Allarme smog: 25 città fuorilegge nel 2024. Frosinone e Milano le peggiori

Solo cinque anni ci separano dai nuovi limiti europei sulla qualità dell’aria, ma le città italiane sono drammaticamente impreparate: l’aria resta irrespirabile e i livelli di inquinamento attuali sono ancora troppo distanti dai parametri che entreranno in vigore nel 2030. È quanto emerge dal nuovo report di Legambiente ‘Mal’Aria di città 2025’. Il report Mal’Aria ha analizzato nei capoluoghi di provincia i dati relativi alle polveri sottili (PM10) e al biossido di azoto (NO2). Nel 2024, 25 città, su 98 di cui si disponeva del dato, hanno superato i limiti di legge per il PM10 (35 giorni all’anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo), con 50 stazioni di rilevamento – dislocate in diverse zone dello stesso centro urbano. In cima alla classifica troviamo Frosinone (Frosinone scalo) per il secondo anno di fila e Milano (centralina di via Marche), entrambe con 68 giorni oltre i limiti consentiti. Nel capoluogo lombardo, anche le centraline di Senato (53), Pascal Città Studi (47) e Verziere (44) hanno superato il tetto massimo. Al terzo posto assoluto si posiziona Verona, con Borgo Milano a quota 66 sforamenti (l’altra centralina, Giarol Grande, si è fermata a 53), seguita da Vicenza-San Felice a 64. Anche altre centraline vicentine hanno superato i limiti: Ferrovieri con 49 giorni e Quartiere Italia con 45. Segue Padova, dove la centralina Arcella ha registrato 61 sforamenti e Mandria 52, mentre a Venezia via Beccaria ha toccato quota 61. Nel capoluogo veneto altre quattro centraline hanno superato i limiti: via Tagliamento con 54 giorni, Parco Bissuola con 42, Rio Novo con 40 e Sacca Fisola con 36. Non si sono salvate neanche le città di Cremona, Napoli, Rovigo, Brescia, Torino, Monza, Modena, Mantova, Lodi, Pavia, Catania, Bergamo, Piacenza, Rimini, Terni, Ferrara, Asti e Ravenna.

Una situazione di picco, quella dello sforamento del limite giornaliero di PM10, che in molti casi ha riguardato molte centraline della stessa città. Un quadro che secondo Legambiente rivela come l’inquinamento atmosferico sia un problema diffuso e strutturale, ben più esteso di quanto amministratori locali e cittadini vogliano ammettere.

Se per le medie annuali di PM10 e NO2 nessuna città supera i limiti previsti dalla normativa vigente, lo scenario cambierà con l’entrata in vigore della nuova Direttiva europea sulla qualità dell’aria, a partire dal 1° gennaio 2030. Per il PM10, sarebbero infatti solo 28 su 98 le città a non superare la soglia di 20 µg/mc, che è il nuovo limite previsto. Al 2030, 70 città sarebbero dunque fuorilegge. Tra le città più indietro, che devono ridurre le concentrazioni attuali tra il 28% e il 39%, si segnalano Verona, Cremona, Padova e Catania, Milano, Vicenza, Rovigo e Palermo. Il quadro non migliora con il biossido di azoto (NO2): oggi, il 45% dei capoluoghi (44 città su 98) non rispetta i nuovi valori di 20 µg/m³. Le situazioni più critiche si registrano a Napoli, Palermo, Milano e Como, dove è necessaria una riduzione compresa tra il 40% e il 50%.

Con soli cinque anni davanti a noi per adeguarci ai nuovi limiti europei al 2030, dobbiamo accelerare drasticamente il passo – dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente -. È una corsa contro il tempo che deve partire dalle città ma richiede il coinvolgimento di regioni e governo. Servono azioni strutturali non più rimandabili: dalla mobilità, con un trasporto pubblico locale efficiente e che punti drasticamente sull’elettrico e più spazio per pedoni e ciclisti, alla riqualificazione energetica degli edifici, fino alla riduzione delle emissioni del settore agricolo e zootecnico, particolarmente critico nel bacino padano. Le misure da adottare sono chiare e le tecnologie pronte: quello che manca è il coraggio di fare scelte incisive per la salute dei cittadini e la vivibilità delle nostre città”.

