Allarme smog a Roma: fragili a casa. L’assessora: “Valori nella norma nei prossimi giorni”

È allarme smog a Roma. Dopo la notte di Capodanno, i livelli di polveri sottili sforano la soglia in diverse zone della Capitale e il dipartimento Risanamento dagli Inquinamenti adotta un ‘provvedimento di prevenzione dell’inquinamento atmosferico’ con cui raccomanda ai soggetti a rischio di “evitare di esporsi prolungatamente alle alte concentrazioni di emissioni“.
Il primo gennaio, i limiti di PM10 erano stati superati in tre stazioni: Preneste, Corso Francia e Tiburtina. Ma l’assessora all’Ambiente, Sabrina Alfonsi, smorza le polemiche: “Le previsioni nei prossimi giorni sono nella norma, non c’è bisogno di un’ordinanza del sindaco. Chiudiamo l’anno senza che nessuna centralina di Roma abbia superato gli sforamenti consentiti. Lo scorso anno, per esempio, li avevamo avuti a Roma Est, al Tiburtino”, spiega contattata da GEA.

I livelli altissimi di inquinamento sono dovuti ai festeggiamenti della notte di San Silvestro, assicura l’assessora, nonostante fosse in vigore una ordinanza del sindaco Roberto Gualtieri per vietarli.
C’è stato un picco enorme di PM10 nella giornata dell’1 gennaio. E’ abbastanza chiaro che sia dipeso dai fuochi d’artificio, tanto che a Prenestina passiamo da 76 ug/m3 il primo a 31 ug/m3 il 2 di gennaio. Stessa cosa accade a Corso Francia, passiamo da 69 ug/m3 a 32 ug/m3. Il picco è molto alto e l’abbassamento immediato, immotivato se non sapessimo che ci sono stati in mezzo i botti e i fuochi di Capodanno“, ribadisce.

Quando c’è un innalzamento delle polveri sottili, ci sono due livelli di allerta, il primo è l’informativa alla cittadinanza, con la raccomandazione ai fragili di restare a casa. “Nel caso in cui avessimo avuto un picco prolungato, ci sarebbe stato un secondo livello, l’ordinanza del sindaco per il blocco delle auto, che però in questo caso non serve”, scandisce Alfonsi.

Il superamento dello sforamento consentito non c’è stato, ma non c’è nulla da festeggiare per i medici per l’ambiente. “Tutti entrano in panico quanto più ci si avvicina ai valori di soglia, ma noi viviamo costantemente con una qualità dell’aria che non è buona, perché i livelli di particolato sottile e di biossido di azoto sono comunque sempre troppo elevati“, avverte Laura Reali, pediatra di famiglia e presidente di Isde Roma. L’Oms, ricorda, “da anni discute e richiede all’Ue limiti più bassi, i danni ci sono anche per i valori che stiamo rispettando“.

La “pessima abitudine” dei botti di Capodanno non aiuta. Ma il problema di fondo, per la dottoressa, è che è “il particolato sottile e il biossido di azoto si formano per tante cause, in parte per il traffico veicolare, buona parte per il riscaldamento delle case. E Se su questi valori elevati di base si aggiunge il Capodanno, si raggiungono livelli rischiosi“. Sui limiti, invita a “intendersi“: “Il particolato e il biossido d’azoto non ci dovrebbero essere per nulla nell’aria“.

L’1 gennaio a Roma si sono toccati i 76 ug/m3, senza superamento dello sforamento consentito dall’Unione Europea, ma per l’Oms i limiti dovrebbero essere molto inferiori, non dovrebbero superare i 20 ug/m3 e, aggiunge Reali, “sarebbe più sicuro stare sotto i 10“.

Particolato e biossido di azoto in eccesso, sopra i 40 ug/m3, possono dare effetti nell’immediato che vanno da bruciore, secrezioni, starnuti, tosse, fino all’aumento di episodi di respiro corto nei bambini e di asma e accentuazione degli attacchi di bpco (broncopneumopatia cronica ostruttiva) negli adulti. In questi episodi acuti, i due inquinanti giocano in maniera sinergica: uno accentua gli effetti dell’altro. “Per lunghe esposizioni, superiori alle 9 ore, si possono avere anche effetti cardiovascolari in chi ne soffre“, ricorda Reali, che giudica quindi “molto giustificata” la raccomandazione di non fare uscire i soggetti a rischio: donne in gravidanza, bambini soprattutto sotto i 2 anni, tutte le persone affette da patologie respiratorie o cardiovascolari e gli anziani.

Gli episodi come quello di Capodanno, esorta la presidente dell’Isde Roma, “vanno interpretati come un segnale per ricordarci che non respiriamo aria pulita e dovremmo fare qualcosa in più, non solo con il monitoraggio, ma in termini di riduzione delle sostanze tossiche“. Il suggerimento è, a livello personale, di adottare comportamenti virtuosi (evitare botti, utilizzare meno macchina, abbassare il riscaldamento delle case). A livello amministrativo, locale, nazionale e sovranazionale, di regolare meglio le emissioni. “Forse non sforeremo, ma non stiamo vivendo bene“, chiosa. I piani ci sono, si tratta di seguirli.

