In arrivo la prima sciabolata artica di Attila: temperature sotto la media

Il 2023 potrebbe essere l’anno più caldo della storia a livello globale, gli ultimi 5 mesi sono stati da record assoluto per la calura italiana, le temperature di metà novembre hanno segnato dati estremi: ad esempio, con i 30 gradi al Sud per il nostro Paese e l’anomalia di +2,07°C a livello globale il 17 novembre, giorno più caldo dall’era pre-industriale in poi per il nostro Pianeta. Lorenzo Tedici, meteorologo del sito www.iLMeteo.it, conferma questo andamento di caldo estremo con un Global Warming imperante, ma intravede anche l’eccezione che conferma la regola: spunta una previsione straordinaria per i prossimi giorni.

Dopo mesi e stagioni di caldo anomalo, arriverà dal weekend la prima sciabolata artica di Attila dell’inverno, il primo lungo periodo di freddo e di temperature sottomedia: in altre parole farà freddo con il termometro che rimarrà sotto la media stagionale per almeno 10 giorni, evento mai accaduto quest’anno su gran parte dell’Italia. La prima irruzione artica della stagione colpirà tutto lo Stivale da sabato 25 novembre e porterà un tracollo delle temperature: ci vestiremo con berretti e sciarpe almeno fino alla festività dell’Immacolata.

Nel dettaglio, nelle prossime ore dovremo prestare la massima attenzione anche al Ciclone in spostamento verso il meridione: sono previste piogge a tratti intense su Medio Adriatico e Sud, e tra Abruzzo e Molise vedremo anche la neve in alta collina, fino ai 1.000 metri; infine, le piogge si intensificheranno sulle regioni ioniche gradualmente e nella prossima notte sono previsti nubifragi tra Calabria e Sicilia.

Ma la previsione straordinaria, oltre alle piogge importanti e forti attese nelle prossime 24 ore, riguarda sabato 25 e i giorni successivi: inizieremo a battere i denti ed il cambio dell’armadio sarà definitivo. Almeno fino alla prima settimana di dicembre i termometri saranno sottomedia e il meteo parlerà chiaro: a Milano sono previste minime intorno a -1°C e massime di 5/6°C per almeno 10 giorni con valori ovviamente sottomedia, a Bologna e Firenze idem sottomedia con -1/7°C e pure a Roma con 0°/9°. Inoltre, non si escludono fiocchi svolazzanti tra Bologna e Firenze ed è molto probabile che la neve cadrà fin quasi in pianura o addirittura lungo le coste adriatiche nel corso della prossima settimana: in sintesi, prepariamoci al meteo straordinario, dopo mesi di gran caldo torniamo a vivere il freddo e non siamo più abituati.

L’ultima frontiera climatica: ‘manipolare’ le nuvole per fare piovere a comando

Manipolare le nuvole per far piovere o ridurre la grandine: in un contesto di riscaldamento globale, molti Paesi stanno raddoppiando l’interesse per queste tecniche, con il rischio di creare tensioni geopolitiche. In Australia, la società elettrica Snowy Hydro sta completando la sua tradizionale campagna di semina nelle Snowy Mountains, la catena montuosa più alta dell’isola-continente. L’obiettivo è quello di aumentare le precipitazioni nevose utilizzando generatori di particelle di ioduro d’argento. Snowy Hydro alimenterà poi le riserve d’acqua per produrre più energia idroelettrica, spiega l’azienda.

Che sia per l’agricoltura, il consumo umano o l’elettricità, l’immenso bisogno di acqua è aggravato dal riscaldamento globale. Secondo le Nazioni Unite, 2,3 miliardi di persone vivono già in Paesi in cui la scarsità d’acqua è un problema. In queste condizioni, diversi Paesi stanno cercando di cambiare il clima: India, Thailandia, Stati Uniti, ma anche Cina. Nel 2020, Pechino ha pubblicato una circolare che illustra la sua strategia: secondo questo documento, la Cina avrà un sistema di modifica del tempo sviluppato entro il 2025. Anche gli Emirati Arabi Uniti si stanno dando da fare. Qualche anno fa, il Centro meteorologico nazionale ha lanciato un programma di ricerca per migliorare le precipitazioni, con sovvenzioni di 1,5 milioni di dollari per ogni progetto di ricerca riuscito.

Fin dagli incantesimi alle ninfe della pioggia dell’antichità, le speranze di far piovere su richiesta non si sono mai esaurite. Dalla fine degli anni ’40 gli Stati Uniti ci hanno provato, anche per scopi militari: durante la guerra del Vietnam, l'”Operazione Popeye” dell’esercito americano consisteva nel seminare nuvole nel tentativo di rallentare le truppe di Ho Chi Minh. L’efficacia della manovra è tuttora oggetto di dibattito. Da allora le tecniche sono cambiate relativamente poco, anche se la ricerca è in corso. In genere si tratta di disperdere particelle – ioduro d’argento, sale igroscopico, ecc. – nelle nuvole, sia con aerei che con generatori o razzi da terra. Le mini-particelle introdotte nella nuvola ne modificano la struttura e potenzialmente ne provocano la precipitazione.

