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Clima, l’Aie avverte: “Fare di più o rischio tensioni su forniture globali di materie prime”

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) teme “tensioni” sulle forniture globali di minerali e metalli critici, essenziali per la transizione energetica, e incoraggia un aumento degli investimenti minerari se si vuole che il pianeta riesca a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi entro la fine del secolo.

“Il calo dei prezzi di minerali critici come il rame, il litio e il nichel, utilizzati per condurre l’elettricità o nelle batterie per i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i pannelli solari, ‘maschera il rischio di future tensioni sull’offerta’” afferma l’Aie nel suo secondo rapporto annuale sui metalli, ‘Global Critical Minerals Outlook 2024’. L’Agenzia stima che saranno necessari “800 miliardi di dollari” in investimenti minerari in tutto il mondo da qui al 2040 se il pianeta vuole raggiungere l’obiettivo fissato dall’accordo internazionale sul clima firmato a Parigi nel 2015 di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale.

Lo scorso anno, il crollo del 75% del prezzo del litio e il calo dal 30% al 45% dei prezzi di cobalto, nichel e grafite hanno portato a una diminuzione media del 14% dei prezzi delle batterie, ma anche al rischio di un rallentamento degli investimenti nel settore minerario rispetto agli anni precedenti. In termini di volume, i due metalli più a rischio di “tensione” dell’offerta sono il litio e il rame, che mostrano un “divario significativo” tra produzione e prospettive di consumo, secondo il rapporto. Questo perché la domanda è in crescita. Nel 2023, le vendite delle sole auto elettriche sono aumentate del 35% e la diffusione dei pannelli solari e dell’energia eolica è cresciuta del 75%. Gli elettrolizzatori che producono l’idrogeno verde necessario per decarbonizzare l’industria pesante e i trasporti richiedono metalli come il nichel, il platino e lo zircone. Eppure le loro installazioni stanno crescendo in modo esponenziale: +360% entro il 2023, secondo il rapporto.

L’Aie richiama inoltre l’attenzione sulla necessità di diversificare le forniture per contrastare l’egemonia della Cina, in particolare nella produzione di due componenti chiave per le batterie per auto: gli anodi (il 98% della produzione proviene dalla Cina) e i catodi (90%). “Più della metà del processo di produzione del litio e del cobalto avviene in Cina. E il Paese domina l’intera catena di produzione della grafite”, utilizzata sia nelle batterie che nell’industria nucleare, secondo il rapporto.

“Non sarei sorpreso di vedere un interesse sempre maggiore per l’estrazione del litio” tra le major petrolifere, ha sottolineato Tim Gould, capo economista dell’Aie. L’americana Exxon Mobil, la più grande compagnia petrolifera del mondo, ha già annunciato investimenti in questo settore. Tuttavia, lo sviluppo di queste miniere comporta molti rischi sociali e ambientali per le comunità locali vicine, come hanno avvertito le Ong pochi giorni fa in vista di una riunione dell’Ocse sul tema a Parigi. La corsa ai minerali critici sta infliggendo “gravi costi” alle popolazioni indigene e alle loro terre tradizionali, spiega Galina Angarova, della tribù Buryat in Siberia, a capo di una coalizione di associazioni che difendono i diritti delle popolazioni indigene.

“Se continuiamo di questo passo, corriamo il rischio di distruggere la natura, la biodiversità e i diritti umani” in un’economia a basse emissioni di carbonio che si è allontanata da petrolio, gas e carbone, dice. “Siamo sulla soglia della prossima rivoluzione industriale… e dobbiamo fare le cose per bene”, aggiunge Angarova. Adam Anthony, dell’Ong Publish what you pay, sottolinea che i minatori si stanno precipitando in Africa senza che il continente benefici del valore aggiunto dell’estrazione di minerali e metalli. “Quando parliamo di minerali critici, dobbiamo chiederci per chi sono critici”, dice. “Non riceviamo alcun beneficio da questa estrazione”.

La Tanzania, ad esempio, estrae manganese e grafite, ma non produce nessuna delle apparecchiature – auto elettriche o batterie – che li utilizzano.

Transizione energetica, correggere il tiro prima che sia troppo tardi

Il dibattito politico ed economico internazionale è segnato da tempo dal tema della ‘transizione energetica’, ma gli ultimi diciotto mesi hanno mostrato chiaramente come questo obiettivo sia molto più sfidante e complesso di quello che si poteva immaginare. Da molte parti, senza mettere in questione l’obiettivo della decarbonizzazione che tutti condividono, si sottolinea che esso va perseguito con razionalità e pragmatismo, abbandonando visioni estremiste e unilaterali che hanno messo in secondo piano problemi importantissimi come la sicurezza energetica e la disponibilità di materie prime necessarie per la transizione.

