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Allarme siccità, Anbi-Coldiretti: Acqua insufficiente e made in Italy a rischio

Da 4 mesi che non c’è una goccia d’acqua, il Po è un rigagnolo, i fiumi sono diventati torrenti, le montagne hanno perso 3 metri di neve che erano la nostra riserva, il rubinetto“. Quello di Alessandro Folli presidente di Anbi Lombardia, non è più un campanello d’allarme ma quasi una ‘chiamata alle armi’ per istituzioni, consorzi di bonifica, associazioni di categoria e stakeholder. La grande sete assedia infatti città e campagne, il Po sta vivendo un periodo di siccità come mai negli ultimi 70 anni. Sono spariti 3 metri di neve dalle montagne, i laghi si svuotano e nei campi, ormai disidratati, la siccità ha già provocato danni che Coldiretti quantifica in 2 miliardi di euro.

Proprio la principale associazione dell’agricoltura italiana ha ribadito quali sono le priorità durante il convegno ‘Sicurezza alimentare e qualità delle risorse idriche: opportunità della normativa europea sul riuso delle acque depurate in agricoltura’ organizzato a Milano da Anbi e Anbi Lombardia. Il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, ha esordito con una stoccata alla politica e ai decision-makers: “La situazione della siccità è altamente critica – ha spiegato – e negli anni la politica si è seduta e ha lavorato solo sulle emergenze, ma noi da tempo chiediamo investimenti significativi per bacini di accumulo. Si era ritenuto che fosse un’esigenza secondaria“. Ma non bisogna solo dare risposte sull’emergenza ha spiegato il presidente di Coldiretti, nel suo videocollegamento a Palazzo delle Stelline: “Dobbiamo essere lungimiranti perché senza soluzioni, la crisi che stiamo affrontando porterà a un’esplosione dei costi dei prodotti trasformati e commercializzati. Costi già in aumento per i prezzi dell’energia e per indisponibilità, ad esempio, di fertilizzanti“.

Se in ordine di priorità le necessità umane sono al primo posto, immediatamente dopo c’è l’agricoltura: “Non dobbiamo perdere il vantaggio competitivo dell’export agroalimentare Made in Italy, dobbiamo creare occasioni per produrre di più, specialmente in periodi come questi”. Secondo Prandini, “destinare acqua all’agricoltura non è fare una cortesia a noi di Coldiretti perché lo chiediamo da anni, ma significa avere visione e lungimiranza. Questo chiediamo alle istituzioni: uscire da questa logica dell’emergenza. Necessario è pianificare a medio-lungo periodo affinché si possa trattenere il massimo dell’acqua piovana e delle acque reflue“. Per Coldiretti “raccogliamo solo l’11% dell’acqua piovana e potremmo arrivare al 50% evitando così situazioni di crisi come quella che stiamo soffrendo”.

Uno sforzo di collaborazione e confronto è quello chiesto dalla stessa Anbi. “Sono anni che a livello nazionale si parla di riutilizzo acqua – ha chiarito Folli – ma le utility hanno i depuratori che poi scaricano l’acqua: il confronto dev’essere serio tra coloro che danno acqua all’agricoltura e coloro che depurano le acqua come enti locali e le stesse utility“. Oltre all’utilizzo massimo delle acque reflue, la soluzione proposta anche da Coldiretti è un piano di investimento lungimirante su reti di invasi e bacini di accumulo. “È necessario creare le condizioni per recuperare le acque depurate e al contempo avere la consapevolezza che tutte le difficoltà che stiamo vivendo ricadranno sul nostro mondo“, ha denunciato Prandini, secondo cui “le parole fanno la differenza. Chiedere lo stato di calamità è un errore perché ci fermiamo a evidenziare solo i danni economici alle imprese. E servono 2-3 anni per i ristori che sono comunque cifre esigue. Dobbiamo invece chiedere lo stato di emergenza collegato all’intervento della Protezione civile per ridurre i passaggi burocratici e coinvolgere tutti i soggetti, dalle Regioni ai Comuni fino ai Consorzi di bonifica“. Questo è peraltro ciò che ha chiesto lo stesso Prandini al premier Mario Draghi in una lettera.

