Clima, attivisti Extinction Rebellion travestiti da Pinocchio bloccano ingresso Mit

Un centinaio di attivisti di Extinction Rebellion travestiti da Pinocchio, questa mattina ha bloccato l’ingresso del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Alcuni si sono incatenati alle porte d’ingresso, mentre altri si sono appesi con corde, imbrago e caschetto, sui pali della luce. “Crisi climatica: benvenuti nel Governo dei Balocchi” si legge sullo striscione all’ingresso. Nel piazzale antistante è stato inoltre montato un grosso Pinocchio di cartapesta, seduto su due barili di petrolio mentre regge in mano la terra in fiamme.

“Abbiamo vissuto il luglio più caldo mai registrato, a cui è seguito l’agosto più caldo. E poi il settembre più caldo. Ma i ministri della Repubblica continuano a dichiarare che d’estate ha sempre fatto caldo e che lo scioglimento dei ghiacciai è dovuto a cicli naturali. Cos’altro si può dire, se non che stiano deliberatamente mentendo e ingannando i cittadini?”, dicono gli attivisti.

“Per compiere la transizione ecologica di cui abbiamo bisogno – aggiungono – saranno necessari interventi infrastrutturali mirati e ponderati, che si basino sugli obiettivi climatici che l’Italia stessa si è impegnata a rispettare a livello internazionale e che prevedano il coinvolgimento attivo della cittadinanza”. Interventi, dicono, “molto lontani da quelli su cui sta investendo l’attuale Ministero, grandi opere che vanno ad aggravare la crisi eco-climatica, invece di affrontarla”. Tra questi, il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina che “la cui costruzione richiederà tonnellate di materie prime, principalmente acciaio e cemento, che libereranno migliaia di tonnellate di CO2”.

“Siamo di fronte a un grottesco Governo dei Balocchi – dicono ancora gli attivisti di Extinction Rebellion – Un governo distante dalla realtà, da tutti gli allarmi lanciati in questi anni dalla comunità scientifica e da tutte le persone che negli ultimi mesi sono state colpite dagli effetti della crisi climatica ed ecologica”. Di fronte a questi dati “drammatici, è arrivato il momento di dire la verità e smetterla di minimizzare gli effetti di quella che è stata definita la crisi più grande che l’umanità abbia mai affrontato” concludono.

Barriera corallina

I coralli che non ti aspetti: ecco come si adattano ai cambiamenti climatici

I fattori che influenzano la resilienza dei coralli – cioé la loro capacità di adattarsi e sopravvivere ai cambiamenti ambientali – sembrano essere più sfumati di quanto gli scienziati credessero. In uno studio pubblicato il 18 ottobre sulla rivista Global Change Biology, i ricercatori hanno rivelato risultati sorprendenti su una specie comune alle acque dei Caraibi. La scoperta potrebbe contribuire a migliorare gli sforzi per salvare i coralli dallo sbiancamento e da altre conseguenze del cambiamento climatico. Un team guidato dalla professoressa Carly Kenkel del Dornsife College of Letters, Arts and Sciences dell’USC ha studiato il corallo stellato di montagna, Orbicella faveolata, per determinare se le popolazioni che sono sopravvissute a temperature più elevate possono trasmettere la loro tolleranza al calore alla ‘prole’. E con grande sorpresa degli scienziati, i risultati hanno mostrato il contrario: la progenie di una popolazione meno tollerante al calore si è comportata meglio quando è stata esposta alle alte temperature rispetto alle controparti di una popolazione tollerante al calore.

Questi risultati contrastano con l’idea comunemente diffusa tra gli scienziati secondo cui se i ‘genitori’ dei coralli sono in grado di sopportare il caldo, dovrebbero esserlo anche i loro ‘figli’. Il cambiamento climatico minaccia la sopravvivenza delle barriere coralline a livello globale. L’aumento delle temperature oceaniche ha portato allo sbiancamento, che li indebolisce e li rende più suscettibili alle malattie.

