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Clima, calano emissioni di CO2 in Cina: è la prima volta dopo la pandemia

Per la prima volta dalla fine della pandemia di Covid-19 e dalla conseguente ripresa economica, le emissioni di CO2 sono diminuite in Cina. Il calo di marzo è dovuto all’aumento della capacità di energia rinnovabile, che ha coperto la quasi totalità della crescita della domanda di elettricità in questo periodo, e anche al crollo dell’edilizia.
Se la capacità di energia rinnovabile continuerà a crescere a livelli record, le emissioni della Cina potrebbero raggiungere il picco nel 2023, secondo un’analisi di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research (CREA).

In uno studio pubblicato sul sito specializzato Carbon Brief, il ricercatore indica che le emissioni di anidride carbonica della Cina sono diminuite del 3% nel marzo 2024 rispetto all’anno precedente. Nel primo trimestre, le emissioni sono ancora superiori a quelle dell’anno precedente, ma questo si spiega con una base di confronto ancora molto bassa nei mesi di gennaio e febbraio 2023, a seguito dell’abolizione delle restrizioni Covid-19 nel dicembre 2022. Marzo è “il primo mese a dare una chiara indicazione dell’andamento delle emissioni dopo il rimbalzo post-Covid”, secondo lo studio pubblicato martedì. È anche in linea con le proiezioni dello scorso anno e suggerisce alcune tendenze chiave.

Le emissioni del settore elettrico si sono stabilizzate grazie all’aumento della produzione di energia solare ed eolica, mentre la produzione di acciaio è diminuita dell’8% e quella di cemento del 22% rispetto all’anno precedente, riflettendo un rallentamento del settore edilizio che si prevede continuerà.

La crescente adozione di veicoli elettrici in Cina – il 10% delle auto in circolazione secondo i dati dei fornitori – continua a pesare sulla domanda di petrolio.

Sebbene la domanda di elettricità sia aumentata, in particolare a causa dell’acquisto di condizionatori d’aria, quasi il 90% di quella aggiuntiva a marzo è stata soddisfatta da fonti di energia rinnovabili, sottolinea Lauri Myllyvirta.

Nonostante la crescita della capacità, l’energia eolica e solare rappresentano ancora solo il 15% della produzione di elettricità in Cina e le autorità stanno lavorando per integrare maggiormente queste fonti nella rete.

La traiettoria delle emissioni in Cina rimane tuttavia incerta, con gli esperti che non riescono a stabilire se l’installazione di capacità di energia rinnovabile aumenterà o rallenterà in futuro. Secondo lo studio, inoltre, gli obiettivi governativi di crescita economica suggeriscono che Pechino potrebbe ancora registrare un aumento delle emissioni.

La Cina continua a investire nel carbone e, sebbene la crescita della capacità di carbone sia leggermente rallentata nel primo trimestre di quest’anno, un numero significativo di centrali elettriche è ancora in costruzione.

Clima, l’Appennino centrale emette più CO2 di quanta riesca ad assorbirne

Gli Appennini centrali rilasciano più CO2 di quanto riescando ad assorbirne. A rivelarlo è uno studio, pubblicato su Nature Geoscience, condotto da Erica Erlanger e Niels Hovius del Centro di Ricerca Tedesco per le Geoscienze GFZ e da Aaron Bufe della Ludwig-Maximilians-Universität München. La ‘colpa’ è delle rocce profonde.

Le montagne tettonicamente attive, proprio come gli Appennini, svolgono un ruolo importante nella regolazione naturale della CO2 nell’atmosfera. Qui hanno luogo processi in competizione tra loro: sulla superficie terrestre, l’erosione determina processi meteorologici che assorbono o rilasciano CO2, a seconda del tipo di roccia. In profondità, il riscaldamento e la fusione delle rocce carbonatiche portano al rilascio di CO2 in superficie. E sulle nostre montagne, i ricercatori hanno studiato e bilanciato per la prima volta tutti questi processi in un’unica regione, utilizzando, tra l’altro, le analisi del contenuto di CO2 nei fiumi e nelle sorgenti di montagna.

