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Sul fondo dell’oceano 11 milioni di tonnellate di plastica. Ma potrebbero essere molte di più

Una nuova ricerca del Csiro, l’agenzia scientifica nazionale australiana, e dell’Università di Toronto, in Canada, stima che sul fondo dell’oceano giacciano fino a 11 milioni di tonnellate di inquinamento plastico. In sostanza è come se ogni minuto, un camion della spazzatura entrasse nell’oceano. Poiché si prevede che l’uso della plastica raddoppierà entro il 2040, capire come e dove viaggia è fondamentale per proteggere gli ecosistemi marini e la fauna selvatica.

Come spiega Denise Hardesty, ricercatrice senior del Csiro, questa è la prima stima di quanti rifiuti plastici finiscono sul fondo dell’oceano, dove si accumulano prima di essere scomposti in pezzi più piccoli e mescolati ai sedimenti. “Sappiamo che ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti plastici entrano nei nostri oceani, ma non sapevamo quanto di questo inquinamento finisse sui fondali”, dice l’esperta.

Mentre in passato sono state stimate le microplastiche presenti sui fondali marini, questa ricerca prende in esame gli oggetti più grandi, come reti, bicchieri e sacchetti. Secondo Alice Zhu, dottoranda dell’Università di Toronto che ha condotto lo studio, la stima dell’inquinamento da plastica sul fondo dell’oceano potrebbe essere fino a 100 volte superiore alla quantità di rifiuti che galleggiano sulla superficie. Il fondo sta quindi diventando un luogo di “riposo permanente”.

I risultati dello studio rivelano che la massa di plastica si concentra intorno ai continenti: circa la metà (46%) di quella prevista sul fondo oceanico globale risiede al di sopra dei 200 metri di profondità. Le profondità oceaniche, da 200 m a 11.000 m, contengono il resto della massa plastica prevista (54%).

L’articolo, ‘Plastics in the deep sea – A global estimate of the ocean floor reservoi’r, è stato pubblicato su Deep Sea Research Part I: Oceanographic Research Papers. Questa ricerca fa parte della missione Ending Plastic Waste del Csiro, che mira a cambiare il modo in cui produciamo, utilizziamo, ricicliamo e smaltiamo la plastica.

Le acque dell’Antartide sono sempre più acide: a rischio la catena alimentare

L’acidità delle acque costiere dell’Antartide potrebbe raddoppiare entro la fine del secolo, minacciando balene, pinguini e centinaia di altre specie che popolano l’Oceano Antartico. E’ quanto emerge da una nuova ricerca dell’Università del Colorado Boulder pubblicata su Nature Communications. Gli scienziati prevedono che entro il 2100, i 200 metri superiori dell’oceano, dove risiede gran parte della vita marina, potrebbero vedere un aumento di acidità superiore al 100% rispetto ai livelli degli anni ’90.
“I risultati sono fondamentali per la nostra comprensione della futura evoluzione della salute dell’ecosistema marino”, spiega Nicole Lovenduski, coautrice dello studio e direttrice ad interim dell’Istituto di ricerca artica e alpina (INSTAAR) della CU Boulder.

Gli oceani svolgono un ruolo importante come cuscinetto contro i cambiamenti climatici assorbendo quasi il 30% della CO2 emessa in tutto il mondo. Ma più anidride carbonica si dissolve nell’acqua, più aumenta l’acidità dei mari. L’Oceano Australe, che circonda l’Antartide, è particolarmente suscettibile all’acidificazione, sia a causa delle correnti oceaniche, sia perché l’acqua più fredda tende ad assorbire più CO2.

Utilizzando un modello computerizzato, il team di ricerca hanno simulato come cambierà l’acqua dell’Oceano Antartico nel 21° secolo, scoprendo che diventerà molto più acida e ipotizzando uno scenario “grave” se il mondo non riuscirà a ridurre le emissioni. “Non si tratta solo dello strato superiore dell’oceano. L’intera colonna d’acqua dell’Oceano Antartico costiero, anche sul fondo, potrebbe subire una grave acidificazione”, spiega Lovenduski.