Fine dei negoziati sull’inquinamento da plastica: in Kenya regna il disaccordo

I negoziati internazionali per ridurre la proliferazione dei rifiuti di plastica si sono conclusi domenica in Kenya, in un contesto di disaccordo sulla portata del trattato e di frustrazione delle Ong ambientaliste per la mancanza di progressi concreti. I negoziatori provenienti da 175 Paesi hanno trascorso una settimana presso la sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a Nairobi, cercando di trovare un terreno comune su una bozza di trattato volta a risolvere il crescente problema dell’inquinamento da plastica.

La posta in gioco in questi negoziati era alta, perché la plastica, un sottoprodotto dei prodotti petrolchimici, è ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Microplastiche sono state rilevate anche nel sangue e nel latte materno. Sebbene le varie parti siano d’accordo sulla necessità di un trattato, ci sono divergenze di opinione sulla sostanza, con le Ong che chiedono una riduzione del 75% della produzione entro il 2040 e i Paesi produttori di petrolio e le lobby dell’industria della plastica che sostengono maggiormente il riciclo.

Al termine delle discussioni, l’Unep ha espresso soddisfazione per i progressi “sostanziali” compiuti grazie alla presenza di quasi 2.000 delegati. Durante questa settimana di negoziati, le delegazioni hanno messo sul tavolo “più idee, colmando le lacune (…) ora abbiamo un documento, una bozza di testo, che comprende molte più idee“, ha dichiarato all’AFP Stewart Harris, portavoce del Consiglio internazionale delle associazioni chimiche, un importante gruppo di pressione che difende gli interessi dell’industria della plastica. “Penso che sia stata una settimana utile“, ha dichiarato.

Diverse Ong ambientaliste hanno invece accusato alcuni Paesi, in particolare Iran, Arabia Saudita e Russia, di “ostruzionismo“. “Non sorprende che alcuni Paesi stiano bloccando i progressi, ricorrendo a manovre ostruzionistiche e procedurali”, ha dichiarato all’AFP Carroll Muffett, direttore del Center for International Environmental Law (CIEL). L’alleanza della società civile GAIA, da parte sua, ha accusato l’Unep di aver supervisionato “una riunione indisciplinata e tortuosa” che ha permesso a una minoranza di tenere “in ostaggio” i dibattiti. “Compromettere le esigenze di coloro che sono più colpiti per soddisfare i desideri di coloro che traggono profitto dal problema non è una strategia fattibile“, ha deplorato Graham Forbes di Greenpeace. Per le Ong, il tempo sta per scadere ed è necessario un trattato vincolante perché l’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in vent’anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% della plastica viene riciclata. La plastica ha anche un ruolo nel riscaldamento globale: nel 2019 è stata responsabile del 3,4% delle emissioni globali, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima dei colloqui, circa 60 Paesi – guidati da Ruanda, Norvegia e Unione Europea – hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Ma durante le sessioni pubbliche, diversi Paesi si sono mostrati riluttanti a sostenere una riduzione della produzione di plastica e sono emerse divisioni anche sulla questione se il trattato debba essere vincolante o volontario. “Non siamo qui per porre fine alla plastica, ma per porre fine all’inquinamento da plastica“, ha dichiarato domenica dopo la sua elezione Luis Vayas Valdivieso dell’Ecuador, nuovo presidente del Comitato internazionale di negoziazione (INC), deplorando lo “spaventoso impatto” della plastica sull’ambiente.

La riunione di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, per poi concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. I negoziati di Nairobi precedono di poche settimane l’inizio della conferenza sul clima Cop 28 negli Emirati Arabi Uniti, che mira a ridurre le emissioni di gas serra e ad aiutare i Paesi in via di sviluppo a far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, dopo un anno segnato da eventi meteorologici devastanti.

In Kenya riprendono i negoziati sulla lotta all’inquinamento da plastica

Verso la fine dell’inquinamento da plastica? I rappresentanti di 175 Paesi si riuniscono da oggi in Kenya per negoziare per la prima volta misure concrete da includere in un trattato globale vincolante per porre fine ai rifiuti di plastica. I Paesi hanno concordato lo scorso anno di finalizzare un primo trattato globale per combattere il flagello della plastica entro la fine del 2024. La posta in gioco è alta, perché le plastiche petrolchimiche sono ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Le microplastiche sono state rilevate nel sangue e nel latte materno. I negoziatori si sono già incontrati due volte, ma la riunione che si terrà dal 13 al 19 novembre a Nairobi, sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), è la prima occasione per discutere una bozza di trattato pubblicata a settembre che delinea i molti modi in cui il problema della plastica può essere risolto.

Esiste un ampio consenso sulla necessità di un trattato. Ma tra le politiche difese dai diversi Paesi, dagli ambientalisti e dall’industria della plastica, le posizioni divergono. “Questa è la grande battaglia a cui assisteremo“, spiega Eirik Lindebjerg dell’Ong Wwf, che sarà tra le migliaia di partecipanti ai negoziati. Diversi Paesi e Ong ambientaliste chiedono di vietare i prodotti di plastica monouso e di introdurre regole più severe, oltre ad altre misure “ambiziose“. Da parte loro, i produttori e i principali Paesi produttori si battono per il riciclaggio e una migliore gestione dei rifiuti.

