Accordo alla Cop29: 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo

Dopo tre notti in bianco e interminabili negoziati, fra sabato e domenica il presidente della 29esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è riuscito a concludere un importante accordo sui finanziamenti per il clima in Azerbaigian. Ma troppo in fretta per alcuni. Nello stadio olimpico di Baku le scadenze continuavano a non essere rispettate, nella confusione dei negoziati coordinati dall’Azerbaigian. Ma all’improvviso, poco prima delle 3 di domenica mattina, il ministro dell’Ecologia del Paese, Moukhtar Babaïev, ha fatto passare rapidamente l’accordo, per consenso dei 195 membri dell’accordo di Parigi. Alcuni delegati si sono alzati per applaudire. Altri, in particolare dietro il leggio dell’Arabia Saudita, si sono accontentati di osservare educatamente. A quel punto sono iniziati i fuochi d’artificio. Mentre Cuba, India e Bolivia, persino la Svizzera e il Cile, hanno preso la parola per presentare le loro lamentele. La delegata indiana ha accusato pesantemente Babaïev di aver ignorato le sue obiezioni e di aver fatto adottare l’accordo per consenso nonostante la sua richiesta, una tattica che non è inedita in una Cop. L’importo approvato, 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo, è “irrisorio”, ha denunciato Chandni Raina. “Tutto è stato orchestrato e siamo estremamente, estremamente delusi da questo incidente”, ha detto, mentre gli attivisti in fondo alla sala battevano sui loro tavoli in segno di sostegno. Impassibile, il presidente della Cop29 ha risposto: “Grazie per la sua dichiarazione”. La 29esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha adottato una serie di decisioni, la principale delle quali prevede che i Paesi ricchi debbano finanziare 300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2035 per sostenere la transizione energetica e l’adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. Ecco i punti principali dell’accordo.

300 MILIARDI DI DOLLARI. Questo era il punto più atteso del vertice: quanto dovranno fornire ai Paesi in via di sviluppo i 23 Paesi sviluppati e l’Unione Europea, indicati nel 1992 come responsabili storici del cambiamento climatico? “Almeno 300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2035”, si legge nell’accordo di Baku, che stabilisce questo “nuovo obiettivo collettivo quantificato” in sostituzione del precedente di 100 miliardi all’anno. Si tratta della metà di quanto richiesto dai Paesi in via di sviluppo e di uno sforzo molto ridotto se si tiene conto dell’inflazione, hanno criticato le ONG. Secondo la formulazione del testo, “i Paesi sviluppati sono all’avanguardia” nel raggiungimento di questo importo, il che significa che altri possono partecipare. Il testo prevede che il contributo dei Paesi ricchi provenga dai loro fondi pubblici, integrati da investimenti privati da loro mobilitati o garantiti, o da “fonti alternative”, ossia da possibili tasse globali, ancora in fase di studio (sui grandi patrimoni, sull’aviazione o sui trasporti marittimi). Secondo l’accordo, questi 300 miliardi di dollari dovrebbero essere la leva necessaria per raggiungere un totale di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo. Questa cifra corrisponde al loro fabbisogno di finanziamenti esterni, secondo le stime degli esperti della commissione Onu Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern.

NESSUN OBBLIGO PER LA CINA. I Paesi occidentali chiedevano di ampliare l’elenco dei Paesi responsabili dei finanziamenti per il clima, sostenendo che nel frattempo Cina, Singapore e gli Stati del Golfo si erano arricchiti. Ma la Cina in particolare ha tracciato una linea rossa: questa lista non deve essere toccata. L’accordo di Baku “invita” i Paesi non sviluppati a fornire contributi finanziari, ma questi rimarranno “volontari”, come esplicitamente stabilito. L’accordo contiene tuttavia una novità: d’ora in poi, i finanziamenti per il clima dei Paesi non sviluppati concessi attraverso le banche multilaterali di sviluppo potranno essere conteggiati ai fini dell’obiettivo dei 300 miliardi. Gli europei hanno accolto con favore questa novità.

CONCESSIONI AI PAESI PIU’ VULNERABILI. Sabato hanno sbattuto brevemente la porta, lamentando di non essere stati ascoltati né consultati, ma i 45 Paesi meno sviluppati (LDC) e il gruppo dei circa 40 piccoli Stati insulari sono stati infine convinti a non bloccare l’accordo. Volevano che una parte degli aiuti finanziari fosse esplicitamente riservata a loro, contro il parere di altri Paesi africani e sudamericani. Alla fine, l’accordo anticipa al 2030 l’obiettivo di triplicare i finanziamenti, essenzialmente pubblici, che saranno incanalati attraverso fondi multilaterali dove hanno la priorità. Per la Cop30 di Bélem, in Brasile, nel novembre 2025, è prevista anche una roadmap che produrrà un rapporto su come incrementare i finanziamenti per il clima. Tra le altre cose, fornirà una nuova opportunità per ottenere più denaro sotto forma di sovvenzioni, mentre oggi il 69% dei finanziamenti per il clima consiste in prestiti.

POCO SULL’ELIMINAZIONE DEI COMBUSTIBILI FOSSILI. Qualsiasi riferimento esplicito alla “transizione” dai combustibili fossili, il principale risultato della Cop28 di Dubai, è scomparso nella finalizzazione dei testi principali, riflettendo una “battaglia del diavolo” con i Paesi produttori, secondo un negoziatore europeo. Appare solo implicitamente nei richiami all’esistenza dell’accordo adottato l’anno scorso. Ma il testo, che avrebbe dovuto rafforzarne l’attuazione, non è stato definitivamente adottato alla chiusura della Cop29, dopo una lunga battaglia che lo aveva già ampiamente svuotato della sua sostanza. Una delle priorità dell’Unione Europea, osteggiata dall’Arabia Saudita, era quella di ottenere un monitoraggio annuale degli sforzi per abbandonare petrolio, gas e carbone: senza successo.