Per valutare quali coralli sono in grado di gestire più facilmente le temperature elevate, gli scienziati hanno raccolto le cellule riproduttive, cioè i gameti, da due diversi siti della barriera corallina nelle Florida Keys. Uno si trova vicino alla costa e l’altro più al largo. I ricercatori hanno allevato i coralli in un ambiente controllato e hanno esposto le larve a condizioni di stress termico in laboratorio, misurando poi la sopravvivenza. La scoperta inaspettata che le larve di corallo della popolazione meno tollerante al calore sono sopravvissute meglio e hanno mostrato meno segni di stress suggerisce che la capacità della prole di gestire il calore potrebbe essere influenzata da vari fattori, tra cui se e quanto spesso i genitori si sono sbiancati in passato o hanno subito altre pressioni ambientali.

Ora serviranno ulteriori ricerche per confermare i risultati. Lo studio si concentra su una specifica specie di corallo, e specie diverse potrebbero comportarsi in modo differente. Inoltre, la ricerca si è svolta in un laboratorio controllato e molti fattori, oltre alla temperatura, influenzano le barriere coralline in natura. Svelando i segreti della capacità dei coralli di resistere all’aumento delle temperature, gli scienziati potrebbero trovare nuovi modi per aiutare questi ecosistemi essenziali a prosperare in un mondo che cambia.

TikTok aiuta gli agricoltori a coltivare l’empatia verso il clima

Gli agricoltori sono abituati a coltivare i campi e a produrre beni, ma un nuovo studio condotto da ricercatori della Penn State suggerisce che la piattaforma di social media TikTok può aiutarli a coltivare qualcosa di nuovo: l’empatia nei confronti del problema del cambiamento climatico. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Rural Studies.

Il team, che ha analizzato le risposte ai TikTok sul cambiamento climatico postati dagli agricoltori, ha scoperto che molte persone hanno risposto ai video con calore e compassione, segnalando empatia emotiva. Tuttavia, i ricercatori hanno anche scoperto che i video non hanno avuto lo stesso successo nell’innescare l’empatia cognitiva negli spettatori. In questo caso, l’empatia cognitiva si è manifestata con commenti in cui gli spettatori vanno oltre la compassione e si impegnano a riflettere criticamente sul contenuto, aggiungendo i propri pensieri o ponendo ulteriori domande.

Lo studio suggerisce che piattaforme come TikTok offrono nuovi modi agli agricoltori di comunicare con i consumatori, secondo Ilkay Unay-Gailhard, ricercatrice presso il Leibniz Institute of Agricultural Development in Transition Economies in Germania, che ha condotto lo studio mentre completava la sua borsa di studio globale Marie Sklodowska-Curie dell’Unione Europea alla Penn State. “I consumatori di oggi sono sempre più alla ricerca di trasparenza nei sistemi agroalimentari e vogliono sapere chi è il loro agricoltore e come viene prodotto il loro cibo“, ha affermato la ricercatrice. “Sono anche sempre più disposti a garantire un settore agroalimentare sostenibile, sostenendo gli agricoltori coinvolti nelle decisioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Queste tendenze indicano l’opportunità per gli agricoltori di impegnarsi più direttamente con i cittadini, come già fanno i politici, i media, gli scienziati e gli attivisti“.

Secondo i ricercatori, il lavoro è stato ispirato dal duplice modo in cui la produzione alimentare contribuisce e risente dei cambiamenti climatici. Ad esempio, l’allevamento del bestiame e la produzione di prodotti alimentari possono creare emissioni di gas serra che contribuiscono a intrappolare il calore vicino alla superficie della Terra. Contemporaneamente, gli effetti del cambiamento climatico si ripercuotono anche sui sistemi alimentari in vari modi, tra cui una minore quantità d’acqua o una peggiore qualità del suolo per il bestiame e le colture.