La “bozza zero” mette sul tavolo tutte le opzioni. A seconda della direzione che prenderanno i negoziati, il trattato potrebbe essere un patto per la natura o “un accordo di comodo con l’industria della plastica“, ha avvertito in ottobre l’inviato speciale delle Nazioni Unite per gli oceani, Peter Thomson. L’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in 20 anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% viene riciclato. La plastica svolge anche un ruolo nel riscaldamento globale, rappresentando il 3,4% delle emissioni globali nel 2019, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima delle discussioni a Nairobi, circa sessanta Paesi hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Graham Forbes, responsabile di Greenpeace, sostiene che il trattato avrà successo o fallirà “a seconda di come limiterà la produzione di plastica a monte”: “Non si può impedire che la vasca da bagno trabocchi finché non si chiude il rubinetto“, sostiene.

D’altra parte, molti Paesi – in particolare Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita e membri dell’Opec – sono riluttanti a prendere in considerazione un taglio della produzione. L’EPS Industry Alliance, un’associazione nordamericana che difende le aziende produttrici di polistirene espanso (spesso utilizzato negli Stati Uniti per i bicchieri da asporto), sostiene che non vi sia stata una sufficiente “revisione scientifica indipendente” del trattato, mettendo in guardia dalle “conseguenze indesiderate” di alcune proposte. “C’è un’enorme quantità di retorica intorno alla plastica che è infarcita dall’ideologia dell’emozione“, sostiene il direttore esecutivo dell’associazione, Betsy Bowers, che parteciperà ai negoziati in qualità di osservatore.

L’incontro di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, prima di concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. A ottobre, le Figi hanno esortato le nazioni ad agire per concludere il trattato, affermando che le piccole nazioni insulari hanno bisogno di un’azione più rapida. Durante gli ultimi negoziati a Parigi, a giugno, gli ambientalisti hanno accusato i principali Paesi produttori di plastica di trascinare i colloqui. Questa volta, le sessioni sono state prolungate di due giorni. Ma sarà sufficiente? “Se non riusciranno a fare progressi qui (a Nairobi, ndr), il 2024 sarà molto intenso se si vuole raggiungere un trattato significativo entro la fine dell’anno“, afferma Eirik Lindebjerg.

L’india non respira più: una ‘green war room’ contro l’inquinamento

La capitale indiana ha allestito una “sala da guerra verde” per combattere l’inquinamento atmosferico, che sta riducendo di dodici anni l’aspettativa di vita dei suoi abitanti. “L’inquinamento è un’emergenza“, ha dichiarato Gopal Rai, ministro dell’Ambiente di Delhi – un territorio che comprende la capitale e la sua regione, una megalopoli in rapida espansione di 30 milioni di abitanti. Nuova Delhi è regolarmente classificata tra le peggiori capitali del mondo in termini di qualità dell’aria. Una vera e propria “epidemia dell’aria“, secondo il signor Rai.
In inverno a Delhi, il livello di PM 2,5 – microparticelle cancerogene che penetrano nei polmoni e nel sangue – è spesso più di 30 volte superiore al livello massimo stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). L’inquinamento riduce l’aspettativa di vita di un abitante di Delhi di una media di 11,9 anni e di cinque anni per gli indiani in generale, secondo un rapporto pubblicato in agosto dall’Energy Policy Institute dell’Università di Chicago. Per affrontare questo problema pluridecennale, a ottobre è stato aperto un centro di coordinamento ad alta tecnologia. Qui, 17 esperti monitorano le tendenze dell’inquinamento in tempo reale su schermi giganti, utilizzando le immagini satellitari della Nasa e gli aggiornamenti degli indici di qualità dell’aria misurati dai sensori. Conosciuto come ‘Green War Room‘, il centro è una piattaforma di coordinamento collegata a 28 agenzie governative. “Non appena la qualità dell’aria si deteriora, allertiamo le nostre squadre a terra che agiscono immediatamente“, ha spiegato Anurag Pawar, ingegnere ambientale presso la War Room.

Una fabbrica inquinante può ricevere un avvertimento, un incendio in una discarica può essere spento, i veicoli che emettono fumo nero o fuochi d’artificio illegali fermati, o i camion inviati per spruzzare la polvere con acqua e farla depositare. D’altra parte, la green war room non può fare nulla per una delle principali fonti di inquinamento: l’incenerimento agricolo, responsabile della tossica foschia giallastra che, insieme alle emissioni industriali e automobilistiche, soffoca Delhi ogni inverno. Nel 2020, uno studio della rivista medica britannica The Lancet ha attribuito 1,67 milioni di morti premature all’anno precedente all’inquinamento atmosferico in India, di cui quasi 17.500 nella capitale.

L’inquinamento atmosferico è “uno dei maggiori rischi ambientali per la salute“, avverte l’Oms. Provoca ictus, malattie cardiache e respiratorie e cancro ai polmoni. Le autorità di Delhi hanno lanciato un’irrorazione biochimica per accelerare la decomposizione delle stoppie. Ma come molti sforzi ambientali, le buone intenzioni si scontrano con ostacoli politici. Secondo Rai, più di due terzi dell’inquinamento atmosferico della città è generato al di fuori dei confini di Delhi, dove le autorità locali non hanno il potere di agire. “Abbiamo introdotto gli autobus elettrici, ma negli Stati vicini gli autobus funzionano ancora a diesel“, ha dichiarato Rai all’AFP, “tutto questo ha un impatto su Delhi. L’inquinamento e il vento non possono essere limitati dai confini di Stato“.

