Allarme di The Lancet: “Inazione climatica e combustibili fossili causano milioni di morti”

Una minaccia “senza precedenti” per la salute. Il riscaldamento globale e la combustione di energie fossili non solo danneggiano l’ambiente, ma sono anche sempre più pericolosi – e mortali – per gli esseri umani, come dettagliato nel rapporto annuale di riferimento pubblicato da The Lancet. È la grande novità dell’edizione 2025 del Lancet Countdown, un rapporto pubblicato ogni anno dalla rivista medica sui rischi del cambiamento climatico per la salute. Per la prima volta, gli autori quantificano il numero di morti direttamente causate dal calore negli ultimi anni.

Secondo gli esperti, tra il 2012 e il 2021 il caldo ha causato in media 546.000 decessi all’anno, principalmente in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale, mentre gli episodi di ondate di calore si stanno intensificando a causa del riscaldamento globale. Questa cifra supera di oltre la metà (63%) il livello registrato negli anni ’90. Un aumento in gran parte legato alla crescita della popolazione mondiale.

Tuttavia, anche tenendo conto di questo fattore, la mortalità legata al calore è aumentata di quasi un quarto (+23%). “I bambini di età inferiore a un anno e gli anziani oltre i 65 anni, le fasce d’età più vulnerabili, hanno subito nel 2024 un numero senza precedenti di giorni di ondate di calore”, sottolineano i ricercatori. Per queste due categorie, la durata media dell’esposizione è più che triplicata in vent’anni.

Il calore eccessivo può causare disturbi renali, malattie cardiovascolari e respiratorie, insufficienza organica e, in alcuni casi, la morte. Le sue conseguenze possono essere più insidiose, osserva il rapporto. Il calore scoraggia l’attività fisica e compromette il sonno, due componenti essenziali per una buona salute fisica e mentale.

Un’altra importante conclusione del rapporto è il peso sempre considerevole per la salute dell’inquinamento atmosferico, accentuato dal riscaldamento globale e causato, come quest’ultimo, dalla combustione di energie fossili (carbone, gas…) che ha raggiunto un nuovo record nel 2024. Gli autori stimano che l’inquinamento atmosferico legato alle energie fossili abbia causato oltre 2,5 milioni di decessi nel 2022. La tendenza è tuttavia in calo, grazie alla diminuzione dell’uso del carbone nei paesi sviluppati.

Novità di questa edizione, gli autori hanno quantificato il numero di morti causate specificamente dall’inquinamento legato agli incendi boschivi, un fenomeno sempre più frequente a causa degli episodi di caldo e siccità. “Il 2024 ha registrato un record di 154.000 morti legate all’inquinamento da particolato fine derivante dal fumo degli incendi boschivi”, conclude il rapporto.

Il riscaldamento globale accentua i fenomeni meteorologici estremi: siccità, tempeste, inondazioni… Secondo il rapporto, nel 2024 hanno causato almeno 16.000 morti. Tuttavia, questa cifra da sola è ben lungi dal testimoniare i profondi effetti di questi fenomeni sulla salute umana. Possono essere disastrosi per la produzione agricola, mettendo a rischio il corretto approvvigionamento alimentare di molte persone.

Secondo il rapporto, l’accelerazione degli episodi di siccità e ondate di calore ha minacciato la sicurezza alimentare di 123,4 milioni di persone nel 2023. E questa cifra non è esaustiva, poiché si basa sull’analisi di 124 paesi, quando il mondo ne conta quasi 200.

Infine, il riscaldamento globale facilita anche la diffusione di malattie trasmesse dagli animali, in particolare dagli insetti che riescono a insediarsi in regioni fino ad allora inospitali per loro. Un esempio calzante: la dengue, trasmessa dalla zanzara tigre. Questo insetto, un tempo limitato alle regioni tropicali ma ormai presente anche in Europa, trova condizioni climatiche sempre più favorevoli. A causa dell’aumento delle temperature, il potenziale globale di trasmissione del virus della dengue è aumentato di oltre la metà rispetto agli anni ’50, contribuendo agli oltre sette milioni di casi registrati nel mondo nel 2024. Il rapporto cita anche altri insetti la cui area di diffusione continua ad ampliarsi, mentre diffondono malattie molto letali o invalidanti: la zecca sanguinaria, che trasmette la febbre emorragica di Crimea-Congo, o il minuscolo flebotomo, che trasmette la leishmaniosi, una malattia parassitaria.

L’inquinamento atmosferico danneggia la vista dei bambini

Un nuovo studio rivela che l’inquinamento atmosferico potrebbe danneggiare la vista dei bambini, mentre l’aria più pulita aiuta a proteggere e persino a migliorare le capacità di visive soprattutto nei più piccoli. I ricercatori hanno scoperto che l’esposizione a livelli più bassi di inquinanti atmosferici, in particolare biossido di azoto (NO₂) e particolato fine (PM2.5), è associata alla capacità dei bambini di vedere bene senza occhiali. I loro risultati suggeriscono che ridurre l’esposizione a questi inquinanti potrebbe contribuire a rallentare la progressione della miopia, ovvero la visione sfocata degli oggetti distanti. Questa condizione sta diventando sempre più comune nei bambini, soprattutto nell’Asia orientale.

