Rapporto Res4Africa: “Accelerare parità di genere nella transizione energetica”

Photo credit: Res4Africa

La Fondazione RES4Africa ha presentato al Csew, la Cairo Sustainable Energy Week in corso nella capitale egiziana, il primo Rapporto sulle donne nel settore energetico, un’iniziativa che mira a sottolineare l’importanza della parità di genere nella transizione energetica, evidenziando azioni concrete per garantire che sia equa e accessibile a tutte le donne coinvolte, non solo nel settore energetico ma anche lungo tutta la catena di approvvigionamento. Redatta da Rima Jreich, Responsabile Senior delle Politiche e della Regolamentazione di Res4Africa, l’analisi mette in evidenza il fatto che le donne sono ancora sottorappresentate nel settore energetico, specialmente nelle posizioni legate alle STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) e nei ruoli dirigenziali. Sebbene la loro partecipazione nel settore delle energie rinnovabili sia in realtà più alta (32%) rispetto all’industria del petrolio e del gas (22%), i dati di Deloitte, McKinsey e del Global Energy Talent Index rivelano numeri peggiori: solo l’8% delle donne è impiegato nel settore energetico convenzionale e al massimo il 14% nel campo delle energie rinnovabili. E nonostante il settore delle rinnovabili attiri appunto maggiormente le donne, la gran parte dei loro ruoli rimane limitata ad ambiti amministrativi, con solo il 28% impiegato in ruoli STEM. Escludendo dunque le occupazione ‘amministrative’, il tasso di partecipazione femminile scende drasticamente al 20%.

La situazione è ancor più allarmante in Medio Oriente e Nord Africa (la cosiddetta area Mena). Qui, solo il 20% delle donne è attivamente impiegato o in cerca di lavoro, una cifra che rappresenta meno della metà della media globale. Anche se il 50% delle donne nella Mena possiede lauree STEM, la loro partecipazione nel settore energetico è bassissima: meno del 10% della forza lavoro. In Marocco, per esempio, solo il 7,5% delle donne occupa posizioni lavorative, e nei ruoli dirigenziali la percentuale è persino inferiore al 10%. La mancanza di rappresentanza femminile in posizioni di leadership complica di conseguenza il reclutamento di donne leader nel settore. Il rapporto evidenzia anche disparità salariali significative, con le donne che guadagnano in media il 20% in meno rispetto ai loro colleghi maschi. Questo gap retributivo è aggravato dalla mancanza di disposizioni legali per garantire una retribuzione equa.

Sul fronte della formazione, a livello globale solo il 35% delle donne consegue lauree in STEM, con settori come le tecnologie dell’informazione che mostrano una rappresentanza femminile molto bassa. Tuttavia, ci sono segni di miglioramento: in alcune aree della Mena, come gli Emirati Arabi Uniti e l’Algeria, le donne rappresentano quasi la metà della popolazione studentesca STEM. Nonostante ciò, l’accesso al mercato del lavoro rimane problematico. In Egitto, ad esempio, meno del 10% delle donne è presente nelle professioni scientifiche e ingegneristiche. In Marocco, tuttavia, sono in corso diverse iniziative per incoraggiare le donne a intraprendere percorsi di istruzione legati all’energia e a costruire una carriera nel settore energetico. Queste includono programmi di formazione e capacità dell’Ocse e programmi di formazione e mentoring della WECF (Women Engage for a Common Future). Anne Barre, Coordinator Gender & Climate Policy del WECF, specifica che “la transizione energetica è uno dei settori più importanti in termini di potenziale di creazione di posti di lavoro e rappresenta un’opportunità per le donne di migliorare il loro accesso alla formazione tecnica e alla leadership, allo sviluppo delle competenze e a lavori di alta qualità. È per questo che la WECF lavora a programmi di formazione in collaborazione con diverse organizzazioni, università e aziende. Alcuni programmi si concentrano sulle donne e sulla povertà energetica, sulla dimensione di genere del risparmio energetico e dell’accesso all’energia, mentre altri programmi forniscono alle donne le competenze necessarie per i settori del riscaldamento e del raffreddamento“.