Anche negli Usa e in Europa, aree nelle quali sono state adottate misure imponenti per perseguire l’obiettivo della transizione e della decarbonizzazione (come ad esempio l’Inflation Reduction Act negli Usa e il RePowerEu in Europa), lo sviluppo, la diffusione e la crescita delle nuove tecnologie su cui si basa la transizione avverrà in un tempo molto più lungo di quello inizialmente previsto. E ciò perché le economie sviluppate non sono in grado di passare in pochi anni da un modello economico basato sugli idrocarburi ad un altro basato esclusivamente sulle energie rinnovabili.

E la recente crisi energetica causata dall’aggressione russa dell’Ucraina lo ha mostrato con chiarezza. Il mondo, ad esempio, sta usando oggi tre volte più carbone di quanto ne usasse dieci anni fa, e nel 2022 si è raggiunto il record storico nel consumo di questa fonte di energia. Ciò si deve certamente alla crescita dei fabbisogni energetici di molti Paesi del mondo in via di sviluppo che hanno trovato nel carbone la fonte più conveniente, ma anche al fatto che molti paesi europei, Germania e Italia in testa, che avevano deciso di chiudere le loro centrali elettriche a carbone, hanno dovuto fare marcia indietro per fronteggiare la mancanza di gas e l’esplosione dei prezzi energetici causati dalla guerra.

Alla luce di ciò è lecito porsi la domanda: ma perché le famiglie e le imprese europee, che sono responsabili di non più del 9% delle emissioni mondiali di CO2, devono essere quelle che sopportano di più il peso della transizione? Se per ipotesi tutte le industrie europee, che sono responsabili di meno del 4% di tutte le emissioni mondiali di CO2, chiudessero i battenti contemporaneamente, l’effetto sulle emissioni mondiali e quindi sulla causa primaria del climate change sarebbe insignificante.

In un interessante paper del 2021 del Peterson Institute for International Economics un importante economista francese, Jean Pisani-Ferry, ha affermato che muoversi troppo rapidamente verso l’obiettivo di emissioni zero potrebbe provocare una drammatica crisi dell’offerta industriale, ancora più grave di quella creata dallo shock energetico dell’inizio degli anni 70 conseguente alla  guerra arabo-israeliana. L’economista mette in guardia dal fatto che un processo di transizione energetica precipitoso potrebbe provocare disastri, e sollecita i policy makers a rendersene conto e ad assumere le decisioni adeguate.

Quali sono i fatti nuovi che hanno cambiato così radicalmente la prospettiva? Innanzitutto la sicurezza energetica, come detto, è tornata ad essere la priorità. E la sicurezza energetica è fatta di disponibilità di fonti e di prezzi ragionevoli dell’energia. Il Presidente degli Usa Biden ad esempio, benché sia molto concentrato sugli obiettivi della transizione, nel corso dell’ultimo anno ha sollecitato le compagnie petrolifere nazionali a incrementare la produzione, così da aumentare le Strategic Petroleum Reserve come non era mai avvenuto con le precedenti Amministrazioni.

I verdi tedeschi al governo della Germania hanno spinto moltissimo per aumentare la capacità di impianti di rigassificazione del Paese, così da incrementare significativamente le importazioni di LNG (gas naturale liquido) dagli Stati Uniti. E in non più di 200 giorni la Germania è stata capace di dotarsi di nuovi rigassificatori galleggianti come quelli che dobbiamo fare anche in Italia, ma che sono in ritardo a Piombino per l’opposizione del Sindaco, che proviene dalle fila del partito del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

La seconda questione riguarda la dimensione del problema. Oggi 100 trilioni di dollari Usa (centomila miliardi di dollari!) dell’economia mondiale dipendono da più dell’80% di approvvigionamento energetico da idrocarburi, e nulla come un così gigantesco e complesso sistema energetico mondiale può essere rapidamente e facilmente cambiato. In un interessante volume fresco di stampa, ‘How The World Really Works’, di uno studioso di economia dell’energia, Vaclav Smil, si sottolinea come i quattro pilastri della moderna civilizzazione – cemento, acciaio, plastica e ammonio (per i fertilizzanti) – siano ciascuno fortemente dipendente dall’attuale sistema energetico.

C’è poi un terzo punto fondamentale: la divisione tra Nord Sud del mondo. Nell’emisfero Nord del mondo, in particolare Stati Uniti d’America e Europa, il tema del climate change è al primo posto dell’agenda politica. Ma nell’emisfero Sud questa priorità coesiste con altre priorità come la promozione della crescita economica, la riduzione della povertà e il miglioramento della qualità della vita e della salute con la riduzione della combustione di legno e rifiuti attraverso un uso più intenso del gas naturale.