Pubblicando i loro risultati su Pnas Nexus, gli esperti sottolineano che, mentre la genetica e i fattori legati allo stile di vita, come il tempo trascorso davanti a dispositivi elettronici, giocano un ruolo importante nel determinare se i bambini saranno miopi, anche i fattori ambientali, come l’inquinamento atmosferico, sono importanti. Utilizzando tecniche avanzate di apprendimento automatico, il team ha esaminato come fattori ambientali, genetici e legati allo stile di vita interagiscono per influenzare lo sviluppo della vista nei bambini.

I ricercatori hanno scoperto che i bambini che vivevano in aree con aria più pulita avevano una vista migliore, dopo aver tenuto conto di altri fattori. Inoltre, è emerso che gli studenti delle scuole primarie sono particolarmente sensibili all’inquinamento atmosferico e hanno mostrato i maggiori miglioramenti nell’acuità visiva non corretta quando esposti ad aria più pulita. Al contrario, gli studenti più grandi e quelli con miopia elevata sono stati meno influenzati dai cambiamenti ambientali e la loro vista è stata maggiormente influenzata da fattori genetici, il che suggerisce che un intervento tempestivo, prima che i problemi di vista diventino gravi, può fare davvero la differenza.

Il professor Zongbo Shi, dell’Università di Birmingham, che ha co-supervisionato questo studio, spiega che “sebbene la genetica e il tempo trascorso davanti allo schermo siano da tempo riconosciuti come fattori che contribuiscono alla miopia infantile, questo studio è tra i primi a isolare l’inquinamento atmosferico come un fattore di rischio significativo e modificabile”. L’aria pulita, infatti, “non riguarda solo la salute respiratoria, ma anche quella visiva. I nostri risultati dimostrano che migliorare la qualità dell’aria potrebbe essere un prezioso intervento strategico per proteggere la vista dei bambini, soprattutto durante gli anni di sviluppo più vulnerabili”.

L’aria inquinata può causare infiammazione e stress agli occhi, ridurre l’esposizione alla luce solare, importante per uno sviluppo sano degli occhi, e innescare cambiamenti chimici nell’occhio che ne modificano la forma, causando la miopia. Questo studio suggerisce che l’installazione di purificatori d’aria nelle aule, la creazione di “zone ad aria pulita” attorno alle scuole per ridurre l’inquinamento del traffico e la chiusura delle strade alle auto durante gli orari di entrata e uscita dei bambini possono migliorare la salute degli occhi, perché i bambini trascorrono molto tempo a scuola. Come spiega il coautore, Yuqing Dai dell’Università di Birmingham, “la miopia è in aumento a livello globale e può portare a gravi problemi alla vista in età adulta. Sebbene non possiamo modificare i geni di un bambino, possiamo migliorare il suo ambiente. Se interveniamo tempestivamente, prima che si manifesti una miopia grave, possiamo fare davvero la differenza”.

Esposizione prolungata a inquinamento atmosferico collegata a rischio demenza

Un’analisi di studi che hanno coinvolto quasi 30 milioni di persone ha evidenziato il ruolo dell’inquinamento atmosferico, compreso quello causato dalle emissioni dei veicoli a motore, nell’aumento del rischio di demenza. Si stima che queste patologie, come il morbo di Alzheimer, colpiscano oltre 57,4 milioni di persone in tutto il mondo, un numero che dovrebbe quasi triplicare, raggiungendo i 152,8 milioni di casi entro il 2050. L’impatto sugli individui, sulle famiglie, sui caregiver e sulla società in generale è enorme. Sebbene vi siano alcune indicazioni secondo cui la prevalenza della demenza stia diminuendo in Europa e in Nord America, altrove il quadro è meno promettente.

L’inquinamento atmosferico è stato recentemente identificato come un fattore di rischio per la demenza, con diversi studi che puntano il dito contro una serie di inquinanti. Tuttavia, la forza delle prove e la capacità di determinare un effetto causale sono state variabili. In un articolo pubblicatosu The Lancet Planetary Health, un team guidato da ricercatori dell’Unità di Epidemiologia del Medical Research Council (MRC) dell’Università di Cambridge ha condotto una revisione sistematica e una meta-analisi della letteratura scientifica esistente per esaminare ulteriormente questo legame. Questo approccio ha permesso di riunire studi che, da soli, potrebbero non fornire prove sufficienti e che talvolta sono in disaccordo tra loro, al fine di fornire conclusioni generali più solide.

