Ex Ilva, Urso nomina tutti i commissari e li riunisce al Mimit Sindacati: “Sfida epocale”

La squadra dei commissari che avranno il compito di rilanciare l’ex Ilva in amministrazione straordinaria è completa: tre per Acciaierie d’Italia, tre per il Gruppo Ilva.
Dopo Giancarlo Quaranta, nominato lo scorso 20 febbraio, per AdI arrivano Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia ed esperto di tematiche ambientali, e Giovanni Fiori, esperto di corporate governance e internal auditing. Per il Gruppo Ilva, invece, dopo le dimissioni di Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo, arrivano lo stesso Danovi, esperto di risanamento d’impresa, gestione dell’insolvenza e operazioni straordinarie; Francesco di Ciommo, esperto in diritto bancario e finanziario, delle crisi di impresa, amministrativo e societario; Daniela Savi, esperta in gestione della crisi d’impresa e in materia fiscale.

Urso riunisce subito tutti al Mimit in due tavoli. Il primo riguarda gli impianti, il secondo l’indotto. L’obiettivo è fare il punto della situazione attuale e sui prossimi passi da compiere per il rilancio delle attività. Al primo tavolo partecipano solo Urso e i commissari, al secondo, in videoconferenza, partecipano lo staff del ministro, i commissari di AdI, i rappresentanti dell’Abi, di Sace, di Banca Ifis, di Assifact e delle associazioni dell’indotto, sulle azioni da mettere in campo per il salvataggio della filiera.

Ora la compagine è completa e si può entrare nel merito delle questioni“, scandisce Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil, che chiede un accordo per la ripartenza per mettere in sicurezza gli impianti, i lavoratori e creare le condizioni ambientali adeguate per rilanciare la produzione. “E’ necessario fare presto – incita -, serve ridare liquidità all’azienda, altrimenti gli impianti rischieranno di fermarsi e deve essere garantita la continuità salariale per i lavoratori“.

La sfida, per il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, è “epocale“: “Riuscire a rimettere l’ex Ilva in una condizione di normalità, salvaguardando i posti di lavoro, per poi rilanciarla avviando un piano reale di decarbonizzazione“. Questo, spera, “deve portare alla fine del contrasto tra la città e il grande stabilimento“.

Ottimista anche la Fim Cisl, che conta sul recupero dei ritardi accumulati negli anni. “Siamo fiduciosi che la squadra possa portare avanti un buon lavoro, dando continuità industriale e nel contempo fare i necessari interventi che permettano di rimettere nel più breve tempo possibile il Gruppo sul mercato“, afferma il segretario nazionale, Valerio D’Alò.

La prossima settimana, il 9 marzo, le parti sociali saranno con il ministro delle Imprese negli stabilimenti di Genova e a Novi Ligure.

A Novi, stamattina, c’è stata una riunione del tavolo di crisi permanente convocato dal presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, e dall’assessore al Lavoro, Elena Chiorino, con il presidente della provincia di Alessandria, Enrico Bussalino, i sindaci dei Comuni di Novi Ligure e Racconigi, insieme ai rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil, i sindacati di categoria Fiom Cgil, Fim Cisl e Uil, e le Rsu, ma anche con i parlamentari e i consiglieri regionali.  La visita di Urso in Piemonte è un “segnale molto forte di attenzione da parte del governo che ha raccolto la sollecitazione di questo territorio a considerare quello di Ilva un tema nazionale“, scandisce Cirio, che consegnerà un documento condiviso da istituzioni e sindacati: “La priorità è tenere alta l’attenzione e garantire la continuità produttiva degli stabilimenti piemontesi di Novi Ligure, Racconigi e Gattinara che, insieme all’indotto, rappresentano oltre 3 mila posti di lavoro in Piemonte”, afferma. La convocazione del tavolo resta permanente fino alla piena operatività dei tre stabilimenti piemontesi.