Il team ha poi studiato le condizioni specifiche delle aree marine protette (AMP) dell’Antartide. Le attività umane, come la pesca, sono limitate in queste regioni per proteggerne la biodiversità. Nello scenario con le emissioni più elevate, l’acidità media dell’acqua nella regione del Mare di Ross – la più grande AMP del mondo al largo della punta settentrionale dell’Antartide – aumenterebbe del 104% rispetto agli anni ’90. In uno scenario di emissioni intermedie, l’acqua diventerebbe comunque il 43% più acida.

Precedenti studi hanno dimostrato che il fitoplancton, un gruppo di alghe che costituisce la base della catena alimentare marina, cresce a un ritmo più lento o muore quando l’acqua diventa troppo acida. L’acqua acida indebolisce anche i gusci di organismi come le lumache di mare e i ricci di mare. Questi cambiamenti potrebbero interrompere la catena alimentare, colpendo infine i principali predatori come balene e pinguini.

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L’oceano Atlantico si surriscalda: invisibile strage di specie marine

Meno spettacolare degli incendi in Canada, l’ondata di caldo senza precedenti che sta attualmente colpendo le acque dell’Atlantico provocherà, secondo gli scienziati, un’invisibile strage di specie marine, in un fenomeno estremo che rischia di ripetersi con l’aggravarsi del riscaldamento globale. Tra marzo e maggio, la temperatura media della superficie oceanica ha raggiunto il massimo storico in 174 anni di misurazioni, superando la media del 20° secolo di 0,83°C, secondo i dati della US Oceanographic Administration Noaa.

Questa ondata di caldo marino non ha risparmiato l’Oceano Atlantico, che a giugno ha subito ondate di caldo particolarmente forti dal sud dell’Islanda all’Africa, con anomalie di temperatura di oltre 5°C al largo delle isole britanniche. “Tali anomalie in questa parte del Nord Atlantico sono inaudite“, ha affermato Daniela Schmidt, professoressa di Scienze della Terra all’Università di Bristol, citata dal British Science Media Center. Si tratta di “anomalie estremamente forti, piuttosto eclatanti e preoccupanti”, conferma Jean-Baptiste Sallée, oceanografo e climatologo del CNRS. Questa ondata di caldo marino, con una temperatura superiore ai 23°C nel Nord Atlantico, non sorprende del tutto gli scienziati, i quali sanno che gli oceani assorbono il 90% del calore generato dall’effetto serra. Questo tipo di eventi è quindi destinato a diventare più frequente e intenso sotto l’effetto del riscaldamento globale. “Quello che sorprende è che le cose stiano andando molto velocemente“, osserva però Jean-Pierre Gattuso, direttore della ricerca del Cnrs (Centro nazionale per la ricerca scientifica) e co-curatore di un rapporto del Giec (esperti di clima dell’ Onu). Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questo fenomeno estremo, come la riduzione delle polveri sahariane trasportate dal vento o quella delle emissioni di zolfo delle navi, due tipi di aerosol che normalmente hanno un effetto di raffreddamento dell’atmosfera. Ma “resta allo stato delle ipotesi“, stima Sallée.

Per quanto riguarda il fenomeno El Niño, sembra troppo poco sviluppato per avere un impatto sul Nord Atlantico. “Preferiamo aspettarci un effetto la prossima primavera“, spiega Juliette Mignot, oceanografa dell’IRD (Institute of Research for Development). La ricercatrice ipotizza una possibile “modifica delle correnti marine” ovvero un fenomeno meteorologico che si sovrapporrebbe al riscaldamento globale.

Qualunque sia l’origine di questa ondata di caldo oceanico, gli scienziati si aspettano che causi “mortalità di massa” di specie marine, inclusi coralli e invertebrati. “Ma poiché accade sotto la superficie dell’oceano, passerà inosservato“, si rammarica Schmidt. Durante le ondate di calore nel Mediterraneo, una cinquantina di specie (coralli, gorgonie, ricci di mare, molluschi, bivalvi, posidonia, ecc.) sono state colpite da “massicce mortalità tra la superficie e i 45 metri di profondità“, secondo Gattuso, co -autore di un articolo sull’argomento. Altre specie migreranno piuttosto verso i poli. “Le acque di Norvegia e Islanda, ad esempio, diventeranno più pescose“, a scapito dei Paesi della zona intertropicale, secondo gli scienziati. Riscaldandosi, l’oceano, che cattura un quarto della CO2 emessa dall’uomo, potrebbe anche perdere parte del suo ruolo di pompa del carbone. Ciò avrebbe poi “un effetto amplificante sul riscaldamento atmosferico“, sottolinea Mignot, riferendosi a un “punto di non ritorno“. “Questi punti critici, sappiamo che esistono ma è difficile sapere a quale livello di riscaldamento si innescano”, conferma Sallée. “Sappiamo che potenzialmente, tra 2°C e 3°C di riscaldamento, si possono innescare punti critici“.