In totale, i ricercatori hanno incluso 51 studi, con dati provenienti da oltre 29 milioni di partecipanti, provenienti principalmente da paesi ad alto reddito. Di questi, 34 articoli sono stati inclusi nella meta-analisi: 15 provenienti dal Nord America, 10 dall’Europa, 7 dall’Asia e 2 dall’Australia. I ricercatori hanno riscontrato un’associazione positiva e statisticamente significativa tra tre tipi di inquinanti atmosferici e la demenza.

Il primo è il particolato con un diametro pari o inferiore a 2,5 micron (PM2,5), un inquinante costituito da particelle così piccole da poter essere inalate in profondità nei polmoni. Queste particelle provengono da diverse fonti, tra cui le emissioni dei veicoli, le centrali elettriche, i processi industriali, le stufe a legna e i caminetti, nonché la polvere dei cantieri edili. Si formano anche nell’atmosfera a causa di complesse reazioni chimiche che coinvolgono altri inquinanti come l’anidride solforosa e gli ossidi di azoto. Le particelle possono rimanere nell’aria per lungo tempo e viaggiare a grande distanza dal luogo in cui sono state prodotte.

Il secondo è il biossido di azoto (NO2), uno dei principali inquinanti derivanti dalla combustione di combustibili fossili. Si trova nei gas di scarico dei veicoli, in particolare quelli diesel, nelle emissioni industriali, nonché in quelle delle stufe a gas e dei riscaldatori. L’esposizione a elevate concentrazioni di biossido di azoto può irritare il sistema respiratorio, aggravando e provocando patologie come l’asma e riducendo la funzionalità polmonare. Infine, il terzo rischio è rappresentato dalla fuliggine, proveniente da fonti quali i gas di scarico dei veicoli e la combustione di legna. Può intrappolare il calore e influire sul clima. Se inalata, può penetrare in profondità nei polmoni, aggravando le malattie respiratorie e aumentando il rischio di problemi cardiaci.

Secondo i ricercatori, per ogni 10 microgrammi per metro cubo (μg/m³) di PM2,5, il rischio relativo di demenza di un individuo aumenterebbe del 17%. La misurazione media del PM2,5 lungo le strade del centro di Londra nel 2023 era di 10 μg/m³. Per ogni 10 μg/m3 di NO2, il rischio relativo aumentava del 3%. La misurazione media del NO2 lungo le strade del centro di Londra nel 2023 era di 33 µg/m³. E per ogni 1 μg/m³ di fuliggine presente nel PM2,5, il rischio relativo aumentava del 13%. In tutto il Regno Unito, le concentrazioni medie annuali di fuliggine misurate in alcuni punti lungo le strade nel 2023 erano di 0,93 μg/m³ a Londra, 1,51 μg/m³ a Birmingham e 0,65 μg/m³ a Glasgow.

Come spiega l’autore senior, Haneen Khreis dell’Unità di Epidemiologia dell’MRC “affrontare l’inquinamento atmosferico può portare benefici a lungo termine in termini di salute, sociali, climatici ed economici. Può ridurre l’enorme carico che grava sui pazienti, sulle famiglie e sugli operatori sanitari, alleviando al contempo la pressione sui sistemi sanitari già sovraccarichi”.

inquinamento plastica

E’ la Giornata mondiale dell’ambiente: inquinamento da plastica osservato speciale

Si celebra oggi, 5 giugno, la Giornata mondiale dell’ambiente, istituita nel 1972 dalle Nazioni Unite in occasione della Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano per incoraggiare la consapevolezza e l’azione a livello mondiale a favore dell’ambiente. Il tema scelto quest’anno è la lotta all’inquinamento da plastica con un appello all’azione collettiva per contrastarlo.

La Giornata di quest’anno cade esattamente due mesi prima che i paesi si riuniscano nuovamente per continuare a negoziare un trattato globale per porre fine all’inquinamento da plastica. Dal 5 al 14 agosto, infatti, a Ginevra si svolgerà la seconda parte della quinta sessione dell’Assemblea ambientale delle Nazioni Unite per chiedere uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, anche nell’ambiente marino.

Secondo i dati raccolti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ogni anno circa 100.000 mammiferi e un milione di uccelli marini muoiono a causa dell’intrappolamento all’interno delle reti da pesca abbandonate o dopo aver ingerito i frammenti che esse rilasciano in mare. L’86% dei rifiuti marini rinvenuti sui fondali è riconducibile ad attività di pesca, con una netta prevalenza di lenze, cime e reti abbandonate, perse o dismesse. Le reti fantasma rappresentano, quindi, una delle forme più insidiose di inquinamento marino.