Parla di situazione “abbastanza grave” anche il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. “Noi stiamo attenzionando questo problema da un mese e mezzo e abbiamo già raggiunto nei mesi scorsi degli accordi con gli agricoltori per realizzare interventi che utilizzino nel modo migliore la poca acqua di cui disponiamo” spiega Fontana, intervistato da GEA. Per fare un esempio, “abbiamo concordato con loro di rinviare alcune semine per darci la possibilità di raccogliere maggiore acqua nei laghi che poi abbiamo rilasciato al momento opportuno”. Ma anche con i gestori dei bacini idroelettrici sarebbe già stato raggiunto un accordo sul “rilascio graduale di una quantità importante di acqua che deve servire proprio in questi giorni per mantenere le irrigazioni”. Il problema, secondo Fontana, è che “si possono realizzare tutte le alchimie di questo mondo, ma se manca la materia prima che è l’acqua, prima o poi anche le alchimie rischiano di saltare”. Le prospettive effettivamente non sono rosee data l’assenza ulteriore di precipitazioni per un minimo di almeno 10-12 giorni. Perciò ogni minuto per arginare l’emergenza diventa prezioso e a breve si riunirà nuovamente il tavolo con i ministri dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, e della Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

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Possiamo scegliere tra desertificazione e benessere: chi ha dubbi?

Il primo Piano di Azione di lotta alla desertificazione venne varato dalle Nazioni Unite nel 1977. Nel 1997, il Governo italiano ha istituito il Comitato Nazionale per la Lotta alla siccità ed alla Desertificazione. Il 22 luglio 1999 sono state varate le Linee-Guida del Programma di Azione Nazionale di lotta alla siccità e desertificazione. In tutti questi anni, però, ai Governi (e non a questi organismi) è mancato qualcosa di molto importante: il coraggio e la volontà di fare scelte risolutive. Scelte che devono avere un unico obiettivo: ridurre la concentrazione di CO2 in atmosfera. E oggi ci ritroviamo, come ampiamente previsto, a vivere gravissime crisi idriche.

La siccità di questi giorni sta svelando uno spettacolo sconfortante e irritante allo stesso tempo. Non quello dei raccolti che rischiano la distruzione: quella è una realtà drammatica, non è uno spettacolo, non è sconfortante e neppure irritante. L’incredibile spettacolo a cui mi riferisco, che dovrebbe irritare tutti noi, è quello delle dichiarazioni sorprese, del tono emergenziale come se quanto sta accadendo fosse un evento totalmente inatteso. Dovrebbe irritarci ma anche farci riflettere sullo scarsissimo interesse mostrato da gran parte della popolazione per questi temi, gli unici davvero vitali.

Spiace per chi ha creduto agli speculatori che fino a ieri hanno negato l’evidenza e gridato al catastrofismo quando qualcuno parlava di gravi rischi, ma la scienza ci avverte da quasi 40 anni che la desertificazione avanza anche nel nostro Paese, anche nelle aree storicamente più ricche d’acqua. Quella straordinaria risorsa di biodiversità, di acqua e di materie prime che sono le Alpi soffre da decenni lo scioglimento dei ghiacciai e l’estinzione di specie: segnali chiarissimi di un’evoluzione catastrofica (e non catastrofista) della situazione. Quando si parla di ghiacciai che si sciolgono, si parla della nostra vita futura – agricoltura, manifattura, turismo – che svanisce, anche nelle pianure circostanti. E cosa succede alle aree del Sud già storicamente colpite dalla carenza d’acqua? In questi giorni l’invasione di cavallette nel Nuorese ci fornisce un altro esempio di fenomeni che hanno conseguenze gravissime, ma che solo gli stolti possono definire imprevisti o emergenze.

Non dobbiamo più tollerare le risposte supponenti di chi non ha fato nulla sino ad oggi, di coloro che addirittura hanno negato e pretendono di proporre nuovamente ricette farlocche, inconcludenti, dilatorie. Le necessità sono chiare: non sono soltanto ristori per chi è colpito con la perdita dei raccolti. Dobbiamo ridurre la concentrazione di CO2 presente nell’atmosfera perché restando con la concentrazione attuale (siamo arrivati a oltre 400 parti per milione, i record precedenti quasi 1000 anni fa erano di 284) staremo sempre peggio. Molto semplicemente.

Dobbiamo farlo in maniera massiccia e farlo più in fretta possibile. Invece, ci tocca sentire penose litanie sul fatto che trasformare la mobilità privata entro il 2035 metterebbe a rischio la nostra economia. O che investire sulle risorse rinnovabili sia poco conveniente: cosa c’è di più conveniente della vita?

Dobbiamo chiederci: nel 2035, proseguendo di questo passo, quante industrie potranno ancora esistere nel nostro Paese, senza acqua? Che agricoltura potremo ancora proporre? Che turismo? Quindi: che lavoro potrà esistere, quale benessere? Un po’ di coraggio, un po’ di ambizione, un po’ di ottimismo: facciamo la rivoluzione ecologica!

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La grande sete dell’Italia. In Piemonte 170 Comuni in crisi

Sale la temperatura, di pioggia non se ne vede da mesi e l’Italia ha sempre più sete, con 15 milioni di persone sottoposte a stress idrico. Da nord a sud il grido di allarme è unanime: è una calamità. E i prossimi mesi saranno ancora più critici.