Questa divisione è stata plasticamente rappresentata lo scorso anno da un voto di denuncia e censura del Parlamento Europeo (di cui i media a dire il vero hanno parlato assai poco) relativo alla costruzione di una nuova pipeline per il gas dall’Uganda attraverso la Tanzania fino all’Oceano Indiano.

Il Parlamento Europeo ha stigmatizzato e condannato la realizzazione di questa infrastruttura perché il progetto poteva avere aspetti negativi per il clima, l’ambiente e ‘i diritti umani’. Nello stesso tempo lo stesso Parlamento dava il suo voto favorevole per un’infrastruttura analoga tra la Francia e il Belgio, paesi nei quali il reddito pro-capite è rispettivamente 50 e 60 volte maggiore di quello dell’Uganda, dove la nuova pipeline è vista come un fattore determinante per lo sviluppo del Paese. La risoluzione europea ha provocato in Africa reazioni furiose. Lo speaker del parlamento dell’Uganda ha denunciato l’atteggiamento europeo come il migliore esempio “dell’alto livello di neocolonialismo e di imperialismo contro la sovranità dell’Uganda e della Tanzania”.

Il quarto nodo è rappresentato dai fabbisogni di nuovi materiali per la transizione. L’elettrificazione dei sistemi energetici, industriali e di trasporto alla base della transizione richiede un’enormità di nuove materie prime: rame, cobalto, nickel, litio e terre rare, che possono essere reperite soltanto con nuove e intensive attività minerarie enormemente energivore. Si pone il serio problema dell’aumento esponenziale della loro produzione, che se si guardano i numeri è stato giustamente definito sconvolgente: entro il 2040 la produzione di nickel dovrà crescere di 41 volte, quella di cobalto 21 volte, quella di rame di 28 volte e quella di graffite di 28 volte. Perché un così grande consumo di queste materie prime? Semplice: in termini di chilogrammi di minerali necessari per la produzione di un megawatt di energia elettrica gli impianti eolici offshore ne richiedono 16 tonnellate, il solare fotovoltaico 6,8, quando una centrale turbogas chiede appena 1,1 tonnellate. Le energie convenzionali compreso il nucleare sembrano tutte essere assai meno consumatrici di minerali di quanto non siano le fonti rinnovabili (naturalmente solo per la costruzione degli impianti).

E con riferimento all’offerta? Scrive Marcello Minenna su ‘Il Sole 24 Ore’ di domenica scorsa: “…al ritmo attuale di estrazione e considerati i progetti di espansione della produzione già avviati, la domanda globale di rame supererà l’offerta già nel 2025. Non solo. Senza un nuovo piano aggressivo di incremento della capacità produttiva (che vuol dire nuovi giganteschi investimenti minerari) l’offerta comincerà a declinare a partire dal 2024, amplificando il gap con le necessità dell’economia globale. Stesso destino è previsto per il cobalto, con la domanda che supererà l’offerta nel 2024 e nel 2030 dovrebbe essere 2,5 volte maggiore della capacità produttiva globale, prevista sostanzialmente stabile. Per il litio nel 2030 senza uno sforzo senza precedenti per espandere l’estrazione il fabbisogno globale sarebbe 2,5 volte l’offerta”.

Tutto ciò significa come detto nuovi giganteschi investimenti minerari, con altissimi consumi di energia connessi, che la cultura ambientalista vede come il fumo negli occhi. Senza contare che tali fabbisogni sono destinati a creare nuove influenze geo-politiche e nuove dipendenze in particolare a favore della Cina. L’industria chimica cinese raffina il 40% del rame, il 35% del nickel, il 65% del cobalto e il 58% del litio prodotti a livello mondiale. Sulle terre rare si può parlare di monopolio cinese non solo nella produzione ma anche nella raffinazione. Quanto detto dimostra ancora una volta che un approccio ideologico e dogmatico alla transizione energetica rischia di provocare disastri economici e sociali alle economie dell’occidente. Occorre al contrario perseguire la via della neutralità tecnologica, che significa non privilegiare solo le fonti rinnovabili e l’elettrificazione ma anche le altre tecnologie che conducono alla decarbonizzazione di processi, e prodotti  come il nucleare di nuova generazione, i biocombustibili e il biogas, le tecnologie di cattura, stoccaggio e utilizzo delle CO2.

La politica deve prendere nota di queste contraddizioni e correggere il tiro sui metodi e sui tempi della transizione energetica prima che sia troppo tardi.