Ma la semina ha le sue insidie. Anche perché è difficile valutare la reale efficacia delle tecniche. In Francia, l’Association nationale d’étude et de lutte contre les fléaux atmosphériques (Anelfa), istituita a cavallo degli anni ’50, utilizza questa tecnica per cercare di ridurre la grandine che danneggia le colture agricole. “È difficile valutare l’efficacia di questa tecnica a causa dell’ampia variabilità di questo fenomeno naturale“, ammette Claude Berthet, il suo direttore. “Ma le nostre indagini mostrano una correlazione tra le aree che hanno ricevuto lo ioduro d’argento e quelle che hanno ricevuto meno grandine”. Snowy Hydro riporta un aumento del 14% della neve nelle Snowy Mountains durante le campagne di semina.

Questo è solo un aspetto del problema. “L’idea principale alla base del cambiamento climatico è che stiamo andando verso una scarsità di risorse idriche, che porterà a un numero sempre maggiore di conflitti per averle”, avverte Marine de Guglielmo Weber, ricercatrice presso l’Istituto di Relazioni Internazionali e Strategiche, che ha scritto la sua tesi sull’argomento. In questo contesto, “le tecniche presentate come in grado di forzare una nube a precipitare quando normalmente ci sarebbero volute diverse ore per farlo diventeranno sempre più foriere di conflitti”. Nel 2018, ad esempio, un alto funzionario iraniano ha accusato Israele di ‘rubare’ le nubi iraniane.

Eppure, lamenta lo scrittore ed ex avvocato Mathieu Simonet, che ha appena pubblicato un articolo sull’argomento, non esiste una legge internazionale sulle nuvole. “Le nuvole sono un bene comune, quindi abbiamo bisogno di regole comuni per condividerle”, sostiene. “Soprattutto, queste regole comuni non devono essere determinate dalla posizione geografica: le nuvole circolano ovunque. Allo stesso modo, non devono essere determinate dalle capacità tecniche e dalla ricchezza di un particolare Paese”. Nel frattempo, l’autore sta girando la Francia per fare una campagna per il riconoscimento di una Giornata internazionale delle nuvole.

Il verde in città? Abbassa la temperatura ma non sempre l’inquinamento

La vegetazione in città contribuisce ad abbassare temperatura e velocità del vento, ma non porta sempre a una riduzione degli inquinanti nell’aria. È quanto emerge da due studi ENEA pubblicati sulla rivista scientifica Forests e realizzati nell’ambito del progetto Life VEG-GAP.

“Abbiamo usato sistemi modellistici per la qualità dell’aria, ma configurati in modo da includere con maggior dettaglio la vegetazione presente e la morfologia urbana, stimando la quantità di inquinanti rimossi e mostrando che, localmente, questa rimozione non garantisce sempre un miglioramento della qualità dell’aria”, spiega Mihaela Mircea, ricercatrice del Laboratorio Inquinamento atmosferico e responsabile del progetto per l’ENEA.

Nello scorso mese di luglio, nelle tre città prese in esame (Milano, Bologna e Madrid), i ricercatori Enea hanno rilevato che la vegetazione ha ridotto localmente la temperatura fino a 0,8° a Milano, 0,6° a Madrid e 0,4° a Bologna. Le concentrazioni di inquinanti, invece, sono variate con la stagione e a seconda della città presa in esame, perché sono il risultato di interazioni molto complesse tra centinaia di gas e composti chimici controllati dalle condizioni meteorologiche ed emissioni. D’estate, l’ozono, particolarmente dipendente dalle emissioni delle piante, ha mostrato una riduzione a Madrid (fino a -7,40 mg/m3) ma un aumento a Milano (fino a +2,67 mg/m3.).

Le variazioni dell’ozono hanno una relazione inversa con un altro inquinante come il biossido di azoto: infatti, quest’ultimo aumenta a Madrid (fino a +7,17 mg/m3) mentre diminuisce a Milano ( fino a -3,01 mg/m3). Nel caso del particolato atmosferico (PM10), la vegetazione ha un impatto più forte a gennaio, in corrispondenza dell’aumento delle emissioni antropiche, e mostra riduzioni a Milano (fino a -3,14 mg/m3) e aumenti a Madrid (fino a +2,01 mg/m3).

La presenza della vegetazione produce effetti in tutta la città, non solo nelle aree verdi, e non solo d’estate: gli alberi decidui infatti modificano le proprietà dell’aria anche in inverno, agendo come ostacoli che riducono la velocità del vento e la dispersione degli inquinanti, e come sorgente di acqua attraverso il suolo permeabile intorno a loro, aumentando così l’umidità relativa dell’aria. “I nostri studi hanno considerato l’interazione continua tra la vegetazione e l’aria urbana e sono applicabili in qualsiasi città che abbia a disposizione un inventario della vegetazione presente”, conclude Mircea.

