Fare in modo che la Cop28 non diventi un’altra conferenza inutile

Domanda pleonastica: com’è andata a Sharm eh Sheikh? Bene non benissimo, per usare un giro di parole. Del resto, fin dall’inizio la Cop27 si è portata appresso un carico di scetticismo, per non dire di negatività, che lasciava intravvedere poche speranze per il raggiungimento di intese di largo respiro. Non a caso, a parte il documento sul ‘Loss and damage’, poco si è cavato da due settimane di incontri e scontri, là dove le grandi potenze – che sono anche grandi inquinatrici – hanno continuato a difendere i propri interessi e là dove i più deboli hanno continuato a recitare la parte dei più deboli. Come dicevamo, nulla che non fosse stato messo in preventivo, anche perché nazioni super inquinate e super inquinanti (vedi alla voce India) non si sono nemmeno presentate alla convention egiziana che, in assoluto, si è rivelato un palco sfiatato per gli annunci roboanti. Forse solo Lula, che da gennaio tornerà ad occupare la carica di presidente della repubblica federativa del Brasile, ha dato un po’ di slancio alle illusioni con il suo piano per arrivare alla deforestazione zero. Ma tra preservare l’Amazzonia nelle chiacchiere e poi farlo davvero c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. L’altra domanda, meno pleonastica, rischia di suonare un po’ sorda: ma ne vale davvero la pena organizzare eventi come questi? Cioè, dopo il fiasco della Cop26 e quello della Cop27, ha ancora un senso mobilitare mezzo mondo per ritrovarsi con briciole tra le mani? A breve comincerà la Cop15, in Canada, sulla biodiversità: lì forse qualcosa di più si potrà raggiungere, ma la sensazione che uno sforzo enorme partorisca qualcosa di impercettibile sta prendendo il sopravvento. Forse andrebbe cambiata la formula, l’impostazione della Cop28. Ma come? Dando priorità alla scienza e allo studio degli scienziati non per due settimane – ovvero la durata dell’evento organizzato dalle nazioni unite- ma durante un anno, coinvolgendo non solo i leader mondiali ma anche i grandi gruppi che gestiscono la finanza e i grandi gruppi industriali. Insomma, non si tratta di allargare il campo, che è già largo a sufficienza, ma di selezionare meglio gli attori protagonisti con il supporto della scienza. E, soprattutto, senza generare illusioni.

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La Cop27 chiude ai supplementari: sì a fondo ‘loss & demage’, ma delusione sulle emissioni

Dopo negoziati difficili che si son protratti oltre il previsto, la Cop27 si è conclusa domenica con un testo molto contestato sugli aiuti ai Paesi poveri colpiti dal cambiamento climatico, ma anche con il fallimento nel fissare nuove ambizioni per la riduzione dei gas serra. La conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si è aperta il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto, è diventata una delle Cop più lunghe della storia quando si è conclusa all’alba di domenica. “Non è stato facile“, ma “abbiamo finalmente compiuto la nostra missione“, ha dichiarato il suo presidente, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. E’ stata adottata una dichiarazione finale, frutto di molti compromessi, che chiede una “rapida” riduzione delle emissioni, ma senza nuove ambizioni rispetto alla Cop di Glasgow del 2021. “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questa è una domanda a cui questa Cop non ha risposto“, ha lamentato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. L’Unione Europea si è detta “delusa“, mentre il primo ministro britannico Rishi Sunak ha chiesto di fare “di più“.

Tuttavia, questa edizione è stata segnata dall’adozione di una risoluzione definita storica dai suoi promotori, sul risarcimento dei danni causati dal cambiamento climatico ai Paesi più poveri. Questo ‘loss and damage’ ha quasi fatto deragliare la conferenza prima che venisse raggiunto un compromesso all’ultimo minuto. Sebbene il testo lasci molte domande senza risposta, è d’accordo in linea di principio sulla creazione di un fondo specifico. “Le perdite e i danni nei Paesi vulnerabili non possono più essere ignorati, anche se alcuni Paesi sviluppati hanno deciso di ignorare le nostre sofferenze“, ha dichiarato Vanessa Nakate, attivista giovanile ugandese. Il Dipartimento per l’Ambiente del Sudafrica ha accolto con favore i “progressi“, ma ha chiesto “azioni urgenti” per “garantire il rispetto degli obblighi dei Paesi sviluppati“. Il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto un vertice a Parigi prima della Cop28 a Dubai alla fine del 2023, per “un nuovo patto finanziario” con i Paesi vulnerabili.

