La carne sostenibile? Potrebbe arrivare dall’allevamento dei pitoni

L’aumento della popolazione mondiale e la necessità di trovare fonti alternative di cibo – in modo particolare di proteine – stanno spingendo la ricerca scientifica in questa direzione. Uno studio pubblicato su Scientific Reports ha indirizzato la propria ricerca verso l’allevamento dei pitoni, che potrebbe rappresentare un’alternativa più sostenibile al tradizionale bestiame. Lo studio si è concentrato su due allevamenti in Thailandia e in Vietnam e i risultati dimostrano che i pitoni reticolati e birmani sono cresciuti rapidamente nell’arco di 12 mesi, nonostante non abbiano bisogno di cibo con la stessa frequenza di altri animali da.

Le pressioni ambientali e demografiche stanno influenzando i sistemi agricoli convenzionali. Nella produzione zootecnica, gli animali a sangue freddo (ectotermi), come i pesci e gli insetti, sono molto più efficienti dal punto di vista energetico rispetto agli animali a sangue caldo (endotermi), come i bovini o il pollame. E il consumo di carne di serpente sta crescendo di popolarità in alcuni Paesi asiatici, ma l’industria rimane piccola.

Daniel Natusch e colleghi della Macquarie University di Sydney, in Australia, hanno studiato i tassi di crescita di 4.601 pitoni reticolati (Malayopython reticulatus) e birmani (Python bivittatus) in due allevamenti di pitoni situati nella provincia di Uttaradit in Thailandia e a Ho Chi Minh City in Vietnam. I rettili sono stati alimentati settimanalmente con una varietà di proteine di provenienza locale, tra cui roditori selvatici e farina di pesce, e sono stati misurati e pesati regolarmente per un periodo di 12 mesi prima di essere abbattuti. Gli autori hanno scoperto che entrambe le specie di pitone crescevano rapidamente – fino a 46 grammi al giorno – anche se le femmine avevano tassi di crescita più elevati dei maschi. Dopo la quantità di cibo consumato, il tasso di crescita di un serpente nei primi due mesi di vita è stato il miglior predittore delle sue dimensioni corporee in seguito.

Gli autori hanno sperimentato diverse combinazioni di fonti proteiche (tra cui pollo, prodotti di scarto del maiale, roditori e farina di pesce) su un sottogruppo di 58 pitoni birmani dell’allevamento di Ho Chi Minh e hanno scoperto che per ogni 4,1 grammi di cibo consumato si poteva raccogliere 1 grammo di carne di pitone. Questo rapporto di conversione del cibo non variava significativamente tra le diete dei pitoni e, in termini di conversione delle proteine, è più efficiente di altri animali studiati finora. Inoltre, il 61% di questi pitoni birmani ha digiunato per periodi compresi tra 20 e 127 giorni, perdendo però pochissima massa corporea durante questo periodo.
Secondo gli autori, questi risultati indicano che l’allevamento commerciale dei pitoni potrebbe essere un’opzione di produzione alimentare fattibile e sostenibile che potrebbe integrare i sistemi di allevamento esistenti.

Clima, emissioni e sostenibilità: la Commissione europea rivendica i 10 “risultati chiave”

La prima legge europea sul clima, il fondo europeo per una transizione giusta, il dispiegamento di colonnine elettriche su strade e autostrade d’Europa. E, ancora, la revisione dell’Ets, il sistema di certificati di emissioni, affiancato dal nuovo sistema di carbon tax transfrontaliero. Con la legislatura europea agli sgoccioli la Commissione prova a fare un bilancio dell’attività svolta e i successi ottenuti nel corso del mandato. Per quanto riguarda la parte ‘green’ dell’azione dell’esecutivo comunitario, il rapporto stilato a Bruxelles, si concentra su 10 risultati considerati chiave.

Al primo posto viene menzionata la prima legge europea sul clima, approvata nel 2021, che fissa obiettivi chiari per fare dell’Ue una regione climaticamente neutrale entro il 2050, oltre a fissare l’obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, rispetto al 1990. Obiettivi rivisti a febbraio 2024, con la raccomandazione della Commissione per un ulteriore obiettivo intermedio di ridurre del 90% le emissioni entro il 2040.

Secondo obiettivo chiave raggiunto: il Just Transition Fund. “Con il sostegno di 19,7 miliardi di euro di finanziamenti – rivendica la Commissione – l’Ue ha aiutato le regioni vulnerabili a diversificare le attività economiche e ad affrontare l’impatto socioeconomico della transizione pulita”.

Terzo risultato della lista: sostegno a gli agricoltori di 22 Stati membri con 330 milioni di euro per far fronte agli impatti degli eventi climatici e ai maggiori costi dei fattori di produzione. A questo si aggiunge la concessione di flessibilità ai governi nazionali per integrare il sostegno dell’U e fino al 200% con fondi nazionali e di fornire anticipi più elevati sui fondi della politica agricola comune per migliorare il flusso di cassa degli agricoltori.