La capitale e lo Stato del Punjab sono governati dall’Aam Aadmi Party (AAP), ma altri Stati vicini sono governati dai rivali del Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi. L’inquinamento è un pomo della discordia. “Ovviamente la politica ha un impatto“, ammette Rai, “ma ci sono ostacoli quando si tratta di stabilire delle regole“. Gli agricoltori, un potente gruppo elettorale, sostengono che l’incenerimento è una pratica antica, semplice e poco costosa, e che l’inquinamento urbano non li riguarda. L’Oms sottolinea che “molti fattori di inquinamento atmosferico sono anche fonti di emissioni di gas serra” e che le politiche di riduzione dell’inquinamento atmosferico “offrono una strategia vantaggiosa sia per il clima che per la salute“.

L’India rimane fortemente dipendente dal carbone per la produzione di energia. Il Paese ha visto le sue emissioni pro capite aumentare del 29% negli ultimi sette anni ed è riluttante ad attuare politiche per eliminare gradualmente i combustibili fossili inquinanti. “La Green War Room, se usata correttamente, sarà efficace nel reprimere l’inquinamento per qualche tempo“, dice Sunil Dahiya, analista del Clean Air and Energy Research Centre. “Ma non è la soluzione per ridurre le emissioni“, sottolinea, “quando si tratta di respirare aria pulita, i livelli di inquinamento devono essere ridotti e sono necessari altri cambiamenti drastici e sistematici“.

L’Onu premia soluzioni innovative per sconfiggere inquinamento da plastica

Il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (Unep) ha annunciato oggi i Campioni della Terra 2023, premiando un sindaco di città, una fondazione senza scopo di lucro, un’impresa sociale, un’iniziativa governativa e un consiglio di ricerca per le loro soluzioni innovative e l’azione trasformativa per affrontare l’inquinamento da plastica. Sin dalla sua istituzione nel 2005, il premio annuale Champions of the Earth è stato assegnato a pionieri in prima linea negli sforzi per proteggere le persone e il pianeta. Si tratta della più alta onorificenza ambientale delle Nazioni Unite. Compresi i cinque Campioni di quest’anno, il premio ha riconosciuto 116 vincitori: 27 leader mondiali, 70 individui e 19 organizzazioni. L’Unep ha ricevuto un numero record di 2.500 candidature in questo ciclo, segnando il terzo anno consecutivo in cui le candidature hanno raggiunto il massimo storico.

L’inquinamento da plastica è un aspetto molto preoccupante della tripla crisi planetaria. Per il bene della nostra salute e del pianeta, dobbiamo porre fine all’inquinamento da plastica. Ciò richiederà niente di meno che una trasformazione completa, per ridurre la quantità di plastica prodotta ed eliminare la plastica monouso; e per passare a sistemi di riutilizzo e ad alternative che evitino gli impatti ambientali e sociali negativi di cui siamo testimoni con l’inquinamento da plastica“, ha dichiarato Inger Andersen, Direttore Esecutivo dell’Unep. “Mentre procedono i negoziati per lo sviluppo di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, i Campioni della Terra di quest’anno dimostrano che sono disponibili soluzioni innovative che possono ispirarci a ripensare il nostro rapporto con la plastica“.

I Campioni della Terra 2023 dell’UNEP sono i seguenti.

Il sindaco Josefina Belmonte di Quezon City, Filippine, premiata nella categoria Leadership politica, sta guidando l’azione ambientale e sociale attraverso una serie di politiche per combattere la crisi climatica, porre fine all’inquinamento da plastica e rendere più verde l’enclave urbana. Le sue iniziative comprendono il divieto di utilizzare la plastica monouso, un programma di commercio per l’inquinamento da plastica, stazioni di rifornimento per i prodotti di prima necessità e la difesa di una politica globale forte in materia di plastica.

La Ellen MacArthur Foundation (Regno Unito), premiata nella categoria Ispirazione e Azione, ha svolto un ruolo di primo piano nell’integrazione di un approccio al ciclo di vita, anche per la plastica. La Fondazione ha pubblicato rapporti e creato reti di decisori del settore pubblico e privato, oltre che del mondo accademico, per sviluppare iniziative e soluzioni del ciclo di vita alla crisi climatica, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento da plastica e altro ancora. Guida l’Impegno Globale con l’Unep.

Blue Circle (Cina), premiata nella categoria Visione imprenditoriale, utilizza la tecnologia blockchain e l’Internet delle cose per tracciare e monitorare l’intero ciclo di vita dell’inquinamento da plastica, dalla raccolta alla rigenerazione, alla rifabbricazione e alla rivendita. Ha raccolto oltre 10.700 tonnellate di detriti marini, diventando il più grande programma di rifiuti plastici marini della Cina.

