auto elettriche

Le auto elettriche hanno un problema: i loro nomi

Un quarto dei 300 modelli di auto in circolazione negli Usa ha lo stesso nome da oltre 20 anni, nonostante la vettura di base sia cambiata. E’ il caso della Porsche 911, introdotta nel 1965, o della Toyota Corolla, che debuttò nel 1966. Il Chevrolet Suburban, marchio più vecchio, ha addirittura 89 anni. Con l’avvento dell’elettrificazione, le case automobilistiche stanno ora sfornando modelli uno dietro l’altro, che però – secondo l’ultima newsletter di Bloomberg Green – hanno un problema: non hanno nomi accattivanti, oltre a prezzi molto più alti della media. Ad esempio il primo veicolo elettrico di massa della Toyota si chiama bZ4X, dove ‘bZ’ sta per emissioni “oltre lo zero”, il 4 si riferisce alle quattro ruote motrici e la X indica la forma di un crossover. Honda invece chiamerà il suo secondo veicolo elettrico e:Ny1. Poi, secondo Bloomberg, ci sono nomi che possono generare confusione. La E-Pace della Jaguar ha il motore a gas, mentre è la I-Pace quella a batteria. L’ID.4 è l’auto elettrica Volkswagen a forma di Sub, mentre l’ID. Buzz è il remake del famoso furgone tedesco.

Per David Placek, fondatore di Lexicon Branding, un nome di prodotto eccellente deve soddisfare tre requisiti: deve essere memorabile, degno di nota e distintivo all’interno della categoria. Inoltre, è utile che il nome sia “quello che noi chiamiamo fluente nell’elaborazione'” dice Placek. Quando la mente lo guarda e dice: “Ok, posso capirlo”. Molti nuovi nomi di mezzi elettrici non sono all’altezza. O si attengono troppo alla tradizione per risultare degni di nota – scrive Bloomberg – o si spingono così lontano per distinguersi da non essere memorabili.

Ci sono anche i nomi che, aggiungendo lettere, diventano meno chiari con il proliferare delle varianti. Audi ha lanciato il suo veicolo elettrico con il nome di “e-tron” – abbastanza ragionevole, dice Bloomberg – ma ora ha una serie di e-tron, tra cui l’originale e una e-tron Gt (molto diversa). Mercedes ha fatto un’operazione simile: i modelli elettrici dell’azienda comprendono EQS, EQA, EQB ed EQE, oltre a EQS SUV, EQB SUV ed EQE SUV.

La spinoff di Volvo, Polestar, invece ha adottato l’approccio dell’iPhone: la sua prima auto (non più in produzione) è stata la 1. Ora c’è la 2 e la 3 è in arrivo. I migliori nomi di veicoli elettrici non sono “probabilmente acronimi o accozzaglie di lettere, ma sono freschi, originali e divertenti da pronunciare”, sottolinea ancora Bloomberg. “General Motors ha seguito questa strada con la Chevrolet Bolt e la Cadillac Lyric. La Ioniq di Hyundai si adatta bene. Lucid ha il suo Air, Fisker il suo Ocean e Subaru il suo Solterra. Poi c’è l’Ariya di Nissan, presumibilmente un’alterazione della parola sanscrita che significa nobile o ammirevole. La Taycan di Porsche è una scelta unica, che richiama alla mente un’inafferrabile bestia della giungla”.

Secondo le stime di BloombergNEF, solo nel prossimo anno vedremo 30 nuovi veicoli elettrici negli Stati Uniti. “Fino ad allora, un applauso al team di Toyota che ha proposto Prius, che a 25 anni di distanza ha ancora un bell’effetto. Devono essere andati in pensione prima che arrivasse la bZ4X”, conclude la newsletter Bloomberg Green.