Risultato numero quattro: “Dal 2019 abbiamo approvato sette importanti progetti di comune interesse europeo (IPCEI) che coinvolgono 22 Stati membri”. Questi progetti ambiziosi riguardano, ad esempio, le batterie, la microelettronica, l’idrogeno e il cloud computing. Con aiuti di Stato pari a 32,9 miliardi di euro, si sbloccheranno almeno 50,3 miliardi di euro di investimenti privati aggiuntivi.

Il punto numero 5 della lista dei principali obiettivi ‘green’ raggiunti nella legislatura riguarda lazione per utilizzare meglio le risorse scarse e ridurre i rifiuti. Qui, sottolinea la Commissione, “abbiamo adottato misure per rendere i prodotti più sostenibili, riducendo i 2,2 miliardi di tonnellate di rifiuti che l’Ue produce ogni anno”.

In termini di efficienza e sostenibilità, il grande successo numero sei per la Commissione è “la nostra forte attenzione all’uso più intelligente dei materiali” dimostrata con il Nuovo Bauhaus europeo. “Con oltre 600 organizzazioni partner ufficiali che vanno dalle reti a livello europeo alle iniziative locali, il Bauhaus raggiunge ora milioni di cittadini”.

Ancora, durante questo mandato la Commissione ha aggiornato il sistema di scambio di quote di emissioni dell’Ue (ETS) per coprire più attività, motivando più settori economici ad attuare riforme verso la transizione pulita. Ciò genera maggiori entrate che verranno reinvestite in innovazione, azione per il clima e sostegno sociale, ad esempio attraverso il Fondo per l’innovazione, il Fondo per la modernizzazione e il Fondo sociale per il clima.

Risultato ‘green’ numero otto: la trasformazione sostenibile del settore trasporti. “Abbiamo sostenuto la produzione di batterie nell’Ue e lo sviluppo dell’idrogeno pulito”, sottolinea la Commissione. “Abbiamo inoltre stabilito requisiti per garantire che le stazioni di ricarica per veicoli elettrici siano disponibili ogni 60 km nella rete transeuropea dei trasporti”.

Nove: il meccanismo di adeguamento delle frontiere del carbonio (Cbam). Con questo meccanismo “abbiamo affrontato la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, assicurandoci che le emissioni siano ridotte ovunque vengano prodotte, e non semplicemente all’estero”.

Infine, il Piano d’azione ‘Inquinamento zero’ (Zero Pollution) della Commissione, che ha portato a proposte per standard modernizzati sulla qualità dell’acqua, della qualità dell’aria, delle emissioni industriali e delle sostanze chimiche.

Chiude il bando ’10 tesi per la sostenibilità’: i partecipanti sono oltre 2mila

Il mondo universitario batte un colpo per un futuro a misura d’uomo: sono 2.062 i partecipanti, provenienti da oltre 80 università di tutta Italia, al bando ‘Dieci tesi per la sostenibilità’. Si tratta di un’iniziativa promossa da Fondazione Symbola, Unioncamere e Luiss con il sostegno di Deloitte Climate & Sustainability, con il patrocinio del ministero dell’Università e Ricerca, della Conferenza dei Rettori (Crui), la collaborazione del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea, della Rete delle Università per lo Sviluppo sostenibile (RUS) e del Consorzio Interuniversitario nazionale per la Scienza e la Tecnologia dei Materiali (Instm) volta a premiare 10 tesi provenienti da tutte le discipline, sia scientifiche che umanistiche, collegate ai temi della sostenibilità. Sono 21 gli atenei direttamente coinvolti: l’Università degli Studi di Milano – Bicocca, la Federico II di Napoli, Tor Vergata, La Sapienza, la Ca’ Foscari di Venezia, la Bocconi, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, l’Università Politecnica delle Marche, il Sant’Anna di Pisa, l’Universitas Mercatorum, l’Università di Macerata, le Università di Cagliari, Teramo, Camerino, Catania, Palermo e Brescia; Università LUMSA – Libera Università Maria Ss. Assunta. Il comitato scientifico che è al lavoro per valutare le tesi è presieduto da Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e Paola Severino, presidente della Luiss School of Law.

Le tesi provengono da oltre 80 università italiane. I partecipanti sono per il 61,6% donne e per il 38,4% uomini. Molte tesi provengono in particolare dall’Università Cattolica del Sacro Cuore; dall’Università degli Studi di Roma La Sapienza; Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Università degli Studi di Napoli Federico II; Politecnico di Torino; Università degli Studi di Roma Tre; Università Politecnica delle Marche; Politecnico di Milano; Università degli Studi di Torino; Università degli Studi di Padova. Ai vincitori sarà riservato un premio in denaro. Ci saranno poi menzioni alle tesi più meritevoli e verrà favorita la possibilità per i neolaureati di tirocini con imprese per favorire il rapporto con il mondo del lavoro. Tra gli ambiti più presenti ci sono economia e statistica; ingegneria civile, architettura e design; scienze giuridiche, politiche e sociali; ingegneria industriale e dell’informazione; scienze dell’antichità, letterarie, artistiche, storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche; chimica e biologia.

Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, commenta: “Il bando ‘10 Tesi per la Sostenibilità’ ha visto una partecipazione assolutamente straordinaria e senza precedenti che vale molto più di un sondaggio. Ci potrà fornire informazioni e stimoli importanti. La possibilità di affrontare le sfide che abbiamo davanti può contare anche sulle energie pulite e rinnovabili dei saperi e delle intelligenze giovani presenti nel nostro Paese. È un’iniziativa inedita rivolta a premiare 10 tesi universitarie provenienti da aree disciplinari diverse che abbiano forti e originali riferimenti al principio della sostenibilità. Un’occasione per dare forza ad un’Italia che fa l’Italia. Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma rappresenta una grande occasione per rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro. Una formidabile spinta per contrastare la crisi climatica è venuta in più occasioni dal Papa e dal presidente Mattarella. In questa direzione si muove l’Europa indicando coesione, transizione verde e digitale come la strada per rafforzare la nostra economia”.

Il viaggio di MasterChef nella sostenibilità

Puntata speciale di MasterChef, giovedì sera, con al centro un viaggio green attraverso le nuove frontiere della sostenibilità in cucina: si parla di futuro della gastronomia, il focus è sui nuovi scenari di tutela degli ecosistemi naturali. Negli episodi di giovedì 8 febbraio, su Sky e in streaming su Now, i giudici Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli accoglieranno, nell’ultimo Skill Test della stagione dedicato a una cucina che si prende cura del territorio valorizzandone gli ingredienti, due esempi eccellenti di sostenibilità, entrambi detentori di 1 stella Michelin e 1 stella verde Michelin. Prima la chef Chiara Pavan del ristorante Venissa, sull’isola di Mazzorbo a Venezia, che farà immergere i concorrenti nella laguna veneta raccontando la sua idea di cucina ambientale che da un lato si prende cura dell’ambiente e dall’altro lo descrive. Poi lo chef Riccardo Gaspari, del Sanbrite a Cortina d’Ampezzo, che porterà tra i fornelli i profumi della montagna e il sapere della cucina rigenerativa, capace di impiegare anche gli scarti e dare valore a ingredienti tipici del bosco molto specifici (come il pino mugo) o apparentemente semplici (come il sedano rapa).

Rimasti in 8, i cuochi amatoriali dello show vedono l’obiettivo finale sempre più vicino. La serata di giovedì 8 febbraio per loro si aprirà con una scintillante Golden Mystery Box che porterà con sé una dinamica a sorpresa e ingredienti green a dir poco alternativi; a seguire un nuovo Invention Test che stavolta farà stimolare la creatività degli aspiranti chef a partire da un ingrediente sostenibile e ricco di proprietà benefiche per l’organismo, anche se spesso sottovalutato: l’aglio.

Si rinnova quindi l’impegno di tutto il mondo MasterChef Italia in tematiche di sostenibilità ambientale e sociale, promuovendo il consumo consapevole ed ecosostenibile, rispettando l’ambiente e non sprecando risorse alimentari. Da anni, ormai, la produzione adotta in tutti i luoghi di lavoro un approccio plastic free ed eco-friendly, tutti i prodotti di consumo legati al cibo (piatti, bicchieri, posate, vassoi, tovaglioli) sono di natura compostabile ed ecosostenibile, e collabora con Last Minute Market per recuperare le eccedenze rimaste inutilizzate durante la registrazione delle puntate a favore della Onlus Opera Cardinal Ferrari che gestisce una mensa per persone in difficoltà a Milano. Sin dallo scorso anno, inoltre, perfezionando i processi di acquisto, di smaltimento e di recupero dei prodotti e implementando un sistema di gestione per gli sprechi alimentari, MasterChef Italia ha ottenuto, prima realtà al mondo, la certificazione Food Waste Management System da Bureau Veritas, presente a livello globale e accreditata da oltre 60 organismi internazionali, leader di livello mondiale nell’offrire servizi di verifica, certificazione e audit in ambito Qualità, Salute e Sicurezza, Ambiente e Responsabilità Sociale. Bureau Veritas, inoltre, ha certificato anche la corretta applicazione del protocollo Green Audiovisual che attesta la capacità nella gestione della sostenibilità ambientale, diminuendo i consumi e l’impatto ambientale, riducendo i trasporti, adottando un corretto smaltimento dei rifiuti e degli scarti generati.