Scoperto il legame tra gli eventi climatici estremi e l’acqua alta a Venezia

Esiste un legame tra i cambiamenti climatici in atto e l’aumento del numero e della gravità dei fenomeni di acqua alta a Venezia. E il Mose? E’ efficace, sia in termini di costi sia di benefici. A rivelarlo è uno studio pubblicato sulla rivista ‘Nature Climate Atmospheric Science’, realizzato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi (CNRS) e l’International Centre for Theoretical Physics di Trieste (ICTP). La ricerca ha analizzato quattro eventi eccezionali di acqua alta che hanno interessato la città lagunare nel 1966, 2008, 2018 e 2019, danneggiando gravemente il patrimonio culturale ed economico di Venezia e minacciando luoghi iconici come la Basilica di San Marco.

“I risultati che abbiamo ottenuto hanno evidenziato chiaramente il legame esistente tra le modifiche nella circolazione atmosferica e l’aumento della gravità degli eventi di acqua alta, sottolineando la crescente vulnerabilità di Venezia ai cambiamenti climatici”, spiega Tommaso Alberti, ricercatore dell’INGV e co-autore dello studio. “In particolare, – spiega – abbiamo rivolto la nostra attenzione al Mose, l’infrastruttura progettata per proteggere la città dalle inondazioni, che si è dimostrato efficace in termini di costi e benefici per contenere gli effetti dell’acqua alta e il progressivo aumento del livello marino causato dal riscaldamento globale, che a Venezia viene accelerato anche dal fenomeno della subsidenza”.

Capire con discreta certezza la relazione tra eventi climatici ed eventi calamitosi è fondamentale per la tutela del patrimonio sociale, economico e culturale delle aree abitate. Tutte le politiche di protezione del territorio devono poter contare su dati scientifici con congrue previsioni, altrimenti si andrebbero a determinare allarmi non giustificati o (ancor peggio) mancati allarmi.

“Il nostro obiettivo a lungo termine resta quello di comprendere sempre meglio gli impatti di aumento del livello marino a Venezia, anche in condizioni di fenomeni estremi, per valutare i possibili scenari attesi nei prossimi anni e contribuire in modo proficuo al dibattito sullo sviluppo di strategie sempre più efficaci di mitigazione, adattamento e resilienza che i cambiamenti climatici e la subsidenza impongono in questa città patrimonio dell’UNESCO”, conclude Marco Anzidei, ricercatore dell’INGV e co-autore dello studio.

La ricerca costituisce un tassello importante per migliorare la comprensione delle cause e degli effetti legati agli eventi climatici estremi nelle città costiere, fornendo una solida base per attuare ulteriori azioni di monitoraggio e ricerca.

agricoltura

Eventi estremi, aumento prezzi e ritardo politiche: 2023 anno nero per l’agricoltura

Strada in salita per l’agricoltura italiana, segnata sempre più dagli impatti della crisi climatica, dall’aumento dei prezzi e dai ritardi sul fronte delle politiche agricole. Nei primi dieci mesi del 2023 sono stati ben 41 gli eventi meteorologici estremi, una media di 4 al mese, che hanno causato danni all’agricoltura con pesanti ripercussioni economiche. Emilia-Romagna con 10 casi, Veneto (6), Toscana (4) e Piemonte (4) le regioni più colpite. Inoltre, ad aggravare il quadro si inserisce il ritardo italiano rispetto agli obiettivi europei fissati al 2030 dalle direttive From farm to fork e Biodiversity – che prevedono la riduzione del 50% dei pesticidi, del 20% dei fertilizzanti, del 50% degli antibiotici utilizzati negli allevamenti, il raggiungimento del 10% di aree dedicate a biodiversità e corridoi ecologici nei terreni agricoli e del 25 % di biologico a livello europeo. E’ la fotografia che emerge dal V Forum nazionale Agroecologia Circolare di Legambiente. Secondo i dati sugli eventi meteorologici estremi elaborati dal suo Osservatorio Città Clima, il 2023 può essere considerato un anno nero per l’agricoltura: se si guarda indietro negli anni, su un totale di 114 eventi estremi che hanno avuto impatti sull’agricoltura dal 2010 ad oggi, ben 80 (il 70%) sono avvenuti negli ultimi 4 anni (2020/2023). Nord e Sud Italia le zone più colpite in questi quattro anni con Emilia-Romagna 15 casi, Piemonte 14, Puglia 11, Veneto 10, Lombardia e Sicilia 7, in sofferenza.