“I dati del 2024 confermano che la riduzione dell’inquinamento atmosferico procede a rilento – spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – con troppe città ancora lontane dagli obiettivi target. Le conseguenze non si limitano all’ambiente, ma coinvolgono anche la salute pubblica e l’economia. Alla luce degli standard dell’OMS, che suggeriscono valori limite molto più stringenti rispetto a quelli di legge attuali e che rappresentano il vero obiettivo per salvaguardare la salute delle persone, la situazione diventa è ancora più critica: il 97% delle città monitorate supera i limiti dell’OMS per il PM10 e il 95% quelli per l’NO2. L’inquinamento atmosferico, infatti, è la prima causa ambientale di morte prematura in Europa, con circa 50.000 morti premature solo in Italia“.

Per uscire dall’emergenza smog – evidenzia Legambiente – servono politiche strutturali che incidano tutti i settori corresponsabili dell’inquinamento. Le priorità sono: ripensare la mobilità urbana, mettendo le persone al centro: da un lato potenziare con forza il trasporto pubblico che deve essere convertito con soli mezzi elettrici entro il 2030, dall’altro avviare uno stop progressivo ma anche incisivo ai veicoli più inquinanti nei centri urbani, creando una rete diffusa di aree pedonali e percorsi ciclopedonali, perseguendo il modello della ‘città dei 15 minut’, creando Low Emission Zones e usando politiche come Città30, già attivata con successo a Bologna, Olbia e Treviso; accelerare la riconversione degli impianti di riscaldamento, mappando quelli esistenti e programmando l’abbandono progressivo delle caldaie a gasolio, carbone e metano in favore di sistemi come le pompe di calore a gas refrigeranti naturali; intervenire sul settore agrozootecnico, specialmente nel bacino padano dove le condizioni geografiche e meteorologiche favoriscono l’accumulo di inquinanti, riducendo gli allevamenti intensivi e le conseguenti emissioni di metano e ammoniaca attraverso l’implementazione di buone pratiche come la copertura delle vasche e il controllo degli spandimenti; integrare le politiche su clima, energia e qualità dell’aria, considerando anche il ruolo del metano nella formazione dell’ozono troposferico.

Nave incagliata a Marina di Massa: si rischia sversamento di gasolio

Nella tarda serata di martedì 28 gennaio la nave Guang Rong, battente bandiera cipriota, a causa delle avverse condizioni meteo, si è arenata nei pressi del pontile lungo la costa di Marina di Massa. Il cargo, lungo poco più di 100 metri, battente bandiera Cipriota ed adibito al trasporto di pietrame granulato, si trovava nella rada di Marina di Carrara quando il mare grosso, l’intensità del vento e le correnti marina l’hanno spinta verso terra fino a farle urtare il pontile. Tutti i dodici membri dell’equipaggio, principalmente ucraini, sono stati salvati. Sul posto è intervenuto il personale della Capitaneria di porto di Marina di Carrara sotto il coordinamento del Centro regionale di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Livorno.

Per il momento non è stato segnalato alcun inquinamento, ma l’elicottero Nemo della Guardia Costiera e l’Arpa continuano a monitorare la situazione soprattutto dal punto di vista ambientale. Considerando che la nave conteneva 102 tonnellate di gasolio, si tratta di capire se e quanto carburante sia finito in mare dopo lo schianto contro il pontile. Secondo il sindaco di Massa, Francesco Persiani, questa nave rappresenta potenzialmente “una piccola bomba ecologica”. “Le condizioni meteorologiche di ieri sera e di oggi non ci hanno permesso di capire lo stato esatto dello scafo della nave, ma speriamo di poterlo fare oggi pomeriggio o domani per vedere se è stato versato del carburante in mare”, ha detto.

Secondo il parlamentare di Avs Angelo Bonelli “il timore che il carburante possa essersi sversato in acqua deve essere affrontato con la massima urgenza, poiché un disastro ecologico avrebbe conseguenze gravissime per l’ecosistema marino e le attività economiche locali. Il forte odore di gasolio percepito nelle ore successive all’incidente rende ancora più necessario un intervento immediato per verificare eventuali sversamenti e contenerne l’impatto”. Per questo il portavoce di Europa Verde chiede al governo e alle autorità competenti di “agire tempestivamente per mettere in sicurezza l’area e prevenire il rischio di inquinamento” e annuncia che presenterà un’interrogazione parlamentare al ministro Pichetto “per fare chiarezza sulle cause dell’incidente e sulle misure adottate per evitare un disastro ambientale”.