“L’inquinamento causato dalla plastica – dice il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres proprio in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente – sta soffocando il nostro pianeta, danneggiando gli ecosistemi, il benessere e il clima. I rifiuti di plastica ostruiscono i fiumi, inquinano gli oceani e mettono in pericolo la fauna selvatica. E mentre si scompone in parti sempre più piccole, si infiltra in ogni angolo della Terra: dalla cima del monte Everest alle profondità dell’oceano, dal cervello umano al latte materno”. 

Dall’Elba all’Ebro, i grandi fiumi europei invasi dalle microplastiche

Alcune galleggiano, altre si depositano nel letto dei corsi d’acqua: le microplastiche hanno invaso i fiumi europei, dall’Elba in Germania all’Ebro in Spagna, passando per la Senna o il Tamigi, rivelano 14 studi pubblicati contemporaneamente sulla rivista ‘Environmental Science and Pollution Research’. “L’inquinamento è presente in tutti i fiumi europei” studiati, afferma Jean-François Ghiglione, ricercatore del CNRS in ecotossicologia microbica marina, che nel 2019 ha coordinato una campagna su larga scala su nove grandi fiumi del Vecchio Continente. La spedizione Tara Microplastiques ha coinvolto 40 chimici, biologi e fisici di 19 laboratori di ricerca e numerosi dottorandi e post-dottorandi, con il sostegno della fondazione Tara Océan.

Nell’Elba, nell’Ebro, nella Garonna, nella Loira, nel Rodano, nel Reno, nella Senna, nel Tamigi e nel Tevere, viene applicato lo stesso metodo, con un lavoro meticoloso di raccolta e analisi di campioni prelevati alla foce dei fiumi, per poi risalire i corsi d’acqua fino alla prima grande città di ogni fiume. “Le microplastiche sono più piccole di un chicco di riso”, spiega Alexandra Ter Halle, fisico-chimica del CNRS di Tolosa che ha effettuato le analisi: si tratta di particelle inferiori a 5 millimetri, le più piccole sono invisibili ad occhio nudo. Ci sono fibre di tessuti sintetici provenienti dal lavaggio, microparticelle che fuoriescono sotto i pneumatici delle auto o quando si svita il tappo di una bottiglia d’acqua, o granuli vergini dell’industria della plastica.

Secondo gli scienziati, l’inquinamento “allarmante” osservato è in media “di tre microplastiche per metro cubo d’acqua” nei nove fiumi studiati. Certo, siamo lontani dai 40 microplastici per m3 rilevati nei 10 fiumi più inquinati del mondo (Fiume Giallo, Yang Tse, Mekong, Gange, Nilo, Niger, Indo, Amur, Pearl, Hai He) che irrorano i paesi in cui si produce più plastica o si trattano più rifiuti. Ma considerando i volumi di acqua che scorrono, “a Valence, nel Rodano, abbiamo una portata di 1.000 metri cubi al secondo, il che significa che abbiamo 3.000 particelle di plastica al secondo”, osserva Jean-François Ghiglione. Sulla Senna sono 900 al secondo.

Gli scienziati hanno scoperto una “novità” che li ha “sorpresi”, grazie a un progresso nei metodi di analisi sviluppati nel corso dello studio: “la massa delle piccole microplastiche, quelle che non si vedono ad occhio nudo, è maggiore di quella di quelle che si vedono”, osserva Ghiglione. Tuttavia, “le grandi microplastiche galleggiano e vengono raccolte in superficie, mentre quelle invisibili sono distribuite su tutta la colonna d’acqua e vengono ingerite da molti animali e organismi”.

Uno degli studi ha identificato un batterio virulento su una microplastica nella Loira, in grado di scatenare infezioni nell’uomo.

Altro risultato inaspettato: un quarto delle microplastiche scoperte nei fiumi non proviene da rifiuti, ma da plastica industriale primaria. Questi granuli, chiamati anche “lacrime di sirena”, si trovano talvolta anche sulle spiagge infestate dopo un incidente marittimo. Questo risultato, che riguarda la Francia, è stato possibile grazie a un’ampia operazione di scienza partecipativa chiamata “Plastica alla lente d’ingrandimento”, unica al mondo, che coinvolge 350 classi di scuole medie e superiori francesi, ovvero circa 15.000 studenti ogni anno che prelevano campioni dalle rive dei fiumi.

Ma gli scienziati hanno rinunciato a stilare una classifica dei fiumi europei in base al grado di inquinamento: secondo Ghiglione, le cifre sono globalmente “equivalenti” e i dati insufficienti. Lo stesso vale per l’impatto delle città: “Non è stato dimostrato un legame diretto tra la presenza di microplastiche e quella di una grande città, i risultati a monte e a valle di una città non sono molto diversi”, dice Ghiglione. “Ciò che vediamo è un inquinamento diffuso e installato” che ‘arriva da ogni parte’ nei fiumi.

