L’impronta di carbonio si dimezza con lo smart working, ma conta anche lo stile di vita

L’impronta di carbonio di un lavoratore in smart working può essere inferiore del 54% rispetto a chi, invece, lavora in sede, ma gli stili di vita e le modalità di lavoro giocano un ruolo essenziale nel determinare i benefici ambientali di questa forma di occupazione. Ad analizzare la questione – divenuta di grande attualità con la pandemia – è uno studio della Cornell University e di Microsoft, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca rivela anche che i cosiddetti lavoratori ‘ibridi’ – cioè chi sta a casa da due a quattro giorni alla settimana – possono ridurre la loro impronta di carbonio dall’11% al 29%, mentre lo smart working un solo giorno alla settimana dà risultati più trascurabili, riducendo l’impronta di carbonio solo del 2%.

“Il lavoro a distanza non è a zero emissioni di carbonio e i benefici di quello ibrido non sono perfettamente lineari”, spiega l’autore dello studio, Fengqi You, professore di ingegneria dei sistemi energetici alla Cornell. “Tutti sanno che senza pendolarismo si risparmia sull’energia dei trasporti – dice – ma ci sono sempre gli effetti dello stile di vita e molti altri fattori”.

Secondo la ricerca, i principali elementi che contribuiscono all’impronta di carbonio dei lavoratori in sede e di quelli ibridi sono gli spostamenti e l’uso dell’energia in ufficio. Questo non sorprende i ricercatori che quantificano l’impatto dello smart working sull’ambiente, ma Cornell e Microsoft hanno utilizzato i dati di un sondaggio e la modellazione per incorporare fattori a volte trascurati nel calcolo dell’impronta di carbonio, tra cui l’uso di energia residenziale, la distanza e il modo di trasporto, l’uso di dispositivi di comunicazione, il numero di membri della famiglia e la configurazione dell’ufficio, come la condivisione dei posti e le dimensioni dell’edificio.

Molte le scoperte fatte dagli autori. Intanto, gli spostamenti non pendolari, come quelli per le attività sociali e ricreative, diventano più significativi con l’aumentare del numero di giorni di lavoro a distanza. Inoltre, condividere i posti a sedere in presenza può ridurre l’impronta di carbonio del 28%. E, ancora, i lavoratori ibridi tendono a spostarsi più lontano rispetto ai lavoratori in sede a causa delle differenze nelle scelte abitative. Gli effetti del lavoro remoto e ibrido sulle tecnologie di comunicazione, come l’uso di computer, telefono e internet, invece, hanno un impatto trascurabile sull’impronta di carbonio complessiva.

“Il lavoro remoto e ibrido mostra un grande potenziale di riduzione dell’impronta di carbonio, ma quali sono i comportamenti che le aziende e altri responsabili politici dovrebbero incoraggiare per massimizzare i benefici?”, dice Longqi Yang, principal applied research manager di Microsoft e autore dello studio. “I risultati suggeriscono che le organizzazioni dovrebbero dare priorità ai miglioramenti dello stile di vita e del luogo di lavoro”.

Secondo Yang, dallo studio emerge che le aziende e i responsabili politici dovrebbero concentrarsi anche sull‘incentivazione del trasporto pubblico rispetto all’auto, sull’eliminazione degli uffici per i lavoratori a distanza e sul miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici adibiti a ufficio. “A livello globale, ogni persona, ogni Paese e ogni settore ha questo tipo di opportunità con il lavoro a distanza. Come potrebbero i benefici combinati cambiare il mondo intero? Questo è un aspetto che vogliamo davvero approfondire”, dice Yanqiu Tao, dottorando e primo autore dello studio.

Lo studio si basa su un lavoro sostenuto dalla National Science Foundation e si è avvalso di dati provenienti da Microsoft, dall’American Time Use Survey, dal National Household Travel Survey e dal Residential Energy Consumption Survey.

Le emissioni di Co2 minacciano la sopravvivenza degli orsi polari

Photo credit: AFP

Gli orsi polari sono da tempo un simbolo dei danni causati dal cambiamento climatico, che sta sciogliendo il pack ice da cui dipende la loro sopravvivenza. Ma non è mai stato possibile quantificare l’impatto di una singola centrale elettrica a carbone su questi emblematici mammiferi. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, dimostra che è ora possibile calcolare il legame diretto tra una certa quantità di emissioni di gas serra e il numero di giorni senza ghiaccio nelle aree abitate dagli orsi, che a sua volta influisce sulla percentuale di orsi che raggiungono l’età adulta. Grazie a questo grado di precisione, gli autori dello studio sperano di poter porre rimedio a quella che viene percepita come una lacuna nella legge americana. Gli orsi polari sono stati classificati come specie minacciata dal 2008, sotto la protezione dell’Endangered Species Act statunitense. Ma un’argomentazione legale pubblicata lo stesso anno impedisce di utilizzare questa legge per valutare i permessi di nuovi progetti di combustibili fossili alla luce delle considerazioni sul clima e del loro impatto su queste specie.

Scritto da David Bernhardt, avvocato dell’amministrazione del presidente repubblicano George W. Bush, il documento sostiene che la scienza non è in grado di distinguere l’impatto di una specifica fonte di gas serra dall’impatto delle emissioni nel loro complesso. Steven Amstrup, uno degli autori dello studio, ha dichiarato: “Abbiamo presentato le informazioni necessarie per smontare questa argomentazione“.