Di fronte a questo quadro, a preoccupare è anche l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e il fatto che l’Italia sia in ritardo anche sull’attuazione del Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, il PAN, la cui ultima stesura risale al 2014 e la cui scadenza era fissata per il 2019. Oltre all’emanazione dei decreti attuativi della legge sull’agricoltura biologica approvata nel marzo 2022. “Preoccupante anche sul fronte europeo il ritardo e le incertezze sull’approvazione del SUR, il regolamento europeo sull’uso dei pesticidi, e la posizione favorevole dell’Italia sulla proroga all’utilizzo per altri dieci anni del glifosato in Europa, su cui è necessario un deciso cambio di rotta”, segnala Legambiente rilanciando la necessità di seguire la via maestra tracciata dall’agroecologia, dall’innalzamento dell’asticella dell’agricoltura integrata, dall’agricoltura bio e dalle tante esperienze virtuose, i cosiddetti ‘Ambasciatori dell’Agroecologia’. Sono questi per l’associazione ambientalista i tre pilastri su cui l’Italia deve accelerare il passo, recuperando anche i tanti ritardi accumulati fino ad ora e dicendo no all’utilizzo del glifosato in Europa.

Sei le proposte, di cui tre tecniche, che Legambiente indirizza oggi al Governo Meloni e in primis al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e che mettono al centro l’agroecologia, “capace di unire innovazione e sostenibilità rispondendo in maniera resiliente alla crisi climatica in atto, e l’agricoltura biologica che può fare da apripista all’intero settore agroalimentare. Per raggiungere questo obiettivo occorre prima di tutto superare il gap tra domanda e offerta, riducendo i costi per i produttori e per i consumatori”. Per questo Legambiente propone l’IVA al 2%per tutti i prodotti biologici certificati, bonus fiscali (dedicati alle donne in gravidanza, ai bambini e alle categorie più fragili) e credito d’imposta per le aziende agricole che decidono di convertirsi al biologico per ridurre i costi della certificazione oggi totalmente a carico degli agricoltori. Non va dimenticato che l’Italia è leader sul biologico con 90.000 operatori, più di 2 milioni di ettari coltivati a biologico e ha raggiunto il 18,7% della SAU (Nomisma 2023).

“Il nostro Paese – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambienteè pronto alla transizione ecologica delle filiere agroalimentari, chiede un cibo sempre più sano e giusto e vuole poter contare su un prodotto sostenibile dal campo alla tavola. Per andare in questa direzione serve rimettere al centro i tre pilastri della sostenibilità – ambientale, sociale ed economica – garantendo reddito e maggiore sicurezza agli operatori del settore. Favorire il made in Italy, sostenere le nostre filiere, fornendo supporto tecnico di fronte alle incertezze legate alla crisi climatica e all’aumento dei prezzi, è l’unica via dicendo allo stesso tempo no alla proroga per l’utilizzo del glifosato in Europa. L’agricoltura è in transizione, lavoriamo insieme affinché lo sia anche il Paese”.

“Il modello agroalimentare che vogliamo promuovere – spiega Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura Legambientedeve essere capace di ridurre gli input negativi della chimica di sintesi, ma anche quelli idrici ed energetici, e diminuire fortemente le emissioni climalteranti, innalzando l’asticella dell’agricoltura integrata, promuovendo senza indugi il biologico, cambiando l’intero sistema a 360° e favorendo l’innovazione tecnologica. Deve poi scommettere sull’economia circolare, come già stanno facendo numerose aziende virtuose, sull’efficienza energetica; sul rinnovo del parco macchine; sul biogas e biometano fatto bene; sul fotovoltaico sui tetti dei capannoni, andando oltre l’autoconsumo e favorendo le comunità energetiche; sull’agrivoltaico, che unisce all’innovazione tecnologica dei pannelli fotovoltaici, le pratiche agricole realizzate in modo complementare, evitando consumo di suolo con una sinergia positiva fra produzione agricola ed energetica. È questa la ricetta vincente”.

Caldo record

Allarme clima, le vittime del caldo rischiano di quadruplicare entro il 2050

Il riscaldamento globale potrebbe quadruplicare i decessi causati dal caldo se non verranno adottati provvedimenti immediati per limitare l’aumento della temperatura sotto 1,5 gradi. E’ quanto riporta il rapporto 2023 del Lancet Countdown on Health and Climate Change, lanciando l’allarme sulla necessità “di una risposta incentrata sulla salute in un mondo che si trova ad affrontare danni irreversibili”. Con il mondo attualmente sulla buona strada per raggiungere un riscaldamento di 2,7°C entro il 2100 e con le emissioni legate all’energia che raggiungono un nuovo record nel 2022, la vita delle generazioni attuali e future è in bilico, segnala il rapporto secondo cui senza nuovi provvedimenti, entro metà secolo il numero delle morti dovute al caldo potrebbe aumentare di 4,7 volte, cioè del 370%.