José Manuel Moller (Cile), anch’egli premiato nella categoria Visione imprenditoriale, è il fondatore di Algramo, un’impresa sociale dedicata alla fornitura di servizi di ricarica che riducono l’inquinamento da plastica e abbassano i costi dei beni di prima necessità. Moller lavora anche per prevenire, ridurre e gestire in modo sostenibile i rifiuti attraverso il suo ruolo di Vice Presidente del Comitato consultivo delle Nazioni Unite di personalità eminenti sui rifiuti zero, un’iniziativa istituita nel marzo 2023.

Il Council for Scientific and Industrial Research (Sudafrica), premiato nella categoria Scienza e Innovazione, utilizza una tecnologia all’avanguardia e una ricerca multidisciplinare per sviluppare innovazioni per affrontare l’inquinamento da plastica e altri problemi. È un pioniere nell’identificare alternative sostenibili alle plastiche convenzionali, nello stabilire opportunità per la produzione locale e lo sviluppo economico e nel testare la biodegradabilità della plastica.

La plastica ha trasformato la vita quotidiana e ha prodotto molti benefici per la società. Ma l’umanità produce circa 430 milioni di tonnellate di plastica ogni anno, due terzi delle quali diventano rapidamente rifiuti. La dipendenza dalla plastica a vita breve ha creato quello che gli esperti definiscono un incubo ambientale. Ogni anno, fino a 23 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica si riversano negli ecosistemi acquatici, inquinando laghi, fiumi e mari. Entro il 2040, le emissioni di carbonio associate alla produzione, all’uso e allo smaltimento della plastica convenzionale basata sui combustibili fossili potrebbero rappresentare quasi un quinto delle emissioni globali di gas serra, secondo gli obiettivi più ambiziosi dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Le sostanze chimiche presenti nella plastica possono anche causare problemi di salute negli esseri umani. Per sconfiggere l’inquinamento da plastica, gli esperti dicono che l’umanità deve ridurre ed eliminare le plastiche inutili e problematiche, trovare alternative ecologiche al materiale, sviluppare modelli innovativi per il riutilizzo della plastica e adottare il cosiddetto approccio al ciclo di vita dell’inquinamento da plastica.

Life Blue Lakes, è allarme laghi: microplastiche nel 98% dei campioni raccolti

Brutte notizie per la salute dei laghi italiani. Negli ultimi due anni, infatti, il progetto Life Blue Lakes, cofinanziato da Life e coordinato da Legambiente, ha condotto un monitoraggio con strumenti e metodologie definiti dai protocolli scientifici sperimentati. Il risultato non è per nulla confortante, visto che nel 98% dei campioni raccolti nei laghi di Bracciano, Trasimeno e Piediluco, sono circa 9mila le particelle di materiale plastico inferiori ai 5 millimetri. I risultati sono stati presentati questa mattina. In modo particolare, nelle acque sono stati trovati frammenti di polietilene, che dalle caratterizzazioni chimico-fisiche sono risultati riconducibili alle vecchie buste di plastica, fuorilegge da diversi anni ma che ancora galleggiano in acqua. Le microplastiche sono state quantificate e analizzate anche in tre impianti di potabilizzazione e due di depurazione sui laghi di Garda e Castreccioni, in provincia di Macerata, dove viene trattenuto dal 30 al 90% di microplastiche, principalmente frammenti e fibre in poliestere e polipropilene, solitamente utilizzato per l’abbigliamento tecnico e sportivo, che in un solo lavaggio in lavatrice può rilasciare fino a un milione di microfibre.

Sebbene la ricerca sulle microplastiche nelle acque interne si sia ampliata negli ultimi anni, molto resta ancora da comprendere sulle dinamiche di distribuzione delle microplastiche in questi ambienti e a livello di bacino“, ha spiegato il direttore generale di Legambiente, Giorgio Zampetti. “È fondamentale che i responsabili politici diano priorità all’ulteriore progresso dello stato della ricerca, inserendo le microplastiche tra i parametri di monitoraggio previsti dalla normativa a livello europeo e nazionale e sostenendo la standardizzazione dei metodi di misurazione e la cooperazione internazionale e interdisciplinare – ha aggiunto -. Solo così potremo prevenire la diffusione delle microplastiche negli ecosistemi lacustri e fluviali“. Per questo, ha proseguito il dg, “è una importante notizia l’adozione da parte dell’Ue di misure per limitare l’inquinamento da microplastiche nell’ambiente“.

Il progetto Life Blue Lakes, partito nel 2019, che si avvale del partenariato guidato da Legambiente e completato dall’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Centrale, da Arpa Umbria, l’Enea, l’Università Politecnica delle Marche, Global Nature Fund e Fondazione Lago di Costanza, ha indirizzato tante altre azioni a differenti categorie di stakeholder italiane e tedesche, i cui risultati sono stati presentati nel corso della conferenza di oggi presso la sede della Società Geografica Italiana a Roma.