La situazione peggiore è al nord, con il Piemonte che ha già chiesto lo stato di calamità per l’agricoltura, oltre ad aver annunciato il rilascio di acque dai bacini utilizzati per produrre energia idroelettrica a supporto dell’irrigazione e la deroga al minimo deflusso vitale dei fiumi. Decisioni prese nel corso dell’insediamento del tavolo permanente voluto dal governatore Alberto Cirio per monitorare e affrontare la situazione di emergenza e del quale fanno parte le organizzazioni agricole, i consorzi irrigui, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, le Autorità d’ambito del servizio idrico integrato e l’Anbi (Associazione nazionale Bonifiche Irrigazioni Miglioramenti Fondiari). Cirio ha ricordato che “stiamo vivendo una crisi idrica peggiore di quella del 2003” e “il secondo maggio più caldo dal 2009 negli ultimi 65 anni“. Il Po sta pagando le conseguenze peggiori, con un portata d’acqua inferiore al 72% rispetto alla norma. Sulle Alpi non c’è neve, gli affluenti sono secchi e il Grande Fiume non è in grado di soddisfare la domanda degli agricoltori. Verso est, il suo Delta è salato per più di 15 chilometri. Da qui la decisione di agire, in accordo con i gestori degli invasi, “per rilasciare un quinto delle acque contenute nei bacini idroelettrici, operazione che permetterebbe di garantire 15-20 giorni di respiro e salvare il raccolto e le produzioni agricole grazie all’aumento della portata dei fiumi e dei canali di irrigazione“.

Ma il peso della grande sete sta gravando anche sui cittadini. Sono 170 i Comuni piemontesi in cui sono state emanate ordinanze per l’uso consapevole dell’acqua potabile e limitazione agli usi domestici. Vietato, insomma, utilizzare l’acqua per innaffiare i giardini o per attività non destinate alla cucina e all’igiene personale. In 10 Comuni della provincia di Novara, inoltre, è stato interrotto il flusso di acqua potabile durante la notte. Va meglio a Torino città, dove – assicura il sindaco Stefano Lo Russo – “non ci sono criticità tali da compromettere la somministrazione di acqua potabile alla popolazione“. La siccità, però, spiega il primo cittadino, potrebbe durare a lungo ed è fondamentale “la programmazione degli interventi come la manutenzione delle reti, gli invasi, le opere di mitigazione, di stoccaggio e di accumulo, che devono essere messe in campo“. Altre Regioni si stanno attivando per chiedere lo stato di calamità che, pur non potendo prevenire situazioni del genere, consente, come ha ricordato Cirio, di dare ai governatori “la celerità e l’elasticità nell’adottare decisioni emergenziali, un po’ come è successo con il Covid“.

La mappa della sete non risparmia nessuno. Dalla Lombardia alla Sicilia, dal Piemonte al Molise, dal Veneto al Lazio, dalla Toscana alla Puglia la siccità stringe in una morsa i campi e i raccolti del 2022. Secondo le stime di Coldiretti i danni all’agricoltura ammontano a 2 miliardi di euro e per la Cia “è a rischio fino al 50% della produzione agricolanel nord Italia. In Lombardia Enel rilascerà subito, per almeno 10 giorni, 200.000 metri cubi di acqua al giorno per il fiume Brembo e 250.000 metri cubi di acqua al giorno per il fiume Serio, così da dare sollievo agli agricoltori.

La siccità, ha ricordato Legambiente, negli ultimi 25 anni è costata all’Italia 5 miliardi di dollari e questa nuova ondata rischia di far diventare il conto ancora più salato.

È la Giornata mondiale contro la siccità: e in Italia scatta l’allarme

In Italia la grande sete avanza. Se la situazione al Nord è talmente grave da aver portato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, a chiedere a Roma lo stato di calamità per l’agricoltura, gli effetti della siccità iniziano a estendersi rapidamente anche al Centro. Più di un quarto del territorio nazionale (28%) è a rischio desertificazione e la siccità è “solo la punta dell’iceberg di un processo che mette a rischio la disponibilità idrica nelle campagne e nelle città“, denuncia Coldiretti.

La situazione a livello nazionale è monitorata con molta attenzione dagli osservatori permanenti sugli utilizzi idrici che sono stati istituiti con protocolli d’intesa inter-istituzionali con le amministrazioni locali competenti. Lo scenario è uno dei peggiori che si possano prevedere“, informa il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Il ministero sta costituendo un tavolo politico istituzionale “di alto profilo alla presenza di tutte le autorità di bacino per fare un quadro d’insieme sulla scala dell’intero Paese, l’attenzione è costante“, assicura. L’obiettivo a stretto giro sarà ridurre le perdite di acqua e potenziare la collezione di acque piovane, creando un certo numero di bacini: “Basterebbe un quarto della piovosità nazionale per soddisfare il fabbisogno agricolo“, afferma il ministro.