Le nuove proiezioni globali contenute nell’ottavo rapporto annuale del Lancet Countdown on Health and Climate Change rivelano la grave e crescente minaccia per la salute derivante da ulteriori azioni ritardate sul cambiamento climatico, con il mondo che probabilmente registrerà un aumento di 4,7 volte dei decessi legati al caldo entro il 2050: nel 2022 gli individui sono stati, in media, esposti a 86 giorni di alte temperature pericolose per la salute, di cui il 60% aveva almeno il doppio delle probabilità che si verificassero a causa dei cambiamenti climatici causati dall’uomo. Si rileva inoltre che ondate di calore più frequenti potrebbero causare insicurezza alimentare per altri 525 milioni di persone in più entro il periodo compreso fra 2041 e il 2060, aggravando il rischio globale di malnutrizione. Il rapporto considera inoltre 47 indicatori sui benefici della mitigazione climatica per la salute.

Gli autori del rapporto denunciano quindi la “negligenza” di governi, aziende e banche che continuano a investire in petrolio e gas mentre le sfide e i costi dell’adattamento aumentano vertiginosamente e il mondo si avvicina a un danno irreversibile.

INADEGUATI SFORZI DI MITIGAZIONE. Pubblicato in vista della Cop28, la conferenza delle Nazioni Unite dedicata al clima e all’ambiente che si apre il 30 novembre a Dubai, il rapporto è frutto del lavoro di 114 esperti di 52 istituti di ricerca e agenzie dell’Onu. “Il nostro bilancio sulla salute rivela che oggi i crescenti rischi del cambiamento climatico stanno costando vite umane e mezzi di sussistenza in tutto il mondo. Le proiezioni di un mondo più caldo di 2°C rivelano un futuro pericoloso e ricordano tristemente che il ritmo e la portata degli sforzi di mitigazione visti finora sono stati tristemente inadeguati a salvaguardare la salute e la sicurezza delle persone”, afferma Marina Romanello, Direttrice Esecutiva della Lancet Countdown presso l’University College di Londra. “Con 1.337 tonnellate di anidride carbonica ancora emesse ogni secondo – dice – non stiamo riducendo le emissioni abbastanza velocemente da mantenere i rischi climatici entro i livelli che i nostri sistemi sanitari possono far fronte. L’inazione comporta un costo umano enorme e non possiamo permetterci questo livello di disimpegno: lo stiamo pagando in termini di vite umane. Ogni momento che ritardiamo rende il percorso verso un futuro vivibile più difficile e l’adattamento sempre più costoso e impegnativo”.

CRESCONO I DECESSI PER IL CALDO. Nel 2023, ricorda il rapporto, il mondo ha sperimentato le temperature globali più calde degli ultimi 100.000 anni e i record di calore sono stati battuti in ogni continente, esponendo le persone di tutto il mondo a danni mortali. Anche con l’attuale media decennale di riscaldamento globale di 1,14°C, le persone hanno sperimentato in media 86 giorni di alte temperature pericolose per la salute nel periodo 2018-2022. I decessi legati al caldo tra le persone di età superiore ai 65 anni sono aumentati dell’85% nel periodo 2013-2022 rispetto al periodo 1991-2000. Inoltre, la crescente potenza distruttiva degli eventi meteorologici estremi mette a repentaglio la sicurezza idrica e la produzione alimentare, mettendo milioni di persone a rischio di malnutrizione: nel 2021, rispetto al periodo tra il 1981 e il 2010, sono aumentate di 127 milioni in 122 Paesi le persone che hanno sperimentato insicurezza alimentare.

AUMENTA LA DIFFUSIONE DI MALATTIE INFETTIVE. Allo stesso modo, i cambiamenti climatici stanno accelerando la diffusione di malattie infettive potenzialmente letali. Ad esempio, i mari più caldi hanno aumentato di 329 km ogni anno a partire dal 1982 l’area delle coste mondiali adatta alla diffusione dei batteri Vibrio, che possono causare malattie e morte negli esseri umani, mettendo a rischio di malattie diarroiche e gravi infezioni la cifra record di 1,4 miliardi di persone. La minaccia è particolarmente elevata in Europa, dove le acque costiere adatte al Vibrio sono aumentate di 142 km ogni anno.

PERDITE ECONOMICHE PER 264 MILIARDI DI DOLLARI. In generale, conclude Lancet, il valore totale delle perdite economiche derivanti da eventi meteorologici estremi è stato stimato a 264 miliardi di dollari nel 2022, il 23% in più rispetto al periodo 2010-2014. L’esposizione al calore ha portato anche a 490 miliardi di ore potenziali di lavoro perse a livello globale nel 2022 (un aumento di quasi il 42% rispetto al periodo 1991-2000), con perdite di reddito che rappresentano una percentuale molto più elevata del PIL nei paesi a basso (6,1%) e medio reddito ( 3,8%). Queste perdite danneggiano sempre più i mezzi di sussistenza, limitando la capacità di far fronte e riprendersi dagli impatti dei cambiamenti climatici.

