuale giacimento. Il problema, semmai, è che proprio la presenza di faglie riconducibili a questa attività sismica è responsabile dello scarso numero di giacimenti e di siti adatti in area mediterranea. Nel Mare del Nord questo genere di attività tettonica si è sostanzialmente conclusa da svariati milioni di anni, da lì le faglie sono state sigillate da altri sedimenti e si sono creati serbatoi molto grandi dove poter estrarre o iniettare gas. Nel Mediterraneo la presenza di numerose faglie, spesso tuttora attive, non ha permesso invece di definire trappole grandi ed efficienti”.

Quanta CO2 si può immagazzinare in un giacimento o in un acquifero salino?

“Dipende da caso a caso. Ma la pressione fa ridurre notevolmente il volume della CO2. Per esempio, 1000 metri cubi di anidride carbonica al livello del suolo scendono a 20 metri cubi a 400 metri di profondità. A 800 metri il gas raggiunge lo stato supercritico (dove può essere denso come un liquido ma viscoso come un gas NdR) e si riduce a 3,8 metri cubi, a profondità superiori può raggiungere i 2,7 metri cubi di volume”.

Fattibilità tecnica a parte, lo stoccaggio di CO2 sotto gli oceani è per lei una buona soluzione su cui investire?

“Una transizione ecologica è necessaria. L’ideale sarebbe ridurre il più possibile le emissioni di gas serra. Ma ci sono settori industriali dove questo può avvenire molto difficilmente. Questo tipo di soluzione diventa allora un mezzo molto potente per il periodo di transizione che dovrà portarci a raggiungere la neutralità climatica”.

L’ambasciatore di Norvegia: “Nei fondali spazio per stoccare la Co2 dell’Ue per 75 anni”

Photo credits: profilo Facebook Ambasciata di Norvegia in Italia

Roma e Oslo come due poli di un hub che aiuteranno l’Europa a raggiungere l’indipendenza energetica. Per farlo, secondo Johan Vibe, ambasciatore della Norvegia in Italia, nel breve periodo non si può rinunciare al gas, anche se occorre spingere sulle rinnovabili, compensando con la cattura e stoccaggio della Co2. La questione è stata sollevata anche nel corso del recente viaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Oslo e Trondheim (10-13 maggio): “Durante la visita di Stato abbiamo organizzato un evento coinvolgendo imprese e centri di ricerca di entrambi i Paesi, con l’idea di poter avere uno scambio di idee sul tema“, racconta il diplomatico a GEA. L’Italia, riconosce, “ha fatto un grande lavoro per raggiungere l’indipendenza da Mosca, trovando altri fornitori e altre fonti di approvvigionamento“. Il punto fondamentale ora, è pensare a una “strategia parallela“, in cui in futuro le rinnovabili avranno un ruolo centrale sia per raggiungere la sicurezza energetica che per combattere il cambiamento climatico.

Nel Mare del Nord la transizione è già in corso. Come?

“Abbiamo aumentato le esportazioni di gas per aiutare l’Europa ma abbiamo anche accelerato gli investimenti in altre tecnologie, in questo modo la Norvegia sarà un hub energetico per l’Europa del Nord anche nel futuro. Le tecnologie sviluppate sono diverse, una è l’idrogeno blu. Il sogno è passare all’idrogeno verde, in futuro, ma intanto si può usare l’idrogeno blu, che viene dal gas, stoccando la Co2”.

Su cattura e stoccaggio della Co2 la Norvegia è all’avanguardia, farà da apripista? Come aiuterà l’Europa?

“Nei fondali della Norvegia c’è spazio per stoccare tutta la Co2 dell’Unione europea per 75 anni. Ieri si è fatto un accordo importante con un impianto energetico danese che vuole utilizzare la CCS (Carbon Capture and Storage) catturando la Co2 dall’impianto, liquefacendola e portandola in Norvegia per essere stoccata. Siamo in procinto di stringere accordi simili per altri impianti in Norvegia, abbiamo un accordo per il termovalorizzazione di Londra e per altre produzioni industriali. Lavoriamo a gasdotti che in futuro esporteranno idrogeno e ad altri condotti che importeranno Co2 in Norvegia. In Italia si è lavorato sul tema, a Ravenna, ma anche in paesi come l’Algeria. L’importante è trovare terreni adeguati”.

Sulle rinnovabili, il Paese è all’avanguardia nell’eolico. Aiuterà a produrre idrogeno verde?

“Sì. Soprattutto l’off-shore wind galleggiante è una tecnologia importante, perché le acque sono profonde. In futuro l’elettricità prodotta con l’eolico sarà esportabile e servirà anche per produrre idrogeno verde. Abbiamo calcolato che dovremo duplicare l’elettrificazione del Paese”.

A che punto sono invece i parchi eolici on-shore e perché c’è stato uno stop politico?

“Come in vari Paesi, c’è stato un dibattito complicato, perché secondo alcune persone rovina il paesaggio. Poi c’è stata una discussione sui diritti della popolazione indigena Sami, che pascola le renne in alcuni terreni dove sono oggi dei parchi eolici. Pensiamo comunque che l’investimento nell’offshore sarà migliore, nel Mare del Nord il vento è molto forte. Il governo ha presentato un Piano per installare una capacità di 30 GW offshore nei prossimi anni”.

Siete d’accordo con la strategia europea di stoppare la produzione di auto a motore endotermico a partire dal 2035? Non credete che potrebbe crearsi una dipendenza dalla Cina?

“Siamo completamente d’accordo. In Norvegia l’80% dei veicoli venduti è elettrico. Abbiamo fatto investimenti per produrre batterie e la Svezia ha fatto lo stesso, l’Europa deve fare uno sforzo in questo senso”.

Tornando all’indipendenza energetica, continuerete a esportare gas a stretto giro?

“Il gas sarà importante ancora per altri anni. Meglio del carbone. In questo momento stiamo producendo al massimo possibile, ma per fortuna il prezzo si è abbassato e anche gli stoccaggi dell’Europa vanno abbastanza bene, speriamo non ci saranno grossi problemi nell’inverno prossimo, dobbiamo però accelerare molto sulle rinnovabili. L’Italia ha una grande opportunità con il Piano Mattei e la cooperazione con il Nord Africa”.

Sulle rinnovabili, sulla costruzione delle infrastrutture, quanto può essere profonda la partnership tra Italia e Norvegia?

“L’Italia è stata molto importante per noi per lo sviluppo della piattaforma continentale quando abbiamo scoperto il petrolio. Ma anche per la conversione nelle rinnovabili, Fincantieri e Saipem collaborano molto con le aziende norvegesi”.