Poliestere o cotone riciclato: occhio alle etichette

Nei negozi fioriscono le etichette “materiale riciclato“, ma la costosa tecnologia che permette di riciclare i filati in fili è ancora agli albori in tutto il mondo.

Il 93% dei materiali riciclati nei nostri abiti proviene da bottiglie di plastica e non da vecchi vestiti. Lo spiega Urska Trunk, direttore della campagna dell’ONG Changing Markets, a Bruxelles. “Meno dell’1% dei tessuti che compongono i nostri abiti viene riciclato per farne di nuovi”, precisa la Commissione europea all’Afp. Secondo la Commissione, in Europa il totale dei rifiuti tessili ammonta a 12,6 milioni di tonnellate all’anno (di cui 5,2 milioni di tonnellate di abbigliamento e calzature, mentre il resto è costituito da materassi, tappeti e altri arredi tessili).

La maggior parte dei rifiuti tessili usati viene gettata via o incenerita, mentre solo il 22% viene raccolto per essere riutilizzato o riciclato – principalmente in stracci, imbottiture o isolanti. Riciclare gli abiti è “molto più complesso che riciclare il vetro o la carta“, spiega all’AFP il produttore austriaco di fibre tessili a base di legno Lenzing.

Gli abiti usati devono essere suddivisi per materiale e colore, quindi privati dei loro “punti duri” (cerniere, bottoni, ecc.). Infine, tutto ciò che non può essere riciclato, come alcune fibre o tessuti composti da più di due materiali, deve essere scartato. Tuttavia, questo tipo di operazione non ha ancora raggiunto la fase industriale. Questa tecnologia è “agli inizi“, ribadisce Trunk. Il modo migliore per dare un’impronta “buona per il pianeta” ai propri vestiti è riciclare le bottiglie in PET (polietilene tereftalato) in fibre di poliestere. Questa tecnologia è l’unica realmente utilizzata su larga scala.

Nel 2023, il 79% del poliestere utilizzato nelle collezioni proveniva da materiali riciclati. Il gruppo H&M punta al 100% entro il 2025. Cosa fanno i marchi? Raccolgono le “scaglie” di plastica prodotte dal riciclo meccanico delle bottiglie dai produttori e poi producono la fibra nei propri stabilimenti, ha spiegato all’AFP Lauriane Veillard, responsabile delle politiche di riciclo chimico presso Zero Waste Europe (ZWE) a Bruxelles. “Siamo chiari, non si tratta di circolarità“: avvertono l’industria dell’imbottigliamento e le associazioni ambientaliste. Questo perché se queste bottiglie non fossero state utilizzate per produrre poliestere, sarebbero state di fatto utilizzate per produrre altre bottiglie di plastica. Mentre una bottiglia di PET può essere riciclata cinque o sei volte in un’altra bottiglia, una maglietta o una gonna fatta di poliestere riciclato “non può mai essere riciclata di nuovo”, sottolinea Trunk, che partecipa alle discussioni sulla Direttiva quadro sui rifiuti dell’UE. Il poliestere riciclato viene infatti spesso rigenerato utilizzando componenti chimici ed elastan, apprezzato per la sua elasticità, ma che ne impedisce il riciclo. Per non parlare dell'”energia e dei materiali” necessari per trasportare, selezionare, lavare, macinare, fondere, ecc. fino al filamento, come sottolinea Loom.

Dalla produzione al riciclo, si tratta di inquinamento dell’acqua, dell’aria, del suolo: in breve, anche il poliestere riciclato non è una soluzione miracolosa”, ammette Jean-Baptiste Sultan, consulente di Carbone 4. Le ONG chiedono che l’industria tessile smetta di utilizzare questo materiale, che nel 2021 rappresentava il 54% della produzione di fibre, secondo Textile Exchange. Anche il riciclo del cotone non è l’opzione migliore: la fibra lavorata è di qualità inferiore e, per durare nel tempo, spesso deve essere intrecciata con altri materiali, anch’essi difficili da riciclare. Nel 2019, il 46% dei rifiuti tessili provenienti dall’UE è finito in Africa sui mercati dell’usato o più spesso “in discariche a cielo aperto”, segnala l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA). La pratica è ampiamente condannata dalle organizzazioni ambientaliste, come in Ghana.