Gli scienziati hanno scoperto che gli agenti atmosferici in questa regione portano a buon un assorbimento complessivo di CO2, ma i processi vicini alla superficie determinano un bilancio positivo (cioè viene assorbita più anidride carbonica di quanta venga emessa) solo nelle aree con una crosta spessa e fredda. Sul lato occidentale dell’Appennino centrale, la crosta è più sottile e il flusso di calore è maggiore. Lì, il degassamento di CO2 in profondità è fino a 50 volte superiore all’assorbimento attraverso gli agenti atmosferici. Quindi, nel complesso, il paesaggio analizzato è un emettitore di CO2. La struttura e la dinamica della crosta terrestre, quindi, controllano il rilascio di CO2 qui in modo più forte rispetto agli agenti atmosferici chimici.

Nell’Appennino centro-occidentale, lo spessore della crosta è di circa 20 chilometri e il flusso di calore arriva a oltre 100 milliwatt per metro quadrato, mentre la crosta a est ha uno spessore di oltre 40 chilometri, con un flusso di calore di circa 30 milliwatt per metro quadrato.

I ricercatori hanno prelevato un totale di 104 campioni d’acqua nei sistemi fluviali del Tevere occidentale e dell’Aterno-Pescara orientale, di cui 49 nell’estate 2020 e 55 nell’inverno 2021, coprendo le stagioni più calde e più secche e le stagioni più umide e più fredde per stimare i flussi minimi (estate) e massimi (inverno) di CO2.

I campioni d’acqua sono adatti perché i fiumi e le sorgenti trasportano il carbonio, che proviene sia dalle profondità sia dalle reazioni atmosferiche vicino alla superficie. L’analisi chimica dei campioni ha incluso la determinazione dell’abbondanza relativa di vari isotopi del carbonio. Questi possono fornire informazioni sul fatto che il carbonio provenga da una pianta, dall’atmosfera o sia stato rilasciato da una roccia subdotta.

Che ne è stato degli obiettivi della Cop15? L’Italia li ha raggiunti tutti

Diciannove Paesi su 34 non sono riusciti a rispettare pienamente gli impegni climatici assunti 15 anni anni fa a Copenaghen con obiettivi al 2020. E’ quanto emerge da un nuovo studio condotto da ricercatori della University College London (Ucl), pubblicato su Nature Climate Change. Il team ha confrontato le emissioni nette di carbonio effettive di oltre 30 nazioni con gli obiettivi di riduzione delle emissioni promessi nel 2009 durante il vertice sul clima di Copenhagen. E da questa analisi l’Italia esce vincente.

Il lavoro guidato dai ricercatori dell’Ucl e dell’Università Tsinghua è il primo sforzo per valutare in modo esaustivo in che misura i Paesi sono stati in grado di rispettare gli impegni di riduzione del Contributo Nazionale Determinato assunti durante la COP15.

Delle 34 nazioni analizzate nello studio, 15 hanno raggiunto con successo i loro obiettivi (Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.), mentre 12 hanno fallito completamente (Australia, Austria, Canada, Cipro, Irlanda, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svizzera). I restanti sette Paesi (Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Polonia) rientrano in una categoria che gli autori dello studio hanno definito “gruppo a metà strada”: nazioni che hanno ridotto le emissioni di carbonio all’interno dei propri confini, ma lo hanno fatto in parte utilizzando il commercio per spostare le emissioni che avrebbero prodotto in altri Paesi. Conosciuta come “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio” o “trasferimento di carbonio”, questa esternalizzazione è una preoccupazione crescente tra i responsabili delle politiche ambientali.

Per ‘seguire’ questa ‘fuga’ di CO2, i ricercatori hanno utilizzato un metodo di tracciamento delle emissioni “basato sul consumo” che fornisce uno schema più completo per calcolare le emissioni totali di carbonio di un Paese. Non tiene conto solo delle emissioni derivanti dalle attività economiche all’interno dei confini territoriali della nazione, ma anche dell’impronta di carbonio dei beni importati e prodotti all’estero.

L’autore principale, il professor Jing Meng (UCL Bartlett School of Sustainable Construction), spiega che “la nostra preoccupazione è che i Paesi che hanno faticato a raggiungere gli impegni presi nel 2009 incontreranno probabilmente difficoltà ancora più consistenti nel ridurre ulteriormente le emissioni.”