Anche il testo sulla riduzione delle emissioni è stato fortemente contestato, con molti Paesi che hanno denunciato un passo indietro rispetto alle ambizioni definite nelle conferenze precedenti. Questo include l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi: limitare il riscaldamento a 1,5°C, che è stato comunque riaffermato nella decisione finale. Gli attuali impegni dei Paesi firmatari non consentono di raggiungere questo obiettivo, e nemmeno quello di contenere l’aumento della temperatura entro i 2°C rispetto all’era preindustriale, quando l’uomo ha iniziato a utilizzare i combustibili fossili responsabili del riscaldamento globale su larga scala. Questi impegni, se pienamente rispettati, porterebbero il mondo, nella migliore delle ipotesi, su una traiettoria di +2,4°C nel 2100 e, al ritmo attuale delle emissioni, su una catastrofica di +2,8°C. Tuttavia, con quasi +1,2°C oggi, gli impatti drammatici si stanno già moltiplicando: il 2022 ha visto una serie di siccità devastanti, mega-incendi e inondazioni, che hanno colpito i raccolti e le infrastrutture. Anche i costi sono elevati: la Banca Mondiale stima in 30 miliardi di dollari il costo delle inondazioni che hanno ricoperto d’acqua per settimane un terzo del Pakistan e lasciato senza casa milioni di persone. I Paesi poveri, spesso tra i più esposti ma in genere poco responsabili del riscaldamento globale, chiedono da anni finanziamenti per le perdite e i danni.

Accusato da alcuni di mancanza di trasparenza nei negoziati, l’egiziano Sameh Shoukry ha affermato che non c’erano “cattive intenzioni“. Tuttavia, la battaglia non si concluderà con l’adozione della risoluzione di Sharm el-Sheikh, che rimane volutamente vaga su alcuni punti controversi. I dettagli operativi devono essere definiti per essere adottati alla Cop28, promettendo nuovi scontri. Ciò è particolarmente vero per la questione dei contributori, con i Paesi sviluppati, guidati dagli Stati Uniti, che insistono per includere la Cina. L’inviato degli Stati Uniti per il clima John Kerry ha dichiarato di essere al lavoro per aumentare il contributo degli Stati Uniti a 11 miliardi di dollari, il che renderebbe Washington “il più grande contributore all’economia del clima“. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha tuttavia sottolineato che l’accordo non menziona alcun punto vincolante.

Un’altra questione che ha scosso la Cop è stata quella delle ambizioni di riduzione delle emissioni. Molti Paesi hanno ritenuto che i testi proposti dalla presidenza egiziana fossero un passo indietro rispetto agli impegni assunti a Glasgow di aumentare regolarmente il livello delle emissioni. Per non parlare della questione della riduzione dell’uso dei combustibili fossili, che sono la causa del riscaldamento globale, ma sono appena menzionati nei testi sul clima. Il britannico Alok Sharma, presidente della Cop26, ha affermato che un punto sui combustibili fossili è stato “annacquato all’ultimo momento“.

La Cop27 si allunga fino a oggi: negoziati ancora indietro

Fumata nera, per il momento, alla Cop27. Il documento finale, previsto per venerdì sera, ancora non è pronto. Ecco perché il vertice si protrarrà anche nella giornata di oggi. Sperando che sia sufficiente e che non si debba continuare a lavorare al testo anche domenica. I negoziati dovranno superare lo stallo sul finanziamento da parte dei Paesi ricchi dei danni climatici già subiti dai Paesi poveri e sulla riaffermazione delle ambizioni climatiche. “Sono ancora preoccupato per il numero di questioni irrisolte, tra cui i finanziamenti, la mitigazione, le perdite e i danni“, ha dichiarato venerdì ai delegati in plenaria il presidente egiziano della Conferenza sul clima, Sameh Choukri. Il ministro degli Esteri egiziano ha quindi annunciato la proroga della Cop, invitando le parti a “cambiare marcia” e a “lavorare insieme per risolvere le questioni ancora aperte il più rapidamente possibile“.