Un “regolamento sulle spedizioni di rifiuti” adottato a novembre mira ora a “garantire, tra le altre cose, che le esportazioni di rifiuti dall’UE siano destinate al riciclaggio e non allo smaltimento”, ha dichiarato la Commissione europea all’AFP. Sempre nel 2019, il 41% dei rifiuti tessili europei è andato in Asia in “zone economiche dedicate dove vengono selezionati e trattati”, la maggior parte dei quali in Pakistan. Qui e in Bangladesh si stanno sviluppando veri e propri “hub” di smistamento e riciclaggio dei prodotti tessili, spesso all’interno di “Export Processing Zones”. I rifiuti sembrano essere “riciclati localmente, principalmente trasformati in stracci industriali o imbottiture, o riesportati, sia per il riciclaggio in altri Paesi asiatici che per il riutilizzo in Africa”, conclude uno studio dell’AEA del febbraio 2023. Ma l’Agenzia riconosce “la mancanza di dati coerenti sulle quantità e sul destino dei tessili usati” in Europa. Secondo Paul Roeland dell’ONG Clean Clothes Campaign, le EPZ sono soprattutto “note come enclavi ‘senza legge’, dove non vengono rispettati nemmeno i bassi standard lavorativi di Pakistan e India”.

“Inviare gli abiti in Paesi con bassi costi di manodopera per la selezione manuale è orribile in termini di impronta di carbonio”, sottolinea Marc Minassian, direttore commerciale per la Francia di Pellenc ST, che è all’avanguardia nella selezione ottica per il riciclaggio. Allo stato attuale, il riciclaggio dei tessuti è “un mito”, afferma Lisa Panhuber di Greenpeace.

Fibre di banana, bucce di agrumi, foglie di cactus, bucce di mela…tutto può essere riciclato per produrre tessuti. Hugo Boss, ad esempio, utilizza il Pinatex, ricavato dalle foglie di ananas, per alcune delle sue scarpe da ginnastica. “Un sottoprodotto dell’agricoltura odierna, le foglie d’ananas sono utilizzate per creare questo tessuto unico, che non richiede risorse aggiuntive per crescere”, vanta il marchio tedesco sul suo sito web. Tuttavia, esperti come Thomas Ebélé del marchio SloWeAre si interrogano sul modo in cui vengono prodotte queste fibre agglomerate e non tessute, con l’aggiunta di un legante, “nella maggior parte dei casi poliuretano” o PLA (acido polilattico), spiega. Questa composizione non standardizzata rende l’indumento “talvolta biodegradabile” alla fine del suo ciclo di vita, ma non riciclabile. Insiste: “Biodegradabile non significa compostabile! Significa che queste fibre possono degradarsi in condizioni industriali, cioè con una pressione superiore a tre atmosfere, un’igrometria superiore al 90%, una temperatura compresa tra 50 e 70 gradi e con agitazione meccanica”. Al di là di tutti questi processi, “è soprattutto il volume degli indumenti prodotti a essere problematico”, afferma Céleste Grillet dell’unità energia di Carbone 4. Per Lisa Panhuber, la soluzione è sicuramente “ridurre i consumi, riparare e riutilizzare”.

Ambiente, Preinvel: il filtro che con l’aria abbatte micropolveri industriali

Quando sarà superata l’urgenza sociale di mantenere viva la produzione dell’Ex Ilva, si riaprirà quella ambientale di abbassare drasticamente le emissioni. Una soluzione la propone la startup pugliese Preinvel, che ha brevettato un filtro in grado di eliminare le micro e nano polveri da combustioni e lavorazioni industriali.

Volevamo fare qualcosa di concreto, era giusto dare un nostro contributo perché nessuno potesse più essere vittima dell’inquinamento industriale, le cui prime vittime sono, purtroppo, le fasce più deboli della popolazione”, spiegano gli sviluppatori. Un’intuizione che punta a una transizione industriale pulita e scardina il mito dell’incompatibilità tra diritto alla salute e quello al lavoro. Il sistema di filtraggio fluidodinamico risolve in “maniera efficiente, efficace e totalmente ecocompatibile“, assicura Preinvel, il problema delle emissioni industriali inquinanti.

L’osservazione della natura e delle sue leggi ha permesso alla tecnologia di sfruttare il più efficiente, economico ed eco-compatibile dei sistemi filtranti: l’aria. Utilizzando il principio di Bernoulli, il filtro crea gradienti di pressione e definisce aree di alta depressione capaci di catturare in maniera definitiva tutte le micropolveri inferiori a 0.5 micron prodotte nelle lavorazioni industriali. In questo modo si annullano le emissioni nocive garantendo efficienze filtranti altissime, costanti nel tempo e assicurando costi di manutenzione vicini allo zero, data l’assenza di componenti che necessiterebbero di periodiche manutenzioni o sostituzioni per usura o saturazione.