Questi obiettivi di emissione sono stati fissati nel 2009 al vertice internazionale sul clima COP15 di Copenaghen. In quell’occasione, nonostante l’impossibilità di raggiungere un accordo globale, i singoli Paesi del mondo hanno stabilito i propri obiettivi individuali di riduzione delle emissioni. Ciò significa che gli obiettivi stabiliti variano notevolmente, dal modesto ma riuscito impegno della Croazia di ridurre le emissioni di carbonio del 5%, allo sforzo relativamente ambizioso ma infruttuoso della Svizzera di abbassarle 20-30% entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990.

La ricerca evidenzia anche le disparità tra i diversi punti di partenza dei Paesi. Sebbene quattro Paesi dell’Europa orientale – Estonia, Lituania, Lettonia e Romania – siano riusciti a raggiungere i loro obiettivi, i ricercatori sottolineano che ciò è dovuto soprattutto al fatto che gran parte dell’industria della regione utilizzava tecnologie obsolete e altamente inefficienti, risalenti ai primi anni ’90, che sono state abbandonate di recente.

Inoltre, i ricercatori avvertono che i Paesi che hanno faticato di più a raggiungere gli obiettivi della COP15 probabilmente incontreranno sfide ancora più grandi in futuro, dato che dovranno far fronte a una domanda di energia ancora maggiore con l’ulteriore espansione e sviluppo delle loro economie.

I principali modi in cui i Paesi sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi di emissione sono stati l’aumento della quantità di energia pulita prodotta, in particolare la transizione dal carbone, e un uso più efficiente dell’energia prodotta. I Paesi che non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi sono stati in gran parte incapaci di farlo perché l’aumento del consumo associato all’aumento del Pil pro capite e alla crescita della popolazione ha superato i loro sforzi per aumentare l’efficienza.

Il più recente Accordo di Parigi, firmato nel 2015 alla COP21, ha stabilito un quadro globale più ambizioso e completo per ridurre le emissioni di carbonio che ha sostituito questi contributi determinati a livello nazionale.

Clima, l’aumento di CO2 e di metano minaccia il Mediterraneo

L’area del Mediterraneo è sempre più a rischio a causa del continuo aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) e di metano (CH4). È quanto emerge dal Report dell’Osservatorio Climatico ENEA ‘Madonie – Piano Battaglia’ che dal 2005 effettua misure settimanali della concentrazione dei due gas e di altri parametri climatici. I dati, che dimostrano la minaccia per il Mediterraneo, sono sovrapponibili a quelli rilevati dall’Osservatorio ENEA di Lampedusa e, su scala globale, da differenti istituzioni internazionali e sono stati presentati alla vigilia della Giornata Meteorologica Mondiale che ricorre domani, 23 marzo 2024, quest’anno dedicata al tema ‘In prima linea nell’azione per il clima’.

“La concentrazione atmosferica di CO2 a Madonie-Piano Battaglia è aumentata dal 2005 con un tasso di crescita di 2.16 ppm/anno a causa delle emissioni antropiche”, evidenzia Francesco Monteleone del Laboratorio ENEA di Osservazioni e misure per l’ambiente e il clima. “Inoltre – aggiunge – si osserva una forte crescita anche per la concentrazione atmosferica di metano, e lo stesso trend si sta registrando, con una crescita accelerata negli ultimi 15 anni, anche su scala globale”.

L’alta quota, la posizione geografica, l’assenza di contaminazioni locali e l’accuratezza delle misure fanno dell’Osservatorio Climatico ENEA un sito di eccellenza per il monitoraggio e lo studio dei meccanismi legati al cambiamento climatico su scala regionale e globale. Per queste caratteristiche l’Osservatorio ha ottenuto il riconoscimento di stazione regionale, rappresentativo per tutta l’area del Mediterraneo centrale, nell’ambito del Global Atmosphere Watch (GAW), che è la rete mondiale per lo studio del clima globale dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO).

L’Osservatorio Climatico di Piano Battaglia dispone di vari strumenti di misura tra cui una stazione meteorologica e un sistema di campionamento dell’aria per determinare la concentrazione di CO2, metano e monossido di carbonio, i cui campioni vengono spediti e analizzati all’Osservatorio Climatico ENEA di Lampedusa. I dati messi a disposizione della rete mondiale del WMO sono utili alle amministrazioni locali per pianificare le azioni volte a una gestione sostenibile del territorio e a sensibilizzare la popolazione.