L’Autorità distrettuale del fiume Po la definisce “la peggior crisi da 70 anni: “La portata del fiume sarà ancora più bassa nelle prossime settimane“, avverte il segretario Meuccio Berselli. Il delta è stato “conquistato” ormai per 30 chilometri dalla risalita del cuneo salino e lungo tutta l’asta registra una “magra” epocale.

Ai sindaci di un centinaio di Comuni piemontesi e di almeno 25 Comuni della provincia di Bergamo è stato già chiesto di emanare ordinanze per il contingentamento dell’acqua. In Lombardia i produttori idroelettrici da oggi aumentano i rilasci dell’acqua a supporto dell’agricoltura.

È una situazione complessa soprattutto nelle parti montane e pedemontane del nostro territorio, l’assenza di precipitazioni nevose in inverno e la siccità prolungata poi hanno svuotato i serbatoi idrici“, aveva spiegato il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. Che non aveva immediatamente lanciato l’allarme sul capoluogo, ma che aveva spiegato che “ci stiamo rendendo conto di quanto sia importante questo bene prezioso e di quanto sia importante la programmazione“. E non aveva negato il rischio di stato di calamità: “È inutile affermare il contrario. Al momento la situazione è sotto controllo, noi come città metropolitana abbiamo chiesto ai colleghi sindaci di emettere ordinanze sul contingentamento. Aiuteranno, ma dobbiamo metterci in sicurezza qualora questo periodo dovesse continuare”.

L’Osservatorio Anbi sulle Risorse Idriche evidenzia in maniera massiva le conseguenze dei cambiamenti climatici sull’intera Penisola. Il secondo fiume della Toscana, l’Ombrone, è ridotto ormai a uno “stato torrentizio” dopo mesi di sofferenza. La portata è di 890 litri al secondo, quando il minimo per garantire la vita in alveo è indicato in 2mila litri al secondo. Nelle Marche, il fiume Sentino tocca già il minimo storico (-37 centimetri), registrato nell’Agosto 2021, anno considerato idricamente critico per la regione; anche Esino e Nera sono ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni. In Umbria, i il fiume Tevere, nel suo tratto iniziale, registra il livello più basso (35 centimetri) dal 1996. Continua a restare basso nel Lazio, dove però è ancora più grave la situazione dell’Aniene, ridotto ad una portata di circa 3mila litri al secondo contro una media di oltre 8mila. Non va meglio ai laghi: in una settimana, il Maggiore si è abbassato di 20 centimetri, il Lario di oltre 30 e l’Iseo di 7. In Lombardia sono ormai completamente esaurite, con due mesi d’anticipo, le riserve di neve.

Sulla situazione e le possibili soluzioni, oggi, giornata mondiale della Siccità e della desertificazione, si tiene un convegno alla Camera con Federica Daga e il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli.

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FIUME PO

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Delta del Po sempre più salato a causa della siccità. A rischio acqua potabile

Il Delta del Po è sempre più salato, tanto da portare alla sospensione dell’irrigazione in alcune zone di Porto Tolle ed Ariano, nel Polesine rodigino, dove sono state attivate pompe mobili d’emergenza per garantire la sopravvivenza delle colture. Lo rende noto l’Anbi, spiegando che la risalita del cuneo salino lungo il fiume supera ormai i 15 chilometri. La causa è la siccità: al rilevamento di Pontelagoscuro il Po è sceso al di sotto dei minimi storici, toccando i 301,6 metri cubi al secondo, molto al di sotto della soglia critica, fissata a mc/sec 450.

È un fenomeno invisibile, ma che sta sconvolgendo l’equilibrio ambientale del delta polesano – commenta Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue – Se la situazione persisterà, entro la settimana prossima saranno contaminate le prime falde destinate all’uso potabile”.

Molto grave è la situazione idrica anche nel resto del Veneto, dove tutti i corsi d’acqua, ad eccezione del Bacchiglione, registrano decrescite vertiginose: il bollettino pluviometrico regionale segnala come, a maggio, il deficit sia stato del 46%, mentre in alcuni bacini si sia arrivati addirittura ad oltre il 70% (Lemene -77%, Pianura tra Livenza e Piave – 73%) o poco meno (Tagliamento -67%, Sile -61%). L’indice SPI (Standardized Precipitation Index) annuale certifica una regione in larga parte colpita da estrema siccità. Il secondo fiume italiano, l’Adige, ad esempio, alla stazione di Boara Pisani segna un livello idrometrico inferiore di oltre 2,20 metri rispetto a quello dell’anno scorso e di circa un metro rispetto al 2017.