L’invenzione ha recentemente vinto il premio miglior startup innovativa del PNICube e il grant di Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi ‘Encubator‘. Ma ha anche vinto il primo premio dell’Apulian Sustainable Innovation Award 2021 ed è stata selezionata da Zero, l’Acceleratore di startup Cleantech della Rete Nazionale Acceleratori di Cdp, che promuove la crescita del Paese ha come Partner Eni, la holding LVenture Group e la cooperativa sociale Elis e come Sponsor la multiutility Acea, Vodafone, la multinazionale dei computer Microsoft e Maire Tecnimont, leader del comparto di impiantistica

Dalle autostrade rivoluzione della sostenibilità. Tomasi: Traghettiamo rete nel futuro

Autostrade più sostenibili, dal punto di vista ambientale, economico e sociale. E’ l’obiettivo di Aspi, che presenta il dossier ‘La Rivoluzione della mobilità sostenibile parte dalle autostrade. Sicure, digitali, decarbonizzate’.
Un testo che dimostra come questa sfida sia realizzabile solo attraverso la combinazione di più soluzioni, che vanno dagli interventi di digitalizzazione, allo sviluppo di vettori energetici alternativi con un approccio di neutralità tecnologica, fino ai non meno rilevanti comportamenti sostenibili da parte di ciascuno di noi.

La rete autostradale italiana in questo 2024 compie un secolo di vita ed entra, con il Paese, in una nuova ‘rivoluzione’ della mobilità, una trasformazione che, partendo dalla consapevolezza della strategicità della rete stradale e autostradale per il nostro sistema economico, la renda protagonista della transizione ecologica, adeguata ai bisogni attuali del Paese e sempre più sicura.

Il parco auto italiano è rappresentato da circa 40 milioni di veicoli. Oggi circa il 30% degli spostamenti quotidiani di merci e persone avviene in autostrada, che rappresenta soltanto il 3% dell’intera rete stradale nazionale. Numeri che confermano da un lato la strategicità della rete autostradale per il tessuto economico del Paese, dall’altro l’esigenza di una riflessione generale sulla modernizzazione e rigenerazione della rete, per allungarne la vita utile e la sua capacità di resistere allo stress a cui viene sottoposta quotidianamente. Un patrimonio complesso senza eguali nel panorama europeo, fatto di 6.000 km di autostrade a pedaggio gestiti da più concessionari, oltre 1.200 km di ponti e viadotti, 500 km di gallerie, con una vita media tra i 50 e i 70 anni.

I numeri dimostrano chiaramente la crucialità della rete autostradale nel nostro Paese, un’infrastruttura capillare attorno alla quale si sono sviluppati i principali settori industriali italiani“, spiega l’ad Roberto Tomasi. “Un orgoglio della nostra ingegneria negli anni del boom economico – rivendica – che oggi ci offre la possibilità di vincere una nuova grande sfida. Una rivoluzione positiva per traghettare la rete nel futuro, rendendola verde, digitale, sempre più sicura e performante: un impegno che come Autostrade per l’Italia stiamo affrontando, ma che bisogna mettere a sistema con tutti gli attori del settore per tracciare insieme un percorso lineare in cui definire gli investimenti disponibili, i profili tecnico professionali necessari e poter contribuire positivamente all’evoluzione del sistema normativo anche a livello europeo”.

Per Tomasi, la sostenibilità ambientale “non può prescindere da quella economica e sociale, per questo è necessario monitorare i trend territoriali tramite l’istituzione di un Osservatorio che consenta di valutare gli effetti di qualsiasi azione nell’ambito della transizione ecologica, facendo sistema a supporto del Governo e del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture”, rileva.

La rete autostradale è soggetta a un costante incremento di traffico, in alcune tratte prossimo al livello di saturazione. Questo patrimonio necessita quindi di un investimento in ammodernamento e potenziamento stimabile tra i 60 e i 120 miliardi. Solo nel 2019 il settore dei trasporti, in Italia, ha contribuito per circa il 27% delle emissioni totali e di queste, oltre l’80% è attribuibile al solo trasporto stradale; un dato che – visto il target fissato nel programma Fit for 55 dell’Unione Europea per il nostro Paese che impone una riduzione delle emissioni di CO2 del 43% – conferma l’inderogabilità di rendere sostenibile il trasporto su gomma.

Ma il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, Matteo Salvini, avverte: “Rischiamo di farci del male nel nome dell’ideologia”. “La sostenibilità ambientale non può essere disgiunta da quella economica e sociale o rischiamo l’effetto Bce”, affonda il vicepremier, che confessa di non volere un Paese “sostenibile disperato e disoccupato“. La soluzione, insiste, è la neutralità tecnologica, senza concentrarsi solo l’elettrico.

Ad Amsterdam una ‘biblioteca dell’abbigliamento’

C’è una nuova “biblioteca” di Amsterdam in cui non si prendono in prestito libri, ma abiti, camicette e giacche: un’iniziativa per limitare l’impatto ambientale dell’industria della moda.
Si chiama ‘Lena, la biblioteca dell’abbigliamento’ ed è un luogo in cui i clienti hanno la possibilità di cambiare continuamente armadio, noleggiando nuovi capi. Il negozio ne offre a centinaia, regolarmente rinnovati e disponibili anche per l’acquisto. Su ogni capo, un’etichetta indica il prezzo, spesso caro, e il costo del noleggio al giorno, che va da 50 centesimi a pochi euro.
L’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo“, ricorda Elisa Jansen, che ha co-fondato l’iniziativa nel 2014 con le sue due sorelle e un’amica.