La transizione energetica – sottolinea infine il rapporto di Res4Africa – richiederà “individui con una formazione di livello superiore nei campi STEM, ma anche con competenze e studi generici”. Programmi su misura con una prospettiva di genere devono dunque “affrontare competenze specifiche sia per soluzioni su larga scala che decentralizzate; tecnologia e infrastruttura per la produzione di idrogeno verde, produzione e infrastruttura di veicoli elettrici, digitalizzazione, stoccaggio di energia, innovazione e imprenditorialità, tra gli altri”. Inoltre, si legge ancora nell’analisi, “l’imprenditorialità femminile nel settore energetico deve essere promossa e incoraggiata. Le donne non sono solo consumatrici, ma anche produttrici e promotrici di un uso sostenibile dell’energia. Se valorizzate, le donne potrebbero svolgere un ruolo centrale nel contribuire a un futuro verde e a un’economia giusta. In questo contesto, è necessario fornire supporto finanziario e investimenti nelle imprese di proprietà femminile che utilizzano pratiche sostenibili lungo la catena di approvvigionamento”.

Le ‘donne della transizione’ rompono il soffitto di cristallo

La parità di genere, quella vera, è ancora lontana. Ma negli ultimi anni la società civile ha fatto comunque dei passi avanti notevoli, così come la politica e il mondo dell’impresa. Dalle istituzioni alle grandi aziende, oggigiorno ci sono molte più donne ai posti di vertice rispetto a un passato anche recente, ma il percorso è lungo. E chissà se il processo che dovrà portare al compimento delle transizioni, ecologica, energetica e digitale, possa dare quella spinta che serve per frantumare definitivamente il soffitto di cristallo. Non solo perché Greta Thunberg è diventata ormai un simbolo mondiale dell’attivismo per il clima e la decarbonizzazione.

La riflessione emerge se, con santa pazienza, si prova a scorrere negli elenchi di Camera, Senato, Palazzo Chigi, management delle imprese chi sono attualmente i vertici. L’esempio più concreto è sicuramente quello del governo, dove Giorgia Meloni è entrata a far parte della storia del Paese come prima donna presidente del Consiglio. Nelle sue mani passano tutti i dossier più importanti, compresi quelli del Green Deal ovviamente. Oltre alla premier, tra le ‘donne della transizione‘ c’è di sicuro Vannia Gava, che per la seconda volta ricopre il ruolo di vice ministro dell’Ambiente, dicastero al quale da questa legislatura viene affiancata anche la delega alla Sicurezza energetica.

In Parlamento, invece, Chiara Braga, capogruppo del Partito democratico alla Camera, e Luana Zanella, presidente dei deputati di Avs, portano avanti la bandiera dell’ambientalismo nelle istituzioni. Tra i banchi di Montecitorio siede anche Elly Schlein, prima segretaria del Pd, sempre in prima linea sulle battaglie per il clima.

In Europa, poi, entra di fatto e di diritto nel pantheon la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Non foss’altro perché, anche nel suo caso, la responsabilità dei temi passa comunque tutta dalle sue mani. Nella squadra di Bruxelles, poi, ci sono la vicepresidente esecutiva, Margrethe Vestager, che si occupa di Digitale, Kadri Simson, che ha il compito di gestire la delega all’Energia, e Iliana Ivanova, commissaria a Innovazione, ricerca, cultura, istruzione e gioventù.

Nel mondo economico e finanziario è Christine Lagarde, attuale presidente della Banca centrale europea ed ex direttrice del Fondo monetario internazionale, il volto più conosciuto sul palcoscenico mondiale. Mentre sta iniziando a ritagliarsi il suo spazio anche Nadia Calvino, nominata lo scorso 1 gennaio presidente della Banca europea per gli investimenti: prima donna a ricoprire questo ruolo dalla fondazione della Bei, nel 1958.

Tornando in Italia, la situazione inizia a cambiare anche nei board delle principali società partecipate. Sebbene la strada sia ancora faticosamente lunga, visto che la prima e unica donna (della storia) a capo di una delle più grandi aziende italiane è l’amministratrice delegata e direttrice generale di Terna, Giuseppina Di Foggia, nominata il 9 maggio di un anno fa. Nel gruppo Eni, invece, Rita Marino è presidente di Plenitude, mentre tra i manager figurano Chiara Ficeti per l’Energy Management, Giorgia Molajoni per Digital, Information Technology & Communication, Giovanna Bianchi Health, Safety, Environment and Quality e Simona Napoli Internal Audit.