Ma “possiamo limitare i danni“, rassicura Gattuso. “Se le emissioni di gas serra seguono una traiettoria compatibile con l’Accordo di Parigi, possiamo fermare completamente il riscaldamento e l’acidificazione dell’oceano”, assicura. “Non è tutto perduto“.

Oceano

Papa: Proteggiamo il mare da inquinamento ed estrazioni

Proteggere il mare dalle mani dell’uomo. E’ la supplica di Papa Francesco in un messaggio inviato all’ottava conferenza ‘Our Ocean‘ di Panama. L’alto mare è considerato “patrimonio comune” dell’umanità, osserva il Papa, e a noi viene chiesto e richiesto di utilizzare gli oceani “in modo equo e sostenibile“, di trasmetterli alle generazioni future “in buone condizioni“.

Il messaggio porta la firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, e tra le righe tutta l’apprensione del Pontefice: “L’inquinamento degli oceani, l’acidificazione, la pesca illegale sono allarmanti e c’è grande preoccupazione per lo sviluppo dell’industria estrattiva sui fondali marini“, si legge. Sono fenomeni che hanno effetti sulla biodiversità, sulla produzione alimentare e sulla salute anche dell’uomo. Sulla terra, l’innalzamento del livello del mare e l’erosione delle coste “minacciano diversi Paesi e i mezzi di sussistenza di molte comunità“, osserva Francesco.

Cosa si può fare di più, meglio, in modo diverso? “Prendere sul serio le implicazioni di ‘Our Connection’ sarebbe saggio e potrebbe offrire spunti di riflessione e di azione“, scandisce, proponendo una visione integrale dell’ecologia, come nell’enciclica Laudato si’.

L’acqua come fattore di connessione. “Vale per i fiumi che irrigano un continente, per le falde acquifere, per gli oceani“. Vale per “il Nostro Oceano“, ribadisce il Papa, quello che non ha confini politici o culturali: “Le sue correnti attraversano il pianeta, evidenziando l’interconnessione e l’interdipendenza tra comunità e Paesi. In molte antiche saggezze e tradizioni religiose esiste un profondo legame tra l’umanità e gli oceani. Siamo una sola famiglia, condividiamo la stessa inalienabile dignità umana, abitiamo una casa comune di cui siamo chiamati a prenderci cura“.

Accordo storico all’Onu: approvato Trattato per protezione Alto Mare

Gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo, nella notte italiana fra sabato e domenica, sul primo Trattato internazionale per la protezione dell’Alto Mare, volto a contrastare le minacce agli ecosistemi vitali per l’umanità. “La nave ha raggiunto la riva“, ha annunciato la presidente della conferenza Rena Lee presso la sede delle Nazioni Unite a New York, tra gli applausi prolungati dei delegati. Dopo oltre 15 anni di discussioni, compresi quattro anni di negoziati formali, la terza sessione finale di New York è stata finalmente quella giusta, o quasi.

I delegati hanno messo a punto il testo, che ora è congelato nella sostanza, ma sarà formalmente adottato in un secondo momento, dopo essere stato controllato dai servizi legali e tradotto nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite. Il contenuto esatto del testo non è stato reso noto immediatamente, ma gli attivisti lo hanno salutato come un momento di svolta per la protezione della biodiversità. L’accordo prevede infatti di collocare il 30% dei mari in aree protette entro il 2030 in modo da salvaguardare migliaia di specie e aiutare gli ecosistemi. “È una giornata storica per la conservazione e un segno che in un mondo diviso la protezione della natura e delle persone può trionfare sulla geopolitica“, ha dichiarato Laura Meller di Greenpeace.

Dopo due settimane di intense discussioni, compresa una maratona di venerdì sera, i delegati hanno finalizzato un testo che non può più essere modificato in modo significativo. “Non ci saranno riaperture o discussioni sostanziali” su questo tema, ha detto Lee ai negoziatori. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si è congratulato con i delegati, salutando una “vittoria del multilateralismo e degli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che minacciano la salute degli oceani, ora e per le generazioni a venire“.