Gli orsi polari hanno bisogno del ghiaccio per cacciare le foche, muoversi e riprodursi. Quando il ghiaccio si scioglie in estate, gli orsi si ritirano nell’entroterra o sul ghiaccio lontano dalla costa, dove possono rimanere a lungo senza mangiare. Questi periodi di digiuno si stanno allungando con l’intensificarsi del riscaldamento globale. Un importante studio pubblicato nel 2020 è stato il primo a calcolare il legame tra i cambiamenti osservati nel ghiaccio marino dovuti al cambiamento climatico e il numero di orsi polari.

Sulla base di questo lavoro, i due autori del nuovo studio hanno stabilito la relazione tra le emissioni di gas serra, il numero di giorni di digiuno e il tasso di sopravvivenza dei cuccioli. Hanno effettuato questo calcolo per 15 delle 19 sottopopolazioni di orsi polari, tra il 1979 e il 2020. E sono riusciti a trarre una serie di conclusioni. Ad esempio, attualmente il mondo emette ogni anno 50 miliardi di tonnellate di CO2 o gas equivalente nell’atmosfera, il che, secondo lo studio, riduce il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nella popolazione di orsi polari del Mare di Beaufort del 3% all’anno. Nelle popolazioni sane, il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nei primi anni di vita è di circa il 65%. “Non è necessaria una grande variazione verso il basso per non avere abbastanza cuccioli per la generazione successiva“, sottolinea Amstrup.

Lo studio fornisce inoltre alle autorità americane gli strumenti per quantificare l’impatto di nuovi progetti di energia fossile, come nuove centrali elettriche, sugli orsi polari. La tecnica può anche essere applicata retroattivamente per comprendere l’impatto passato di un progetto specifico. Per Joel Berger, ricercatore specializzato nella conservazione della fauna selvatica presso la Colorado State University, questo nuovo studio stabilisce “un legame quantitativo indiscutibile tra le emissioni (di gas serra), il declino del ghiaccio marino, la durata del digiuno e la demografia degli orsi polari“.

La coautrice Cecilia Bitz ritiene che questo lavoro potrebbe avere implicazioni che vanno ben oltre gli orsi polari, e potrebbe essere adattato ad altre specie come i coralli o i cervi delle Keys. “Spero davvero che questo porti a molte ricerche scientifiche“, ha dichiarato all’AFP, aggiungendo di essere sempre alla ricerca di nuove collaborazioni.

L’energia geotermica può aiutare la transizione, l’Italia ha grandi risorse

Abbiamo più volte sostenuto che l’approccio giusto alla transizione energetica e cioè del passaggio dall’energia prodotta con fonti fossili, che comporta grandi emissioni di CO2, all’energia prodotta da fonti rinnovabili senza emissioni di CO2 è quello che si definisce di ‘neutralità tecnologica’.

Applicare il principio della neutralità tecnologica significa sfruttare tutte le tecnologie che producono energia senza emissioni di CO2 e non limitarsi solo ad alcune filiere tecnologiche quali tipicamente fotovoltaico, eolico e idroelettrico, che vanno benissimo ma per varie ragioni, prima fra tutte la loro non programmabilità e intermittenza, non sono sufficienti.

Le industrie, gli ospedali, altri servizi essenziali hanno bisogno di energia elettrica h 24 e cioè anche quando il sole non c’è, il vento non tira e c’è poca acqua nei fiumi.

Tra le fonti energetiche che possono fornire energia continua e senza emissioni di CO2 c’è certamente il geotermico.

Un caro amico geologo, il dottor Sandro De Stefanis che legge regolarmente i miei articoli sulla transizione energetica e che insieme alla Confederazione Italiana libere professioni sta organizzando per settembre un bel convegno a Genova sulla sicurezza energetica, mi ha sollecitato ad occuparmi anche dell’energia geotermica come importantissimo strumento per la decarbonizzazione, per la produzione di elettricità continua, per l’utilizzo di grandi risorse naturali ancora da sfruttare , nel rispetto dell’ambiente circostante.

Come si vedrà l’Italia ha un potenziale importantissimo per la produzione di questa energia, un potenziale che per ragioni difficilmente spiegabili non viene adeguatamente sfruttato.

L’energia geotermica è la forma di energia ottenibile dal calore proveniente da fonti geologiche presenti nel sottosuolo.

Si tratta di una forma di energia alternativa e rinnovabile che si basa sullo sfruttamento del calore naturale del pianeta Terra dovuto all’energia termica rilasciata da processi di decadimento nucleare naturale di elementi radioattivi quali uranio, torio e potassio contenuti nelle rocce presenti nel sottosuolo terrestre (nucleo, mantello, crosta terrestre). Ma come è possibile recuperare il calore della terra?

La temperatura del suolo aumenta mano a mano che si scende in profondità, registrando un incremento di 3 gradi ogni 100 metri. Le acque sotterranee a contatto con rocce ad alta temperatura si trasformano in vapore.

Il grande interesse dell’energia geotermica è che si tratta di una fonte stabile da cui si può ricavare energia costante (il famoso base load decarbonizzato) e che determina un’occupazione di suolo più contenuta rispetto alle altre fonti di energia rinnovabile. Inoltre l’assenza di processi di combustione contribuisce alla riduzione delle emissioni di inquinanti e di CO2 in atmosfera; infatti l’energia termica fuoriesce dalla superficie terrestre attraverso vettori fluidi quali acqua e vapore.