Con l’obiettivo di comprendere meglio il potenziale di TikTok nel generare conversazioni empatiche sul cambiamento climatico, i ricercatori hanno effettuato un’analisi in due fasi. In primo luogo, hanno analizzato il modo in cui gli utenti hanno interagito con i video di TikTok postati dagli agricoltori durante la 26esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. I ricercatori hanno ottenuto un campione di studio di 29 video TikTok che consisteva in 2.965 conversazioni con 187 account provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. Nella seconda fase dello studio, i ricercatori hanno intervistato 12 agricoltori di Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia che attualmente utilizzano TikTok per esplorare meglio i loro valori, atteggiamenti e convinzioni riguardo ai dialoghi sul cambiamento climatico sulla piattaforma. I ricercatori hanno scoperto che, mentre molti video sono riusciti a suscitare empatia emotiva, solo pochi sono stati in grado di ispirare empatia cognitiva. Tuttavia, hanno anche scoperto che gli agricoltori intervistati ritenevano che TikTok avesse ancora un potenziale maggiore per favorire conversazioni empatiche rispetto ad altre piattaforme di social media.

Secondo i ricercatori, i risultati dimostrano che TikTok può svolgere un ruolo nel coinvolgere il pubblico in conversazioni sul cambiamento climatico. “Ciò che si nota dalle narrazioni degli agricoltori di TikTok è come l’empatia tra gli spettatori interessati all’agricoltura trasformi la piattaforma in un paesaggio di apprendimento“, ha detto Unay Gailhard. “L’auto-rappresentazione degli agricoltori su TikTok con identità professionali non riguarda solo l’avere voce e gioia, ma anche l’investire reciprocamente sugli altri nella loro comunità online. Questa reciprocità emerge con la raccolta e la condivisione di esperienze e conoscenze all’interno di contesti educativi informali“.

Alluvione

Abbattere le case per costruirle altrove: in Slovenia si combattono così gli eventi climatici estremi

Abbattere le case per ricostruirle altrove: sconvolto dalle inondazioni che hanno devastato la Slovenia quest’estate, il sindaco di un piccolo villaggio ha deciso di optare per un metodo radicale, convinto dell’urgente necessità di adattarsi ai cambiamenti climatici.
Un anno dopo un incendio di dimensioni senza precedenti, questo Paese di due milioni di abitanti ha vissuto in agosto una tempesta storica che ha devastato due terzi del suo territorio, anche se le perdite di vite umane sono state limitate (sei morti) grazie a un efficace sistema di allerta. In totale, 180 dei 212 comuni hanno subito danni e più di 100 ponti e chilometri di strade sono stati distrutti. Secondo il governo, per completare la ricostruzione saranno necessari non meno di 10 miliardi di euro in cinque anni.

Più il pianeta si riscalda, più aumenta il vapore acqueo nell’atmosfera (circa il 7% per ogni grado in più), aumentando il rischio di forti precipitazioni in alcune parti del mondo. In combinazione con altri fattori cruciali come l’urbanizzazione e la pianificazione territoriale, queste precipitazioni più intense favoriscono le inondazioni. La Slovenia è particolarmente esposta a causa della sua posizione al crocevia tra il Mediterraneo, le Alpi e la Pianura Pannonica dell’Europa centrale.

A 60 chilometri a nord della capitale, Lubiana, il sindaco di Braslovcem Tomaz Zohar, ha visto il fiume Savinja rompere gli argini e sommergere un centinaio di case su entrambe le sponde. È un incubo che non vuole rivivere. “Il mio ruolo è quello di aiutare le persone e garantire la loro sicurezza, cosa che non avviene nelle condizioni attuali”, spiega.

Il piano prevede la costruzione di nuove case su terreni non esposti entro il 2025, mentre quelli esistenti diventerebbero proprietà dello Stato e servirebbero come zona cuscinetto per proteggere le case in caso di inondazioni. Il sindaco attende ora l’approvazione del governo, sperando che dimostri “saggezza e coraggio”. Tanto più che lo stesso primo ministro liberale Robert Golob ha chiesto di cogliere l’occasione “per ricostruire trasformando e per essere meglio preparati a futuri disastri”.

Senza commentare nel merito, l’esecutivo ha detto che sta cercando “soluzioni appropriate” caso per caso per un “processo di ricostruzione a lungo termine”. I residenti del villaggio, però, sono divisi: non tutti sono pronti a lasciare le loro case, preferendo dare la colpa alla scarsa manutenzione degli argini.