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Nuovo record nel 2023 per le emissioni globali di CO2 legate all’energia

Le emissioni globali di CO2 legate all’energia sono aumentate dell’1,1% nel 2023, raggiungendo un livello record, soprattutto a causa della scarsa produzione idroelettrica causata dalla siccità e dalla crescita in Cina. Lo riferisce l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie). Queste emissioni energetiche, che rappresentano circa il 90% dell’anidride carbonica emessa dall’uomo, sono aumentate di 410 milioni di tonnellate, raggiungendo i 37,4 miliardi di tonnellate lo scorso anno, secondo il rapporto di riferimento dell’Aie. Tuttavia, la tendenza non sembra essere così negativa come l’anno precedente, quando le emissioni sono aumentate di 490 milioni di tonnellate.

Il bilancio del 2023 è stato appesantito da un calo record della produzione idroelettrica globale, a causa delle gravi e prolungate siccità che hanno colpito diverse regioni del mondo. Questo effetto, da solo, ha comportato un aumento delle emissioni di circa 170 milioni di tonnellate: i Paesi interessati (Cina, Canada, Messico, ecc.) sono ricorsi ad altri mezzi inquinanti per produrre elettricità, come l’olio combustibile o il carbone.

La Cina, che ha aggiunto 565 milioni di tonnellate di CO2 al totale globale, ha proseguito la crescita economica ad alta intensità di emissioni, iniziata dopo la crisi di Covid-19. Questa tendenza è in contrasto con quella delle economie avanzate, che hanno visto le loro emissioni diminuire di una quantità record nonostante la crescita del Pil, con l’uso del carbone al livello più basso dall’inizio del 1900. Secondo l’Ipcc, le cifre del 2023 non vanno nella giusta direzione, dato che le emissioni di gas serra di tutti i settori devono diminuire del 43% entro il 2030 rispetto al 2019, se vogliamo rimanere entro il limite di 1,5°C stabilito dall’Accordo di Parigi. Le emissioni globali devono inoltre raggiungere il picco entro il 2025.

Ma l’Aie tiene a sottolineare l’importante contributo delle energie “pulite“, comprese le rinnovabili. “La transizione verso l’energia pulita sta procedendo alacremente e sta riducendo le emissioni, anche se la domanda globale di energia crescerà più rapidamente nel 2023 rispetto al 2022“, sottolinea il direttore esecutivo dell’Aie Fatih Birol. Tra il 2019 e il 2023, le emissioni legate all’energia aumenteranno di circa 900 milioni di tonnellate. Tuttavia, l’Aie sottolinea che questa cifra sarebbe stata tre volte superiore senza la diffusione di cinque tecnologie chiave: solare, eolica, nucleare, pompe di calore e auto elettriche.

L’agenzia pubblicherà venerdì anche un rapporto separato dedicato specificamente al mercato dell’energia pulita, che mostra un forte aumento dell’energia solare ed eolica. Ma questa diffusione è rimasta “troppo concentrata nelle economie avanzate e in Cina“, mentre il resto del mondo è in ritardo. “Abbiamo bisogno di sforzi molto maggiori per consentire alle economie emergenti e in via di sviluppo di aumentare i loro investimenti nell’energia pulita“, ha sottolineato ancora una volta Fatih Birol.

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Mangrovie a difesa dell’ambiente: con deforestazione +50.000% emissioni CO2

Il tasso annuale di emissioni di CO2, dovuto al degrado delle riserve di carbonio nelle foreste di mangrovie, aumenterà di quasi il 50.000% entro la fine del secolo. Particolarmente colpite sono le mangrovie in regioni come l’India meridionale, la Cina sudorientale, Singapore e l’Australia orientale. E’ l’allarme che emerge da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters della IOP Publishing.