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Scipione, aiutaci a scacciare gli Inattivisti

Ci prepariamo a un’altra forte ondata di caldo e di siccità, lo potete leggere anche nei nostri articoli e lanci di agenzia. È l’occasione per ricordarci di stare all’erta nei confronti del cosiddetto ‘inattivismo’, il veleno più tossico a cui dobbiamo far fronte mentre siamo alle prese con il cambiamento climatico. Ne parlava una ricerca pubblicata due anni fa (l’1 luglio 2020) dalla Cambridge University Press: Discourses of climate delay (William F. Lamb et altri), ovvero ‘Discorsi sul ritardo climatico’). Ne ha parlato anche il climatologo Michael Mann nel suo libro ‘La guerra del clima’.

Lamb e i suoi colleghi scrivevano che “I ‘discorsi sul ritardo climatico’ pervadono gli attuali dibattiti sull’azione per il clima. Questi discorsi accettano l’esistenza del cambiamento climatico, ma giustificano l’inazione o gli sforzi inadeguati. Nelle discussioni contemporanee su quali azioni dovrebbero essere intraprese, da chi e con quale velocità, i sostenitori del ritardo climatico sostengono la necessità di un’azione minima o di un’azione intrapresa da altri. Concentrano l’attenzione sugli effetti sociali negativi delle politiche climatiche e sollevano il dubbio che la mitigazione sia possibile”. In pratica, non abbiamo ancora capito nulla. Gli stessi che fino a pochissimo tempo fa negavano l’esistenza stessa del cambiamento climatico, oggi non possono più farlo di fronte all’evidenza assoluta ma trovano un altro modo per ostacolare ogni possibile azione. Lo fanno, spiegano i ricercatori, sostenendo che qualcun altro deve iniziare ad agire prima di me/noi, che non è possibile mitigare il cambiamento climatico, che un cambiamento radicale non è necessario, che il cambiamento sarà devastante, enfatizzante ogni possibile effetto negativo del cambiamento e ‘dimenticando’ tutti gli effetti positivi (anche economici e geopolitici) compreso il fatto che la direzione in cui stiamo andando senza cambiamenti renderebbe la vita umana sempre più complessa.

Oggi siamo già in attesa di Scipione. Parliamo di un anticiclone, ovvero una zona di alta pressione in cui la condizione meteorologica è stabilmente serena. Si prospettano temperature fino a 40 gradi e soprattutto l’acuirsi della siccità, già grave date le scarse precipitazioni invernali e le ormai quasi esaurite riserve di neve in alta montagna (anch’essa scarsissima nel corso dello scorso inverno).

L’emergenza è seria e tra gli altri ce lo ricordano le associazioni degli agricoltori che hanno già lanciato l’allarme perché sono a rischio coltivazioni di cereali e frutta. Ma ce lo hanno ricordato nei giorni scorsi i gestori dei rifugi alpini, che potrebbero non avere acqua (o energia) già a fine giugno anticipando gli effetti di quanto potrebbe accadere più a valle. E ce lo hanno ricordato gli scienziati che hanno rilevato la mancano di due metri di neve su uno dei ghiacciai del Gran Paradiso, in Valle d’Aosta.

Ma l’inattivismo è in agguato, sempre. E assume risvolti grotteschi. Mentre ascolto e leggo questa serie di appelli mi torna alla mente un episodio: l’intervista ascoltata – incredulo – in tv a Pasqua, quando il presidente di una delle società che gestiscono impianti sciistici sulle Alpi (inutile fare il nome, interessa il concetto non la gogna sulla persona) tracciava gongolante un bilancio della stagione: “È andata benissimo, per noi l’assenza di precipitazioni è stata un bene perché c’era sempre il sole e quindi eravamo regolarmente pieni di sciatori. La neve potevamo spararla con i cannoni, tanto l’acqua da queste parti per il momento non manca”. Va bene la soddisfazione per il risultato economico positivo, ma vantare anche un disastro ambientale come fattore positivo mi è parso davvero incredibile. Speriamo che Scipione ci aiuti almeno a cancellare un po’ di Inattivismo.

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Corno d’Africa, una catastrofe: 20 milioni di persone a rischio fame

A un mese dall’inizio – almeno sul calendario – della stagione delle piogge, nel Corno d’Africa la situazione è sull’orlo della catastrofe. Non piove da mesi e se questa condizione dovesse proseguire, il numero di persone a rischio fame a causa della siccità potrebbe aumentare vertiginosamente dalla stima attuale di 14 milioni a 20 milioni entro il 2022. È l’allarme lanciato dal World Food Programme dell’Onu.