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Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antiinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di Covid 19, sulle angiosperme, cioè le piante, marine. “Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria) Ascherson, una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi. La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antiinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri –. Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”. “Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC). In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica. Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Niente accordo sull’inquinamento da plastica: fallisce il vertice di Busan

I negoziati di una settimana a Busan, in Corea del Sud, per raggiungere un trattato globale contro l’inquinamento da plastica, si sono interrotti domenica di fronte all’opposizione di un gruppo di Paesi produttori di petrolio, e dovranno riprendere in un secondo momento. “Diverse questioni critiche ci impediscono ancora di raggiungere un accordo generale. Queste questioni irrisolte rimangono spinose e sarà necessario più tempo per risolverle in modo efficace”, ha dichiarato l’ambasciatore ecuadoriano Luis Vayas Valdivieso, che presiede i colloqui delle Nazioni Unite. Per una settimana, i rappresentanti di oltre 170 Paesi hanno cercato di trovare una soluzione per ridurre l’inquinamento da plastica che invade gli oceani, il suolo e si infiltra nel corpo umano.

Aprendo la sessione plenaria finale dei negoziati, il diplomatico ha evidenziato tre punti critici e aree di disaccordo: il principio della riduzione della produzione globale di plastica, la creazione di un elenco di prodotti o molecole ritenuti pericolosi per la salute e, infine, il finanziamento degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo che desiderano creare sistemi efficaci di gestione dei rifiuti.

Dopo due anni di colloqui, i delegati rappresentati alla quinta e, in linea di principio, ultima riunione del Comitato Intergovernativo di Negoziazione per un Trattato sull’Inquinamento Plastico (INC-5) avevano tempo fino a domenica sera per raggiungere un accordo. Ma dall’apertura delle discussioni il 25 novembre, i colloqui si sono trasformati in un dialogo tra sordi tra una maggioranza di Paesi che chiedono un accordo ambizioso e un gruppo di Stati produttori di petrolio guidati da Russia, Arabia Saudita e Iran.

Il ministro dell’Industria francese Olga Givernet ha parlato di “una minoranza che continua ad ostacolare”. “Speriamo di riuscire a rimuovere queste ostruzioni e di trovare punti di vista convergenti”, ha detto durante un briefing con la stampa. Un diplomatico europeo coinvolto nei negoziati ha descritto all’AFP incontri interminabili all’interno dei vari gruppi di contatto, proseguiti fino alle prime ore del mattino senza la minima svolta. Il gruppo di Paesi recalcitranti “ha usato tattiche di schiacciamento, abusando del potere di veto”, ha detto il diplomatico a condizione di anonimato. “Abbiamo assistito a 60 interventi di cinque minuti ciascuno per cambiare una sola frase” nella bozza di accordo. “Preferiamo andarcene da qui senza un accordo che con un cattivo accordo, ma non siamo soddisfatti. La situazione è molto negativa”, ha aggiunto.

La frustrazione è cresciuta nel corso della settimana all’interno della “Coalizione delle alte ambizioni”, un gruppo di Paesi a favore di un trattato forte che affronti l’intero “ciclo di vita” della plastica, dalla produzione di polimeri derivati dal petrolio alla raccolta, alla selezione e al riciclaggio. Questa coalizione è stata osteggiata dai Paesi produttori di petrolio, che ritengono che il futuro trattato debba concentrarsi esclusivamente sulla gestione dei rifiuti e sul riciclaggio dei rifiuti di plastica. “Il problema è l’inquinamento, non la plastica in sé”, ha detto il delegato saudita Abdulrahmane Al Gwaiz durante la sessione plenaria finale di domenica sera.

I delegati dei Paesi ambiziosi hanno voluto chiudere la conferenza di Busan con una nota positiva, con il norvegese Erland Draget che ha sottolineato che “per la prima volta, i contorni di un trattato appaiono” nel testo finale raggiunto dai negoziatori. “Abbiamo compiuto progressi indispensabili su una serie di questioni che saranno cruciali se il trattato deve raggiungere il suo obiettivo di proteggere la salute umana e l’ambiente dagli effetti nocivi dell’inquinamento da plastica”, ha dichiarato anche il capo della delegazione ruandese, Juliet Kabera. In una rara dimostrazione visiva, la signora Kabera ha chiesto a tutti i delegati che condividevano la sua posizione di alzarsi in piedi alla fine del suo discorso, tra gli applausi scroscianti.