Il climatologo Lucka Kajfez Bogataj ha lodato l’iniziativa del sindaco, “l’unico che ha capito la posta in gioco”, pur rammaricandosi del fatto che gran parte della popolazione metta in prospettiva gli sconvolgimenti climatici causati dall’uomo. “Immaginano che quello che hanno vissuto sia un evento isolato”, afferma l’ex esperto dell’IPCC. “Ma dobbiamo dire loro la dura e crudele verità: i cambiamenti stanno accelerando e non sarà mai più la stessa cosa”.

Le recenti inondazioni hanno inviato “un messaggio molto chiaro”, aggiunge Janez Potocnik, ex commissario europeo per l’ambiente. “Il pericolo è ormai ovunque, anche in aree abituate a condizioni climatiche stabili in passato”, sottolinea, riferendosi anche a Spagna, Grecia e Italia, colpite da fenomeni estremi quest’estate.

Alluvione

Decine di milioni di bambini sfollati e traumatizzati dai disastri climatici

Inondazioni, tempeste, siccità… i disastri alimentati dai cambiamenti climatici hanno causato 43,1 milioni di sfollati tra il 2016 e il 2021. E questa è solo “la punta dell’iceberg”, avverte l’Unicef, criticando la mancanza di attenzione nei confronti di queste vittime “invisibili”.
Nell’ultimo rapporto l’agenzia Onu racconta il trauma di Juana, che nel 2020 aveva 9 anni quando la città in cui viveva in Guatemala fu sommersa dalle acque in seguito agli uragani Eta e Iota. E la storia delle giovani sorelle Mia e Maia che hanno visto la loro casa mobile distrutta dalle fiamme in California.

Abbiamo portato le nostre cose in autostrada, dove abbiamo vissuto per settimane”, racconta Abdul Azim, un bambino sudanese il cui villaggio è stato inondato nell’agosto 2022 e poteva essere raggiunto solo in barca.

Le statistiche sugli sfollamenti interni legati ai disastri climatici non tengono generalmente conto dell’età, ma l’Unicef sta lavorando con il Centro per disaggregare i dati e garantire che i bambini non siano più “invisibili”.

Tra il 2016 e il 2021, quattro tipi di disastri climatici (inondazioni, tempeste, siccità e incendi), la cui frequenza e intensità stanno aumentando con il riscaldamento globale, hanno causato lo sfollamento di 43,1 milioni di bambini in 44 Paesi; nel 95% dei casi, la ‘colpa’ è stata di inondazioni e tempeste. “Si tratta dell’equivalente di circa 20.000 spostamenti di bambini al giorno”, spiega Laura Healy, una delle autrici, sottolineando che questi minori sono esposti a molteplici rischi, dalla possibile separazione dalle loro famiglie alle reti di traffico di bambini.

I dati, però, sottovalutano “radicalmente” gli spostamenti legati alla siccità, che avvengono più lentamente e sono quindi più difficili da monitorare. “Questa è solo la punta dell’iceberg, sulla base dei dati disponibili. La realtà è che con l’impatto dei cambiamenti climatici e un migliore monitoraggio degli spostamenti per gli eventi meteorologici di più lenta insorgenza, il numero di bambini sradicati sarà molto maggiore”, insiste Laura Healy.

Le inondazioni legate esclusivamente allo straripamento dei fiumi potrebbero causare lo sradicamento di 96 milioni di bambini nei prossimi 30 anni, i venti ciclonici 10,3 milioni e la sommersione marina legata alle tempeste 7,2 milioni. Queste cifre non includono le evacuazioni preventive.

“Per coloro che sono costretti a fuggire, la paura e le ripercussioni di tali disastri possono essere particolarmente devastanti, con la preoccupazione di sapere se saranno mai in grado di tornare a casa o a scuola, o se saranno costretti a ripartire”, dice Catherine Russell, responsabile dell’Unicef.