Anche l’Unione Europea ha accolto con favore questo “passo cruciale per preservare la vita marina e la biodiversità che sono essenziali per noi e per le generazioni future”, attraverso il Commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevicius, che si è detto “molto orgoglioso” del risultato.

L’alto mare inizia dove finiscono le zone economiche esclusive (ZEE) degli Stati, a un massimo di 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa e non è quindi sotto la giurisdizione di nessuno Stato. Pur rappresentando oltre il 60% degli oceani e quasi la metà del pianeta, l’alto mare è stato a lungo ignorato nella battaglia ambientale, a favore delle aree costiere e di alcune specie emblematiche. Con il progredire della scienza, è stata dimostrata l’importanza di proteggere gli oceani nel loro complesso, che pullulano di biodiversità spesso microscopica, forniscono metà dell’ossigeno che respiriamo e limitano il riscaldamento globale assorbendo gran parte della CO2 emessa dalle attività umane. Ma gli oceani si stanno indebolendo, vittime di queste emissioni (riscaldamento, acidificazione delle acque, ecc.), dell’inquinamento di ogni tipo e della pesca eccessiva. Per questo il nuovo trattato, quando entrerà in vigore dopo essere stato formalmente adottato, firmato e ratificato da un numero sufficiente di Paesi, consentirà la creazione di aree marine protette in queste acque internazionali.

E’ stato un capitolo molto delicato a cristallizzare le tensioni fino all’ultimo minuto: il principio della condivisione dei benefici per le risorse genetiche marine raccolte in alto mare. I Paesi in via di sviluppo, che non hanno i mezzi per finanziare spedizioni e ricerche molto costose, si sono battuti affinché non fossero esclusi dall’accesso alle risorse genetiche marine e dalla condivisione dei benefici previsti dalla commercializzazione di queste risorse – che non appartengono a nessuno – da cui le aziende farmaceutiche o cosmetiche sperano di ottenere molecole miracolose. Come in altri forum internazionali, in particolare i negoziati sul clima, il dibattito ha finito per essere una questione di equità Nord-Sud, secondo gli osservatori.

foca monaca

In Australia piano per maxi area protetta nell’Oceano per pinguini e foche

Un’area protetta grande come la Germania per pinguini e foche. Il governo australiano sta infatti prevedendo di trasformare in parco marino protetto un’area delle dimensioni della Germania nell’Oceano Antartico, rafforzando le protezioni intorno all’isola di Macquarie per milioni di pinguini e foche. La ministra dell’Ambiente, Tanya Plibersek, ha annunciato che il governo vuole triplicare le dimensioni del parco marino di Macquarie Island, ponendo 388.000 km quadrati sotto protezione. “Si tratta di un contributo significativo a livello globale alla conservazione marina”, ha spiegato la ministra come riporta il Guardian. “Macquarie Island Marine Park è un remoto paese delle meraviglie della fauna selvatica, un habitat critico per milioni di uccelli marini, foche e pinguini“, ha aggiunto Plibersek. “Espandere e aumentare la protezione delle acque che circondano Macquarie Island ci consentirà di gestire meglio questo importante ecosistema per il futuro“. L’isola tra la Tasmania e l’Antartide è un importante luogo di alimentazione e riproduzione per uccelli marini, pinguini e foche. La striscia di terra lunga 34 km e le acque circostanti sono l’habitat di specie tra cui pinguini reali, pinguini saltaroccia meridionali, foche subantartiche, elefanti marini meridionali, albatri sopraccigli neri e procellarie grigie.

Il governo aprirà la proposta alla consultazione pubblica: secondo la ministra l’espansione del parco marino aumenterebbe la quantità di area protetta negli oceani australiani al 48,2% e il piano consentirà la continuazione della piccola pesca dell’austromerluzzo della Patagonia. L’annuncio è stato accolto con favore dagli ambientalisti: “Se approvato, fornirà un rifugio per aiutare le specie iconiche dell’isola ad adattarsi ai cambiamenti climatici“, ha affermato Emily Grilly, responsabile della conservazione dell’Antartide presso il WWF-Australia. Si tratta infatti, ha aggiunto, di “un importante contributo alla conservazione negli oceani dell’emisfero australe, una regione in cui i drammatici impatti dei cambiamenti climatici possono minacciare una fauna selvatica unica”.