I lavori della conferenza, che si è aperta il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, si sono arenati per diversi giorni sulle stesse questioni e i delegati hanno criticato la conduzione dei negoziati da parte della presidenza. Ma almeno su una delle questioni, quella del ‘Loss and damage’, ossia ‘perdite e danni’, sembra emergere una via d’uscita.

Il 2022 ha visto un numero crescente di disastri legati al cambiamento climatico: inondazioni, siccità dei raccolti o mega-incendi. Per anni i Paesi ricchi sono stati molto riluttanti ad accettare finanziamenti specifici, ma giovedì l’Unione Europea ha fatto un’offerta, accettando in linea di principio un “fondo di risposta alle perdite e ai danni“, con alcune condizioni, tra cui quella di riservarlo alle “persone più vulnerabili” e di avere una “base più ampia di contributori“. In altre parole, i Paesi emergenti dotati di ingenti risorse, come la Cina. Allo stesso tempo, gli europei, sostenuti da altri gruppi, chiedono la riaffermazione di forti obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per limitare il riscaldamento globale. Un’opzione simile è contenuta in una bozza di risoluzione diffusa nella tarda serata di giovedì ed è stata ritenuta accettabile venerdì “con alcune modifiche” dal ministro pakistano per i cambiamenti climatici, Sherry Rehman, attuale presidente del potente gruppo negoziale G77+Cina. Resta da vedere quale sarà la posizione degli Stati Uniti e Cina, le due potenze economiche mondiali e i due più grandi inquinatori, che finora si sono opposti all’idea di un fondo specifico.

Ultimo giorno per la Cop27, ma manca ancora il ‘Loss and damage’

La Cop27 si avvia verso la sua conclusione, ma nell’ultima bozza del documento finale diffusa nella notte manca ancora il punto che, in avvio del vertice, era considerato fra i più importanti in agenda. O meglio, rispetto a giovedì qualcosa si è mosso, ma pare ancora insufficiente. Nel documento è stato inserito un paragrafo aggiuntivo che riguarda i cosiddetti ‘Loss and damage’, cioè ‘Perdite e danni’ causati dal cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Nella bozza si “esprime profonda preoccupazione per i notevoli costi finanziari associati a perdite e danni per i Paesi in via di sviluppo, che comportano un aumento dell’onere del debito e pregiudicano la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile del 2030“. Il testo, però, lascia in bianco il punto relativo alla creazione di un di un fondo ‘loss and damage’ per sostenere i Paesi più fragili. Rientrano, invece, nel documento, la necessità di esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2°C, investire in rinnovabili, velocizzare gli impegni di decarbonizzazione. Ma soprattutto c’è “l’urgenza di affrontare le perdite e di danni del riscaldamento globale“.

A sostenere la creazione del fondo ‘loss and damage’, a poche ore dalla fine del vertice Onu sul clima a Sharm el-Sheikh, è in prima linea l’Unione europea, che ha presentato una proposta per istituirlo. Il fondo dovrebbe essere rivolto ai Paesi più vulnerabili e dovrebbe riflettere le realtà finanziarie del 2022. Ad annunciarlo il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans parlando con la stampa. Il fondo, secondo Timmermans, dovrebbe essere finanziato da “un’ampia base di donatori” e dovrebbe “andare di pari passo con una più alta ambizione sulla riduzione delle emissioni“.