Tabarelli

Tabarelli (Nomisma Energia): “Obiettivi climatici ambiziosi diventano irrealistici, c’è già deindustrializzazione”

Davide Tabarelli è un esperto di energia dagli anni ’80. Ha fondato Nomisma Energia, che tuttora presiede, e negli ultimi mesi è diventato una sorta di guru su temi climatici e appunto energetici.

Professore, in questo inizio 2023 stiamo assistendo a un’accelerazione impressa dalla Ue sulla transizione, con provvedimenti destinati a modificare la vita dei cittadini e del tessuto economico italiano. Partendo dagli obiettivi green 2030 su aumento rinnovabili e diminuzione dell’uso di gas e petrolio, quale impatto può avere su industria e Pil italiano?

“Si tratta di obiettivi talmente ambiziosi che finiscono nell’irrealistico. Tutto nasce dal Fit for 55, questo 55% è appunto fissato entro il 2030, ma noi siamo a -23% e ci abbiamo messo trent’anni per fare trenta punti percentuale, come possiamo in 7 anni più che raddoppiare tutte le azioni e centrare i target? Facciamo le rinnovabili, va bene, ma è impossibile moltiplicare pannelli e pale in questo poco tempo”.

Ma quindi Fit for 55 è solo uno slogan?

“E’ uno slogan rivoluzionario. Servono questi slogan, ma non andremo lontano. La rivoluzione d’ottobre in Russia doveva portare la felicità ovunque ma abbiamo ora la guerra in Europa… Ci siamo ritrovati con questa crisi e questa guerra a trasferire il 6% del Pil all’estero, ovvero il deficit energetico. Potevamo fare qualcosa di più, se avessimo avuto più stoccaggio e maggiore produzione nazionale di gas. Dovremmo avere anche produzione nucleare… Il fatto è che a forza di parlare di rinnovabili, consumeremo sempre gas e saremmo allora dipendenti non più dalla Russia ma da qualche altro stato. Ben vengano, ripeto, le rinnovabili, aiutano, però dovremmo fare mente locale e renderci conto che da sole non bastano”.

Che dice della normativa che punterà solo sulle auto elettriche dal 2035, ponendo fine al motore endotermico? Cosa c’è da aspettarsi?

“Guardi, le auto elettriche sono una limitazione della libertà perché fanno mobilità di breve raggio, costano tanto, hanno bisogno di incentivi, e dal punto di vista ambientale non è vero che non inquinano, perché bisogna considerare anche come vengono prodotte. Stiamo facendo un piacere alla Cina, ha costi di produzione che nessuno può battere”.

Servono incentivi per la transizione come negli Usa e in Cina o si rischia la deindustrializzazione dell’Europa?

“L’Europa si sta già deindustrializzando su certe cose, eravamo proprio leader sull’auto e mi riferisco ad esempio alla tradizione motoristica del diesel. Quello che ci stanno facendo è un po’ un attacco, penso anche alle leadership su agroalimentare e vino. Comunque non abbiamo grandi tecnologie, per ora il manifatturiero tiene, ma il prezzo dell’energia è uno di quei costi aggiuntivi che vengono posti al nostro sistema produttivo che gli impedisce di essere competitivo nel mondo”.

E le Case green? Dopo il caos sul Superbonus 110%, sono realistici gli obiettivi senza forti incentivi?

“Sono entrato nella metà degli anni ’80 nel mondo dell’industria, già all’epoca si facevano politiche per migliorare l’efficienza energetica. Si fanno da tempo in tutti i Paesi, da noi si fanno da 50 anni, la prima legge è del 1976. Con il 110 per cento tuttavia i risparmi sono stati pochi, in generale non ci sono grandi risparmi che si possono fare sulle emissioni”.

A proposito di emissioni, c’è il nuovo regolamento europeo che riduce le quote gratuite. Questo comporterà più costi per le aziende? Più inflazione?

