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Si chiude a Bonn la conferenza sul cambiamento climatico: braccio di ferro su combustibili fossili

La necessità di accelerare la riduzione delle fonti fossili è stata il punto focale e della discordia della conferenza di Bonn sul cambiamento climatico, che si è chiusa giovedì sera e che ha chiamato in Germania i rappresentanti di 200 Paesi. Dieci giorni di dialogo e confronto su transizione energetica equa, sostegno all’adattamento climatico e attuazione di un fondo per finanziare le “perdite e danni” dei Paesi più poveri. Discussioni cruciali in vista della Cop28, che si terrà a Dubai a dicembre, con l’obiettivo di riportare l’umanità sulla traiettoria più ambiziosa dell’accordo di Parigi: limitare il riscaldamento globale a 1,5°C dall’era preindustriale, perché l’attuale tasso di emissioni porterà la Terra a +2,8°C entro il 2100.

“Il cambiamento climatico non è una questione ‘Nord contro Sud’, è un maremoto che non fa distinzioni” e “l’unico modo per evitare di essere travolti è investire nell’azione per il clima”, ha avvertito il segretario esecutivo delle Nazioni Unite per il clima, Simon Stiell, durante la chiusura della conferenza.

Nel mirino del suo discorso, il lungo braccio di ferro che ha opposto Unione Europea e gruppo Lmdc (una ventina di Paesi emergenti, tra cui Cina, India e Arabia Saudita). L’Ue ha voluto intensificare le discussioni sulla riduzione dei gas serra. Ma, in cambio, si è addentrata in ulteriori trattative sugli aiuti finanziari che i Paesi ricchi, cioè i principali responsabili del riscaldamento globale, devono ai Paesi poveri. Anche perché finora le promesse non sono state mantenute. “La riluttanza dei Paesi sviluppati a prendere un vero impegno” sui finanziamenti è stata denunciata dall’ambasciatore cubano, che ha parlato a nome del gruppo G77+Cina (si tratta infatti di 134 Paesi in via di sviluppo, oltre l’80% della popolazione mondiale). “Ogni Paese ha il diritto di seguire i propri percorsi di sviluppo e di transizione”, ha detto ancora nella sua dichiarazione finale, sostenuta dalla maggior parte dei Paesi del Sud, che hanno perso la fiducia nei Paesi sviluppati. “Stiamo rispettando i nostri impegni finanziari per il clima”, ha affermato l’Unione Europea, ricordando la necessità di diversificare le fonti di denaro poiché la maggior parte dei finanziamenti privati ​​per il clima sfugge ai Paesi in via di sviluppo.

La questione sarà, il 22 e 23 giugno, al centro del vertice di Parigi per un nuovo patto finanziario globale. E ancora in agenda a settembre, al vertice sull’azione per il clima organizzato a New York dal segretario generale Onu Antonio Guterres, che giovedì ha definito i combustibili fossili “incompatibili” con la sopravvivenza dell’umanità.

Gli occhi sono puntati soprattutto sul presidente della Cop28, il sultano al-Jaber, capo della compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, che ha partecipato alla conferenza di Bonn l’8 e 9 giugno. Sotto pressione da parte degli ambientalisti, si è accontentato di incontrare le delegazioni, senza tenere una conferenza stampa. “È giunto il momento per lui di passare dalla modalità di ascolto alla modalità di azione”, ha dichiarato Alden Meyer, veterano della Cop presso il think tank E3G, rammaricandosi di “un’occasione persa” per farlo a Bonn. In un cambio di narrazione simbolica, però, il sultano ha riconosciuto durante un ricevimento che la riduzione dei combustibili fossili è “inevitabile”.

Gli osservatori attendono ancora una roadmap concreta per la Cop28, che si terrà sulla scia della prima valutazione globale, a settembre, dei progressi compiuti dalle nazioni per ridurre le proprie emissioni dal 2015. “Il divario tra i risultati politici di Bonn e la dura realtà climatica sembra già enorme”, sottolinea Li Shuo, esperto di Greenpeace, che in questo gap vede il “preludio alle turbolenze politiche della Cop”. A Dubai, per la prima volta, i partecipanti dovranno dichiarare i loro possibili legami (“affiliazioni”) con le aziende, una vittoria della società civile che ha chiesto questa misura contro l’influenza mascherata delle industrie fossili.

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La COP27 rischia di diventare il flop di Madrid e Glasgow

Duecento rappresentanti dei paesi di tutto il mondo si sono dati appuntamento a Bonn per preparare la COP27 che si terrà in Egitto a novembre. Quasi sei mesi per mettere a regime un appuntamento considerato fondamentale dopo il mezzo fiasco della COP26 a Glasgow e la guerra che, come sostengono in molti e come si percepisce per via induttiva, contribuirà a rallentare il già difficoltoso processo di decarbonizzazione del pianeta.

La domanda è semplice e abbastanza spontanea: ma c’è bisogno di ‘preparare’ un appuntamento così cogente addirittura sei mesi prima? La risposta è altrettanto semplice e altrettanto spontanea: sì. Perché al di là delle chiacchiere e dei buoni propositi per ripulirsi le coscienze, non tutti i Paesi hanno percepito la gravità della situazione ambientale e la necessità di frenare il riscaldamento globale. O se l’hanno capita, non la ritengono vitale. Tirate le somme, prevalgono gli interessi, le strategie di geopolitica, il desiderio di stare sempre un passo avanti rispetto al vicino della porta accanto. A Bonn si è cercato di trovare una chiave per aprire le porte della diplomazia e del buonsenso, nella speranza che il tempo faccia la sua parte.

Il pericolo che a Sharm-el-Sheikh vada in scena una replica di Madrid 2019 e di Glasow 2021 è alta, non a caso Patricia Espinoza, capo dell’agenzia Onu per il clima, ha già lanciato l’allarme. Quel monito, “servono azioni”, non può cadere nel vuoto. Altrimenti anche la Cop27 sarà un altro esercizio di stile (green) dove ciascuno farà per conto proprio e in virtù della propria sensibilità. Se l’Europa sta agendo in maniera determinata – come testimonia il pacchetto REPowerEu – altri Stati stanno frenando. L’India si era già messa di traverso alla Cop26 sul tema del carbone, la Cina è distante e poco tracciabile, gli Stati Uniti ci provano ma con prudenza, la Russia è alle prese con tali e tante grane che la questione carbon free sta in fondo alla lista delle priorità.

Gli Accordi di Parigi galleggiano sospesi, a Sharm-el-Sheikh ci sarà la revisione degli NDC, ovvero gli impegni nazionali di riduzioni delle emissioni per limitare a 1,5° l’aumento della temperatura globale. Poi dovranno essere presi in esame i sostegni per i paesi ‘fragili’ che non erano decollati alla Cop26. La speranza è che non sia tempo butto anche stavolta, Greta dirette il solito bla bla bla…