Di fatto, le foreste di mangrovie immagazzinano una grande quantità di carbonio, in particolare nei loro suoli, ma lo sviluppo umano e urbano in queste aree ha portato al degrado di queste riserve. Negli ultimi 20 anni, un numero considerevole di foreste è stato sostituito dall’agricoltura, dall’acquacoltura e dalla gestione del territorio urbano, portando le riserve globali di carbonio a diminuire di 158,4 milioni di tonnellate, rilasciando lo stesso livello di emissioni di carbonio prodotte dal volo dell’intera popolazione degli Stati Uniti da New York a Londra.

Lo studio, condotto da Jennifer Krumins, professoressa di biologia alla Montclair State University, insieme a due dottorandi, Shih-Chieh Chien e Charles Knoble, si è concentrato sulla relazione tra la densità della popolazione umana e le riserve di carbonio nel suolo nelle foreste di mangrovie urbane per quantificare il loro ruolo nel bilancio globale di CO2.

I risultati mostrano che quando la densità di popolazione raggiunge le 300 persone/km2 (simile alla densità di popolazione media del Regno Unito o del Giappone), si stima che il carbonio immagazzinato nei terreni di mangrovie vicino alle aree popolate sia inferiore del 37% rispetto a quelle in aree isolate. Allo stesso tempo, il tasso annuo di emissioni di carbonio derivanti dalla perdita di mangrovie è attualmente stimato a 7,0 teragrammi, in linea con l’aumento della densità di popolazione fino a 3.392 teragrammi secondo le attuali previsioni alla fine del secolo.

Le foreste di mangrovie coprono circa lo 0,1% della superficie terrestre, ma svolgono un ruolo fondamentale nel fornire habitat alla fauna selvatica e nel regolare la stabilità climatica globale. Queste mangrovie immagazzinano una grande quantità di carbonio, in particolare nei loro terreni, e sono essenziali per regolare il ciclo del carbonio su scala globale. I terreni di mangrovie contengono da tre a quattro volte la massa di carbonio tipicamente presente nelle foreste boreali, temperate o tropicali. “Questo lavoro sottolinea l’importanza di proteggere le mangrovie esistenti, soprattutto nelle aree ad alta densità di popolazione – commenta Krumins – Le foreste di mangrovie sono fondamentali per la regolamentazione del sequestro del carbonio ed è importante proteggerle. Il primo passo è comprendere l’impatto delle popolazioni e delle attività umane sugli stock di carbonio delle foreste di mangrovie”.

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Clima, gli alberi faticano a ‘respirare’ per colpa del surriscaldamento globale

Gli alberi faticano a sequestrare l’anidride carbonica (CO2) nei climi più caldi e secchi, il che significa che potrebbero non essere più una soluzione per compensare l’impronta di carbonio dell’umanità con il continuo riscaldamento del pianeta. E’ quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori della Penn State. “Abbiamo scoperto che gli alberi nei climi più caldi e secchi stanno essenzialmente ‘tossendo’ invece di respirare”, spiega Max Lloyd, professore assistente di ricerca in geoscienze presso la Penn State e autore principale dello studio recentemente pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. “Rimandano la CO2 nell’atmosfera molto più di quanto non facciano gli alberi in condizioni più fresche e umide”.

Attraverso il processo di fotosintesi, gli alberi rimuovono la CO2, tuttavia, in condizioni di stress, rilasciano anidride carbonica nell’atmosfera, con un processo chiamato fotorespirazione. Il team di ricerca ha dimostrato che il tasso di fotorespirazione è fino a due volte superiore nei climi più caldi, soprattutto quando l’acqua è limitata. In sostanza, le piante potrebbero essere meno in grado di estrarre CO2 dall’atmosfera e assimilare il carbonio necessario per aiutare il pianeta a raffreddarsi.

Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, attualmente le piante assorbono circa il 25% della CO2 emessa ogni anno dalle attività umane, ma è probabile che questa percentuale diminuisca in futuro con il riscaldamento del clima. La quantità di anidride carbonica nell’atmosfera sta aumentando rapidamente; è già superiore a quella registrata negli ultimi 3,6 milioni di anni, secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration.

Il team lavorerà ora per scoprire i tassi di fotorespirazione nel passato antico, fino a decine di milioni di anni fa, utilizzando legno fossile. I metodi consentiranno ai ricercatori di testare esplicitamente le ipotesi esistenti in merito al cambiamento dell’influenza della fotorespirazione delle piante sul clima nel corso del tempo geologico.
Il lavoro è stato finanziato in parte dall’Agouron Institute, dalla Heising-Simons Foundation e dalla National Science Foundation degli Stati Uniti.