“Certo, è una tassazione. Molti soldi incassati vengono poi restituiti per incentivare nuovi comportamenti e l’efficienza energetica, però non si raggiunge molto. Di sicuro ci sono più costi per il sistema”.

Capitolo Pnrr. Dentro ci sono miliardi per biogas, idrogeno verde, transizione digitale… Ce la faremo a rispettare i tempi? E’ la strada giusta?

“Il tema è che servono misure di attuazione all’interno di una politica che, come ho detto prima, è rivoluzionaria. Serve la consapevolezza, molto presente nel resto del mondo, che l’energia è un bene primario delle persone… bisogna partire da questo”.

Fonderie e crisi energetica. Assofond: Senza misure strutturali punto di non ritorno

Oltre 1.000 imprese, 30.000 addetti, 7 miliardi di fatturato. Sono i numeri del settore delle fonderie italiane che sta affrontando una crisi energetica senza precedenti. E chi più delle imprese così altamente energivore può soffrire la situazione economica e geopolitica attuale? Il tema è infatti il focus del 36esimo Congresso Nazionale di Fonderia, in corso a Torino fino a domenica e organizzato da Assofond, associazione di Confindustria. Il primo a lanciare l’allarme è Fabio Zanardi, presidente di Assofond, spiegando che “senza misure strutturali, in tempi brevi arriveremo al punto di non ritorno: il mercato, che già è in fase di rallentamento, potrebbe sgonfiarsi repentinamente e portare di conseguenza anche nel nostro settore fermi produttivi”. Il titolo del Congresso, ‘Al timone con l’inflazione: come mantenere la rotta?’, evidenzia il contesto in cui si sta muovendo l’industria di fonderia italiana, la cui sostenibilità è messa in discussione proprio dai costi insostenibili di energia elettrica e gas.

Sostenibilità sotto tutti i punti di vista: economico, sociale e ambientale. Dell’aspetto economico-finanziario parla Claudio Teodori, docente di economia aziendale al Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia, secondo cui, in un contesto di rallentamento dell’economia e inflazione, con costi elevati di materie prime ed energia, “l’unica arma a disposizione delle imprese è fare tutto il possibile per difendere la redditività che tende a contrarsi, anche grazie a investimenti in digitalizzazione e innovazione, che permettano l’incremento del valore aggiunto”. Per quanto riguarda la sostenibilità sociale, Maria Raffaella Caprioglio, presidente di Umana S.p.a., spiega come “oggi trovare personale in linea con le esigenze delle imprese è sempre più difficile”, soprattutto per i settori industriali che i giovani neolaureati sentono distanti dalle loro aspettative.

Infine, ma non per ordine di importanza, il tema della sostenibilità ambientale, che nell’attuale contesto è fortemente influenzata dalla crisi energetica. Secondo il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, l’Europa dovrà intraprendere un percorso difficile: “La realtà è che siamo in un’economia di guerra, ma in Europa si discute per lo più di soluzioni tampone, che forse possono migliorare la situazione, ma che non sono adatte a risolvere il problema. La politica ha impiegato troppo tempo per rendersi conto della crisi. Ora bisogna tornare ai fondamentali, che sono quelli che contano: i prezzi sono esplosi non per la speculazione, ma perché manca il 40% di offerta di un bene, il gas, che è essenziale, e che è impossibile sostituire con qualcos’altro in pochi mesi”. Secondo Tabarelli “il prezzo non è alto, perché la domanda non crolla, sta cominciando a farlo solo in questi giorni. Per questo fra le possibili soluzioni c’è quella di fare pressione ai governi per dare segnali dal lato della domanda, essendo pronti anche a fare razionamento. Perché questo riduce la domanda. E’ inutile che l’Europa si scanni su tetto, extra profitti, disaccoppiamento prezzi. Quello che conta veramente è dare un segnale sulla domanda, dire che siamo pronti a fare razionamento”.