L’Italia ha pagato 8,6 mld a Putin da inizio guerra per gas e petrolio

Bloomberg scrive che l’economia russa rischia una forte crisi, Mosca invece fa sapere che quest’anno il Pil calerà di appena il 2,9%. La decisione di Mosca di interrompere il flusso del Nord Stream per alcuni osservatori sta a indicare che, senza export di metano, Putin vedrebbe ridurre drasticamente i propri introiti. Altri sostengono che le sanzioni stanno facendo male più all’Europa che alla Russia. Chi ha provato a fare luce sui numeri è il Center for Research on Energy and Clean Air (Crea), un think tank indipendente finlandese, secondo il quale la Russia ha guadagnato 158 miliardi di euro di entrate dalle esportazioni di combustibili fossili nei primi sei mesi di guerra (dal 24 febbraio al 24 agosto), poco meno di un miliardo al giorno. E la Ue ne ha importato il 54%, per un valore di circa 85 miliardi di euro. Più precisamente le esportazioni di combustibili fossili hanno contribuito con circa 43 miliardi al bilancio federale russo dall’inizio dell’invasione, contribuendo a finanziare la stessa guerra in Ucraina, sottolinea il Crea.

La principale importatrice di combustibili fossili è stata appunto la Ue (85,1 miliardi di euro), seguita da Cina (34,9 miliardi), Turchia (10,7), India (6,6), Giappone (2,5 miliardi), Egitto (2,3) e Corea del Sud (2 miliardi di euro). A sua volta, all’interno della Ue, la parte del leone la fa la Germania con 19 miliardi di euro pagati a Mosca per importare principalmente gas e petrolio, poi segue l’Olanda (11,1 miliardi soprattutto per il petrolio) nonostante sia la base della borsa che fa impazzire il prezzo del gas e nonostante sia seduta su decine di miliardi di metri cubi inutilizzati a Groningen, al terzo posto l’Italia che in 180 giorni ha versato nelle casse di Putin 8,6 miliardi pari a circa 50 milioni al giorno per ricevere in cambio gas via Tarvisio (sempre meno), petrolio, derivanti dal petrolio e un po’ di carbone (materia prima sulla quale è scattato l’embargo a inizio agosto). In pratica il nostro Paese durante i sei mesi che hanno sconvolto il mondo ha versato più soldi a Putin dell’India, che recentemente ha confermato di non voler applicare sanzioni verso il Cremlino e di voler intensificare gli acquisti di metano e greggio da Mosca. Fuori dal podio europeo troviamo infine la Polonia (7,4 miliardi di euro di prodotti fossili importati), Francia (5,5 miliardi), Bulgaria (5,2), Belgio (4,5) e Spagna 3,3).

Tornando sull’Italia nei due mesi che hanno preceduto il blocco all’import di carbone russo, abbiamo continuato a comprarne in compagnia di Olanda, Polonia, Germania e Spagna. Più o meno gli stessi Paesi che nelle ultime settimane si sono convertiti al carbone sudafricano che parte dal Richards Bay Coal Terminal benché la domanda fosse già cresciuta del 40% da gennaio a maggio. A proposito di carbone, ieri il prezzo del Newcastle Coal ha toccato i massimi a 463 euro a tonnellata. Ad agosto, i ricavi e i volumi delle esportazioni di combustibili fossili della Russia sono leggermente rimbalzati dal minimo raggiunto a giugno, nonostante le esportazioni russe siano diminuite del 18% rispetto al livello record raggiunto all’inizio dell’invasione (febbraio-marzo). Infatti rispetto all’inizio dell’invasione, le riduzioni delle importazioni di combustibili fossili russi sono costate al Paese 170 milioni di euro al giorno in mancate entrate in luglio e agosto. Il calo complessivo dei volumi delle esportazioni è stato determinato da un calo delle esportazioni verso la Ue, che sono diminuite del 35%.

Da notare infine un dato: dopo l’Europa il più grande importatore dalla Russia è la Cina. E la spesa maggiore di Pechino è per il petrolio, per il quale ha investito circa 25 miliardi. Il gas? Pesa molto meno dell’import di carbone: un paio di miliardi per il metano, quasi 4 per il carbone. E pure l’India è affamata di petrolio e non di gas. Per cui sorge una domanda: se il gas russo non va in Europa, a chi lo venderà Mosca?

(Photo credits: Odd ANDERSEN / AFP)