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Le concentrazioni di CO2 di quest’anno minacciano il limite di 1,5°C

L’aumento delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera quest’anno rischia di superare i livelli compatibili con le traiettorie di riscaldamento climatico che rispettano il limite di 1,5°C. Lo rivela uno studio del Servizio meteorologico del Regno Unito, basato sulle rilevazioni di una stazione di riferimento alle Hawaii. L’Accordo di Parigi del 2015 mira a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e a continuare gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C. Ma questo limite più ambizioso – inteso come temperatura media su almeno 20 anni – è considerato dagli esperti sempre più difficile da mantenere. “L’aumento stimato delle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera per quest’anno è ben al di sopra dei tre scenari compatibili con il limite di 1,5°C delineato nel rapporto IPCC“, ha riassunto Richard Betts, ricercatore del Met Office.

Gli autori dello studio reso pubblico venerdì hanno utilizzato tre scenari dell’IPCC, gli esperti climatici incaricati dalle Nazioni Unite, che consentirebbero di rispettare il limite più ambizioso dell’Accordo di Parigi. Le loro conclusioni si basano sulle previsioni di un aumento “relativamente grande” della CO2 presso la stazione di Mauna Loa nelle Hawaii, considerata un buon indicatore della tendenza globale. Gli scienziati hanno anche esaminato le previsioni di quest’anno senza tenere conto dell’attuale fenomeno meteorologico El Niño, che è associato a un aumento delle temperature globali e che indebolisce anche i serbatoi di carbonio come le foreste tropicali.

Anche se mettiamo da parte gli effetti temporanei di El Niño, scopriamo che le emissioni antropiche spingeranno l’aumento di CO2 nel 2024 al limite assoluto delle traiettorie per il rispetto di 1,5°C“, sottolinea Richard Betts. Il clima attuale è già più caldo di circa 1,2°C o 1,3°C rispetto al 1850-1900. E al ritmo attuale delle emissioni, l’IPCC prevede che la soglia di 1,5°C abbia il 50% di possibilità di essere raggiunta in media già nel 2030-2035. “Per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, l’accumulo di CO2 dovrà rallentare sostanzialmente nei prossimi anni e arrestarsi entro la metà del secolo. Ma le previsioni per il 2024 non indicano un tale rallentamento“, avverte Richard Betts. “Sembra davvero improbabile che riusciremo a limitare il riscaldamento a 1,5°C. Tecnicamente parlando, però, potremmo farlo se le emissioni venissero drasticamente ridotte d’ora in poi“, ha dichiarato all’AFP.

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Il lato oscuro del Black Friday: boom di acquisti ma schizzano le emissioni di CO2

E’ arrivato il tanto atteso Black Friday, che per un giorno – ma a dire il vero anche per una settimana – spinge sugli acquisti, complici grandi sconti e offerte speciali. Prezzi ribassati che, se da un lato fanno bene al portafoglio, dall’altro rischiano di far diventare questo venerdì ancora più nero per l’ambiente. E le ragioni sono tante, a cominciare dalla questione trasporti, soprattutto a causa degli acquisti online. Un prodotto comprato sul web, infatti, deve essere imballato, spedito e consegnato al domicilio del cliente, passando da hub e magazzini vari, spesso percorrendo migliaia di chilometri a bordo di aerei e camion prima di arrivare a casa dell’acquirente.

“Quando sono milioni i consumatori che fanno acquisti contemporanei in un arco di tempo ristretto – spiega Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima)i costi ambientali si impennano raggiungendo livelli altissimi”. In base alle stime di Sima, gli italiani che acquisteranno online e nei negozi fisici durante l’intera settimana del Black Friday, contribuiranno all’immissione in atmosfera di circa 500mila di tonnellate di CO2 a livello globale.