Fiona Maxwell, la responsabile nazionale degli oceani per il Pew Charitable Trusts, ha spiegato il parco marino originale era stato istituito nel 1999 e 24 anni dopo si è molto in ritardo per il rinnovo. La proposta “garantisce alla regione il livello di protezione che merita”. Tooni Mahto, direttore delle campagne presso l’Australian Marine Conservation Society, è convinto che l’espansione proposta sarebbe “un importante contributo agli sforzi internazionali per conservare l’Oceano Antartico”. Da tempo la ricca fauna selvatica dell’oceano sta lottando per adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’aumento delle temperature oceaniche e da altre minacce come la pesca.

Ed è proprio il settore ittico a essere il più preoccupato per la proposta, con la Seafood Industry Australia che l’ha descritta come “una cattura dell’oceano finanziata da attivisti internazionali senza basi scientifiche, progettata per offuscare la pesca del pesce dentifricio gestita in modo sostenibile“. “La riprogettazione del parco rappresenta un serio superamento da parte della ministra che invierà onde d’urto attraverso le comunità e le regioni australiane che fanno affidamento sulle proprietà marine per l’occupazione, il turismo e la ricreazione“, ha affermato l’amministratore delegato dell’associazione Veronica Papacosta.

Canada, freno all’estrazione dai fondali marini per preservare l’ecosistema

Il governo canadese ha annunciato giovedì che non permetterà l’estrazione dai fondali marini negli oceani nazionali senza una “rigorosa struttura normativa“. L’annuncio è stato fatto nella giornata conclusiva del Quinto Congresso Internazionale sulle Aree Marine Protette a Vancouver. “Il Canada non dispone attualmente di un quadro giuridico nazionale che consenta l’estrazione dai fondali marini e, in assenza di una solida struttura normativa, non consentirà l’estrazione dai fondali marini nelle aree sotto la sua giurisdizione“, hanno dichiarato in una nota congiunta i ministri delle Risorse naturali, degli Oceani e della Pesca. “È così che garantiremo la salute dei nostri ecosistemi oceanici per le generazioni a venire“, ha aggiunto il ministro dell’Ambiente Steven Guilbeault, aggiungendo che “proteggere il 30% dei nostri oceani deve essere più di un semplice slogan“.

Ottawa ha anche annunciato questa settimana la creazione di una nuova Area marina protetta del Pacifico per preservare una striscia di costa marina di 10 milioni di ettari che si estende dalla cima dell’isola di Vancouver al confine tra Canada e Alaska. Firmato con diverse popolazioni indigene, il piano è anche una componente necessaria dell’obiettivo del Canada di proteggere il 30% della sua terra e del suo oceano entro il 2030. Un impegno fondamentale assunto dai Paesi di tutto il mondo in occasione del Vertice sulla biodiversità di Montreal dello scorso dicembre. “Questo piano è un passo importante per far progredire sia la conservazione dell’ambiente marino che la riconciliazione con le popolazioni indigene“, ha dichiarato Hussein Alidina, esperto di aree marine del WWF Canada. “Dobbiamo ora rivolgere rapidamente la nostra attenzione all’attuazione di queste aree marine protette e fare ciò che è necessario per renderle una realtà“, ha aggiunto.

La regione ospita oltre 64 specie di pesci, 70 specie di uccelli marini, 30 specie di mammiferi marini, tra cui orche, lontre marine e delfini, e 52 specie di invertebrati come molluschi, ricci di mare, polpi e altro.Le nostre nazioni hanno una solida esperienza nel dimostrare che la conservazione guidata dagli indigeni funziona per la natura e per le persone“, ha dichiarato Dallas Smith, portavoce della First Nations Coalition for Responsible Fish Management. “Mentre affrontiamo le sfide urgenti della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico, questo è il modello di cui il mondo ha bisogno ora“, ha aggiunto.

Se Acquaman difende davvero l’Oceano

Jason Momoa corre in soccorso all’Oceano. L’attore americano, noto per il suo ruolo di supereroe marino Aquaman, è arrivato al Sundance Film Festival per presentare il documentario cui ha prestato la voce narrante: ‘Deep Rising’, che denuncia la corsa dei grandi gruppi industriali alla ricerca di metalli rari negli abissi. E l’interprete di origine hawaiana ha colto l’occasione per lanciare l’allarme proprio sui pericoli dell’estrazione nelle profondità. I fondali marini profondi, che assorbono grandi quantità di anidride carbonica, sono ambiti per i loro depositi di metalli rari utilizzati in applicazioni industriali ed elettroniche.