Da Mohenjo Daro a Olimpia: cambiamenti climatici minacciano patrimoni Unesco

Di una delle prime città della storia, rischiava di non restare nulla dopo le tragiche alluvioni di questa estate in Pakistan. Mohenjo Daro è sopravvissuta, ma il sito incarna la minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per il patrimonio mondiale dell’umanità.
Apparsa intorno al 3000 a.C., la metropoli costruita dal popolo dell’Indo, una misteriosa civiltà fiorita nell’Età del Bronzo nel bacino dell’omonimo fiume, deve probabilmente la sua salvezza al genio dei suoi ideatori. Infatti, questo vastissimo sito in mattoni con strade geometriche, costruito in alto rispetto al corso d’acqua, era dotato di antiche condutture e di un sistema fognario sorprendentemente funzionale, che ha permesso di evacuare parte delle acque dell’alluvione che ha colpito il Pakistan.

Mentre i monsoni eccezionali tra giugno e settembre, corredati da precipitazioni da sette a otto volte superiori al normale in agosto, hanno trasformato il sud del paese in un gigantesco lago, a Mohenjo Daro è stato registrato un “deflusso estremamente importante”, spiega Thierry Joffroy, specialista in terre architettura. I “20-40 cm” d’acqua che “hanno riempito stanze” e causato “molti crolli”, secondo l’esperto che ha visitato il sito in ottobre per conto dell’Unesco, sono però niente rispetto a quanto vissuto nel resto del Paese, a volte letteralmente inghiottito dal fango. Quasi 1.600 pakistani sono morti, altri 33 milioni sono stati colpiti dalle piogge torrenziali “probabilmente” aggravate dal cambiamento climatico, secondo il World weather attribution, una rete di ricercatori. Ma “la situazione non è stata catastrofica” a Mohenjo Daro, che “potrebbe essere restaurata”, stima Joffroy.

Il sito pakistano è comunque “vittima” del clima nonostante la “fortuna”, concorda Lazare Eloundou Assamo, direttore del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Mohenjo Daro doveva infatti celebrare il centenario della sua scoperta, nel 1922, quest’anno. Ma la metropoli rischia di “essere scomparsa con tutte le tracce archeologiche” che contiene, sospira. Dei 1.154 siti del Patrimonio Mondiale, di cui 897 sono beni culturali, 218 sono aree naturali e 39 un misto delle due, molti sono minacciati dai cambiamenti climatici: inondazioni, uragani, cicloni e tifoni ma anche gli incendi “molto più frequenti” hanno un “impatto enorme” sui siti storici.

I mega-incendi boschivi, che stanno aumentando sulla costa del Mediterraneo, sono arrivati molto vicini a Olimpia, in Grecia, nell’estate del 2021. In Perù, quest’anno si sono verificate frane ai piedi di Machu Picchu.
Anche nelle sue variazioni meno spettacolari, il clima sconvolge l’equilibrio dei luoghi. In Australia, la Grande Barriera Corallina sta vivendo episodi di sbiancamento dovuti all’innalzamento della temperatura dell’acqua. In Ghana, l’erosione ha spazzato via parte del forte di Prinzenstein, utilizzato per la tratta degli schiavi.

La Cop27 entra nella fase finale. Nella bozza manca ‘loss & damage’. Guterres: “Momento cruciale”

La Cop27 è arrivata alle fase finali e, al momento, non sembra essere sulla strada giusta per raggiungere un accordo soddisfacente. Nella bozza della dichiarazione finale divulgata giovedì spicca il ‘vuoto’ del paragrafo relativo ai ‘Bisogni speciali e circostanze speciali dell’Africa’: il testo infatti non fa riferimento alla creazione di un fondo ‘loss and damage’ per il finanziamento dei Paesi devastati dagli impatti climatici, richiesto oltre che dai Paesi più vulnerabili e dai Paesi in via di sviluppo del G77, anche dalla Cina. Rientrano, invece, nel documento, la necessità di esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2°C. Investire in rinnovabili, velocizzare gli impegni di decarbonizzazione. Ma soprattutto c’è “urgenza di affrontare le perdite e di danni del riscaldamento globale“.