Se non si interviene, l’inquinamento da plastica potrebbe triplicare in tutto il mondo entro il 2060, a seguito di una triplicazione della produzione globale a 1,2 miliardi di tonnellate da 460 milioni di tonnellate nel 2019, secondo un calcolo dell’Ocse. Il Kuwait ha ribattuto che i delegati hanno superato il loro mandato chiedendo tagli alla produzione, mentre la Russia ha sostenuto che avrebbero portato “povertà” ai Paesi produttori di petrolio. Le organizzazioni ambientaliste hanno espresso la loro delusione per l’esito degli incontri di Busan: “Questo ritardo sta avendo conseguenze disastrose per le persone e per il pianeta, sacrificando spietatamente coloro che sono in prima linea in questa crisi”, ha dichiarato Graham Forbes, delegato di Greenpeace. La data esatta e la sede del prossimo ciclo di negoziati, nel 2025, non è ancora stata decisa. Canada e Francia hanno chiesto che il prossimo incontro si svolga a livello governativo, piuttosto che tra ambasciatori e alti funzionari.

In Corea del Sud una settimana per trovare un accordo sull’inquinamento da plastica

Non appena la Cop29 sul clima si sarà conclusa in Azerbaigian, i rappresentanti di oltre 170 Paesi si riuniranno da lunedì in Corea del Sud nella flebile speranza di forgiare il primo ambizioso trattato internazionale volto a eliminare l’inquinamento da plastica dagli oceani, dall’aria e dal suolo del pianeta. Dopo due anni di dibattiti, questa quinta sessione del Comitato intergovernativo di negoziazione (INC5), nella città costiera di Busan, di fronte al Giappone, dovrebbe culminare il 1° dicembre in un testo “legalmente vincolante” per combattere l’inquinamento.

I dati sulla dipendenza dalla plastica nel mondo sono sconcertanti. Secondo l’Ocse, se non si interviene, il consumo sul pianeta è destinato a triplicare entro il 2060 rispetto al 2019, raggiungendo 1,2 miliardi di tonnellate all’anno, e gli scarichi nell’ambiente sono destinati a raddoppiare fino a 44 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. Oggi solo il 9% della plastica mondiale viene riciclata. Altre cifre chiave: secondo l’Ocse, le emissioni di gas serra prodotte dalla plastica, che deriva da prodotti petroliferi fossili – già superiori a quelle del trasporto aereo – dovrebbero “più che raddoppiare” entro il 2060, raggiungendo i 4,3 miliardi di tonnellate di CO2. Prodotte principalmente in Asia, le materie plastiche – leggere, resistenti ed economiche, “sostanze miracolose” al momento della loro comparsa negli anni Cinquanta – sono diventate “sostanze eterne”, afferma Sunita Narain, direttore generale del Centre for Environmental Sciences di Nuova Delhi. Degradate in micro e poi nano-plastiche e accumulate sul fondo dei fiumi o nel suolo, “sono diventate letteralmente il simbolo della nostra incapacità di gestire i materiali che abbiamo creato”, ha dichiarato martedì in conferenza stampa.

I negoziati di questa maratona diplomatica di sette giorni sono un “momento di verità”, ha avvertito all’inizio del mese la direttrice del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), la danese Inger Andersen. “Busan può e deve segnare la fine dei negoziati”, ha aggiunto. Ma nonostante la constatazione condivisa dalla comunità scientifica, la stesura di un ambizioso trattato internazionale – unanime secondo gli standard delle Nazioni Unite – sarà molto difficile da raggiungere, secondo diverse fonti intervistate. “Tutti vogliono porre fine all’inquinamento da plastica”, ma è necessaria “una maggiore convergenza“, ha sintetizzato Andersen. Durante le quattro precedenti sessioni negoziali in Uruguay, Francia, Kenya e Canada sono emersi blocchi forti e antagonisti. Da un lato, c’è un gruppo di Paesi cosiddetti ad alta ambizione (Unione Europea, Ruanda, Perù, ecc.). Essi chiedono che il futuro trattato copra le materie plastiche “per tutto il loro ciclo di vita” e chiedono l’obbligo di ridurre la produzione globale. Dall’altro lato, un gruppo più informale, noto come gruppo “like-minded, è composto principalmente da Paesi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita e la Russia. Sono interessati ad affrontare solo la seconda metà della vita della plastica, quando il vasetto di yogurt o la rete da pesca sono diventati rifiuti. Questo gruppo vuole parlare solo di riciclaggio e gestione dei flussi di rifiuti, o anche di eco-design, ma senza affrontare la parte a monte della produzione legata alla petrolchimica.