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici esistono diverse tipologie di centrali geotermiche che sfruttano il vapore e l’acqua calda per azionare turbine e produrre energia elettrica.

Molti e significativi sono i vantaggi dell’energia che sfrutta il calore della terra.

  • Si tratta di un’energia verde e continua, indipendente dalle temperature esterne, dalle condizioni metereologiche e dall’alternanza notte-giorno;
  • Tra le energie rinnovabili è quella che riesce a produrre maggiore quantità di elettricità;
  • Gli impianti geotermici sono silenziosi, non creano problemi acustici e non emettono anidride carbonica né polveri sottili;
  • L’assenza di processi di combustione riduce al minimo la necessità di interventi di manutenzione sugli impianti.

Dal punto di vista geotermico l’Italia ha grandissime risorse ed è un paese privilegiato con un potenziale enorme che sarebbe capace di soddisfare, secondo gli studiosi, il 40% del fabbisogno interno di energia elettrica. Nel nostro Paese le zone ad alta geotermia si trovano in Toscana: si tratta del triangolo Lardarello-Travale -Radicondoli e del Monte Amiata.

Proprio gli italiani sono stati all’inizio del ’900 i primi a sfruttare a Lardarello questa fonte energetica. Oggi gli impianti toscani, tutti gestiti dall’Enel producono 6 miliardi di Kwh l’anno coprendo circa il 30% del fabbisogno elettrico regionale. La centrale elettrica più grande è quella di Valle del Secolo a Lardarello che ha una capacità di 120 MW e oggi è in manutenzione.

Sono in attesa di autorizzazione impianti per oltre 700 GWh/anno che da soli, secondo stime dell’ex ministro dell’Energia e dell’Ambiente Cingolani, potrebbero dare il 10% dell’energia rinnovabile da immettere in rete nel 2030.

Infine, oltre le grandi centrali elettriche di cui si è detto sopra, possono risultare interessanti anche più piccole applicazioni domestiche del geotermico per riscaldare e climatizzare le abitazioni con consumi molto bassi e costi di manutenzioni irrisori.

Il principio anche in questo caso è molto semplice: si manda acqua in profondità, oltre i 100 metri, per scaldarla di 3-4 gradi centigradi; questo gradiente termico è sufficiente a trasformare un fluido contenuto in un serbatoio della centrale termica in un gas che espandendosi crea energia e calore alimentando caloriferi e scambiatori di calore. Ideale per le case in montagna dove non è difficile scendere di 100 metri con i tubi dell’acqua. Si tratta di un investimento piuttosto costoso che però viene ripagato nel tempo dalla totale assenza di consumi di combustibile. L’unica energia che viene consumata nel processo è quella della piccola pompa elettrica che manda l’acqua in profondità. Ma anche qui basta mettere qualche pannello solare sul tetto per coprire con fonti verdi anche questo fabbisogno energetico.

Il geologo: “Stoccare CO2 nel Mediterraneo? Si può fare, ma in Norvegia è più facile”

Nel Mare del Nord sono oggi in costruzione i 110 chilometri di pipeline che trasporteranno lontano dalla costa norvegese tonnellate di CO2 catturata dagli impianti industriali del Nord Europa. La pomperanno ad altissima pressione a 2.700 metri di profondità nella crosta terrestre, per immagazzinarla in un giacimento geologico naturale – un acquifero salino formatosi quasi 200 milioni di anni fa – che la intrappolerà in modo duraturo. La Norvegia investe da anni per stoccare anidride carbonica sotto i fondali del mare. Nel 2024 è previsto l’inizio dell’attività operazioni del progetto ‘Northern Lights’: promette di immagazzinare in modo sicuro un milione e mezzo di tonnellate di CO2 ogni anno, con la previsione di salire a 5 dopo metà secolo. Ma è possibile immaginare la stessa tecnologia nel Mar Mediterraneo? “Dal punto di vista geologico, sì, anche se con caratteristiche diverse”, come spiega a GEA Marco G. Malusà, professore di geologia stratigrafica e sedimentologica all’università di Milano-Bicocca. Più semplice, certo, nel Mare del Nord. In particolare per una questione numerica: i siti potenzialmente utilizzabili sono molti di più.

Quali condizioni devono esserci per poter stoccare CO2 sotto il fondale del mare?

“Dobbiamo immaginare i siti di stoccaggio come dei serbatoi costituiti da rocce porose e permeabili. Quando al di sopra di queste rocce è presente uno strato impermeabile si può creare una sorta di trappola: la CO2 iniettata sotto pressione non può più risalire verso la superficie. L’ideale, per questo tipo di tecnologia, è utilizzare pozzi petroliferi già esauriti, oppure acquiferi salini non adatti al consumo umano a causa dell’elevata percentuale di sali disciolti”.

Ci sono differenze tra iniettare gas in un vecchio giacimento o in un acquifero salino?