“La coalizione scientifica internazionale di cui facciamo parte (nell’ambito dei negoziati internazionali delle Nazioni Unite sulla riduzione dell’inquinamento da plastica, ndr) chiede una riduzione significativa della produzione di plastica primaria, perché sappiamo che la produzione di plastica è completamente legata all’inquinamento”, conclude.

Allarme smog: 25 città fuorilegge nel 2024. Frosinone e Milano le peggiori

Solo cinque anni ci separano dai nuovi limiti europei sulla qualità dell’aria, ma le città italiane sono drammaticamente impreparate: l’aria resta irrespirabile e i livelli di inquinamento attuali sono ancora troppo distanti dai parametri che entreranno in vigore nel 2030. È quanto emerge dal nuovo report di Legambiente ‘Mal’Aria di città 2025’. Il report Mal’Aria ha analizzato nei capoluoghi di provincia i dati relativi alle polveri sottili (PM10) e al biossido di azoto (NO2). Nel 2024, 25 città, su 98 di cui si disponeva del dato, hanno superato i limiti di legge per il PM10 (35 giorni all’anno con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo), con 50 stazioni di rilevamento – dislocate in diverse zone dello stesso centro urbano. In cima alla classifica troviamo Frosinone (Frosinone scalo) per il secondo anno di fila e Milano (centralina di via Marche), entrambe con 68 giorni oltre i limiti consentiti. Nel capoluogo lombardo, anche le centraline di Senato (53), Pascal Città Studi (47) e Verziere (44) hanno superato il tetto massimo. Al terzo posto assoluto si posiziona Verona, con Borgo Milano a quota 66 sforamenti (l’altra centralina, Giarol Grande, si è fermata a 53), seguita da Vicenza-San Felice a 64. Anche altre centraline vicentine hanno superato i limiti: Ferrovieri con 49 giorni e Quartiere Italia con 45. Segue Padova, dove la centralina Arcella ha registrato 61 sforamenti e Mandria 52, mentre a Venezia via Beccaria ha toccato quota 61. Nel capoluogo veneto altre quattro centraline hanno superato i limiti: via Tagliamento con 54 giorni, Parco Bissuola con 42, Rio Novo con 40 e Sacca Fisola con 36. Non si sono salvate neanche le città di Cremona, Napoli, Rovigo, Brescia, Torino, Monza, Modena, Mantova, Lodi, Pavia, Catania, Bergamo, Piacenza, Rimini, Terni, Ferrara, Asti e Ravenna.

Una situazione di picco, quella dello sforamento del limite giornaliero di PM10, che in molti casi ha riguardato molte centraline della stessa città. Un quadro che secondo Legambiente rivela come l’inquinamento atmosferico sia un problema diffuso e strutturale, ben più esteso di quanto amministratori locali e cittadini vogliano ammettere.

Se per le medie annuali di PM10 e NO2 nessuna città supera i limiti previsti dalla normativa vigente, lo scenario cambierà con l’entrata in vigore della nuova Direttiva europea sulla qualità dell’aria, a partire dal 1° gennaio 2030. Per il PM10, sarebbero infatti solo 28 su 98 le città a non superare la soglia di 20 µg/mc, che è il nuovo limite previsto. Al 2030, 70 città sarebbero dunque fuorilegge. Tra le città più indietro, che devono ridurre le concentrazioni attuali tra il 28% e il 39%, si segnalano Verona, Cremona, Padova e Catania, Milano, Vicenza, Rovigo e Palermo. Il quadro non migliora con il biossido di azoto (NO2): oggi, il 45% dei capoluoghi (44 città su 98) non rispetta i nuovi valori di 20 µg/m³. Le situazioni più critiche si registrano a Napoli, Palermo, Milano e Como, dove è necessaria una riduzione compresa tra il 40% e il 50%.

Con soli cinque anni davanti a noi per adeguarci ai nuovi limiti europei al 2030, dobbiamo accelerare drasticamente il passo – dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente -. È una corsa contro il tempo che deve partire dalle città ma richiede il coinvolgimento di regioni e governo. Servono azioni strutturali non più rimandabili: dalla mobilità, con un trasporto pubblico locale efficiente e che punti drasticamente sull’elettrico e più spazio per pedoni e ciclisti, alla riqualificazione energetica degli edifici, fino alla riduzione delle emissioni del settore agricolo e zootecnico, particolarmente critico nel bacino padano. Le misure da adottare sono chiare e le tecnologie pronte: quello che manca è il coraggio di fare scelte incisive per la salute dei cittadini e la vivibilità delle nostre città”.

“I dati del 2024 confermano che la riduzione dell’inquinamento atmosferico procede a rilento – spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – con troppe città ancora lontane dagli obiettivi target. Le conseguenze non si limitano all’ambiente, ma coinvolgono anche la salute pubblica e l’economia. Alla luce degli standard dell’OMS, che suggeriscono valori limite molto più stringenti rispetto a quelli di legge attuali e che rappresentano il vero obiettivo per salvaguardare la salute delle persone, la situazione diventa è ancora più critica: il 97% delle città monitorate supera i limiti dell’OMS per il PM10 e il 95% quelli per l’NO2. L’inquinamento atmosferico, infatti, è la prima causa ambientale di morte prematura in Europa, con circa 50.000 morti premature solo in Italia“.