L’organizzazione chiede ai leader mondiali di affrontare questo problema alla conferenza sul clima COP28 che si terrà a Dubai tra poche settimane. Sebbene il crescente impatto del cambiamento climatico sia avvertito ovunque, il rapporto punta il dito su alcune aree particolarmente vulnerabili. Filippine, India e Cina sono i Paesi più colpiti in termini assoluti (quasi 23 milioni di bambini sfollati in 6 anni), a causa delle loro popolazioni molto numerose, della loro posizione geografica e dei loro piani di evacuazione preventiva.
Ma se guardiamo alla percentuale di bambini sfollati, l’immagine evidenzia la vulnerabilità dell’Africa e delle isole minori. La Dominica ha visto sfollare il 76% dei suoi bambini in 6 anni, Cuba e Saint-Martin più del 30%, Vanuatu il 25%, le Filippine il 23%.

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Clima, sempre più vicina soglia critica di +1,5°C dell’Accordo di Parigi

Le temperature globali continuano a battere record: dopo un’estate senza precedenti e un settembre ancora più sorprendente, il 2023 è ora l’anno più caldo mai misurato nei primi nove mesi, avvicinandosi alla soglia critica di +1,5°C rispetto all’era preindustriale.

Da gennaio a settembre, “la temperatura media globale è di 1,40°C al di sopra della media preindustriale (1850-1900)“, prima cioè dell’effetto sul clima delle emissioni di gas serra dell’umanità, annuncia il Climate Change Service (C3S) dell’osservatorio europeo Copernicus. E questa media, che è già superiore di 0,05°C rispetto all’anno record 2016, potrebbe aumentare ulteriormente negli ultimi tre mesi dell’anno, data la crescente potenza di El Nino. Il fenomeno meteorologico ciclico sul Pacifico, sinonimo di ulteriore riscaldamento, raggiunge in genere un picco intorno al periodo natalizio. “Non è scontato che nel 2023 si raggiungano gli 1,5°C. Ma siamo abbastanza vicini”, conferma all’AFP Carlo Buontempo, direttore del C3S.

Il raggiungimento di questa soglia simbolica non significherebbe tuttavia che il limite più ambizioso dell’Accordo di Parigi sia stato raggiunto, poiché l’Accordo si riferisce ai cambiamenti climatici su lunghi periodi, decenni e non singoli anni. L’IPCC, un gruppo di esperti sul clima nominato dalle Nazioni Unite, prevede che la soglia di 1,5°C sarà raggiunta già nel 2030-2035.

In primavera, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha stimato che la barriera sarà superata per la prima volta in un solo anno nei prossimi cinque anni.

Nel frattempo, “il settembre 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato a livello globale“, continuando una serie di record mensili globali iniziata a giugno. Il luglio 2023 detiene il record assoluto per tutti i mesi messi insieme. Con una temperatura superficiale media globale di 16,38°C, il mese scorso ha superato il record stabilito nel settembre 2020 con un margine “straordinario” di 0,5°C, ha riferito giovedì Copernicus. Il mese di settembre 2023 è quindi “più caldo di 1,75°C rispetto alla media di settembre nel periodo 1850-1900″, ha aggiunto Copernicus. Mentre le variazioni delle temperature globali sono generalmente misurate in pochi decimi di grado, il mese di settembre 2023 è di 0,9°C al di sopra della media di settembre nel periodo 1991-2020, che rappresenta “l’anomalia mensile più alta” mai misurata da Copernicus, il cui database completo risale al 1940. Tutti i continenti sono stati interessati da anomalie insolite. In Europa, settembre 2023 ha stabilito un nuovo record continentale per il primo mese dell’autunno meteorologico, con temperature di oltre 35°C in Francia fino all’inizio di ottobre. Nello stesso mese, le piogge torrenziali della tempesta Daniel, probabilmente aggravate dai cambiamenti climatici secondo gli studi preliminari, hanno devastato il nord-est della Libia e la Grecia. Anche il sud del Brasile e il Cile hanno subito un diluvio a settembre, mentre l’Amazzonia è attualmente colpita da una siccità estrema che interessa più di 500.000 abitanti.