“Tecnicamente no. Il metodo è lo stesso. È vero però che utilizzare giacimenti esauriti di idrocarburi accelera i tempi, perché, semplicemente, sono più studiati. Il gas iniettato dovrà prendere il posto lasciato dagli idrocarburi estratti. Andrà pompato a una pressione leggermente maggiore rispetto alle condizioni che troverà in profondità. Ma non eccessiva, per non indurre fratturazioni indesiderate. Il vantaggio è che la “trappola” è già testata naturalmente per resistere a ere geologiche. Sono inoltre già state realizzate in passato indagini sismiche e geologiche, e sarà più semplice analizzare tutti i parametri del pozzo. È quindi possibile minimizzare i possibili rischi con appropriate strategie di monitoraggio”.

Quanto tempo servirebbe per valutare invece le caratteristiche geologiche di un acquifero salino?

“Bisogna in questo caso conoscere come è fatta la ‘trappola’, e accertarsi che non ci siano faglie che la mettano in comunicazione con i livelli permeabili sovrastanti. Un acquifero salino difficilmente sarà già studiato con questo livello di dettaglio, anche se non si parte da zero. In ogni caso parliamo di anni, non decenni”.

Il Mediterraneo è una zona molto sismica, a differenza del Mare del Nord. Questo può rendere un eventuale stoccaggio più rischioso?

“Ci sono faglie attive. Ma non bisogna immaginare che un terremoto al largo dell’Italia possa liberare CO2 immagazzinata in un eventuale giacimento. Il problema, semmai, è che proprio la presenza di faglie riconducibili a questa attività sismica è responsabile dello scarso numero di giacimenti e di siti adatti in area mediterranea. Nel Mare del Nord questo genere di attività tettonica si è sostanzialmente conclusa da svariati milioni di anni, da lì le faglie sono state sigillate da altri sedimenti e si sono creati serbatoi molto grandi dove poter estrarre o iniettare gas. Nel Mediterraneo la presenza di numerose faglie, spesso tuttora attive, non ha permesso invece di definire trappole grandi ed efficienti”.

Quanta CO2 si può immagazzinare in un giacimento o in un acquifero salino?

“Dipende da caso a caso. Ma la pressione fa ridurre notevolmente il volume della CO2. Per esempio, 1000 metri cubi di anidride carbonica al livello del suolo scendono a 20 metri cubi a 400 metri di profondità. A 800 metri il gas raggiunge lo stato supercritico (dove può essere denso come un liquido ma viscoso come un gas NdR) e si riduce a 3,8 metri cubi, a profondità superiori può raggiungere i 2,7 metri cubi di volume”.

Fattibilità tecnica a parte, lo stoccaggio di CO2 sotto gli oceani è per lei una buona soluzione su cui investire?

“Una transizione ecologica è necessaria. L’ideale sarebbe ridurre il più possibile le emissioni di gas serra. Ma ci sono settori industriali dove questo può avvenire molto difficilmente. Questo tipo di soluzione diventa allora un mezzo molto potente per il periodo di transizione che dovrà portarci a raggiungere la neutralità climatica”.

L’ambasciatore di Norvegia: “Nei fondali spazio per stoccare la Co2 dell’Ue per 75 anni”

Photo credits: profilo Facebook Ambasciata di Norvegia in Italia

Roma e Oslo come due poli di un hub che aiuteranno l’Europa a raggiungere l’indipendenza energetica. Per farlo, secondo Johan Vibe, ambasciatore della Norvegia in Italia, nel breve periodo non si può rinunciare al gas, anche se occorre spingere sulle rinnovabili, compensando con la cattura e stoccaggio della Co2. La questione è stata sollevata anche nel corso del recente viaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Oslo e Trondheim (10-13 maggio): “Durante la visita di Stato abbiamo organizzato un evento coinvolgendo imprese e centri di ricerca di entrambi i Paesi, con l’idea di poter avere uno scambio di idee sul tema“, racconta il diplomatico a GEA. L’Italia, riconosce, “ha fatto un grande lavoro per raggiungere l’indipendenza da Mosca, trovando altri fornitori e altre fonti di approvvigionamento“. Il punto fondamentale ora, è pensare a una “strategia parallela“, in cui in futuro le rinnovabili avranno un ruolo centrale sia per raggiungere la sicurezza energetica che per combattere il cambiamento climatico.

Nel Mare del Nord la transizione è già in corso. Come?

“Abbiamo aumentato le esportazioni di gas per aiutare l’Europa ma abbiamo anche accelerato gli investimenti in altre tecnologie, in questo modo la Norvegia sarà un hub energetico per l’Europa del Nord anche nel futuro. Le tecnologie sviluppate sono diverse, una è l’idrogeno blu. Il sogno è passare all’idrogeno verde, in futuro, ma intanto si può usare l’idrogeno blu, che viene dal gas, stoccando la Co2”.

Su cattura e stoccaggio della Co2 la Norvegia è all’avanguardia, farà da apripista? Come aiuterà l’Europa?

“Nei fondali della Norvegia c’è spazio per stoccare tutta la Co2 dell’Unione europea per 75 anni. Ieri si è fatto un accordo importante con un impianto energetico danese che vuole utilizzare la CCS (Carbon Capture and Storage) catturando la Co2 dall’impianto, liquefacendola e portandola in Norvegia per essere stoccata. Siamo in procinto di stringere accordi simili per altri impianti in Norvegia, abbiamo un accordo per il termovalorizzazione di Londra e per altre produzioni industriali. Lavoriamo a gasdotti che in futuro esporteranno idrogeno e ad altri condotti che importeranno Co2 in Norvegia. In Italia si è lavorato sul tema, a Ravenna, ma anche in paesi come l’Algeria. L’importante è trovare terreni adeguati”.