Il documento di lavoro, una bozza di trattato di oltre 70 pagine su cui si basano i delegati, è stato criticato. Troppo lungo e con troppe opinioni divergenti lasciate tra parentesi. Il diplomatico che presiede i dibattiti ha pubblicato un documento alternativo di 17 pagine più stringato per cercare di sintetizzare le posizioni, tra cui la necessità di promuovere il riutilizzo della plastica. “Il testo non è abbastanza ambizioso”, ha dichiarato un diplomatico europeo che ha voluto rimanere anonimo. “Non fa riferimento a una riduzione della produzione di plastica, ma semplicemente a un ‘livello sostenibile’ di produzione”, ma nessuno sa cosa significhi veramente, sottolinea.

Come al vertice sul clima della Cop, le posizioni di Stati Uniti e Cina saranno attentamente esaminate. Nessuno dei due ha preso un impegno chiaro e l’elezione di Donald Trump non ha fatto altro che aumentare i dubbi sull’ambizione del trattato. Secondo Eirik Lindebjerg, che segue i dibattiti per conto dell’Ong Wwf, una “grande maggioranza” di Paesi è favorevole a misure legalmente vincolanti che coprano l’intero ciclo di vita della plastica. A suo avviso, “spetta ora ai leader di questi due Paesi realizzare il trattato di cui il mondo ha bisogno e non lasciare che una manciata di Paesi o di interessi industriali fermino” il processo.

India, nuovo picco di inquinamento atmosferico: scuole chiuse a Nuova Delhi

L’inquinamento atmosferico ha raggiunto lunedì un nuovo picco, a livelli 60 volte superiori agli standard internazionali, nella capitale indiana Nuova Delhi, dove la maggior parte delle scuole è rimasta chiusa e il traffico è stato limitato. Ogni inverno la megalopoli di 30 milioni di persone affronta picchi di inquinamento causati dal fumo delle fabbriche, dal traffico stradale e dalle combustioni agricole stagionali. Al mattino, le concentrazioni nell’aria di microparticelle tossiche PM 2,5 hanno raggiunto livelli fino a 60 volte superiori alle soglie raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo le letture effettuate da IQAir. In alcune zone della città, uniformemente avvolta da una nebbia opaca, il livello di queste particelle – le più tossiche perché si diffondono nel sangue – ha raggiunto i 907 microgrammi per metro cubo d’aria, secondo IQAir. “I miei occhi bruciano da diversi giorni. C’è più fumo nell’aria, è ovvio”, ha dichiarato all’AFP Subodh Kumar, 30 anni, che guida un taxi a pedali (risciò). “Non so cosa stia facendo il governo”, ha aggiunto, “ma io devo essere in strada, che altro posso fare?“. Le autorità locali hanno attivato il livello 4 del loro piano di allerta domenica sera “per prevenire un ulteriore deterioramento della qualità dell’aria”.

Le lezioni frontali saranno sospese per tutti gli alunni ad eccezione dei livelli 10 e 12” della scuola secondaria, ha ordinato l’amministratore delegato locale Atishi. Le scuole primarie sono chiuse dalla scorsa settimana e gli alunni vengono istruiti a distanza. Inoltre, tutti i lavori di costruzione sono stati sospesi e la circolazione dei mezzi pesanti e dei veicoli più inquinanti è stata fortemente limitata.

Il governo locale ha anche invitato i bambini, gli anziani e chiunque soffra di malattie polmonari o cardiache a “rimanere in casa il più possibile”. Molti residenti della capitale indiana non possono permettersi i depuratori d’aria e vivono in case poco isolate dal mondo esterno. “Chi può permettersi un purificatore d’aria quando sta lottando per pagare le bollette?”, ha dichiarato all’AFP Rinku Kumar, 45 anni, autista di tuk-tuk, taxi a tre ruote motorizzati. “I ministri ricchi e gli alti funzionari possono permettersi di stare a casa, non la gente comune come noi”, ha aggiunto.