Eppure, “c’è ancora spazio per la speranza”, sostiene Romanello. “L’attenzione alla salute alla Cop28 è l’opportunità della nostra vita per garantire impegni e azioni. Se i negoziati sul clima porteranno ad un’equa e rapida eliminazione dei combustibili fossili, accelereranno la mitigazione e sosterranno gli sforzi di adattamento per la salute, le ambizioni dell’accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C saranno ancora realizzabili e un futuro prospero e sano sarà a portata di mano. A meno che tali progressi non si concretizzino, la crescente enfasi sulla salute nell’ambito dei negoziati sul cambiamento climatico rischia di rimanere solo parole vuote, con ogni frazione di grado di riscaldamento che esacerba i danni subiti da miliardi di persone oggi e dalle generazioni a venire”.

L’Isola di Tuvalu sta affondando: Australia accoglie i migranti climatici

Un trattato “fondante”: l’Australia ha annunciato venerdì che offrirà gradualmente asilo climatico ai circa 11.000 cittadini di Tuvalu, un piccolo gruppo di isole del Pacifico divorate dall’innalzamento del livello del mare e minacciate di estinzione. Due delle sue nove barriere coralline sono già state inghiottite e, secondo gli esperti, è solo questione di tempo – meno di un secolo – prima che l’intero territorio diventi inabitabile.

Il primo ministro australiano Anthony Albanese e il suo omologo di Tuvalu, Kausea Natano, hanno svelato i termini di un patto che permetterà ai cittadini dell’arcipelago di rifugiarsi in Australia “per vivere, studiare e lavorare”. Per evitare una dannosa “fuga di cervelli”, il numero di ingressi sarà inizialmente limitato a 280 all’anno. Natano ha accolto con favore un “raggio di speranza” per la sua nazione, una delle più minacciate dagli effetti del cambiamento climatico.
Jane McAdam, esperta di diritto dei rifugiati e professoressa dell’Università del Nuovo Galles del Sud, definisce il testo “fondamentale” perché “è il primo accordo che affronta specificamente la mobilità climatica”. “La maggior parte delle persone – spiega – non vuole lasciare le proprie case, hanno legami ancestrali molto forti con la terra e il mare, ma questo offre loro sicurezza”.

Il testo deve ancora essere ratificato da entrambe le parti prima di entrare in vigore. Il trattato prevede che i rifugiati tuvalesi in Australia abbiano accesso al sistema educativo e sanitario, oltre che al sostegno finanziario e familiare. L’Australia si è inoltre impegnata a stanziare 16 milioni di dollari australiani (9,5 milioni di euro) per sostenere le coste in erosione di Tuvalu e recuperare le terre sommerse. Tuttavia, il testo deplora il fatto che l’azione sia arrivata così tardi, dato che le conseguenze del riscaldamento globale sono già palpabili. “Crediamo che la popolazione di Tuvalu meriti di poter scegliere di vivere, studiare e lavorare altrove, dato che il cambiamento climatico si sta aggravando”, hanno dichiarato i due leader in un comunicato congiunto. Albanese spiega che l’Australia è aperta all’idea di concludere accordi simili con altri Paesi vicini dell’Oceano Pacifico, aggiungendo che sarebbe comunque necessario un trattato su misura per ciascun candidato.

Questo patto può rappresentare una vittoria strategica per Canberra, che intende rafforzare la propria influenza nella regione di fronte alla crescente presenza della Cina. Il trattato, infatti, include una componente di difesa, impegnando l’Australia a venire in aiuto di Tuvalu in caso di “aggressione militare”, così come di disastri naturali o pandemie. E dà a Canberra voce in capitolo in qualsiasi patto di difesa che l’arcipelago firmi con altri Paesi.

Questa possibilità è tanto più importante se si considera che le Isole Salomone, a ovest di Tuvalu, ne hanno firmato uno con Pechino, autorizzando il dispiegamento di forze armate cinesi sul loro territorio.L’unione Australia-Tuvalu sarà vista come un giorno importante, in cui l’Australia ha riconosciuto di far parte della famiglia del Pacifico”, ha dichiarato Albanese.

Tuttavia, le relazioni tra Canberra e i suoi vicini non sono perfette, in particolare a causa della dipendenza dell’Australia dalle esportazioni di carbone e gas, due risorse economiche inquinanti criticate dai Paesi vicini che stanno già sopportando il peso dell’innalzamento del livello del mare e di condizioni meteorologiche sempre più estreme. Albanese ha sottolineato che i Paesi sviluppati devono iniziare ad assumersi maggiori responsabilità nella lotta al cambiamento climatico, mentre sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più.