Per uscire dall’emergenza smog – evidenzia Legambiente – servono politiche strutturali che incidano tutti i settori corresponsabili dell’inquinamento. Le priorità sono: ripensare la mobilità urbana, mettendo le persone al centro: da un lato potenziare con forza il trasporto pubblico che deve essere convertito con soli mezzi elettrici entro il 2030, dall’altro avviare uno stop progressivo ma anche incisivo ai veicoli più inquinanti nei centri urbani, creando una rete diffusa di aree pedonali e percorsi ciclopedonali, perseguendo il modello della ‘città dei 15 minut’, creando Low Emission Zones e usando politiche come Città30, già attivata con successo a Bologna, Olbia e Treviso; accelerare la riconversione degli impianti di riscaldamento, mappando quelli esistenti e programmando l’abbandono progressivo delle caldaie a gasolio, carbone e metano in favore di sistemi come le pompe di calore a gas refrigeranti naturali; intervenire sul settore agrozootecnico, specialmente nel bacino padano dove le condizioni geografiche e meteorologiche favoriscono l’accumulo di inquinanti, riducendo gli allevamenti intensivi e le conseguenti emissioni di metano e ammoniaca attraverso l’implementazione di buone pratiche come la copertura delle vasche e il controllo degli spandimenti; integrare le politiche su clima, energia e qualità dell’aria, considerando anche il ruolo del metano nella formazione dell’ozono troposferico.

Nave incagliata a Marina di Massa: si rischia sversamento di gasolio

Nella tarda serata di martedì 28 gennaio la nave Guang Rong, battente bandiera cipriota, a causa delle avverse condizioni meteo, si è arenata nei pressi del pontile lungo la costa di Marina di Massa. Il cargo, lungo poco più di 100 metri, battente bandiera Cipriota ed adibito al trasporto di pietrame granulato, si trovava nella rada di Marina di Carrara quando il mare grosso, l’intensità del vento e le correnti marina l’hanno spinta verso terra fino a farle urtare il pontile. Tutti i dodici membri dell’equipaggio, principalmente ucraini, sono stati salvati. Sul posto è intervenuto il personale della Capitaneria di porto di Marina di Carrara sotto il coordinamento del Centro regionale di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Livorno.

Per il momento non è stato segnalato alcun inquinamento, ma l’elicottero Nemo della Guardia Costiera e l’Arpa continuano a monitorare la situazione soprattutto dal punto di vista ambientale. Considerando che la nave conteneva 102 tonnellate di gasolio, si tratta di capire se e quanto carburante sia finito in mare dopo lo schianto contro il pontile. Secondo il sindaco di Massa, Francesco Persiani, questa nave rappresenta potenzialmente “una piccola bomba ecologica”. “Le condizioni meteorologiche di ieri sera e di oggi non ci hanno permesso di capire lo stato esatto dello scafo della nave, ma speriamo di poterlo fare oggi pomeriggio o domani per vedere se è stato versato del carburante in mare”, ha detto.

Secondo il parlamentare di Avs Angelo Bonelli “il timore che il carburante possa essersi sversato in acqua deve essere affrontato con la massima urgenza, poiché un disastro ecologico avrebbe conseguenze gravissime per l’ecosistema marino e le attività economiche locali. Il forte odore di gasolio percepito nelle ore successive all’incidente rende ancora più necessario un intervento immediato per verificare eventuali sversamenti e contenerne l’impatto”. Per questo il portavoce di Europa Verde chiede al governo e alle autorità competenti di “agire tempestivamente per mettere in sicurezza l’area e prevenire il rischio di inquinamento” e annuncia che presenterà un’interrogazione parlamentare al ministro Pichetto “per fare chiarezza sulle cause dell’incidente e sulle misure adottate per evitare un disastro ambientale”.

mare

Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antiinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di Covid 19, sulle angiosperme, cioè le piante, marine. “Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria) Ascherson, una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi. La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antiinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri –. Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”. “Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC). In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica. Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Niente accordo sull’inquinamento da plastica: fallisce il vertice di Busan

I negoziati di una settimana a Busan, in Corea del Sud, per raggiungere un trattato globale contro l’inquinamento da plastica, si sono interrotti domenica di fronte all’opposizione di un gruppo di Paesi produttori di petrolio, e dovranno riprendere in un secondo momento. “Diverse questioni critiche ci impediscono ancora di raggiungere un accordo generale. Queste questioni irrisolte rimangono spinose e sarà necessario più tempo per risolverle in modo efficace”, ha dichiarato l’ambasciatore ecuadoriano Luis Vayas Valdivieso, che presiede i colloqui delle Nazioni Unite. Per una settimana, i rappresentanti di oltre 170 Paesi hanno cercato di trovare una soluzione per ridurre l’inquinamento da plastica che invade gli oceani, il suolo e si infiltra nel corpo umano.