Anche i poli stanno perdendo ghiaccio: il pack di ghiaccio antartico rimane al minimo storico per la stagione, mentre il pack di ghiaccio artico è del 18% sotto la media, secondo il C3S. Il surriscaldamento dei mari del mondo, che assorbono il 90% del calore in eccesso causato dall’attività umana a partire dall’era industriale, gioca un ruolo importante in queste osservazioni. Per il sistema di misurazione Copernicus, la temperatura media del mare ha raggiunto 20,92°C a settembre, un nuovo record mensile e la seconda misurazione più alta dopo quella dell’agosto 2023. Di fronte a questa situazione, le risposte dell’umanità sono “insufficienti, mentre il mondo sta cadendo a pezzi” e si sta avvicinando a un “punto di rottura”, ha deplorato mercoledì Papa Francesco, in un testo che ha la forma di un grido d’allarme a due mesi da una decisiva conferenza delle Nazioni Unite sul clima. Alla COP28 di Dubai, la questione di come abbandonare i combustibili fossili sarà al centro di accesi negoziati tra i Paesi, che finora non sono stati in grado di conciliare le richieste dell’Accordo di Parigi per limitare il riscaldamento globale con le aspirazioni di sviluppo di tutta l’umanità.

Papa

Dal Papa nuovo documento sul clima: “Dobbiamo reagire, punto di rottura è vicino”

Si intitola ‘Lodate Dio‘ “perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso“. Nelle ultime parole della nuova esortazione apostolica ambientale sta l’essenza del documento. E’ un nuovo grido di Papa Francesco, otto anni dopo la prima enciclica sulla cura del Creato. Un ‘aggiornamento’ della Laudato Si’, necessario perché, spiega il Pontefice, “con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura“.

Più volte, nei settantatre punti dell’esortazione, torna lo spettro del punto di rottura. Più volte torna la certezza che questa crisi climatica colpisca tutti democraticamente, ma a partire dai più fragili. Più volte il Papa argentino denuncia l’irresponsabilità dei negazionisti, anche all’interno della Chiesa. Parla di opinioni “sprezzanti e irragionevoli“, nonostante non si possa più dubitare che la mano dell’uomo agisca sul riscaldamento globale, che la ragione “dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile“, dati gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura negli ultimi due secoli.

Il Pontefice punta il dito anche contro le grandi potenze economiche, interessate soltanto a “ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili“, a scapito del Pianeta e del genere umano tutto. Ma mette in guardia dal paradigma tecnocratico, che “si nutre mostruosamente di sé stesso“. Questo perché le risorse naturali necessarie per la tecnologia che avanza, come il litio e il silicio non sono illimitate, ma il problema più grande è “l’ideologia che sottende un’ossessione – osserva : accrescere oltre ogni immaginazione il potere dell’uomo, per il quale la realtà non umana è una mera risorsa al suo servizio. Tutto ciò che esiste cessa di essere un dono da apprezzare, valorizzare e curare, e diventa uno schiavo, una vittima di qualsiasi capriccio della mente umana e delle sue capacità“. E dunque ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti è indispensabile: “Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza. Ci vuole lucidità e onestà per riconoscere in tempo che il nostro potere e il progresso che generiamo si stanno rivoltando contro noi stessi“.

A cadere in inganno davanti alle promesse di tanti “falsi profeti“, sono soprattutto i poveri, che vivono in un mondo che “non viene costruito per loro“, scrive il Papa, deplorando la decadenza etica del potere reale, “mascherata dal marketing e dalla falsa informazione“. Bergoglio pensa “all’effimero entusiasmo per il denaro ricevuto in cambio del deposito di scorie tossiche in un sito. La casa acquistata con quei soldi si è trasformata in una tomba a causa delle malattie che si sono scatenati“.

Dopo accordi e Cop deludenti, promesse non mantenute per mancanza di meccanismi di controllo, il Pontefice si rivolge alla comunità internazionale e guarda alla Cop28 di Dubai, in programma per dicembre: “Dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico. Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente“, osserva. La Conferenza può essere un “punto di svolta” o “una grande delusione e metterà a rischio quanto di buono si è potuto fin qui raggiungere” è l’avvertimento del Papa. Tertium non datur.

L’India verso l’energia pulita: ma gli sforzi non bastano, serve accelerare

L’India deve aumentare la sua capacità di produzione di energia solare di almeno il 36% all’anno per i prossimi cinque anni per raggiungere i suoi obiettivi di mix energetico. E’ quanto emerge da uno studio del think-tank britannico Ember, secondo il quale il Paese ha anche urgente bisogno di modernizzare la rete elettrica e di aumentare la capacità di stoccaggio per far fronte alla natura intermittente delle fonti di energia rinnovabili.