Sulle aree pilota dei laghi di Garda, Bracciano, Trasimeno e Piediluco in Italia, Costanza e Chiemsee in Germania, più di 200 soggetti tra comuni, operatori turistici, associazioni e aziende sono stati coinvolti in percorsi partecipativi che hanno portato alla redazione delle Carte dei Laghi e di un Manifesto. Adottando questi documenti, 40 comuni e circa 80 soggetti tra autorità regionali, aziende, operatori turistici e associazioni si sono assunti impegni volontari per contribuire alla riduzione dei rifiuti di plastica: dal potenziamento della raccolta differenziata, alla manutenzione delle sponde lacustri, passando per l’educazione ambientale fino a investimenti e interventi di miglioramento degli impianti di trattamento delle acque. Una campagna di advocacy per le aziende europee di cosmetici, abbigliamento outdoor e pneumatici – appartenenti ai settori commerciali maggiormente responsabili della contaminazione da microplastiche – ha guidato 20 aziende europee alla firma di un protocollo d’intesa per una produzione più sostenibile.

L’industria più reattiva – secondo quanto emerge dallo studio – è stata quella dell’abbigliamento outdoor, mentre la cosmetica si è dimostrata piuttosto inattiva e riluttante perché in attesa dello sviluppo di un quadro giuridico definitivo da parte dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa), che stima che l’utilizzo complessivo annuo di microplastiche – solo quelle intenzionalmente aggiunte ai prodotti – tra Unione europea e Spazio economico europeo, in circa 145mila tonnellate.

L’Onu avverte: Non basta riciclare la plastica, dobbiamo cambiare i consumi

Nonostante l’inquinamento che rappresenta per il pianeta, la produzione di plastica continua ad aumentare, una tendenza contro la quale il solo riciclo non sarà sufficiente. A lanciare l’allarme è Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. “Non usciremo da questo pasticcio con il riciclo”, ha spiegato, invitando ad agire su “tutta la catena”, ad esempio riprogettando i prodotti di consumo.

Due settimane fa è stata pubblicata la prima versione del futuro trattato internazionale contro l’inquinamento da plastica, che si spera possa essere finalizzato entro la fine del 2024. Il documento riflette l’ampia gamma di ambizioni dei 175 Paesi coinvolti e il divario tra coloro che sostengono una riduzione della produzione di polimeri di base e coloro che insistono sul riutilizzo e il riciclaggio.

“Ci sono diversi percorsi di soluzione. Ma credo che tutti riconoscano che lo status quo non è un’opzione”, ha dichiarato Andersen in un’intervista all’AFP a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, chiedendo che questo inquinamento su larga scala venga affrontato su tutti i fronti. In primo luogo, “eliminare il più possibile la plastica monouso” e “tutto ciò che non è necessario”, ha osservato, affermando che è “stupido” avvolgere nella pellicola arance o banane che sono già protette “dalla natura stessa”. Poi, “bisogna pensare al prodotto stesso: ciò che normalmente è liquido può essere in polvere, compattato o concentrato?”, ha detto, raccontando che quando entra in un supermercato va subito alla corsia dei saponi per vedere se ci sono versioni solide.

La produzione annuale di plastica è più che raddoppiata in 20 anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% viene riciclato. Rifiuti di tutte le dimensioni si trovano oggi sul fondo degli oceani, nello stomaco degli uccelli e sulle cime delle montagne. Le microplastiche sono state rilevate nel sangue, nel latte materno e nella placenta. “Se continuiamo a immettere tutti questi polimeri grezzi nell’economia, non c’è alcuna possibilità di fermare il flusso di plastica nell’oceano”, ha avvertito Inger Andersen.

Il futuro trattato sull’inquinamento da plastica completerebbe quindi l’arsenale per proteggerlo, compreso il nuovo storico trattato per la protezione dell’alto mare firmato questa settimana da circa 70 Paesi. “Il fatto che ci stiamo muovendo per proteggere questa parte dell’oceano al di là delle giurisdizioni nazionali è incredibilmente importante”, ha commentato.

Studio rivela: “L’inquinamento è la principale minaccia per la salute pubblica”

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L’inquinamento atmosferico rappresenta un rischio maggiore per la salute globale rispetto al fumo o al consumo di alcol, e questo pericolo è ancora più grave in alcune aree del mondo come l’Asia e l’Africa. Lo rivela un rapporto dell’Energy Policy Institute dell’Università di Chicago (EPIC) sulla qualità dell’aria globale, secondo il quale l’inquinamento da polveri sottili – emesso da veicoli a motore, industrie e incendi – rappresenta “la più grande minaccia esterna alla salute pubblica” a livello mondiale.

Nonostante ciò, i fondi stanziati per combattere l’inquinamento atmosferico rappresentano solo una minima parte di quelli destinati, ad esempio, alle malattie infettive, sottolinea il rapporto. L’inquinamento da polveri sottili aumenta il rischio di malattie polmonari e cardiache, ictus e cancro. L’EPIC stima che se la soglia dell’Oms per l’esposizione alle polveri sottili fosse sempre rispettata, l’aspettativa di vita globale aumenterebbe di 2,3 anni, sulla base dei dati raccolti nel 2021. In confronto, il consumo di tabacco riduce l’aspettativa di vita globale di una media di 2,2 anni e la malnutrizione infantile e materna di 1,6 anni.