Sulle rinnovabili, il Paese è all’avanguardia nell’eolico. Aiuterà a produrre idrogeno verde?

“Sì. Soprattutto l’off-shore wind galleggiante è una tecnologia importante, perché le acque sono profonde. In futuro l’elettricità prodotta con l’eolico sarà esportabile e servirà anche per produrre idrogeno verde. Abbiamo calcolato che dovremo duplicare l’elettrificazione del Paese”.

A che punto sono invece i parchi eolici on-shore e perché c’è stato uno stop politico?

“Come in vari Paesi, c’è stato un dibattito complicato, perché secondo alcune persone rovina il paesaggio. Poi c’è stata una discussione sui diritti della popolazione indigena Sami, che pascola le renne in alcuni terreni dove sono oggi dei parchi eolici. Pensiamo comunque che l’investimento nell’offshore sarà migliore, nel Mare del Nord il vento è molto forte. Il governo ha presentato un Piano per installare una capacità di 30 GW offshore nei prossimi anni”.

Siete d’accordo con la strategia europea di stoppare la produzione di auto a motore endotermico a partire dal 2035? Non credete che potrebbe crearsi una dipendenza dalla Cina?

“Siamo completamente d’accordo. In Norvegia l’80% dei veicoli venduti è elettrico. Abbiamo fatto investimenti per produrre batterie e la Svezia ha fatto lo stesso, l’Europa deve fare uno sforzo in questo senso”.

Tornando all’indipendenza energetica, continuerete a esportare gas a stretto giro?

“Il gas sarà importante ancora per altri anni. Meglio del carbone. In questo momento stiamo producendo al massimo possibile, ma per fortuna il prezzo si è abbassato e anche gli stoccaggi dell’Europa vanno abbastanza bene, speriamo non ci saranno grossi problemi nell’inverno prossimo, dobbiamo però accelerare molto sulle rinnovabili. L’Italia ha una grande opportunità con il Piano Mattei e la cooperazione con il Nord Africa”.

Sulle rinnovabili, sulla costruzione delle infrastrutture, quanto può essere profonda la partnership tra Italia e Norvegia?

“L’Italia è stata molto importante per noi per lo sviluppo della piattaforma continentale quando abbiamo scoperto il petrolio. Ma anche per la conversione nelle rinnovabili, Fincantieri e Saipem collaborano molto con le aziende norvegesi”.

Il governo francese ai lavoratori: non superate i 110 km/h in autostrada, così si riducono le emissioni di Co2

Il governo francese vuole incoraggiare i dipendenti a rallentare per recarsi al lavoro o nei viaggi d’affari, non superando i 110 km/h in autostrada, per ridurre le emissioni di CO2 e il consumo energetico complessivo. Oggi il ministro Agnès Pannier-Runacher ha chiesto ai responsabili delle grandi aziende, tra cui quelle del Cac40 e del Sbf120 che fanno parte dell’Associazione francese delle aziende private, di inserire la richiesta di riduzione della velocità nelle discussioni del dialogo sociale per “ancorare la sobrietà al tempo”.

In occasione di un incontro con i rappresentanti di una sessantina di queste aziende per fare una prima valutazione delle misure di sobrietà attuate dall’autunno, ha ricordato che l’obiettivo finale è quello di raggiungere una “riduzione del 40% del consumo energetico” nel Paese entro il 2050. Chiedere ai dipendenti di guidare a 110 km/h in autostrada rappresenta “tre minuti su un viaggio di 50 chilometri, ma il 20% in meno di emissioni di CO2 e di consumo di carburante”, ha detto. Questa misura è già stata adottata dalle amministrazioni per i dipendenti statali.
Mentre le aziende hanno reagito bene al piano di sobrietà e hanno ridotto drasticamente i loro consumi di gas ed elettricità lo scorso inverno, “il consumo di carburante” è l’unico a non essere diminuito nel 2022 rispetto al 2021, ha osservato l’esperta. Il governo chiede quindi alle aziende di “fissare obiettivi quantificati di riduzione dei consumi energetici” (carburanti, elettricità, gas), di “far convalidare questi obiettivi da organi interni di alto livello come il consiglio di amministrazione o il comex” e, infine, di “pubblicarli su internet o su piattaforme dedicate come quella sostenuta dallo Stato chiamata ‘Le aziende si impegnano'”. Inoltre, il governo vorrebbe che le direzioni aziendali affrontassero un’altra questione nel contesto del dialogo sociale: come organizzare il telelavoro in modo che porti a un effettivo risparmio energetico.

Secondo uno studio condotto dall’Agenzia per l’ambiente e la gestione dell’energia (Ademe) e dall’Istituto per le prestazioni degli edifici, il telelavoro ha un impatto molto ridotto sul consumo energetico quando solo alcuni dei dipendenti sono assenti, ma consente un risparmio energetico complessivo del 20-30% quando un sito è chiuso per tutto il giorno. Il ministro ha inoltre ricordato le linee guida per l’estate, ovvero l’assenza di aria condizionata al di sotto dei 26 gradi, e ha chiesto alle aziende di “prestare attenzione ai costi energetici legati alla ventilazione degli edifici”.