I sostenitori dell’estrazione dai fondali marini sostengono che la raccolta dei noduli polimetallici, che contengono nichel e cobalto utilizzati nelle batterie per auto, può contribuire a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Ma ambientalisti e scienziati temono che, oltre ai rischi per le specie vulnerabili in queste aree, ci sia anche quello di degradare gli ecosistemi marini, che svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del clima. Diversi Paesi hanno chiesto una moratoria o un divieto di questo sfruttamento.

“Ci sono stati momenti in cui ho pianto e sono stato preso dall’emozione” durante la narrazione, ha raccontato Momoa all’Afp prima dell’anteprima mondiale del documentario. “È molto importante usare il proprio potere a fin di bene. Si tratta di cose che mi appassionano”, ha aggiunto l’attore, che ha seguito corsi di biologia marina durante gli studi ed è stato nominato ambasciatore della vita sottomarina dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente. Per Jason Momoa, guardando questo film “devi farti delle domande”, discuterne “e dire a te stesso: ‘Dobbiamo ripensare tutto'”.

Oceano

Allarme clima, l’Oceano ribolle. Il 2022 segna un nuovo record di riscaldamento

Il riscaldamento dell’Oceano segna, per il settimo anno consecutivo, un nuovo record. Lo denuncia lo studio ‘Another year of record heat for the oceans’, pubblicato sulla rivista ‘Advances in Atmospheric Science’.
Nello specifico, il contenuto di calore dell’Oceano (OHC, Ocean Heat Content) stimato nel 2022 tra la superficie e i 2000 metri di profondità, è aumentato di circa 10 Zetta Joule (ZJ) rispetto al valore record raggiunto nel 2021, equivalenti a circa 100 volte la produzione mondiale di elettricità nel 2021, circa 325 volte quella della Cina, 634 volte quella degli Stati Uniti e poco meno di 9.700 volte quella dell’Italia. Per dare un’idea della enormità del valore di energia accumulato, 10 ZJ di calore possono mantenere in ebollizione 700 milioni di bollitori da 1,5 litri di acqua per tutta la durata dell’anno.
Questo aumento esponenziale della temperatura delle acque è accompagnato da un aumento della stratificazione e dalla variazione di salinità, che prefigurano quale sarà il futuro del mare in un clima in continuo riscaldamento.

L’articolo, firmato da un team internazionale di 24 ricercatori di 16 istituti – tra cui Simona Simoncelli dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e Franco Reseghetti dell’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) – analizza osservazioni, dagli anni ’50 a oggi, appartenenti a due dataset internazionali: il primo dell’Institute of Atmospheric Physics (IAP) della Chinese Academy of Sciences (CAS), il secondo del National Centers for Environmental Information (NCEI) della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA).

“Il riscaldamento globale dell’Oceano continua e si manifesta sia con nuovi record del contenuto termico delle acque ma anche con nuovi valori estremi per la salinità. Le aree già salate diventano ancora più salate mentre le zone con acque più dolci diventano ancora meno salate: c’è un continuo aumento dell’intensità del ciclo idrologico”, spiega il professor Lijing Cheng dell’Accademia Cinese delle Scienze, primo autore del lavoro.
Tra le tante conseguenze, l’aumento della salinità e della stratificazione dell’Oceano può alterare il modo in cui il calore, il carbonio e l’ossigeno vengono scambiati tra l’Oceano e l’atmosfera. Questo è un fattore che può causare la deossigenazione all’interno della colonna d’acqua che suscita forte preoccupazione, non solo per la vita e gli ecosistemi marini, ma anche per gli esseri umani e gli ecosistemi terrestri.
Quanto al Mediterraneo, si conferma il bacino che si scalda più velocemente tra quelli analizzati nello studio ma il contenuto di calore nel 2022 si attesta allo stesso livello del 2021 secondo le stime dello IAP-CAS (Institute of Atmospheric Physics, Chinese Academy of Sciences). I dati del modello di rianalisi del Mediterraneo prodotti e distribuiti dal servizio marino europeo Copernicus indicano invece una sua diminuzione rispetto al 2021. Queste differenze possono attribuirsi alle diverse tecniche di elaborazione dei dati e alla loro distribuzione spazio-temporale. Variazioni di breve periodo (inter-annuali) sono comunque parte caratteristica del sistema ed ulteriori approfondimenti sono attualmente in corso.