A RISCHIO SOMALIA, KENYA ED ETIOPIA

In Somalia, spiega l’Onu, il 40% della popolazione sta vivendo in una condizione di estrema insicurezza alimentare, che al momento non vede spiragli di miglioramento. In Kenya, mezzo milione di persone, soprattutto nella zona nord del paese, la cui economia si basa principalmente sul bestiame, sono ormai dirette verso una “grave crisi alimentare” e in Etiopia, già devastata da una guerra che dura da 17 mesi, la malnutrizione ha giù superato i livelli di emergenza.

AGIRE SUBITO, MA MANCANO RISORSE

L’agenzia dell’Onu ha stimato che servirebbe un finanziamento di almeno 438 milioni di euro nei prossimi sei mesi per sostenere quest’area dell’Africa, una delle zone più povere del mondo. “Sappiamo dall’esperienza passata che è vitale agire in anticipo se si vuole evitare una catastrofe umanitaria, tuttavia fino ad oggi la nostra capacità di risposta è stata limitata dalla mancanza di fondi”, ha detto Michael Dunford, Direttore regionale del WFP per l’Africa orientale. “È dall’anno scorso – ha aggiunto – che il WFP e altre agenzie umanitarie continuano a rivolgersi alla comunità internazionale, ma le misure richieste non si sono mai concretizzate nei fondi necessari”.

L’IMPATTO DELLA GUERRA IN UCRAINA

La situazione è resa ancora più grave dalle ricadute del conflitto in Ucraina, con il costo del cibo e del carburante alle stelle. Il Corno d’Africa sarà probabilmente l’area più colpita dall’impatto della guerra: il costo del paniere alimentare è già aumentato, in particolare in Etiopia (+66%) e Somalia (+36%), due Paesi che dipendono fortemente dal grano proveniente dal bacino del Mar Nero. Allo stesso tempo, il conflitto ha contribuito all’aumento dei prezzi di cibo e di carburante e all’interruzione delle catene di approvvigionamento.

LA PIU’ GRAVE SICCITA’ DAL 1981

In Etiopia si sta verificando la più grave siccità dal 1981: milioni capi di bestiame sono morti e i raccolti non hanno dato i loro frutti. Nel sud del Paese sono oltre 7 milioni le persone che si svegliano affamate ogni giorno. Il WFP è sul campo con attività di assistenza alimentare e nutrizionale di emergenza, programmi di alimentazione scolastica, adattamento ai cambiamenti climatici e attività di costruzione della resilienza. L’agenzia dell’Onu ha stimato un fabbisogno di di 239 milioni di dollari nei prossimi sei mesi per rispondere all’emergenza.

INSICUREZZA ALIMENTARE PER 3 MILIONI DI KENIOTI

In Kenya, in meno di due anni, il numero di persone bisognose di assistenza è più che quadruplicato. Secondo lo Short Rains Assessment, la rapida escalation della siccità ha lasciato 3,1 milioni di persone in condizioni di grave insicurezza alimentare, tra cui mezzo milione che stanno affrontando livelli di fame di emergenza. Il WFP ha urgentemente bisogno di 42 milioni di dollari per i prossimi sei mesi per soddisfare i bisogni delle comunità più colpite nelle parti settentrionali e orientali del Paese.

IL DRAMMA DELLA SOMALIA

In Somalia, circa 6 milioni di persone (il 40% della popolazione) vive in condizioni di insicurezza alimentare acuta e senza la pioggia il numero è destinato a crescere. L’Onu ha già avviato programmi speciali di assistenza alimentare e nutrizionale di emergenza per sostenere almeno 3 milioni di persone entro fine giugno. Ma senza nuovi fondi non sarà possibile sostenere il resto della popolazione.

Maltempo

Dopo crisi siccità è allarme pioggia. Anbi: “Rete idraulica inadeguata”

È un paradosso, ma dopo la siccità ci preoccupano le piogge”. A dirlo è Francesco Vincenzi, Presidente dell’Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue (Anbi), evidenziando lo stato di grande attenzione, nel quale stanno operando i Consorzi di bonifica alla vigilia dell’annunciato ritorno del maltempo; in tutta Italia sono in corso le manovre idrauliche necessarie a gestire, ma soprattutto a trattenere le tanto attese acque pluviali.

Il rischio – prosegue il presidente di Anbi – è che di fronte ad eventi violenti e concentrati come ci sta abituando la tropicalizzazione del clima italiano, terreni inariditi da un inverno eccezionalmente asciutto non riescano ad assorbire la massa d’acqua, trasformandosi in un amplificatore del rischio idrogeologico, che ormai interessa il 94% dei comuni italiani su un territorio, dove mediamente si continuano a cementificare o abbandonare 16 ettari al giorno. Della legge contro l’indiscriminato consumo di suolo si sono ormai perse le tracce nei meandri parlamentari”.