Europa, Cina e Usa: a Ecomondo investimenti e obiettivi delle grandi economie mondiali

La transizione ecologica non è un fatto solo italiano. Le tre grandi economie mondiali, Cina, Usa, Europa, nell’ordine i maggiori emettitori di gas serra, hanno avviato ingenti investimenti e programmi per raggiungere l’obiettivo ‘net zero’. La seconda giornata degli Stati Generali della green economy, il summit verde organizzato in occasione di Ecomondo a Rimini dal Consiglio Nazionale della Green Economy, composto da 68 organizzazioni di imprese, in collaborazione con il Mase e la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, ha proprio come tema ‘Le sfide per imprese e governi in un clima che cambia’.

La Cina, che si è data come obiettivo il 2060 per il target emissione zero, è il primo Paese per investimenti per la transizione energetica, 546 miliardi, oltre la metà degli investimenti globali. È anche il maggiore produttore di impianti rinnovabili e di e-car: sono stati prodotti in Cina la metà degli impianti eolici e solari e delle auto elettriche vendute nel mondo. Gli Stati Uniti, che dovranno arrivare ad emissioni zero nel 2050, stanno investendo 140 miliardi di dollari nella transizione green e con l’Inflation Reduction Act del 2022 hanno stanziato oltre 500 miliardi di dollari per la sicurezza energetica e la transizione, in particolare su batterie e rinnovabili, trasporti green e mobilità elettrica, cattura e stoccaggio di carbonio.

L’Europa, che si candida a essere il primo continente carbon free, nel 2022 è stato il secondo Paese per investimenti nella transizione ecologica con 180 miliardi di dollari. Virginijus Sinkevičius, Commissario Ue all’Ambiente e agli Oceani ha ricordato alla platea che “la Ue si impegna a sostenere gli Stati Membri nella transizione, perché la parola chiave deve essere la cooperazione fra tutti gli attori in campo. E fondamentale sarà il ruolo della finanza per stimolare gli investimenti necessari”.

Il pacchetto Fit for 55 ha definito un quadro di target e strumenti avanzati per allineare tutte le politiche agli obiettivi climatici, fra cui un target rinnovabili al 42,5% entro il 2030; un target efficienza energetica sempre per il 2030; dal 2026 sarà in vigore il nuovo meccanismo innovativo di carbon pricing sulle importazioni (CBAM) e dal 2035 si avvia lo stop alla vendita di nuove auto a diesel e benzina. È pari a 578 miliardi di euro la spesa per il clima e per tecnologie green nel periodo 2021-2027 e rappresenta il 33% del budget complessivo Ue.

Per la prima volta imprese, cittadinanza ed esperti in tutto il mondo mettono al primo posto il rischio climatico, come emerso dal Future Risks Report realizzato da Axa in collaborazione con Ipsos: tema su cui lavorerà l’Osservatorio sulla transizione ecologica dell’economia e delle imprese italiane, lanciato dagli Stati Generali della Green Economy.

caldo record

Clima, è stato l’ottobre più caldo di sempre. E il 2023 batterà il record di temperatura

Quello del 2023 è stato l’ottobre più caldo di sempre a livello globale, con una temperatura media dell’aria superficiale di 15,30°C. È quanto emerge dall’ultimo rapporto del Copernicus Climate Change Service (C3S), il servizio del programma Ue Copernicus sui cambiamenti climatici. Si tratta di “0,85°C al di sopra della media di ottobre 1991-2020 e 0,40°C al di sopra del precedente ottobre più caldo, quello del 2019“. Il mese di ottobre 2023 “è stato più caldo di 1,7°C rispetto alla stima della media di ottobre per il periodo 1850-1900”, il periodo di riferimento preindustriale designato. “La temperatura media della superficie del mare è stata di 20,79°C, la più alta mai registrata per il mese di ottobre”. Per quanto riguarda l’anno in corso nel suo complesso, “l’anomalia della temperatura globale per l’ottobre 2023 è stata la seconda più alta tra tutti i mesi dopo settembre 2023”.

Ottobre 2023 ha anche segnato il sesto mese consecutivo in cui l’estensione del ghiaccio marino antartico è rimasta ai minimi storici per il periodo dell’anno, con un valore mensile dell’11% inferiore alla media. L’estensione del ghiaccio marino artico “ha raggiunto il settimo valore più basso di ottobre, con un 12% al di sotto della media”, precisa Copernicus.

Ma non è tutto. La vicedirettrice Copernicus Climate Change Service (C3S), Samantha Burgess, avverte: “Possiamo affermare con quasi certezza che il 2023 sarà l’anno più caldo mai registrato e che attualmente si trova 1,43ºC al di sopra della media pre-industriale”. Per l’anno solare in corso (da gennaio a ottobre) la temperatura media globale è “0,10° C in più rispetto alla media dei dieci mesi del 2016, attualmente l’anno solare più caldo mai registrato”.