Le temperature più basse e i venti invernali più deboli (da metà ottobre a gennaio) intensificano l’inquinamento intrappolando le particelle pericolose. Secondo l’OMS, l’inquinamento atmosferico può causare malattie cardiovascolari e respiratorie, nonché il cancro ai polmoni. Uno studio pubblicato sulla rivista medica Lancet ha attribuito alla scarsa qualità dell’aria la responsabilità della morte di 1,67 milioni di indiani nel 2019. Il mese scorso, la Corte Suprema, il più alto organo giudiziario del Paese, ha aggiunto l’aria pulita all’elenco dei diritti umani fondamentali e ha ordinato al governo di agire di conseguenza. Lunedì scorso, il ministro capo di Nuova Delhi ha messo in discussione l’agricoltura incendiaria praticata negli Stati confinanti con la capitale davanti alla stampa. “Il governo nazionale non sta facendo nulla. Oggi l’intera India settentrionale si trova in un’emergenza sanitaria”, ha lamentato. “Per tutta la notte ho ricevuto telefonate da persone che hanno dovuto ricoverare anziani in ospedale”. Le iniziative prese dalle autorità locali hanno avuto finora scarso effetto.

Dopo aver incoraggiato gli automobilisti a spegnere i motori ai semafori rossi, Nuova Delhi ha recentemente presentato un drone progettato per spruzzare acqua sulle aree più inquinate. Le ONG ambientaliste hanno condannato questa “misura a metà”, chiedendo che le emissioni vengano “fermate alla fonte”.

L’inquinamento da piombo ha raggiunto anche i ghiacciai incontaminati

Le attività umane hanno portato all’inquinamento di alcuni dei luoghi più remoti del mondo. Esaminando le carote di ghiaccio prelevate dalla calotta di Guliya, nel Tibet nord-occidentale, un gruppo di ricercatori ha scoperto un chiaro cambiamento nei livelli delle fonti di piombo presenti nell’ambiente molto tempo dopo la rivoluzione industriale. Mentre l’aumento della quantità di piombo nei campioni di ghiaccio risale all’inizio della Rivoluzione industriale, un cambiamento significativo nella sua origine è stato notato a partire dal 1974, quando le agenzie di regolamentazione negli Stati Uniti hanno avviato forti politiche sulle emissioni per frenare la pericolosa sovraesposizione al metallo. Sebbene ciò abbia causato una diminuzione dell’uso di alcuni tipi di benzina in alcuni Paesi, altre fonti di emissioni di piombo hanno raggiunto il picco più tardi, come spiega Roxana Sierra-Hernandez, autrice principale dello studio e ricercatrice senior presso il Byrd Polar and Climate Research Center dell’Ohio State University.

“I nostri campioni di isotopi di piombo risalgono a circa 36.000 anni fa, un periodo in cui sappiamo che nessuna civiltà dell’epoca utilizzava questo materiale, il che significa che gran parte di ciò che abbiamo trovato è naturale”, dice l’esperta. “Ora, grazie a questo lavoro – aggiunge – possiamo individuare il piombo di origine antropica e il momento in cui ha lasciato un segno nella regione”. Lo studio è stato pubblicato di recente sulla rivista Communications Earth & Environment.

Milioni di persone dipendono dai ghiacciai dell’altopiano tibetano per l’acqua necessaria alla vita, ma poiché il riscaldamento globale provoca il ritiro dei ghiacci, queste comunità sono messe in pericolo dalla riduzione dei livelli d’acqua. Inoltre, man mano che i ghiacciai continuano a sciogliersi, anche le sostanze inquinanti conservate al loro interno fuoriescono. “Se un ghiacciaio si scioglie, quella fonte di inquinamento può riversarsi nei fiumi vicini”, spiega Sierra-Hernandez.

Anche se piccole quantità di piombo provengono da sotto la crosta terrestre, il problema principale è quello immesso nell’ambiente attraverso l’attività umana. L’esposizione prolungata al metallo pesante può essere tossica per l’uomo, sia se ingerita sia se inalata attraverso aria contaminata. È noto che il piombo può causare un’ampia varietà di problemi di salute, tra cui cancro, malattie cardiovascolari e problemi di fertilità.

Nel complesso, lo studio sottolinea un enorme cambiamento nelle fonti di piombo durante gli ultimi secoli e offre uno sguardo su come l’inquinamento locale si distribuisce a livello globale, anche nelle lontane regioni glaciali. È un problema che probabilmente non sarà risolto da un solo Paese, si legge nello studio. “I politici devono essere abbastanza consapevoli da capire che il piombo è ancora un problema e fare politiche che evitino di emetterne di più, sia da fonti di carbone che di benzina”, dice Sierra-Hernandez.