Rimanendo nel campo energetico, Francesca Gostinelli è Head of Enel X Global Retail, Silvia Fiori direttrice della funzione Audit di Enel, Elisabetta Colacchia è Head of People and Organization, Margherita Mezzacapo, Marina Lombardi e Donata Susca rispettivamente responsabili di Audit, Innovazione e Health, Safety, Environment and Quality di Enel Green Power & Thermal Generation, la business line di Enel che si occupa della generazione di energia elettrica.

Spostando l’obiettivo verso la parte più economica, Silvia Maria Rovere è presidentessa di Poste Italiane dal maggio 2023, Alessandra Ricci è amministratrice delegata e direttrice generale di Sace, che molto spesso investe in progetti relativi alla transizione ecologica e la sostenibilità. Altro nome di rilievo è quello di Silvia Massaro, presidentessa di Sace Srv, la società specializzata nel recupero dei crediti e gestione del patrimonio informativo. Regina Corradini D’Arienzo, inoltre, è ad e dg di Simest e Alessandra Bruni presidentessa di Enav.

Spostando l’attenzione sul mondo associazionistico, le donne con ruoli apicali diventano ancora di meno. Perché tra le grandi sigle ricoprono incarichi di vertice Annamaria Barrile, direttrice generale di Confagricoltura, Maria Letizia Gardoni, presidentessa di Coldiretti Bio, Maria Grazia Mammuccini, presidentessa di FederBio, Barbara Nappini e Serena Milano, rispettivamente presidentessa e direttrice generale Slow Food Italia, e Nicoletta Maffini, presidentessa di AssoBio. Infine, c’è molto da rivedere nel mondo sindacale, se solo Daniela Piras ha un incarico di vertice come segretaria generale della Uiltec.

8 marzo, crescono le agricoltrici e puntano sul green. Ma resiste la discriminazione anche nei campi

Sono quasi 200mila le donne italiane che hanno scelto campi e trattore. Sono imprenditrici che hanno puntato sul settore agricolo, abbattendo così barriere e pregiudizi e portando in campo un nuovo protagonismo tutto al femminile. Il 25% è laureata, il 50% svolge attività multifunzionali, come ad esempio, vendita diretta, agriturismo, trasformazione dei prodotti, fattoria didattica e sociale. Il 60% pratica attività green come l’agricoltura biologica. A tracciare la fotografia è un’analisi di donne Coldiretti su dati del Registro delle Imprese divulgata in occasione dell’8 marzo.

Il 28% delle aziende agricole italiane, quindi, è guidato da donne, con una ‘quota giovane’ in crescita. Sono 13mila, infatti, le imprese femminili in capo a ragazze sotto i 35 anni, che hanno puntato soprattutto sull’uso della tecnologia per migliorare organizzazione, gestione, rese e qualità.

“Le donne contadine – dice Coldiretti – sono presenti in tutto il territorio italiano e la Sicilia è la regione con il maggior numero di imprese femminili in assoluto (24mila). Sul podio salgono anche Puglia e Campania, che vantano rispettivamente più di 23mila e quasi 20mila aziende guidate da donne. Seguono Piemonte e Toscana”.

Ed è grande anche l’attenzione al green. Il 60% delle donne ha scelto di dedicare parte della produzione al biologico o al biodinamico e di operare per una filiera di qualità attenta alla sostenibilità, alla tutela della biodiversità e delle risorse naturali, del paesaggio e del benessere animale. In particolare, poi, le donne creano legami forti con il territorio e sono un vero e proprio presidio per la sopravvivenza e la valorizzazione delle aree rurali.