Secondo le Nazioni Unite, nell’era del fast-fashion una persona media acquista il 60% di vestiti in più rispetto a quindici anni fa, mentre ogni capo viene conservato per la metà del tempo. Per la Fondazione Ellen MacArthur, ogni secondo l’equivalente di un carico di vestiti in un camion viene bruciato o sepolto in discarica.

Abiti sempre nuovi. Fa del bene al pianeta. Sperimenta il tuo stile. Prova prima di comprare‘, recita un manifesto. La “biblioteca” offre la sua collezione anche online e ha punti di consegna e raccolta in altre grandi città olandesi. Jansen ha “sempre lavorato nel riutilizzo dei vestiti”, racconta, in particolare nei negozi vintage. “È allora che è nata l’idea di condividere i vestiti in un grande guardaroba comune“, spiega.

Ogni cliente paga dieci euro per diventare membro. Più di 6.000 persone hanno una tessera, ma la regolarità del prestito varia. La qualità degli abiti è “la cosa più importante” nella scelta della collezione, aggiunge la co-fondatrice, e vengono privilegiati anche i marchi sostenibili.

Qui non troverete fast-fashion“, precisa. Nove anni fa, “siamo stati davvero tra i primi“, rivendica Jansen. Esistevano altre iniziative simili in Scandinavia, ma molte poi sono scomparse.
Trovare un modello redditizio ha richiesto tempo, spiega, ma l’iniziativa in questo quartiere alla moda di Amsterdam sta convincendo, soprattutto “le donne di età compresa tra i 25 e i 45 anni, che vogliono fare scelte consapevoli ma che ritengono importante anche avere un bell’aspetto – fa sapere -. Credo sinceramente che questo sia il futuro, non possiamo continuare a consumare e produrre in questo modo“.

Lvmh, la sfida del colosso del lusso: anche i fornitori green

Settantacinque marchi di lusso, da Louis Vuitton a Dior, passando per Moët Hennessy e Guerlain, 62 miliardi di euro di fatturato nel 2023, senza però perdere di vista la strategia ambientale. Il colosso Lvmh ora traccia la strada della sostenibilità non solo per le aziende, ma anche per i suoi fornitori e i cuoi clienti.

La missione non è impossibile, garantisce il gruppo. Basta avere “strategie ben ponderate e documentate, che siano solide come le proiezioni finanziarie“, spiega l’amministratore delegato Bernard Arnault. Il tema è complesso, perché “sconvolge l’equilibrio dei mercati“, osserva. Ma la transizione è necessaria mai come ora, “soprattutto nel nostro settore”, sottolinea Antoine Arnault, responsabile dell’immagine e dell’ambiente.

L’impronta ambientale di clienti e fornitori rappresenta il 90% dell’impatto di Lvmh. Per questo la multinazionale lancia il programma ‘Life 360 business partners‘, progettato per aiutare i fornitori di servizi nella transizione. “Per raggiungere i nostri ambiziosi obiettivi, sia in termini di emissioni di carbonio che di impatto sull’acqua e sulla biodiversità, è essenziale mobilitare i fornitori“, conferma Hélène Valade, direttore dello Sviluppo Ambientale, della società.

L’obiettivo è ridurre le emissioni di gas serradel 55% per unità di valore aggiunto entro il 2030” e di ridurre il consumo di acqua del 30% entro il 2030. Dati i volumi di produzione relativamente bassi, l’industria dei beni di lusso non è considerata uno dei settori a più alto tasso di emissioni, quindi le sue leve di azione sono le materie prime e il trasporto dei prodotti in tutto il mondo.

‘Life 360 business partners’, presentato durante una giornata dedicata al programma ambientale di Lvmh nella sede UNESCO a Parigi, è pensato per “sostenere” fornitori e partner. In pratica, il gruppo mette a disposizione dei fornitori le proprie risorse e condivide le proprie esperienze. “L’azione sul cambiamento climatico e sulla biodiversità – riconosce Arnault – sarà efficace solo se sarà vista come una vera e propria strategia industriale“.

ambiente

Sostenibilità, allarme Asvis: Regioni arretrano e crescono i divari

Il gap tra Nord e Sud sugli obiettivi di sostenibilità è ancora drammatico. “La politica di coesione va reimpostata con l’obiettivo di ridurre drasticamente i divari del Mezzogiorno e raggiungere chiari traguardi al 2030, utilizzando l’Agenda 2030 come riferimento comune“, evidenzia il direttore scientifico dell’ASviS, Enrico Giovannini, presentando il Rapporto Territori 2023, nella sede del Cnel a Roma.