“Ingv ed Enea collaborano già nell’ambito del progetto Macmap, finanziato da Ingv e condotto in collaborazione con la Grandi Navi Veloci (Gnv), che punta a studiare il cambiamento climatico attraverso il monitoraggio su base stagionale della temperatura dei Mari Ligure e Tirreno lungo la tratta Genova-Palermo e ad analizzare i dati di rianalisi e i modelli climatici che vanno dal 1950 al 2050”, evidenzia Simona Simoncelli dell’Ingv.
“La collaborazione con questo team internazionale, in particolare con il professor Cheng, ci permette di mantenere alta l’attenzione sul riscaldamento globale e il suo impatto sull’Oceano e di conseguenza sull’uomo e le attività economiche ad esso strettamente correlate”, aggiunge Franco Reseghetti dell’Enea. “Riteniamo che continuare a monitorare sistematicamente questi cambiamenti nell’Oceano rimanga l’unico modo per comprendere ed essere maggiormente consapevoli delle loro conseguenze e per poter elaborare strategie efficaci di mitigazione e adattamento”.

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Plancton oceanico: una straordinaria ‘zuppa di microbi’

In ogni litro di acqua marina vivono tra i 10 e i 100 miliardi di organismi viventi. Ma questo “microbioma oceanico“, che ha reso il pianeta abitabile, rimane in gran parte sconosciuto. Una missione scientifica, condotta con la marina francese, punta a scoprirlo. “Il microbioma del pianeta Terra è l’argomento del secolo“, afferma Colomban de Vargas, direttore della ricerca presso la stazione biologica del CNRS a Roscoff (Finistère).

Questo signore svizzero, “ossessionato dall’esplorazione“, si è impegnato a mappare il plancton oceanico, quella grande “zuppa di microbi” composta da virus, batteri, animali, ecc. Queste “foreste invisibili“, che navigano insieme alle correnti oceaniche, hanno reso il pianeta abitabile producendo la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo. “La biodiversità è soprattutto microbica. Per tre miliardi di anni ci sono stati solo microbi“, afferma il ricercatore. Tuttavia, “non sappiamo con chi viviamo o quanti microbi ci siano sulla Terra“.

Traendo insegnamento dalla missione “Tara Oceans“, che ha già effettuato 220 misurazioni di microrganismi marini, Colomban de Vargas e i suoi colleghi ricercatori vogliono realizzare una “misurazione cooperativa, frugale, planetaria e perenne” di questa invisibile vita oceanica. A lungo termine, l’obiettivo è quello di affidare, attraverso il progetto Plankton Planet, strumenti di misura e sensori poco costosi alle decine di migliaia di barche a vela, navi commerciali e trasportatori di merci che attraversano il pianeta. L’obiettivo è comprendere “l’adattamento degli organismi viventi ai brutali cambiamenti” imposti dalle attività umane. “Non è facile perché la misurazione deve essere omogenea. Tutto dipenderà dalla qualità di questa misurazione“, sottolinea Colomban de Vargas.

È qui che entra in gioco la missione Bougainville, realizzata in collaborazione con la marina francese, per consolidare l’affidabilità dei “sensori frugali” del plancton. Sulla scia della circumnavigazione del globo compiuta dall’esploratore Louis-Antoine de Bougainville sulla Boudeuse nel 1766-1769, dieci studenti del Master dell’Università della Sorbona si imbarcheranno sulle navi della Marina francese come ‘ufficiali della biodiversità’. “È importante vivere l’oceano quando lo si studia“, afferma l’ammiraglio Christophe Prazuck, direttore dell’Ocean Institute dell’Università Sorbona, che ha creato un collegamento tra la Marina e il mondo della ricerca. Gli studenti attraverseranno così gli 11 milioni di km2 della Francia oceanica (20 volte la Francia terrestre) negli oceani Indiano e Pacifico, a bordo di tre Bâtiments de soutien et d’assistance outre-mer (BSAOM).

(Photo credits: JEAN-LOUIS MENOU / AFP)