Secondo un recente studio della Penn State e dell’Università del Wisconsin-Madison, infatti, più agricoltrici equivalgono a un maggior benessere della comunità. Ma perché accade? Secondo i ricercatori la causa principale è dovuta al modo in cui le donne affrontano le loro attività; modi che hanno un impatto positivo sulle comunità a cui appartengono. Lo studio, pubblicato su Applied Economics Perspectives and Policy, ha rivelato che le contee degli Stati Uniti con una quota maggiore di aziende agricole possedute o gestite da donne hanno tassi più elevati di imprenditorialità non agricola, aspettative di vita più lunghe e tassi di povertà più bassi. La ricerca esplora, quindi, il concetto di “agricoltura civica” a guida femminile, che “si traduce effettivamente in un miglioramento del benessere della comunità in luoghi con percentuali più elevate di donne agricoltrici”.

Eppure, è la denuncia di Donne in Campo-Cia, non si fa ancora abbastanza per favorire un’agricoltura al femminile. Basti pensare che “le donne oggi non solo sono assenti da provvedimenti dedicati nel Pnrr e nella Pac, ma sono state escluse dagli incentivi ad hoc della misura Più Impresa, non rifinanziata dall’ultima legge di Bilancio, e colpite dal netto peggioramento di Opzione donna. Anche il Fondo Impresa Donna ammette agli stanziamenti le imprenditrici di tutti i settori, compreso quello della trasformazione alimentare, ma tiene fuori la produzione agricola”. “Le agricoltrici risultano così fortemente penalizzate e discriminate nei confronti delle colleghe di altri comparti – spiega la presidente Pina Terenzi-. Stessa situazione con la Politica agricola comune dell’Ue, che prescrive regole uguali per tutti piuttosto che valorizzare le differenze garantendo pari opportunità”.

agricoltura biologica

Le donne in agricoltura? Migliorano la vita economica delle loro comunità

Più donne impegnate nell’agricoltura equivale a un maggior benessere della comunità. E’ quanto emerge da uno studio della Penn State e dell’Università del Wisconsin-Madison, il primo a valutare concretamente questo collegamento. Ma perché accade? Secondo i ricercatori la causa principale è dovuta al modo in cui le donne agricoltrici affrontano le loro attività; modi che hanno un impatto positivo sulle comunità a cui appartengono.

Lo studio, pubblicato su Applied Economics Perspectives and Policy, ha rivelato che le contee degli Stati Uniti con una quota maggiore di aziende agricole possedute o gestite da donne hanno tassi più elevati di imprenditorialità non agricola, aspettative di vita più lunghe e tassi di povertà più bassi.

“Sappiamo da precedenti ricerche qualitative che le donne agricoltrici tendono a entrare nel settore per ragioni diverse rispetto agli uomini e spesso prendono decisioni pensando al bene comune”, spiega Claudia Schmidt, assistente di marketing e sistemi alimentari locali/regionali presso la Penn State University e autrice principale dello studio. “Ad esempio – aggiunge – si sforzano di soddisfare un bisogno sociale nella loro comunità o danno priorità alla gestione ambientale rispetto ai profitti”. La ricerca esplora, quindi, il concetto di “agricoltura civica” a guida femminile, che “si traduce effettivamente in un miglioramento del benessere della comunità in luoghi con percentuali più elevate di donne agricoltrici”.

Il fatto che esistano ricadute positive sul territorio, spiegano i ricercatori, suggerisce che avere una massa critica di donne agricoltrici all’interno di una regione più ampia, e non solo all’interno di una contea, ha un impatto ancora maggiore sul benessere regionale
Negli ultimi 20 anni negli Usa il numero delle aziende agricole gestite da donne è aumentato. E in Italia? Secondo un’indagine del centro studi di Confagricoltura, le imprese femminili attive in agricoltura sono 256.815 (dieci anni fa erano meno della metà, rappresentavano il 14% del totale delle aziende).

Secondo gli ultimi dati Istat, le donne occupate in agricoltura sono 823mila: il 30% circa del totale. I capi di azienda donna registrati nel 2020 sono il 31,5% (30,7% nel 2010; 25,8% nel 2000). Le aziende guidate da donne sono collocate soprattutto nelle Regioni del centro sud: la percentuale più alta (40%) di imprenditrici agricole è in Molise. Quelle a capo di aziende agricole coltivano il 21% della Sau (Superficie agricola utilizzata), ma producono il 28% del Pil agricolo.