GUTERRES: “SIATE ALL’ALTEZZA DEL MOMENTO”. Un urgenza ribadita dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che, di rientro dal G20 di Bali, in conferenza stampa si appella alle parti in causa chiedendo loro di essere “all’altezza di questo momento e della più grande sfida che l’umanità deve affrontare” perché “il mondo ci guarda e ha un messaggio semplice: siate pronti e datevi da fare”. Il momento, secondo Guterres, è cruciale: “ La Cop27 si concluderà tra 24 ore e le Parti rimangono divise su una serie di questioni importanti. È evidente che la fiducia tra Nord e Sud e tra economie sviluppate ed emergenti è venuta meno. Non è il momento di puntare il dito. Il gioco delle colpe è una ricetta per la distruzione reciproca assicurata”. Quindi, in sintesi, l’importante è lavorare alacremente e “trovare un accordo ambizioso e credibile sulle perdite e i danni e sul sostegno finanziario ai Paesi in via di sviluppo”. Fra le altre priorità, per il segretario generale dell’Onu, abbandonare i combustibili fossili, accelerare sulle rinnovabili (“rampa di uscita dall’autostrada dell’inferno climatico” e sbloccare i finanziamenti per il clima nei Paesi in via di sviluppo.

ACCORDI DI PARIGI – Nella bozza di documento finale, che ora verrà analizzata e discussa da sherpa e ministri delle nazioni presenti, si chiede di “esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2 gradi Celsius dai livelli pre-industriali e per perseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi Celsius sopra i livelli pre-industriali“.

AIUTI AI PAESI IN VIA DI SVILUPPO – Il documento, “rileva con preoccupazione il crescente divario tra le esigenze dei Paesi in via di sviluppo, in particolare a causa dei crescenti impatti del cambiamento climatico e l’aumento dell’indebitamento, e il sostegno fornito da quelli sviluppati, evidenziando che le attuali stime di tali bisogni sono dell’ordine di 5,6 trilioni di dollari fino al 2030“. Invece, “nel periodo 2019-2020 il flusso di finanza climatica globale è stato di 803 miliardi di dollari, il 31-32 per cento di quanto è necessario per tenere il riscaldamento sotto il 2%, verso l’obiettivo di 1,5°C. Questo livello di finanziamenti per il clima – si legge nel testo – è anche inferiore a quanto ci si aspetterebbe alla luce delle opportunità di investimento individuate e il costo del mancato raggiungimento degli obiettivi di stabilizzazione del clima”. Per questo, si sottolinea “l’urgente necessità di accelerare e migliorare l’azione per il clima e la fornitura di sostegno” ai Paesi in via di sviluppo “per affrontare il cambiamento climatico nelle aree di mitigazione, adattamento, perdita e danno al fine di rendere possibile il raggiungimento dell’obiettivo dell’accordo di Parigi”. Inoltre, la bozza “esprime grave preoccupazione per il fatto che l’obiettivo delle parti dei paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 non sia stato ancora raggiunto e sollecita i paesi sviluppati a raggiungerlo”. Ribadisce poi “l’appello ai paesi sviluppati ad almeno raddoppiare la finanza per l’adattamento al 2025 rispetto al livello del 2019

INVESTIRE IN RINNOVABILI– Nel documento si precisa che “circa 4.000 miliardi di dollari l’anno devono essere investiti in energie rinnovabili entro al 2030, compresi gli investimenti in tecnologia e infrastrutture, per consentirci di raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050″. “Gli investimenti in economia a basse emissioni richiedono da 4 a 6.000 miliardi di dollari all’anno“.

EMISSIONI – La bozza  “nota con grande preoccupazione” che, con gli attuali impegni di decarbonizzazione degli stati, “le emissioni al 2030 sono stimate dello 0,3% in meno rispetto al 2019“, mentre “dovrebbero essere ridotte del 43% al 2030 rispetto al 2019, se si vuole raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette“.