La resilienza idraulica lungo la Penisola è affidata ad oltre 200.000 chilometri di canali con più di 800 centrali idrovore e migliaia di impianti idraulici, dalla cui azione dipende la vivibilità su circa 7 milioni di ettari. “Da tempo – aggiunge Massimo Gargano, direttore generale di Anbi –segnaliamo la crisi della rete idraulica, ormai inadeguata di fronte all’estremizzazione degli eventi atmosferici, principale causa dei 7 miliardi di danni, provocati mediamente ogni anno da accadimenti di origine naturale, cui va aggiunto circa un miliardo di mancata produzione agricola a seguito della siccità. Per questo – aggiunge – il Piano di bacini di accumulo, Piano laghetti che Coldiretti ed Anbi intendono realizzare, costituisce la risposta in termini di infrastrutture e di capacità di invaso della risorsa quando è in eccesso, per averla poi a disposizione in periodi di siccità. Vi sarebbero tutta una serie di valori che si andrebbero a realizzare, acqua per uso civile, energetico, ambientale ed irriguo, in grado di contrastare il dissesto idrogeologico per tutti i cittadini, di fornire acqua alle imprese e creare occupazione. Nel frattempo, guardiamo il cielo, impegnati, come ogni giorno, a gestire una situazione idraulicamente sempre più complessa”.

Incendi

Inizio anno ‘di fuoco’. In Italia già 3mila ettari di bosco in fumo

Il primo scorcio del 2022 sarà ricordato come uno dei periodi più siccitosi degli ultimi anni in Italia. La portata del Po è ai minimi e soprattutto al Nord, da più di 100 giorni, la pioggia non si vede. “Con un inverno che ha lasciato l’Italia con un terzo di pioggia in meno, ma con precipitazioni praticamente dimezzate al Nord – spiega la Coldiretti – è allarme siccità e incendi favoriti dall’aumento delle temperature”. Le aree più colpite, a fine marzo, con canadair e vigili del fuoco in azione, sono quelle di Lombardia, Veneto, Umbria, Lazio ed Emilia Romagna.

Una situazione favorita dal deficit idrico dopo che a febbraio, secondo la Coldiretti, si è verificato un taglio delle precipitazioni che va dall’87% in meno in Piemonte fino al – 52% in Veneto, mentre in Toscana è piovuto il 60% in meno rispetto alla media del periodo nei primi tre mesi del 2022. “È allarme – continua l’associazione – per gli incendi favoriti dalle alte temperature e dall’assenza di precipitazioni che ha inaridito i terreni nei boschi più esposti al divampare delle fiamme”. L’Italia brucia, con gli incendi cresciuti del 148% nell’ultimo anno rispetto alla media storica e con il 2022 che è già iniziato con 29 roghi in un inverno siccitoso con una temperatura superiore di 0.55 gradi rispetto alla media lungo la Penisola, secondo analisi della Coldiretti su dati Effis.

Secondo l’osservatorio europeo sugli incendi (Effis) infatti dal primo gennaio al 28 marzo 2022 si sono registrati in tutto il Paese 29 roghi per 2.911 ettari di terreno in fumo. In base allo studio europeo l’anno più nefasto è stato però il 2021 con oltre 150mila ettari di boschi e campi bruciati in 659 roghi. “Una situazione drammatica – spiega Coldiretti – spinta dal cambiamento climatico che favorisce incendi più frequenti e intensi, con un aumento globale di quelli estremi fino al 14% entro il 2030 e del 50% entro la fine del secolo secondo l’Onu. Una situazione devastante con un 2021 che in Italia ha visto – spiega Coldiretti – ben 150mila ettari di territorio da nord a sud del Paese inceneriti da 659 tempeste di fuoco contro una media storica (fra il 2008 e il 2021) di 265 ogni anno”.

Guardando la serie storica pubblicata su Effis, è stato il 2015 l’anno ‘più clemente’ dal punto di vista degli incendi: ‘solo’ 63 roghi per 7.773 ettari di terreno bruciati. L’annus horribilis, per numero di roghi, è stato invece il 2017 con 781 incendi registrati su tutto il territorio nazionale.