Aprendo la sessione plenaria finale dei negoziati, il diplomatico ha evidenziato tre punti critici e aree di disaccordo: il principio della riduzione della produzione globale di plastica, la creazione di un elenco di prodotti o molecole ritenuti pericolosi per la salute e, infine, il finanziamento degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo che desiderano creare sistemi efficaci di gestione dei rifiuti.

Dopo due anni di colloqui, i delegati rappresentati alla quinta e, in linea di principio, ultima riunione del Comitato Intergovernativo di Negoziazione per un Trattato sull’Inquinamento Plastico (INC-5) avevano tempo fino a domenica sera per raggiungere un accordo. Ma dall’apertura delle discussioni il 25 novembre, i colloqui si sono trasformati in un dialogo tra sordi tra una maggioranza di Paesi che chiedono un accordo ambizioso e un gruppo di Stati produttori di petrolio guidati da Russia, Arabia Saudita e Iran.

Il ministro dell’Industria francese Olga Givernet ha parlato di “una minoranza che continua ad ostacolare”. “Speriamo di riuscire a rimuovere queste ostruzioni e di trovare punti di vista convergenti”, ha detto durante un briefing con la stampa. Un diplomatico europeo coinvolto nei negoziati ha descritto all’AFP incontri interminabili all’interno dei vari gruppi di contatto, proseguiti fino alle prime ore del mattino senza la minima svolta. Il gruppo di Paesi recalcitranti “ha usato tattiche di schiacciamento, abusando del potere di veto”, ha detto il diplomatico a condizione di anonimato. “Abbiamo assistito a 60 interventi di cinque minuti ciascuno per cambiare una sola frase” nella bozza di accordo. “Preferiamo andarcene da qui senza un accordo che con un cattivo accordo, ma non siamo soddisfatti. La situazione è molto negativa”, ha aggiunto.

La frustrazione è cresciuta nel corso della settimana all’interno della “Coalizione delle alte ambizioni”, un gruppo di Paesi a favore di un trattato forte che affronti l’intero “ciclo di vita” della plastica, dalla produzione di polimeri derivati dal petrolio alla raccolta, alla selezione e al riciclaggio. Questa coalizione è stata osteggiata dai Paesi produttori di petrolio, che ritengono che il futuro trattato debba concentrarsi esclusivamente sulla gestione dei rifiuti e sul riciclaggio dei rifiuti di plastica. “Il problema è l’inquinamento, non la plastica in sé”, ha detto il delegato saudita Abdulrahmane Al Gwaiz durante la sessione plenaria finale di domenica sera.

I delegati dei Paesi ambiziosi hanno voluto chiudere la conferenza di Busan con una nota positiva, con il norvegese Erland Draget che ha sottolineato che “per la prima volta, i contorni di un trattato appaiono” nel testo finale raggiunto dai negoziatori. “Abbiamo compiuto progressi indispensabili su una serie di questioni che saranno cruciali se il trattato deve raggiungere il suo obiettivo di proteggere la salute umana e l’ambiente dagli effetti nocivi dell’inquinamento da plastica”, ha dichiarato anche il capo della delegazione ruandese, Juliet Kabera. In una rara dimostrazione visiva, la signora Kabera ha chiesto a tutti i delegati che condividevano la sua posizione di alzarsi in piedi alla fine del suo discorso, tra gli applausi scroscianti.

Se non si interviene, l’inquinamento da plastica potrebbe triplicare in tutto il mondo entro il 2060, a seguito di una triplicazione della produzione globale a 1,2 miliardi di tonnellate da 460 milioni di tonnellate nel 2019, secondo un calcolo dell’Ocse. Il Kuwait ha ribattuto che i delegati hanno superato il loro mandato chiedendo tagli alla produzione, mentre la Russia ha sostenuto che avrebbero portato “povertà” ai Paesi produttori di petrolio. Le organizzazioni ambientaliste hanno espresso la loro delusione per l’esito degli incontri di Busan: “Questo ritardo sta avendo conseguenze disastrose per le persone e per il pianeta, sacrificando spietatamente coloro che sono in prima linea in questa crisi”, ha dichiarato Graham Forbes, delegato di Greenpeace. La data esatta e la sede del prossimo ciclo di negoziati, nel 2025, non è ancora stata decisa. Canada e Francia hanno chiesto che il prossimo incontro si svolga a livello governativo, piuttosto che tra ambasciatori e alti funzionari.