Lula alla Cop27 Credits: Afp

Lula infiamma la Cop27: “Il Brasile è tornato”. Amazzonia candidata a vertice clima 2025

“Il Brasile è tornato!”. E’ il giorno di Luis Inacio Lula Silva alla Cop27 in corso a Sharm el Sheikh. Lo storico leader, rieletto presidente il mese scorso dopo i quattro anni di Jair Bolsonaro, ha assicurato i partner mondiali riuniti in Egitto che il suo Paese è nuovamente un interlocutore affidabile. Il Brasile, ha annunciato “riprenderà i legami con il mondo” e “sarà una forza positiva per affrontare le sfide globali”. Prima fra tutte, la lotta contro il riscaldamento globale. “La lotta al cambiamento climatico avrà la massima rilevanza nel mio prossimo governo“, ma questa lotta “non è separabile da quella alla povertà”, ha detto nel suo discorso alla Conferenza sul clima. Il Brasile di Lula, infatti, “combatterà ancora una volta contro la fame del mondo“. E poi, ha promesso, “rafforzeremo e finanzieremo gli organismi di tutela ambientale che sono stati smantellati negli ultimi tre anni, perseguiremo i minatori e gli agricoltori illegali, istituiremo il Ministero delle Popolazioni originarie”.

Cuore del suo discorso, e passaggio tanto atteso, è l’Amazzonia, che Lula ha proposto come sede per ospitare la Cop30 nel 2025. “L’Amazzonia ha un significato enorme per il mondo. Dobbiamo dimostrare che un albero in più ha più valore di un albero caduto. Non c’è sicurezza del pianeta senza un’Amazzonia protetta”, ha detto. Il passaggio formale sarà poi con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres per ufficializzare la candidatura.
Il Brasile era stato selezionato per organizzare la COP nel 2019, ma ha annullato la decisione dopo l’elezione di Bolsonaro alla fine del 2018. Sotto la guida di Jair Bolsonaro, il Paese più grande dell’America Latina si è isolato sulla scena internazionale, soprattutto a causa di politiche che favoriscono la deforestazione e gli incendi in Amazzonia. Il presidente di estrema destra ha favorito l’agroindustria intensiva e il settore minerario, tagliando al contempo i bilanci per la protezione dell’ambiente. Lula, invece, ha promesso di lottare per una “deforestazione zero”. “L’agrobusiness brasiliano sarà strategico, sarà un’agricoltura sostenibile, valorizzando le conoscenze dei popoli nativi. Abbiamo le tecnologie per rendere produttive le aree degradate, 40 milioni di ettari. Non abbiamo bisogno di deforestare“, ha annunciato, impegnandosi a rispettare l’accordo con Indonesia e Congo per la tutela delle foreste e a sbloccare i 500 milioni di dollari da Germania e Norvegia per l’Amazzonia, bloccati durante la presidenza Bolsonaro.

Il presidente eletto ha ricordato l’impegno non rispettato dei paesi ricchi per il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi poveri nelle politiche climatiche. “Sono tornato per domandare quanto era stato promesso alla Cop15 nel 2009“, ha detto . Per questo, ha ribadito l’urgenza di creare il fondo ‘loss and damage’, il meccanismo finanziario per affrontare le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico. “Non possiamo più rimandare”, ha aggiunto.

 

 

Credits: Afp

La moda ammette: “Impossibile ridurre emissioni del 30%”

L’industria della moda si è impegnata a dimezzare le proprie emissioni di gas serra entro il 2030, ma alla Cop27 in Egitto, i rappresentanti dell’industria hanno ammesso che questo obiettivo sarà molto difficile da raggiungere. Nel 2018, circa 30 marchi di moda avevano firmato la Fashion Industry Charter for Climate Action alla Cop24 di Katowice, in Polonia, impegnandosi a ridurre le proprie emissioni del 30% entro il 2030 e a raggiungere la carbon neutrality nel 2050. A novembre 2021, poi, era stato fissato un nuovo e più ambizioso obiettivo di dimezzare le emissioni entro la fine del decennio.

Attualmente più di cento aziende hanno aderito a questa carta, inclusi giganti della moda come la svedese H&M e la spagnola Inditex, proprietaria di Zara, o marchi sportivi come Adidas e Nike. L’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050 rappresenta una sfida importante per le imprese, soprattutto per quelle che hanno lunghe catene di approvvigionamento, inclusi fornitori e produttori sparsi in tutto il mondo. “Ci siamo riusciti? Certo che no. Siamo sulla strada giusta? Direi ‘forse’“, ha ammesso Stefan Seidel, responsabile dello sviluppo sostenibile del marchio Puma, durante una tavola rotonda alla Cop27.