In Asia meridionale, la regione del mondo più colpita dall’inquinamento atmosferico, gli effetti sulla salute pubblica sono molto pronunciati. Secondo la stima EPIC, gli abitanti del Bangladesh – dove il livello medio di esposizione alle polveri sottili è stimato in 74 μg/m3 – potrebbero guadagnare 6,8 anni di aspettativa di vita se la soglia di inquinamento fosse abbassata a 5 μg/m3, il livello raccomandato dall’Oms. La capitale indiana, Nuova Delhi, è la “megalopoli più inquinata del mondo“, con un livello medio annuo di 126,5 μg/m3. La Cina, invece, ha “compiuto notevoli progressi nella lotta all’inquinamento atmosferico” iniziata nel 2014, ha dichiarato all’AFP Christa Hasenkopf, direttore dei programmi sulla qualità dell’aria dell’EPIC. L’inquinamento atmosferico medio nel Paese è diminuito del 42,3% tra il 2013 e il 2021, ma rimane sei volte superiore alla soglia raccomandata dall’Oms. Se questi progressi continueranno nel tempo, la popolazione cinese dovrebbe guadagnare in media 2,2 anni di aspettativa di vita, secondo l’EPIC.

Nel complesso, però, le regioni del mondo più esposte all’inquinamento atmosferico sono quelle che ricevono meno risorse per combattere questo rischio, osserva il rapporto. “C’è una profonda discrepanza tra i luoghi in cui l’aria è più inquinata e quelli in cui vengono impiegate più risorse a livello collettivo e globale per risolvere questo problema“, spiega Christa Hasenkopf. Mentre esistono meccanismi internazionali per combattere l’HIV, la malaria e la tubercolosi, come il Fondo Globale, che impiega 4 miliardi di dollari all’anno per combattere queste malattie, non esiste un equivalente per l’inquinamento atmosferico. “Eppure, l’inquinamento atmosferico riduce l’aspettativa di vita media di una persona nella RDC (Repubblica Democratica del Congo) e in Camerun più dell’HIV, della malaria e di altre malattie“, sottolinea il rapporto.

Negli Stati Uniti, il programma federale Clean Air Act ha contribuito a ridurre l’inquinamento atmosferico del 64,9% dal 1970, aumentando l’aspettativa di vita media degli americani di 1,4 anni. In Europa, il miglioramento della qualità dell’aria negli ultimi decenni ha seguito la stessa tendenza degli Stati Uniti, ma ci sono ancora grandi disparità tra l’est e l’ovest del continente. Tutti questi sforzi sono minacciati, tra l’altro, dall’aumento del numero di incendi boschivi in tutto il mondo – causati dall’innalzamento delle temperature e da siccità più frequenti, legate ai cambiamenti climatici – che provocano picchi di inquinamento atmosferico. Nel 2021, ad esempio, la storica stagione degli incendi in California ha provocato un inquinamento atmosferico nella contea di Plumas pari a circa cinque volte la soglia raccomandata dall’Oms. I mega-incendi che hanno devastato il Canada nell’estate del 2023 hanno causato picchi di inquinamento in Quebec e Ontario e in diverse regioni degli Stati Uniti orientali.

Inquinamento e caldo estremo: il cocktail respiratorio micidiale del Texas

Photo credit: AFP

Caldo cocente e inquinamento alle stelle sono un cocktail con effetti letali per le vie respiratorie degli abitanti del Texas. Lo sa bene Erandi Trevino, texana 31enne, che vive molto vicino a un deposito di camion e a meno di 10 km da un canale sulle cui sponde si concentrano molte attività industriali e petrolchimiche: la giovane donna sente arrivare fino al naso e alla pelle l’ozono, un gas dannoso per la salute. “Riesco a sentire quando c’è una alta concentrazione di ozono il giorno prima che venga annunciata, perché mi brucia la faccia. Lo sento nelle narici, ho una sensazione di bruciore agli occhi che mi fa tossire…“, racconta. “Non ho dubbi che stia influendo sulla mia salute“, dice Erandi Trevino, mentre nelle vicinanze si sente il rombo incessante dei semirimorchi.

L’ozono di per sé non è sempre dannoso. Non lo è se rimane nella stratosfera, lo strato che forma protegge la Terra dai raggi ultravioletti emessi dal Sole. Ma, spiega l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA), può esistere anche a livello del suolo: si tratta del cosiddetto ozono ‘troposferico’, uno dei componenti dello smog. “Si verifica quando gli inquinanti emessi da automobili, centrali elettriche, caldaie industriali, raffinerie, impianti chimici e altre fonti reagiscono chimicamente con la luce solare“, spiega l’EPA. L’ozono così generato può raggiungere livelli particolarmente dannosi nelle giornate calde e soleggiate, per poi essere trasportato a lunga distanza dal vento.

Houston, una grande città industriale con una popolazione di 2,3 milioni di abitanti in Texas, sta soffrendo da quindici giorni per l’ondata di calore che sta colpendo il sud degli Stati Uniti.Negli ultimi anni, le emergenze legate al caldo sono durate due, tre, forse quattro giorni al massimo. In questo caso, il caldo è stato eccessivo dal 14 giugno, il che significa che la temperatura ha raggiunto o addirittura superato i 42 gradi“, ha spiegato all’AFP Porfirio Villarreal, portavoce dei servizi sanitari di Houston.