In Corea del Sud una settimana per trovare un accordo sull’inquinamento da plastica

Non appena la Cop29 sul clima si sarà conclusa in Azerbaigian, i rappresentanti di oltre 170 Paesi si riuniranno da lunedì in Corea del Sud nella flebile speranza di forgiare il primo ambizioso trattato internazionale volto a eliminare l’inquinamento da plastica dagli oceani, dall’aria e dal suolo del pianeta. Dopo due anni di dibattiti, questa quinta sessione del Comitato intergovernativo di negoziazione (INC5), nella città costiera di Busan, di fronte al Giappone, dovrebbe culminare il 1° dicembre in un testo “legalmente vincolante” per combattere l’inquinamento.

I dati sulla dipendenza dalla plastica nel mondo sono sconcertanti. Secondo l’Ocse, se non si interviene, il consumo sul pianeta è destinato a triplicare entro il 2060 rispetto al 2019, raggiungendo 1,2 miliardi di tonnellate all’anno, e gli scarichi nell’ambiente sono destinati a raddoppiare fino a 44 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. Oggi solo il 9% della plastica mondiale viene riciclata. Altre cifre chiave: secondo l’Ocse, le emissioni di gas serra prodotte dalla plastica, che deriva da prodotti petroliferi fossili – già superiori a quelle del trasporto aereo – dovrebbero “più che raddoppiare” entro il 2060, raggiungendo i 4,3 miliardi di tonnellate di CO2. Prodotte principalmente in Asia, le materie plastiche – leggere, resistenti ed economiche, “sostanze miracolose” al momento della loro comparsa negli anni Cinquanta – sono diventate “sostanze eterne”, afferma Sunita Narain, direttore generale del Centre for Environmental Sciences di Nuova Delhi. Degradate in micro e poi nano-plastiche e accumulate sul fondo dei fiumi o nel suolo, “sono diventate letteralmente il simbolo della nostra incapacità di gestire i materiali che abbiamo creato”, ha dichiarato martedì in conferenza stampa.

I negoziati di questa maratona diplomatica di sette giorni sono un “momento di verità”, ha avvertito all’inizio del mese la direttrice del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), la danese Inger Andersen. “Busan può e deve segnare la fine dei negoziati”, ha aggiunto. Ma nonostante la constatazione condivisa dalla comunità scientifica, la stesura di un ambizioso trattato internazionale – unanime secondo gli standard delle Nazioni Unite – sarà molto difficile da raggiungere, secondo diverse fonti intervistate. “Tutti vogliono porre fine all’inquinamento da plastica”, ma è necessaria “una maggiore convergenza“, ha sintetizzato Andersen. Durante le quattro precedenti sessioni negoziali in Uruguay, Francia, Kenya e Canada sono emersi blocchi forti e antagonisti. Da un lato, c’è un gruppo di Paesi cosiddetti ad alta ambizione (Unione Europea, Ruanda, Perù, ecc.). Essi chiedono che il futuro trattato copra le materie plastiche “per tutto il loro ciclo di vita” e chiedono l’obbligo di ridurre la produzione globale. Dall’altro lato, un gruppo più informale, noto come gruppo “like-minded, è composto principalmente da Paesi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita e la Russia. Sono interessati ad affrontare solo la seconda metà della vita della plastica, quando il vasetto di yogurt o la rete da pesca sono diventati rifiuti. Questo gruppo vuole parlare solo di riciclaggio e gestione dei flussi di rifiuti, o anche di eco-design, ma senza affrontare la parte a monte della produzione legata alla petrolchimica.

Il documento di lavoro, una bozza di trattato di oltre 70 pagine su cui si basano i delegati, è stato criticato. Troppo lungo e con troppe opinioni divergenti lasciate tra parentesi. Il diplomatico che presiede i dibattiti ha pubblicato un documento alternativo di 17 pagine più stringato per cercare di sintetizzare le posizioni, tra cui la necessità di promuovere il riutilizzo della plastica. “Il testo non è abbastanza ambizioso”, ha dichiarato un diplomatico europeo che ha voluto rimanere anonimo. “Non fa riferimento a una riduzione della produzione di plastica, ma semplicemente a un ‘livello sostenibile’ di produzione”, ma nessuno sa cosa significhi veramente, sottolinea.

Come al vertice sul clima della Cop, le posizioni di Stati Uniti e Cina saranno attentamente esaminate. Nessuno dei due ha preso un impegno chiaro e l’elezione di Donald Trump non ha fatto altro che aumentare i dubbi sull’ambizione del trattato. Secondo Eirik Lindebjerg, che segue i dibattiti per conto dell’Ong Wwf, una “grande maggioranza” di Paesi è favorevole a misure legalmente vincolanti che coprano l’intero ciclo di vita della plastica. A suo avviso, “spetta ora ai leader di questi due Paesi realizzare il trattato di cui il mondo ha bisogno e non lasciare che una manciata di Paesi o di interessi industriali fermino” il processo.