Il rapporto, tuttavia, evidenzia segnali di progresso nel Paese più popoloso del mondo, che dipende in larga misura dal carbone, una fonte energetica altamente inquinante, per la produzione di energia. Secondo Ember, gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili sono in aumento e quest’anno l’India ha commissionato un numero record di pannelli solari.

Il rapporto si basa sul National Electricity Plan (NEP) del Paese, presentato quest’anno. Questo documento, che guarda al 2032, prevede che l’India continuerà a fare affidamento sul carbone, ma con le energie rinnovabili che rappresenteranno una quota sempre maggiore del suo mix di generazione elettrica.

Se nel 2022 l’energia solare rappresentava solo il 5% della produzione totale di elettricità dell’India, il NEP prevede che raggiungerà il 25% entro un decennio. Ma per raggiungere questo obiettivo, la capacità dovrà essere aumentata massicciamente ogni anno per almeno i prossimi cinque anni, secondo Ember.

L’India ha anche bisogno di più soluzioni di stoccaggio per far fronte alla variabilità della produzione di energia solare ed eolica, con il rischio di blackout. Ospite del G20 di quest’anno, ha visto le sue emissioni pro capite di carbone aumentare del 29% negli ultimi sette anni e ha evitato qualsiasi politica volta a ridurre gradualmente il carbone. Nuova Delhi ha annunciato l’obiettivo della neutralità del carbonio entro il 2070, in ritardo rispetto a molti altri Paesi.

Contro la crisi climatica nasce BioPod: la profumeria si ispira a ricerca spaziale per salvare le rose

In un hangar della zona industriale di Ivry-sur-Seine, alla periferia di Parigi, si erge una sorta di astronave che sembra uscita da un film di fantascienza: si tratta di una serra ispirata alla ricerca spaziale portata avanti da una start-up franco-americana, Interstellar Lab, che ricrea climi diversi. Obiettivo: preparare al cambiamento climatico piante aromatiche essenziali per la profumeria. L’iniziativa Interstellar Lab ha attirato uno dei leader di mercato nel settore degli aromi e dei profumi, l’azienda francese Robertet.

Lungo undici metri, largo 5, alto 6, il BioPod a forma di uovo è illuminato da Led che donano ai suoi 100 mq di spazio interno una luce viola, che permette di testare e coltivare la resistenza delle piante. In questo bozzolo, ispirato a un sistema sviluppato per la Nasa, Interstellar Lab riproduce i climi su richiesta in un circuito semichiuso. “È una serra sotto steroidi”, ride Barbara Belvisi, CEO della start-up e ideatrice di questa idea. “Due computer collegati a sensori gestiscono la temperatura, l’umidità, la luce, il livello di ossigeno“, spiega. In un guscio sormontato da una cupola trasparente, il BioPod ospita un serbatoio d’acqua da 500 litri con una durata della batteria da tre a sei mesi, a seconda del clima desiderato. Il dispositivo influisce anche sulle dosi di CO2 necessarie alla crescita delle piante.

Tra pochi mesi un BioPod verrà installato a Grasse, nel sud-est della Francia. Robertet, che progetta profumi e aromi naturali per le più grandi marche come Chanel, Dior, Hermès e grandi gruppi lattiero-caseari e acquatici (che non vogliono essere nominati), ha investito un milione di euro in cinque anni per l’acquisizione di una simile serra e il suo sistema di gestione. “Ciò ci consentirà di accelerare i tempi di ricerca di quattro o cinque anni“, ha detto Julien Maubert, direttore della divisione Materie prime di Robertet.

Per il direttore generale del gruppo, Jérôme Bruhat, “la catastrofe climatica è una situazione nuova” e “come industriale, la questione è come gestire il rischio” di perdere le nostre materie prime.
Sarà ancora praticabile tra dieci anni, tra vent’anni, tra trent’anni?”, si chiede Maubert. La questione è cruciale per l’azienda di famiglia fondata nel 1850. “Dobbiamo trovare le specie giuste o prepararle affinché abbiano meno acqua e più calore“, assicura. “Tra 50 anni ci dovranno essere ancora le rose” e con meno prodotti chimici, secondo lui.