Una dramma che l’Italia è costretta ad affrontare – evidenzia la Coldiretti – perché se da una parte 6 incendi su 10 sono di origine dolosa, con i piromani in azione, dall’altra per effetto della chiusura delle aziende agricole, la maggioranza dei boschi nazionali si trova senza sorveglianza per l’assenza di un agricoltore che possa gestirli in un Paese come l’Italia dove più di un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari, è coperta da boschi. Ogni rogo – sottolinea la Coldiretti – costa agli italiani oltre 10.000 euro all’ettaro fra spese immediate per lo spegnimento e la bonifica e quelle a lungo termine sulla ricostituzione dei sistemi ambientali ed economici delle aree devastate in un arco di tempo che raggiunge i 15 anni”. Peraltro i roghi che devastano le foreste hanno anche l’effetto di aumentare il deficit commerciale nel settore del legno, dove l’industria italiana è prima in Europa, ma importa dall’estero più dell’80% del legname necessario ad alimentare il settore del mobile, della carta e del riscaldamento da fonte rinnovabile proprio in un momento storico in cui con la guerra in Ucraina sono esplosi i costi dell’energia e delle materie prime.

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Grave carenza d’acqua in Marocco, peggiore siccità in 40 anni

Il Marocco è stato colpito duramente dalla sua peggiore siccità in quasi 40 anni: un disastro che ha portato a temere una grave carenza di acqua potabile quest’anno, conseguenza del cambiamento climatico e della gestione inefficiente dell’acqua. “Il paese non viveva una situazione del genere dall’inizio degli anni ’80”, ha detto a Afp Abderrahim Hendouf, specialista di politica idrica.

Se in passato, la siccità – ricorrente in Marocco – ha colpito soprattutto le zone rurali e il settore agricolo, pesa invece attualmente sulla “fornitura di acqua potabile nelle zone urbane”, ha avvertito il ministro dell’Acqua Nizar Baraka. Soggetto alle variazioni climatiche da molto tempo, il Paese ha sofferto un grave deficit di precipitazioni da settembre 2021 e un allarmante calo delle riserve della diga di quasi l’89% rispetto alla media annuale, secondo le statistiche ufficiali. Questo deficit è “un indicatore preoccupante anche se è stato assorbito da misure preventive per evitare la penuria d’acqua”, ha riconosciuto Abdelaziz Zerouali, direttore della ricerca e della pianificazione dell’acqua. Due grandi città, Marrakech, la capitale turistica, e Oujda hanno evitato il peggio ricorrendo all’acqua di falda per garantire il loro approvvigionamento dalla fine di dicembre.

PREPARARSI AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Per contenere gli effetti devastanti della siccità, il governo ha rilasciato a metà febbraio un programma di aiuti al settore agricolo – il maggior contribuente al Pil (14%) davanti a turismo e industria e la principale fonte di occupazione nelle zone rurali – di quasi un miliardo di euro. Ma, a lungo termine, è “necessario cambiare la nostra visione sulla questione dell’acqua”. “Il cambiamento climatico è reale e dobbiamo prepararci”, ha avvertito Zerouali durante una conferenza sul diritto all’acqua a Rabat. Con soli 600 metri cubi d’acqua pro capite all’anno, il Marocco è ben al di sotto della soglia di carenza d’acqua. A titolo di paragone, la disponibilità d’acqua era quattro volte superiore, con 2.600 m3, negli anni ’60. Oltre ai fattori ambientali, “l’alta domanda d’acqua” e “lo sfruttamento eccessivo delle acque sotterranee” contribuiscono alla pressione sulle risorse idriche, dice il ministro Nizar Baraka. In un articolo per il Moroccan Institute for Policy Analysis (Mipa), il ricercatore Amal Ennabih spiega di ritenere che la scarsità d’acqua è “profondamente legata al modo in cui questa risorsa è utilizzata per l’irrigazione, consumando circa l’80% dell’acqua del Marocco ogni anno”. La situazione è tanto più allarmante se si considera che solo il 10% dei terreni agricoli è irrigato, nota l’esperto Abderrahim Hendouf, che auspica una riduzione del peso eccessivo del settore agricolo nell’economia marocchina.

I RITARDI

Il Marocco si affida principalmente alla desalinizzazione dell’acqua di mare per rimediare al deficit idrico, un processo inquinante a causa della salamoia prodotta. Tuttavia, il programma sta affrontando ritardi. L’impianto di desalinizzazione di Casablanca è ancora in costruzione e la megalopoli economica è minacciata da un deficit d’acqua già nel 2025. Un altro esempio: il ritardo nella consegna dell’impianto di desalinizzazione nella stazione balneare nord-orientale di Saïdia ha “causato una carenza” nelle città circostanti, secondo Baraka. Anche la costruzione di 15 dighe è in ritardo. La minaccia di una carenza di acqua potabile incombeva anche sulla città turistica di Agadir, con il 70% dei suoi bisogni soddisfatti a marzo. Questo rischio è stato evitato grazie al nuovo impianto di desalinizzazione nella capitale della più importante regione agricola del Marocco. Le misure imposte ad Agadir nell’autunno del 2020 – l’acqua nei rubinetti sospesa tagliata di notte – sono ormai solo un brutto ricordo.