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Energia, l’esperienza norvegese: gas, petrolio e stoccaggio di Co2

Leader nell’estrazione di gas e petrolio, ma anche capofila nella Ccs, la Carbon Capture and Storage (cattura, trasporto e stoccaggio di anidride carbonica).

Sono decenni che la Norvegia corre più veloce degli altri per coniugare sviluppo ed ecologia. Così, dalla sua residenza romana, l’ambasciatore Johan Vibe riunisce il gotha della ricerca e rivendica l’esperienza e la creatività di Oslo “quando si tratta di trasformare la transizione energetica in realtà“. Il paese è “importante partner energetico per l’Europa“, osserva il diplomatico: “Si parla dell’Italia come futuro hub energetico d’Europa, noi lo siamo già nel mare del Nord“.

La Norvegia aderisce agli stessi obiettivi climatici dell’Unione Europea e ha già compiuto passi fondamentali verso un futuro a basse emissioni. Nella corsa verso la transizione, ha attivato strumenti diversi e diverse tecnologie. Per anni, ad esempio, è stata uno dei principali partner nei progetti forestali per salvaguardare i pozzi di carbonio naturali. Però il Paese individua anche un grande bisogno di “pozzi tecnici di carbonio“, quelli dedicati alla cattura e stoccaggio, appunto. Soprattutto nei settori “difficili da abbattere” dell’industria, che contribuiscono a circa il 30% delle emissioni globali.

Oltre 20 anni di esperienza nella Ccs e un grande potenziale per lo stoccaggio offshore. Nella residenza di Porta Pinciana, l’ambasciatore apre le porte ad Anne-Mette Cheese, senior advisor di Gassnova, l’azienda di Stato controllata dal ministero dell’Energia norvegese, che lavora ad assicurare che cattura, trasporto e stoccaggio della Co2 possano diventare una soluzione rilevante nella mitigazione dei cambiamenti climatici; Jan Theulen, direttore tecnologie di Heidelberg Materials, azienda che prevede di catturare 400mila tonnellate di Co2 all’anno per lo stoccaggio permanente e realizzerà il primo progetto al mondo di Ccs su scala industriale in un impianto di produzione del cemento a Brevik; Olav Oye, senior advisor di Bellona Foundation, una no profit indipendente fondata nel 1986, che punta a combattere i cambiamenti climatici implementando soluzioni soluzioni sostenibili; Renata Menguolo, principal geologist di Northern Lights, primo progetto commerciale al mondo per la ‘fase 2’, che fornisce servizio aperto a clienti di trasporto e stoccaggio di Co2.

Sono tutti coinvolti nella costruzione della catena del valore necessaria per trasformare questa tecnologia in “un vero punto di svolta“, scandisce Vibe: “Proteggerà e creerà posti di lavoro, aiutandoci a garantire una giusta transizione verso Net Zero”. L’obiettivo è informare e condividere le esperienze sulla Ccs in Europa. La cooperazione con i vicini nel Mare del Nord è già partita, con il trasporto del carbonio per lo stoccaggio nella piattaforma norvegese e l’invio di idrogeno in cambio. Sull’esperienza è già partito un tavolo di stakeholder tra Oslo e Roma per discutere di come si possa esportare nel Mediterraneo.

Innes FitzGerald

Atleta inglese 16enne rinuncia ai Mondiali in Australia: “Troppa Co2 per il viaggio in aereo”

Cara British Athletics, avere l’opportunità di gareggiare per la Gran Bretagna in Australia è un privilegio. Tuttavia, è con grande rammarico che devo rifiutare questa opportunità”. Si apre così una breve lettera, pubblicata da Athletics Weekly, con cui Innes FitzGerald, giovane promessa inglese della corsa di resistenza, comunica alla federazione atletica del suo Paese di non voler prendere parte ai campionati mondiali di corsa campestre che si svolgeranno in Australia. Il motivo? La “profonda preoccupazione” che l’impatto di un volo così lungo avrebbe sull’ambiente.

Avevo solo nove anni – scrive FitzGerald – quando è stato firmato l’accordo sul clima alla Cop21 di Parigi. Ora, a distanza di otto anni, le emissioni globali sono aumentate costantemente, avviandoci verso una catastrofe climatica. Sir David King, ex consulente scientifico capo del governo, ha dichiarato: ‘Quello che faremo, credo, nei prossimi tre o quattro anni determinerà il futuro dell’umanità’. La scienza è chiara. Una svolta è possibile solo grazie a un cambiamento trasformativo derivante da un’azione collettiva e personale”. Ecco perché “non mi sentirei mai a mio agio a volare sapendo che le persone potrebbero perdere i loro mezzi di sostentamento, le loro case e i loro cari. Il minimo che possa fare è esprimere la mia solidarietà a coloro che soffrono in prima linea a causa del collasso climatico. Arrivare a una decisione non è stato facile, ma non è paragonabile al dolore che proverei nel prendere il volo”.

Una decisione forte da parte della 16enne, che però non è nuova a questo genere di iniziativa. Aveva fatto notizia, infatti, la sua decisione di arrivare dalla sua casa di Exeter, nel Devon, fino a Torino per una gara pochi giorni fa utilizzando solo treno, bus e bicicletta, proprio per la sue riluttanza a prendere aerei. Per il viaggio, insieme alla sua famiglia, ha preso un pullman notturno per Lille prima di prendere un treno per Torino via Parigi. E per percorrere il tragitto fra le stazioni, circa 20 minuti, hanno utilizzato tutti solo biciclette pieghevoli. La mia famiglia è attenta all’ambiente quanto me“, ha detto l’atleta a Athletics Weekly. “Viviamo in una casa ‘passiva’ in una piccola azienda che coltiva frutta e verdura. Quindi mio padre era felice che non volassimo. L’aviazione è l’attività più energivora che possiamo svolgere e fa esplodere l’impronta di carbonio di una persona. Non voglio tutto questo sulla mia coscienza”.