Nel 2018 il settore è stato responsabile del 4% delle emissioni globali di gas serra, equivalenti alle emissioni totali di Regno Unito, Francia e Germania, secondo i dati elaborati dalla società di consulenza McKinsey. Circa il 90% delle emissioni dell’industria della moda è prodotta dai fornitori, come ricorda la Global Fashion Agenda. La conversione di tutte le catene di produzione e l’imposizione di standard climatici ai fornitori di materie prime e alle fabbriche di abbigliamento è un compito “enorme“.

Ad esempio, H&M ha più di 800 fornitori e la verifica di ogni aspetto della filiera è molto difficile. Marie-Claire Daveu, che è responsabile dello sviluppo sostenibile del gruppo Kering – che comprende marchi di lusso come Gucci e Yves Saint-Laurent – ha ammesso la difficoltà di “cambiare le filiere” e invita alla “collaborazione”.

Ali Nouira, produttore egiziano, ha presentato alla Cop27 le difficoltà dei fornitori, ad esempio in una regione come la sua dove non esistono organismi di certificazione. “Quando produciamo, dobbiamo avere tutte le certificazioni, in particolare quella relativa all’impronta di carbonio, e per un piccolo marchio proveniente dall’Egitto è estremamente difficile e costoso“, ha spiegato.
Ma come ha ricordato Nicholas Mazzei, responsabile del dipartimento di sviluppo sostenibile di Zalando, uno dei maggiori brand di vendita online, “nei Paesi sviluppati la mentalità è già cambiata” e così, ad esempio, “alcune grandi banche offrono tassi di interesse più bassi alle aziende che si impegnano per un obiettivo di emissioni nette zero“. Ma per i fornitori la strada per la transizione è ancora lunga.

Siamo 8 miliardi sulla Terra. L’Onu: “Dobbiamo prenderci cura del nostro Pianeta”

Da oggi la popolazione mondiale ha ufficialmente superato gli 8 miliardi. La stima ufficiale è dell’Onu che richiama alla “nostra responsabilità condivisa di prenderci cura del nostro Pianeta”. Per le Nazioni Unite, “questa crescita senza precedenti” – nel 1950 si contavano 2,5 miliardi di abitanti – è il risultato “di un progressivo aumento della durata della vita grazie ai progressi compiuti in termini di salute, alimentazione, igiene personale e medicina”.

Ma la crescita della popolazione ci pone di fronte a enormi sfide, soprattutto nei Paesi più poveri, in cui esiste un problema di sovrappopolazione. La soglia degli 8 miliardi viene superata nel bel mezzo della conferenza mondiale sul clima, Cop27, a Sharm el-Sheikh, dove è stata ribadita più volte la necessità che i Paesi ricchi – i maggiori responsabili del riscaldamento globale – supportino i Paesi più poveri nella strada verso la transizione ecologica. Infatti, ricorda l’Onu, “se la crescita demografica amplifica l’impatto ambientale dello sviluppo economico”, “i Paesi dove il consumo di risorse materiali e le emissioni di gas serra per abitante sono più elevati, sono in genere quelli dove il reddito pro capite è il più alto e non quelli in cui la popolazione sta crescendo rapidamente”.

“Il nostro impatto sul pianeta è determinato molto più dal nostro comportamento che dai nostri numeri”, riassume Jennifer Sciubba, ricercatrice presso il think tank del Wilson Center. Ma è proprio nei Paesi più poveri che la crescita della popolazione pone sfide importanti. “La persistenza di alti livelli di fertilità, che guidano una rapida crescita della popolazione, è sia un sintomo sia una causa del lento progresso dello sviluppo”, scrive l’Onu.