Dai batteri delle acque reflue una speranza contro l’inquinamento da plastica

Un team di ricercatori della Northwestern University ha scoperto che una comune famiglia di batteri che vive nelle acque reflue, i Comamonadacae, è in grado di degradare la plastica per nutrirsi. Secondo quanto riportato nello studio, pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology, questi minuscoli organismi, dopo aver frammentato la plastica in piccoli pezzi, rilasciano un particolare enzima che la rompe ulteriormente permettendo loro di cibarsi del carbonio contenuto al suo interno.

“Abbiamo dimostrato sistematicamente, per la prima volta, che un batterio delle acque reflue può prendere un materiale plastico di partenza, deteriorarlo, frammentarlo, scomporlo e usarlo come fonte di carbonio”, ha detto Ludmilla Aristilde della Northwestern, che ha guidato lo studio. “È sorprendente che questo batterio sia in grado di eseguire l’intero processo e abbiamo identificato un enzima chiave responsabile della scomposizione dei materiali plastici. Questo potrebbe essere ottimizzato e sfruttato per aiutare a sbarazzarsi della plastica nell’ambiente”.

I ricercatori hanno preso in considerazione batteri che crescono sul polietilene tereftalato (PET), un tipo di plastica comunemente usato negli imballaggi alimentari e nelle bottiglie e che, a causa della sua difficoltà a decomporsi, è uno dei principali responsabili dell’inquinamento da plastica. “È importante notare che la plastica PET rappresenta il 12% dell’uso totale di plastica a livello mondiale”, ha dichiarato Aristilde. “E rappresenta fino al 50% delle microplastiche presenti nelle acque reflue”.

Per capire meglio come i Comamonadacae interagiscono con la plastica, il team, dopo aver isolato i batteri dalle acque reflue, li ha fatti crescere su pellicole e pellet di PET, osservando sia i cambiamenti che avvenivano sulla superficie del materiale sia l’eventuale presenza di nanoplastiche nell’acqua che circondava i microrganismi.

“In presenza del batterio, le microplastiche sono state scomposte in minuscole nanoparticelle”, ha detto Aristilde. “Abbiamo scoperto che il batterio delle acque reflue ha una capacità innata di degradare la plastica fino ai monomeri, piccoli blocchi che si uniscono per formare polimeri. Queste piccole unità sono una fonte biodisponibile di carbonio che i batteri possono utilizzare per la crescita”.

Dopo aver confermato che i batteri sono effettivamente in grado di decomporre la plastica, i ricercatori ne hanno indagato il meccanismo, identificando un enzima specifico che il batterio esprime quando viene esposto alla plastica PET. Effettuando un confronto con cellule batteriche private della capacità di produrre l’enzima, è emerso che nel secondo caso i microrganismi non riescono più a decomporre la plastica o lo fanno in modo significativamente minore.

La scoperta apre a nuove possibilità di sviluppo di soluzioni ingegneristiche basate sui batteri per aiutare a ripulire i rifiuti di plastica che inquinano l’acqua potabile e danneggiano la fauna selvatica. Secondo Aristilde potrà, inoltre, aiutare a capire meglio come si evolve la plastica nelle acque reflue.

“Le acque reflue sono un enorme serbatoio di microplastiche e nanoplastiche”, ha spiegato l’esperta. “La maggior parte delle persone pensa che le nanoplastiche entrino negli impianti di trattamento delle acque reflue sotto forma di nanoplastica. Ma noi stiamo dimostrando che le nanoplastiche possono formarsi durante il trattamento delle acque reflue attraverso l’attività microbica. È un aspetto a cui dobbiamo prestare attenzione, poiché la nostra società cerca di capire il comportamento della plastica durante il suo viaggio dalle acque reflue ai fiumi e ai laghi che la ricevono”.

Trenta artisti all’Onu: fare di più contro la plastica

Alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che si terrà a New York, circa 30 personalità del mondo dello spettacolo, dello sport e dell’attivismo internazionale hanno sottoscritto una lettera aperta rivolta ai leader mondiali per chiedere loro di sostenere un ambizioso Trattato globale sulla plastica, basato su una drastica riduzione della produzione e sul divieto dell’usa e getta. Tra i firmatari figurano il premio Oscar Lupita Nyong’o, la pluripremiata attrice e cantante Bette Midler, la cantautrice Anggun e anche l’italiano Carlo Cudicini, Club Ambassador del Chelsea. L’appello segue la pubblicazione di un sondaggio commissionato da Greenpeace International secondo cui l’80% della popolazione interpellata in 19 Paesi è a favore di una riduzione della produzione di plastica.