Photo credits: Instagram @innes_fitzgerald

Clima, triste record europeo: estate del 2022 la più calda di sempre

Il 2022 è stato l’anno dei record – in negativo – per il clima: il quinto anno più caldo di sempre e il secondo più caldo in Europa (in quest’ultimo caso, dopo il 2020). È quanto emerge dal rapporto ‘Global Climate Highlights 2022’ di Copernicus, il sistema di monitoraggio climatico europeo, in base al quale si evidenzia che negli scorsi 12 mesi si sono registrati “estremi climatici, con molti record di temperature elevate e concentrazioni di gas serra in aumento nell’atmosfera”. Ma all’Europa spettano anche altri privati: l’estate del Vecchio Continente è stata, infatti, la più calda di sempre. 

+1,2 °C RISPETTO AL PERIODO PREINDUSTRIALE. Dal rapporto, inoltre, si evince che gli anni 2015-2022 sono stati gli otto più caldi di sempre: sono infatti stati superati diversi record di temperatura elevata sia in Europa sia nel resto del mondo, mentre altri eventi estremi come siccità e inondazioni hanno colpito vaste regioni. La temperatura media annuale dello scorso anno è stata di 0,3°C superiore al periodo di riferimento 1991-2020, che equivale a circa 1,2°C in più rispetto al periodo 1850-1900. Questo fa del 2022 l’ottavo anno consecutivo di temperature superiori di oltre 1°C al livello preindustriale. Inoltre, ogni mese estivo boreale del 2022 è stato almeno il terzo più caldo a livello globale. Per il 2022, le temperature hanno superato di oltre 2°C la media del periodo di riferimento 1991-2020 in alcune parti della Siberia centro-settentrionale e lungo la Penisola Antartica. Le regioni che hanno registrato l’anno più caldo in assoluto includono gran parte dell’Europa occidentale, il Medio Oriente, l’Asia centrale e la Cina, la Corea del Sud, la Nuova Zelanda, l’Africa nord-occidentale e il Corno d’Africa.

I RECORD EUROPEI. L’estate del 2022 è stata la più calda mai registrata in Europa, con un netto margine rispetto a quella del 2021. L’autunno dello scorso anno, invece, è stato il terzo più caldo mai registrato, battuto solo da quelli del 2020 e del 2006. Le temperature invernali del 2022, inoltre, sono state di circa 1°C superiori alla media, collocando quello dello scorso anno tra i dieci inverni più caldi.  Al contrario, le temperature primaverili dell’Europa nel suo complesso sono state appena inferiori alla media del periodo di riferimento 1991-2020. In termini di medie mensili, nove mesi sono stati superiori alla media, mentre tre – marzo, aprile e settembre – sono stati inferiori. Il continente ha registrato il secondo giugno più caldo mai registrato, con circa 1,6°C sopra la media, e il suo ottobre più caldo, con temperature di quasi 2°C sopra la media. in tutti i Paesi – a eccezione dell’Islanda – le temperature annuali sono state superiori alla media 1991-2020 e diversi Paesi dell’Europa occidentale e meridionale hanno registrato le temperature annuali più alte almeno dal 1950. “Il 2022 – spiega Samantha Burgess, vicedirettrice del Copernicus Climate Change Service – è stato un altro anno di estremi climatici in Europa e nel mondo. Questi eventi evidenziano che stiamo già sperimentando le conseguenze devastanti del riscaldamento climatico”. Per questo, dice, “per evitare le conseguenze peggiori, la società dovrà ridurre urgentemente le emissioni di anidride carbonica e adattarsi rapidamente ai cambiamenti climatici”.

AUMENTANO I GAS SERRA. Il rapporto, inoltre, evidenzia che i gas serra atmosferici, nel corso del 2022, hanno continuato ad aumentare. L’analisi preliminare dei dati satellitari mostra che le concentrazioni di anidride carbonica sono aumentate di circa 2,1 ppm, mentre il metano è aumentato di circa 12 ppb.  Il risultato è una media annuale per il 2022 di circa 417 ppm per l’anidride carbonica e 1894 ppb per il metano. Per entrambi i gas si tratta delle concentrazioni più elevate registrate dai satelliti e, includendo altri record, dei livelli più alti da oltre 2 milioni di anni per l’anidride carbonica e da oltre 800.000 anni per il metano. “I gas a effetto serra, tra cui l’anidride carbonica e il metano – spiega Vincent-Henri Peuch, direttore del Servizio di monitoraggio dell’atmosfera Copernicus – sono i principali responsabili del cambiamento climatico e dalle nostre attività di monitoraggio possiamo constatare che le concentrazioni atmosferiche continuano ad aumentare senza segni di rallentamento”.