Così l’India, che conta 1,4 miliardi di abitanti e che diventerà il Paese più popoloso del mondo nel 2023, superando la Cina, andrà incontro a un sovraffollamento urbano e alla scarsità di risorse. A Bombay, circa il 40% della popolazione vive in baraccopoli, la maggior parte delle quali prive di acqua corrente, elettricità e servizi igienici. I numeri forniti dall’Onu evidenziano un’immensa diversità demografica. Pertanto, più della metà della crescita della popolazione entro il 2050 proverrà da soli 8 Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania. Ed entro la fine del secolo, le tre città più popolose del mondo saranno africane: Lagos in Nigeria, Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo e Dar Es Salaam in Tanzania.

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Binde-Xi

Dialogo storico Biden-Xi al G20: verso ripresa colloqui su clima

Trovare aree di convergenza senza evitare gli argomenti più spinosi: è durato tre ore l’incontro tra il presidente americano Joe Biden e l’omologo cinese Xi Jinping alla vigilia del G20 di Bali, in Indonesia. Una stretta di mano storica (si è trattato infatti del primo faccia a faccia tra i due leader dall’elezione di Biden nel 2020) e una primordiale apertura sulla ripresa dei colloqui sul clima.

Dopo il mancato incontro alla Conferenza sul clima, la Cop27, in corso a Sharm el-Sheikh, Biden e Xi hanno cercato di allentare le tensioni tra Stati Uniti e Cina, i due Paesi più inquinanti del mondo. Al termine della Cop26 di Glasgow, Pechino e Washington si erano impegnate a collaborare dal punto di vista delle tecnologie innovative, quelle relative all’utilizzo di energie rinnovabili, del risparmio energetico, dei sistemi innovativi di accumulo. Sulle pratiche illegali di deforestazione, su politiche per l’istituzione di standard di riduzione delle emissioni, su politiche per la decarbonizzazione. Un dialogo interrotto sulla scia delle tensioni legate a Taiwan, soprattutto dopo la visita sull’isola della speaker della Camera, Nancy Pelosi. Ancora oggi, la questione dell’indipendenza o meno di Taiwan è stata definita “la linea rossa” delle relazioni tra Usa e Cina. Sul resto, i due leader hanno cercato di “prevenire che la competizione diventi qualcosa che anche solo si avvicini a un conflitto” tra Pechino e Washington, come ha detto Biden, che intende “mantenere aperte le linee di comunicazione” con Xi. Cina e Usa devono dunque “trovare la corretta direzione di sviluppo per le relazioni e promuovere il miglioramento delle relazioni“, ha precisato Xi.

Punto di partenza sembra essere la ripresa della cooperazione sulla lotta al cambiamento climatico, definita una delle “sfide transnazionali” su cui collaborare, insieme a riduzione del debito, sicurezza sanitaria e sicurezza alimentare globale. “E’ quello che la comunità internazionale si aspetta”, ha ricordato Biden. Usa e Cina sono le due maggiori potenze globali, i leader lo sanno e lo rivendicano. Ricordando anche la loro responsabilità a difesa dell’ambiente. Biden e Xi hanno infatti concordato che “le squadre diplomatiche delle due parti manterranno una comunicazione strategica e condurranno consultazioni regolari“, che “i team finanziari dei due Paesi condurranno un dialogo e un coordinamento sulle politiche macroeconomiche, sulle questioni economiche e commerciali e su altre questioni” e che “collaboreranno per promuovere il successo” della Cop27.

Sullo sfondo la guerra in Ucraina, che sembra rappresentare un punto di contatto tra Cina e Stati Uniti, su posizioni tradizionalmente lontane rispetto all’invasione russa del Paese. Biden e Xi, sottolinea una nota della Casa Bianca, “hanno reiterato il loro accordo che una guerra nucleare non dovrebbe essere mai combattuta e che non si puo’ mai vincere e hanno sottolineato la loro opposizione all’uso, o alla minaccia dell’uso, di armi nucleari in Ucraina“. La Cina e’ “estremamente preoccupata” per la situazione in Ucraina, ha detto Xi, e rimane a favore della pace e della ripresa dei colloqui tra Mosca e Kiev.