Così, per far fronte ai rischi climatici, il gruppo diversifica le sue fonti di approvvigionamento e i suoi fornitori in tutto il mondo: il gelsomino proviene dalla Turchia e dall’Egitto, il vetiver da Haiti, la rosa dalla Bulgaria, dalla Turchia ma anche da Grasse, capitale del profumo.

E su BioPod: è “uno strumento che ci permetterà di studiare la resistenza della pianta alla mancanza d’acqua, al calore“, assicura Maubert, l’idea è “avere specie più resistenti alle sfide climatiche ma anche specie con una resa migliore. Attualmente sono necessarie 3 tonnellate di rose per produrre un litro di olio essenziale”. Robertet è il primo cliente ad acquistare un BioPod da Interstellar Lab. La start-up, che conta attualmente 33 dipendenti, è sostenuta da France 2030, il piano di investimenti dello Stato, che finanzia il 60% della futura fabbrica BioPod adiacente all’hangar di Ivry-sur-Seine. Interstellar Lab ha inoltre raccolto 7 milioni di euro da privati, fondi e BpiFrance, la banca pubblica francese per gli investimenti.

Il clima influenza la diffusione delle malattie trasmesse dalle zanzare

Il clima influenza l’incidenza delle malattie trasmesse dalle zanzare: quello locale su scala annuale, mentre i cambiamenti globali sono statisticamente riscontrabili ogni 2-4 anni. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Science Advances e condotto da un team di scienziati guidati da Bernard Cazelles dell’Institut de Biologie de l’Ecole Normale Superieure della Sorbonne, che hanno analizzato una lunga serie di dati relativi alla alla malaria e alla febbre dengue provenienti da diversi Paesi su varie scale temporali, da anni a decenni. Per gli esperti questi risultati potrebbero contribuire a migliorare i sistemi di allerta precoce per le epidemie.

Le malattie trasmesse dalle zanzare continuano a minacciare la salute pubblica in tutto il mondo, soprattutto nelle regioni tropicali e subtropicali. Le epidemie di malaria, virus Zika, dengue e febbre del Nilo occidentale sono influenzate da una serie di fattori, tra cui l’evoluzione dei patogeni e le condizioni socioeconomiche. I ricercatori tendono a concordare sul fatto che anche le variabili climatiche, come l’umidità locale e l’andamento delle precipitazioni, svolgono un ruolo importante. Alcuni focolai sono stati associati anche a El Niño-Southern Oscillation, un indice di variabilità climatica globale.

Tuttavia, pochi studi sono stati in grado di distinguere i fattori climatici locali da quelli globali che determinano le epidemie. Per colmare questa lacuna, Cazelles colleghi hanno analizzato le variabili climatiche locali e globali che si ritiene influenzino l’incidenza delle malattie trasmesse dalle zanzare nei Paesi dell’Asia meridionale/sudorientale, dell’America centrale/sudorientale e dell’Africa subsahariana. Utilizzando osservazioni climatiche allineate con 197 serie temporali di incidenza di malaria e febbre dengue che coprono un arco temporale di circa tre decenni, i ricercatori hanno individuato le scale temporali in cui queste malattie presentano forti associazioni con i fattori climatici locali (ad esempio, temperatura, precipitazioni e umidità) e globali (come El Niño-Southern Oscillation).

I risultati suggeriscono che le condizioni climatiche locali hanno generalmente influenzato la variazione dell’incidenza delle malattie su scale temporali stagionali (annuali), mentre le condizioni climatiche globali hanno influenzato la loro incidenza su scale temporali da 2 a 4 anni. Gli autori affermano che i risultati supportano la crescente evidenza che i fattori climatici possono influenzare l’emergere di malattie trasmesse dalle zanzare, ma si spingono oltre dimostrando “che questi effetti dipendono in modo consistente dalla scala temporale“. Una migliore comprensione di queste dinamiche potrebbe facilitare l’adozione di misure preventive più tempestive.