Loda la scelta del Governo di unificare la programmazione del Pnrr e quella dei fondi europei e nazionali del ciclo 2021-2027 ma, precisa, “deve assumere in modo esplicito, come quadro di riferimento, le Strategie nazionale e regionali per lo sviluppo sostenibile elaborate in questi anni dalle Regioni, anche con l’assistenza dell’Asvis, e superare i suoi tre limiti atavici e ben noti: la mancanza di complementarità con le politiche ordinarie, la polverizzazione degli interventi e la cattiva qualità delle strutture di governo nazionali e regionali”.
Eppure, per Raffaele Fitto, mettere insieme il Pnrr con la Politica di coesione, ha avuto “ragioni ovvie“: “Parliamo di due grandi programmi, la coesione complessivamente vale 75 miliardi di euro. Il paradosso sarebbe stato avere nello stesso periodo e nello stesso territorio due programmi che non si parlassero. Il Pnrr è un programma per performance, noi abbiamo non solo voluto mantenere le 59 riforme previste, ma ne abbiamo aggiunte altre 7“, rivendica.

Secondo il Rapporto dell’Asvis, tra il 2010 e il 2022 gran parte delle Regioni italiane non hanno fatto passi avanti soddisfacenti rispetto ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Peggiorano le condizioni di quasi tutte le Regioni per quattro Obiettivi (povertà, qualità degli ecosistemi terrestri, risorse idriche e istituzioni), a fronte di una sostanziale stabilità per gli altri. Eccezione positiva la Valle d’Aosta e la Toscana, le peggiori performance le fanno il Molise e la Basilicata, che arretrano rispetto al 2010 su ben sei obiettivi.

Il dossier fa il punto sulla prima metà del percorso trascorso dalla firma dell’Agenda 2030 nel 2015 e indica cosa dovrebbe succedere per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile riducendo le gravi disuguaglianze territoriali esistenti. In base alla dichiarazione politica approvata al Summit dell’Onu del 18-19 settembre dedicato allo stato dell’Agenda 2030, il Governo italiano deve predisporre urgentemente un ‘Piano nazionale di accelerazione’ in grado di migliorare decisamente i risultati, molto insoddisfacenti, conseguiti finora dall’Italia. “Per questo, l’ASviS propone di definire il Piano entro marzo 2024, in modo da poter influenzare la predisposizione del prossimo Documento di Economia e Finanza. Su questi argomenti portiamo oggi all’attenzione delle forze politiche numerose proposte”, fa sapere il presidente, Pierluigi Stefanini.

Il Rapporto affronta anche diverse questioni da cui dipende la possibilità di migliorare significativamente la sostenibilità dei territori italiani dal punto di vista economico, sociale e ambientale, colmare le fortissime disuguaglianze che li caratterizzano e affrontare i numerosi rischi che insistono su persone e imprese, tra cui quelli sismici, vulcanici, idrogeologici, siccità e desertificazione, incendi e ondate di calore, incidenti in impianti industriali. Ad esempio, sono oltre 621mila le frane censite sul territorio italiano, il 66% di quelle complessivamente rilevate in Europa, mentre gli stabilimenti industriali a rischio di incidente rilevante sono 970, molti dei quali si trovano in zone sismiche e di fragilità idrogeologica.

Senza un deciso cambiamento delle politiche, molti degli Obiettivi dell’Agenda 2030 non saranno raggiunti“, avverte l’Asvis. Per gli obiettivi a carattere ambientale, ad esempio, il 25% di suolo agricolo destinato a coltivazioni biologiche è raggiungibile da 11 territori su 21. Tra gli obiettivi con forti criticità, l’agenzia segnala l’efficienza idrica, la riduzione del 20% dell’energia consumata e l’azzeramento del consumo di suolo, per i quali in circa due terzi dei territori la situazione sta peggiorando, fermo restando che nessuna Regione o Provincia autonoma sembra avere la possibilità di raggiungerli entro il 2030. Situazione critica per la riduzione di rifiuti urbani: in 15 territori, infatti, questa produzione sta aumentando e in nessuna area si registrano miglioramenti significativi.

Prosegue quindi un malfunzionamento dei tanti piani di intervento adottati per colmare le distanze tra i territori, un prerequisito per affermare uno sviluppo equo e sostenibile dell’Italia: “Invitiamo il Governo ad attuare subito la nuova Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, approvata a settembre“, scandisce la presidente di Asvis, Marcella Mallen. La strategia si pone l’obiettivo di migliorare la coerenza delle politiche attraverso un modello di governance multilivello. Un modello alla cui realizzazione l’agenzia contribuisce, ricorda “insieme alle reti della società civile, mettendo a disposizione anche la propria esperienza, maturata anche nell’assistenza fornita in questi anni a diverse Regioni e Città Metropolitane, tra cui Emilia-Romagna, Lombardia, Valle d’Aosta, Veneto e Bologna”.