Ed è stato l’ottobre più bollente di sempre anche in Italia con una temperatura superiore di 3,15 gradi la media storica del mese. “In Italia l’anomalia climatica – sottolinea la Coldiretti – è stata più evidente nelle regioni del Centro dove la temperatura ad ottobre è stata di ben 3,4 gradi superiore la media storica e maggiori i danni provocati dal maltempo a novembre. Su un territorio più fragile si sono infatti abbattuti fino ad ora nel solo mese di novembre ben 107 eventi estremi tra trombe d’aria, bufere di vento e bombe d’acqua concentrate soprattutto proprio nel centro Italia”.

La crisi dell’olio d’oliva in Italia per colpa dei cambiamenti climatici

Alan Risolo ha un’espressione triste mentre contempla i suoi olivi spelacchiati, a circa quaranta chilometri a nord-est di Roma: i loro rami dovrebbero piegarsi sotto il peso delle olive, ma quest’anno i cambiamenti climatici hanno rovinato il suo raccolto. “La produzione è diminuita dell’80%“, dice amareggiato il 43enne barbuto agricoltore della Sabina, dove fin dall’epoca romana ulivi secolari e addirittura millenari dominano il paesaggio a perdita d’occhio. “Da qualche anno la nostra regione soffre molto dei cambiamenti climatici“, lamenta, riferendosi in particolare alle “piogge torrenziali” e ai “lunghissimi periodi di caldo che durano tutto l’autunno“. Per illustrare il suo punto di vista, indica un ramo con poche olive raggrinzite.

Poco distante, nel frantoio OP Lazio, sotto il paese di Palombara Sabina, gli operai sono impegnati a trasformare il magro raccolto in olio: le olive vengono lavate, schiacciate e trasformate in una pasta verdastra da cui si estrae il prezioso olio extravergine dal profumo intenso. “Nei mesi di aprile e maggio, che sono i mesi di massima fioritura, abbiamo avuto forti piogge che hanno spazzato via il polline, con il risultato che non c’erano frutti“, ha spiegato Stefano Cifeca, ingegnere agrario responsabile della qualità del frantoio, che è dotato di attrezzature all’avanguardia per servire i produttori della regione.

La Sabina non è l’unica regione colpita: la produzione nel centro e nel nord della penisola è crollata. La produzione nazionale è stata salvata dalla Puglia (il tacco dello stivale italiano), che rappresenta la metà dell’olio italiano, e dalla Calabria (la punta dello stivale). Secondo la Coldiretti, la principale organizzazione di rappresentanza del settore agricolo in Italia, la produzione nazionale di olio d’oliva per il 2023 sarà di 290.000 tonnellate, contro le 315.000 del 2022. Purtroppo questa carenza non è eccezionale, come sottolinea Alan Risolo: “Nel 2018 le gelate hanno azzerato la nostra produzione. Ci siamo ripresi a poco a poco, ma molto lentamente. E abbiamo dovuto affrontare altri problemi: la pioggia, il caldo, il cambiamento climatico, che nella nostra regione è diventato più grave“.

Per affrontare il cambiamento climatico, Unaprol, l’associazione nazionale che rappresenta i produttori di olio d’oliva, chiede “un piano strategico nazionale” per il risparmio idrico, il recupero dell’acqua piovana, la creazione di bacini di ritenzione, il riciclo dell’acqua e così via. Una visione condivisa a livello locale da Stefano Cifeca: “I fenomeni estremi causati dai cambiamenti climatici sono legati soprattutto all’assenza prolungata di pioggia per molti mesi: dobbiamo quindi cercare di intercettare le precipitazioni autunnali e invernali creando bacini di ritenzione per poter irrigare nei periodi di siccità“.

La posta in gioco è alta per l’Italia, che è il secondo produttore mondiale, molto dietro alla Spagna: secondo la Coldiretti, nella Penisola ci sono 150 milioni di ulivi, che rappresentano un fatturato annuo di tre miliardi di euro e danno da vivere a 400.000 imprese (aziende agricole, frantoi, aziende di trasformazione, ecc.). Per Alan Risolo, che è anche veterinario e quindi ha una seconda fonte di reddito, “il futuro dell’agricoltura è più che mai incerto perché non possiamo prevedere con precisione questi cambiamenti climatici“.

Di fronte a questa situazione, gli agricoltori potrebbero, ad esempio, “acquistare piante più resistenti al freddo o al caldo“, oppure “cambiare completamente il tipo di produzione“, suggerisce a malincuore. Stefano Cifeca non è ancora favorevole a questa soluzione radicale. “Per fortuna l’olivo è una pianta molto resistente che può adattarsi ai cambiamenti climatici e alle diverse regioni“, dice il cinquantenne dal sorriso contagioso, visto che gli olivi occupano l’80% della superficie agricola utilizzata in Sabina.

Oltre all’Italia, la produzione è diminuita anche a livello internazionale, in particolare in Spagna (-34% rispetto alla media dei quattro anni precedenti), con un conseguente aumento dei prezzi del 42%, secondo i dati pubblicati dalla Coldiretti a settembre.

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