Non solo. Secondo un white paper di Up2You Insight dedicato alle emissioni nel settore retail, in Europa, durante il Black Friday dello scorso anno i camion impiegati per trasportare i pacchi nei magazzini e nei negozi hanno rilasciato nell’aria 1,2 milioni di tonnellate di CO2. Questo dato rappresenta un aumento del 94% rispetto a una settimana media, equivalente alle emissioni di circa 7.000 voli da Parigi a New York. Complessivamente, il 25% delle emissioni globali è attribuibile alle attività commerciali e se si pensa che il giro d’affari in Italia sfonderà la soglia dei 4 miliardi di euro (dati Codacons), in aumento del 15% rispetto al 2022, è evidente che la questione ambientale esiste.

Eppure, secondo la recente ricerca Unguess-Scalapay, un consumatore su due considera decisivo nel comportamento d’acquisto l’impatto ambientale nella scelta di cosa e dove comprare durante questo Black Friday. Ogni italiano spenderà quest’anno tra i 216 e i 238 euro, ma la Gen Z (cioè i giovani fino a 26 anni) sarà quella più propensa agli acquisti green. E in questa direzione spinge anche il Wwf. “Il Pianeta non fa sconti”, dice l’organizzazione ambientalista, che punta il dito contro “il sovra consumo camuffato da affare” che raggiunge l’apice in questo periodo, soprattutto nel settore della moda. “Ci contendiamo vestiti e prodotti di moda, che acquistiamo magari a un prezzo basso – spiega il Wwf – per poi indossarli pochissime volte e buttarli velocemente”.

Dietro il costo molto basso che paghiamo per portare a casa quel capo si nascondono infatti “l’utilizzo di materie prime di bassa qualità e additivi chimici – ricorda l’associazione – elevate emissioni di gas serra, l’utilizzo e lo spreco di risorse come suolo e acqua e l’inquinamento delle falde acquifere e degli ecosistemi acquatici, ma anche lo sfruttamento di lavoratori che spesso vivono dall‘altro capo del mondo”.

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Le emissioni di CO2 della Cina diminuiranno nel 2024 grazie alle rinnovabili

Secondo un nuovo studio, le emissioni di CO2 della Cina sono destinate a diminuire nel 2024, grazie alla crescita record della sua capacità di energia rinnovabile, che ora è sufficiente a coprire la crescente domanda del Paese. La Cina è attualmente il più grande emettitore di gas serra al mondo e prevede di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, respingendo le richieste di un obiettivo più ambizioso. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) stima che il Paese sarà responsabile del 45% delle emissioni di combustibili fossili tra il 2023 e il 2050. Ma la Cina sta anche costruendo capacità di energia rinnovabile a rotta di collo, con nuove installazioni solari che solo nel 2023 rappresentano il doppio della capacità totale degli Stati Uniti, secondo l’analisi del sito web britannico sul clima Carbon Brief pubblicata lunedì.

La nuova capacità aggiuntiva di energia solare, eolica, idroelettrica e nucleare nel solo 2023 genererà circa 423 terawattora (TWh) all’anno, equivalenti al consumo totale di elettricità della Francia“, si legge nel rapporto di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research. Il massiccio aumento della capacità installata e la prevista ripresa della produzione idroelettrica dopo una prevedibile battuta d’arresto a causa della siccità “sono praticamente garantiti per ridurre la produzione di elettricità basata sui combustibili fossili e le emissioni di CO2 nel 2024”, si legge nel rapporto. Questo calo potrebbe essere sostenibile perché “il ritmo di sviluppo dell’energia a basse emissioni di carbonio è ora sufficiente non solo a fornire, ma anche a superare l’aumento medio annuo della domanda totale di elettricità in Cina“, precisa il rapporto. Questa analisi si basa su cifre ufficiali e dati commerciali.

Allo stesso tempo, però, la Cina continua ad espandere la sua capacità di produzione di energia elettrica a carbone, e il rapporto avverte che questo potrebbe portare a “uno scontro” tra gruppi di interesse divergenti. La crescita delle energie rinnovabili “minaccia gli interessi dell’industria del carbone e dei governi locali che dipendono fortemente dal settore del carbone“, avverte Carbon Brief. “Ci si può aspettare che questi attori si oppongano e ostacolino la transizione“.

Alti funzionari cinesi e statunitensi per il clima si sono incontrati questa settimana, prima dei colloqui della COP28 previsti per novembre, e hanno dichiarato di aver avuto colloqui “costruttivi“, senza fornire ulteriori dettagli.