Erandi Trevino, la cui madre e le cui nipoti condividono la stessa sensibilità all’ozono, ha finito per unirsi a due associazioni anti-inquinamento. Per militanza, ma anche come forma di terapia, ha creato un vivaio di alberi nel suo giardino. Secondo la donna, l’ozono troposferico non fa mai bene alla salute, anche se le autorità hanno fissato una soglia sanitaria di 70 parti per miliardo (ppm). La Texas Commission on Environmental Quality ha registrato un record di 99 parti per miliardo all’inizio di giugno, ma l’attuale ondata di caldo ha prodotto solo un massimo di 46 parti per miliardo. Erandi Trevino vorrebbe che le stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria fossero installate più vicino agli impianti industriali.

Secondo l’American Lung Association (ALA), entro il 2023 più di un americano su tre vivrà in un’area in cui i livelli di ozono o di polveri sottili sono dannosi per la salute. “È estremamente pericoloso per la nostra salute a lungo termine, soprattutto per i bambini e gli anziani che hanno già problemi“, afferma Esmeralda Carr, 32 anni, direttrice di uno studio dentistico e madre di quattro figli, che vive non lontano dalla signora Trevino. “Nei giorni in cui c’è molto inquinamento, più persone vanno in ospedale. A volte hanno l’asma, che può essere esacerbata dall’ozono o da questo inquinamento“, spiega il portavoce Porfirio Villarreal, “per questo monitoriamo l’aria per fornire dati allo Stato, che può quindi emettere allarmi sulla qualità (dell’aria)“. Spesso si raccomanda di evitare le attività all’aperto. Questi problemi alimentano anche le disuguaglianze razziali negli Stati Uniti: le popolazioni più colpite sono gli afroamericani e gli ispanici, che spesso vivono in quartieri più esposti all’inquinamento, sottolinea l’ALA.

Riuso, riciclo e riorientamento: la strategia Onu per ridurre l’inquinamento da plastica

Secondo un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), l’inquinamento da plastica potrebbe ridursi dell’80% entro il 2040 se i Paesi e le aziende attuassero profondi cambiamenti nelle politiche e nei mercati utilizzando le tecnologie esistenti. Come farlo? Intanto eliminando la plastica problematica e non necessaria, e poi utilizzando la strategia del trittico ‘Riuso, riciclo e riorientamento’. Il rapporto è stato pubblicato in vista del secondo ciclo di negoziati a Parigi su un accordo globale per sconfiggere l’inquinamento da plastica e delinea la portata e la natura dei cambiamenti necessari per porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare. ‘Chiudere il rubinetto: come il mondo può porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare’ è un’analisi incentrata sulle soluzioni, sulle pratiche concrete, sui cambiamenti del mercato e sulle politiche che possono informare le riflessioni dei governi e le azioni delle imprese.

Il modo in cui produciamo, utilizziamo e smaltiamo la plastica inquina gli ecosistemi, crea rischi per la salute umana e destabilizza il clima“, ha dichiarato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep. “Il rapporto traccia una tabella di marcia per ridurre drasticamente questi rischi attraverso l’adozione di un approccio circolare che tenga la plastica lontana dagli ecosistemi, dai nostri corpi e dall’economia. Se seguiremo questa tabella di marcia, anche nei negoziati sull’accordo sull’inquinamento da plastica, potremo ottenere importanti risultati economici, sociali e ambientali”.

Così diventa fondamentale riutilizzare (con una riduzione del 30% di inquinamento da plastica entro il 2040), riciclare (-20% entro il 2040) e riorientare e diversificare, con la sostituzione di prodotti come involucri di plastica, bustine e articoli da asporto con prodotti realizzati con materiali alternativi che può consentire un’ulteriore riduzione del 17% dell’inquinamento da plastica.
Anche con le misure sopra descritte, entro il 2040 sarà ancora necessario gestire in sicurezza 100 milioni di tonnellate di plastica provenienti da prodotti monouso e a vita breve, oltre a un’eredità significativa di inquinamento da plastica esistente. Complessivamente, il passaggio a un’economia circolare comporterebbe un risparmio di 1,27 trilioni di dollari, considerando i costi e i ricavi del riciclo. Altri 3,25 trilioni di dollari verrebbero risparmiati grazie alle esternalità evitate, come la salute, il clima, l’inquinamento atmosferico, il degrado degli ecosistemi marini e i costi legati alle controversie. Questo cambiamento potrebbe anche portare a un aumento netto di 700.000 posti di lavoro entro il 2040, soprattutto nei Paesi a basso reddito, migliorando significativamente le condizioni di vita di milioni di lavoratori in contesti informali. I costi di investimento per il cambiamento sistemico raccomandato sono significativi, ma inferiori alla spesa senza questo cambiamento sistemico: 65 miliardi di dollari all’anno contro 113 miliardi di dollari all’anno.

Tuttavia, il tempo è fondamentale: un ritardo di cinque anni potrebbe portare a un aumento di 80 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica entro il 2040. I costi più elevati di un’economia circolare e usa e getta sono quelli operativi. Con una regolamentazione che garantisca che le materie plastiche siano progettate per essere circolari, gli schemi di responsabilità estesa del produttore (EPR) possono coprire questi costi operativi per garantire la circolarità del sistema, richiedendo ai produttori di finanziare la raccolta, il riciclaggio e lo smaltimento responsabile a fine vita dei prodotti in plastica.