 

Enea

Enea: In Italia da aprile a settembre +6% emissioni CO2, rinnovabili in calo dell’11%

È tutt’altro che positivo il quadro che emerge dall’Analisi Enea del sistema energetico italiano per il II e III trimestre dell’anno. Se, da un lato, evidenzia infatti consumi di gas più bassi, dall’altro si registra anche un calo delle rinnovabili, oltre alla crescita delle emissioni di CO2 e un forte peggioramento dell’indice della transizione energetica Ispred (-60% nel III trimestre). Dai primi nove mesi dell’anno, quindi, giungono segnali di criticità: a fronte di consumi di energia sostanzialmente fermi, con la previsione di un calo dell’1,5% sull’intero 2022, le emissioni di CO2 sono cresciute del 6%, con una stima di aumento di oltre il 2% a fine 2022. D’altra parte, a fronte del maggiore ricorso alle fonti fossili che stanno quasi tornando ai livelli pre-pandemia (+8% petrolio e + 47% carbone) e di una riduzione del 3% dei consumi di gas, le rinnovabili hanno registrato un calo dell’11%, dovuto a una riduzione dell’idroelettrico che l’aumento di solare ed eolico non è riuscito a compensare.
“Il forte calo dell’indice Enea-Ispred è da collegarsi in particolare al peggioramento della componente decarbonizzazione, scesa al valore minimo della serie storica”, spiega Francesco Gracceva, il coordinatore dell’Analisi trimestrale Enea. “In questo scenario – continua – l’obiettivo europeo di riduzione delle emissioni del 55% al 2030 potrà essere raggiunto solo se nei prossimi otto anni riusciamo a ottenere una riduzione media annua di quasi il 6%”.

Sul fronte della sicurezza energetica, l’analisi evidenzia il peggioramento dell’adeguatezza del sistema gas. “In vista del prossimo inverno richiede particolare attenzione la capacità delle infrastrutture gas di coprire la punta di domanda: infatti, nel caso di un completo azzeramento dei flussi dalla Russia (scesi sotto al 20% dell’import totale nei primi nove mesi, ma già quasi a zero a ottobre), risulterebbe molto difficile coprire punte di domanda legate a picchi di freddo intenso che investano l’intero territorio nazionale”, commenta Gracceva.
Lato prezzi, se per il gas gli incrementi registrati in Italia sono simili alla media europea, nel caso dell’elettricità gli aumenti sono stati all’incirca doppi di quelli registrati nell’Ue, in particolare nel caso delle imprese. “Rispetto al 2021 un’impresa con consumi medio-bassi ha visto aumentare i prezzi di elettricità e gas rispettivamente del 60% e del 120% nel primo semestre 2022, mentre nell’intero 2022 supereranno di ben oltre il 50% i precedenti massimi storici”, sottolinea Gracceva.
A livello di settori, nel periodo gennaio-settembre 2022, i consumi sono diminuiti considerevolmente nell’industria, con un calo particolarmente accentuato nel III trimestre (-15%), mentre è continuata la forte ripresa dei trasporti, sebbene a tassi progressivamente più contenuti (+12% nei nove mesi, +4% nel III trimestre). L’aumento delle emissioni, invece, è riconducibile quasi interamente alla produzione di energia elettrica e calore, alle raffinerie e alle industrie energivore.
“Un segnale importante è che i consumi di energia hanno iniziato a contrarsi in misura progressivamente maggiore rispetto alla dinamica di fattori determinanti come l’andamento del PIL, produzione industriale, mobilità e clima. Un trend simile si è stato registrato in tutta Europa con un calo della domanda dello 0,7% nei primi nove mesi dell’anno”, spiega Gracceva. “È evidente -aggiunge – che la riduzione sia stata determinata fortemente anche dagli alti prezzi dell’energia che hanno imposto a molte imprese energivore uno stop delle attività. Tuttavia, nei prossimi mesi sarà fondamentale verificare se la contrazione possa andare oltre, come effetto delle misure di risparmio energetico”.

In termini di fonti primarie i primi nove mesi del 2022 hanno visto proseguire la risalita delle fonti fossili: i consumi di petrolio sono cresciuti dell’8%, avvicinandosi ai valori pre-pandemici. Ancora più marcato l’aumento dei consumi di carbone (+47%), che a fine anno torneranno non lontani dai livelli del 2018. In forte diminuzione invece i consumi di gas naturale (-3% nei nove mesi, -8% nel III trimestre) e di fonti rinnovabili, in calo costante dell’11% circa in tutti e tre i primi trimestri dell’anno. La performance delle rinnovabili è stata influenzata negativamente dalla significativa riduzione dell’idroelettrico (-25% rispetto al minimo degli ultimi 15 anni), non compensato dall’aumento del 9% di eolico e solare nei primi nove mesi dell’anno, ai massimi storici nel periodo con una quota del 16,3% sulla richiesta di energia elettrica e un picco del 21,7% ad aprile.
L’Enea evidenzia anche un problema sulle materie prime, la cui disponibilità potrebbe risultare un collo di bottiglia per la transizione energetica. Infatti, i dati indicano una pressoché totale dipendenza dell’Ue dall’estero per terre rare, platino e litio (100%), tantalio (99%) e cobalto (86%). Dipendenza ancora più forte per l’Italia, dove le Crm hanno un’incidenza sul Pil pari al 32% e sull’export all’86%. “L’eventualità di non poter soddisfare al 2030 la domanda di energia eolica e per i veicoli elettrici è molto forte”, conclude Gracceva.