“Come cittadini interessati al problema, sosteniamo gli sforzi per ridurre l’impiego di plastica monouso, ripulire le nostre spiagge e fare la raccolta differenziata. Ma tutto questo non è abbastanza, non lo è da molto tempo”, si legge nella lettera pubblicata oggi. “Viviamo in un sistema insostenibile, dominato dalla plastica usa e getta, e nessuna soluzione o politica pubblica sarà sufficiente, a meno che non riduciamo a monte la quantità di materiale plastico prodotto e consumato”.

L’appello arriva poche settimane prima del round finale dei negoziati ONU per definire un Trattato globale sulla plastica, in programma a Busan (Corea del Sud) dal 25 novembre al 1° dicembre: in quell’occasione, i leader mondiali dovranno arrivare a un accordo legalmente vincolante in grado di arginare la crisi globale della plastica.

“I governi non possono perdere tempo ad ascoltare l’industria petrolchimica e dei combustibili fossili che antepone il profitto al nostro futuro”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “I leader mondiali devono, piuttosto, ascoltare le persone e definire un Trattato globale sulla plastica che riduca a monte la produzione e ponga fine all’era del monouso: ne va della nostra salute e del nostro clima”.

Greenpeace chiede che il Trattato riduca di almeno il 75% la produzione totale di plastica entro il 2040, per proteggere la biodiversità e garantire che l’aumento delle temperature globali rimanga al di sotto della soglia di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Oltre il 99% della plastica, ricorda l’organizzazione ambientalista, è ricavato da idrocarburi come petrolio e gas fossile, e il vertiginoso aumento nella produzione contribuisce in maniera significativa alla crisi climatica.

L’inquinamento luminoso aumenta il rischio di Alzheimer sotto i 65 anni

In alcuni luoghi del mondo le luci non si spengono mai. I lampioni, l’illuminazione stradale e le insegne luminose possono scoraggiare il crimine, rendere le strade più sicure e migliorare il paesaggio. La luce ininterrotta, tuttavia, comporta conseguenze ecologiche, comportamentali e sanitarie. Ora un nuovo studio statunitense ha scoperto che l’esposizione alla luce artificiale durante la notte potrebbe aumentare la prevalenza dell’Alzheimer più di molti altri fattori di rischio per le persone di età inferiore ai 65 anni.

Il primo autore dello studio Frontiers in Neuroscience, Robin Voigt-Zuwala, professore associato presso il Rush University Medical Centere il suo team hanno studiato le mappe dell’inquinamento luminoso di 48 stati americani e hanno incorporato nella loro analisi dati medici su variabili note o ritenute fattori di rischio per l’Alzheimer. Hanno poi generato dati sull’intensità notturna per ogni stato e li hanno divisi in cinque gruppi, dalla più bassa alla più alta intensità luminosa notturna.

I risultati hanno mostrato che per le persone di età pari o superiore a 65 anni, la prevalenza di Alzheimer era più fortemente correlata all’inquinamento luminoso notturno rispetto ad altri fattori di rischio, tra cui l’abuso di alcol, le malattie renali croniche, la depressione e l’obesità. Altri fattori, come il diabete, l’ipertensione e l’ictus, erano più fortemente associati alla malattia rispetto all’inquinamento luminoso.

Per le persone di età inferiore ai 65 anni, tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore intensità luminosa notturna era associata a una maggiore prevalenza di Alzheimer rispetto a qualsiasi altro fattore di rischio esaminato nello studio. Questo potrebbe suggerire che le persone più giovani potrebbero essere particolarmente sensibili agli effetti dell’esposizione alla luce notturna. Non è chiaro il perché, ma secondo i ricercatori potrebbe essere dovuto a differenze individuali nella sensibilità alla luce. “Alcuni genotipi, che influenzano l’Alzheimer precoce, hanno un impatto sulla risposta ai fattori di stress biologici, il che potrebbe spiegare la maggiore vulnerabilità agli effetti dell’esposizione notturna alla luce”, spiega Voigt-Zuwala.

I ricercatori sperano che i loro risultati possano contribuire a educare le persone sui potenziali rischi della luce notturna. “La consapevolezza dell’associazione dovrebbe indurre le persone, in particolare quelle con fattori di rischio per l’Alzheimer, ad apportare semplici modifiche allo stile di vita”, come ad esempio l’uso di tende oscuranti o di maschere per gli occhi per dormire. “Questo è utile – dicono gli scienziati – soprattutto per chi vive in aree ad alto inquinamento luminoso”.