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La Cop è stata un flop, forse conviene cambiare format per il Brasile

Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.

C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.

Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.

Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.

Jude Law in campo per il clima: “Big Oil paghi per danni climatici”

Jude Law, Mark Rylance, Aisling Bea, George MacKay, Michael Shannon e Lily Cole sono le ultime celebrità che si sono unite all’appello – lanciato da Global Witness – affinché le aziende produttrici di combustibili fossili siano costrette a pagare per il ruolo che hanno svolto nel causare il collasso climatico. “Petrolio, gas e carbone – dice Jude Law – stanno danneggiando il nostro pianeta, causando un’impennata di eventi meteorologici mortali. È ora che le aziende produttrici di combustibili fossili rispondano delle loro azioni”.

Secondo i dati dell’Ong Global Witness, solo nel 2022 l’industria del petrolio e del gas ha realizzato profitti al lordo delle imposte per 4.000 miliardi di dollari. Si tratta di dieci volte il costo annuale dei danni climatici nei Paesi in via di sviluppo, stimato in 400 miliardi di dollari all’anno. Il Fondo per le perdite e i danni dell’Unfccc, progettato per aiutare le nazioni più povere colpite dai disastri climatici, attualmente contiene meno dello 0,2% di questa cifra e a Baku, dove è in corso la Cop289, il tema della finanza climatica è il nodo cruciale.

La campagna, chiamata ‘Payback Time’, è sostenuta da numerose celebrità, attivisti e gruppi organizzati. Tra questi, l’ex presidente irlandese Mary Robinson, i registi Adam McKay e Joshua Oppenheimer, l’attrice di Star Wars Rosario Dawson, la star di Harry Potter Bonnie Wright, i musicisti Brian Eno e Jon Hopkins e alcuni importanti attivisti per il clima, tra cui Vanessa Nakate, Kumi Naidoo e Luisa Neubauer.

“La gente ha bisogno di soldi per ricostruire e adattarsi al nostro clima sempre più estremo. Ma in questo momento le compagnie petrolifere e del gas che alimentano il collasso climatico la fanno franca, realizzando immensi profitti grazie a prodotti che da decenni sanno essere dannosi per il pianeta. È ora di fargliela pagare”, spiega Mary Robinson. Per Kumi Naidoo “Decine di milioni di persone provenienti dai Paesi che hanno contribuito meno alla crisi climatica stanno già pagando il prezzo più brutale. Le aziende produttrici di combustibili fossili, i maggiori responsabili delle emissioni a livello mondiale, devono pagare”.

L’attore George MacKay è il protagonista di The End, un nuovo film post-apocalittico del regista Joshua Oppenheimer che affronta il ruolo dell’industria dei combustibili fossili nella crisi climatica e l’urgente necessità di responsabilizzare Big Oil. Il film sarà proiettato in anteprima negli Stati Uniti il mese prossimo. “Sono onorato e orgoglioso – dice l’artista – di far parte di questa azione e del film The End. Speriamo che possa dare il via a un nuovo inizio e alla continuazione della verità”.

Cop29 ai supplementari. Proposti 250 mld anno da Paesi ricchi. Africa: “Inaccettabile”

All’undicesimo giorno di lavori, alla Cop29 il Nord e il Sud globale continuano a darsi battaglia. La presidenza azera partorisce una bozza di compromesso sbilanciata a favore dei Paesi sviluppati, perché invita a raggiungere l’obiettivo di 1,3 trilioni di dollari entro il 2035, ma decide di stanziare una somma di 250 miliardi all’anno. Il testo comunque non è l’ultimo: dopo la bozza, pubblicata nel primo pomeriggio, iniziano le consultazioni tra facilitatori e delegazioni verso il testo finale.

Dopo il primo documento a opzioni, questo testo fa una sintesi, ma in sostanza riflette un’ambizione minima. Resta il macro goal di raggiungere, per il contrasto ai cambiamenti climatici dei Paesi in via di sviluppo, oltre mille miliardi in dieci anni, ma l’obbligo vincolante, che parla di finanza fornita (i fondi pubblici a fondo perduto) e mobilizzata (i fondi privati e prestiti di finanza bilaterale e multilaterale) è di 250 miliardi di dollari all’anno fino al 2035.

Poco, troppo poco per il gruppo africano. Di nuovo, la bozza risulta “totalmente inaccettabile e inadatta all’attuazione dell’accordo di Parigi”, commenta a caldo il negoziatore keniota, Ali Mohamed.

Profondamente delusa anche l’Alleanza dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo, i più vulnerabili tra i vulnerabili: “Il testo chiede alle parti ‘Quanto in basso potete andare in materia di ambizione climatic?‘. È inaccettabile”, tuona l’Aosis, ribadendo che il testo “non sarà adeguato a dare piena attuazione all’Accordo di Parigi e a guidare realmente l’azione per mantenere il limite di 1,5°C”.

La presidenza assicura un lavoro per un obiettivo più “giusto e ambizioso”: “Continueremo a discutere con le parti”, dice ai giornalisti il ​​capo negoziatore, Ialtchine Rafiev, promettendo di apportare “gli ultimi aggiustamenti”, mentre la conferenza delle Nazioni Unite è ufficialmente entrata nei tempi supplementari.

Quanto all’Italia, continua a spingere, insieme ai principali paesi europei, perché “venga una riforma per una finanza climatica migliore, più efficiente che coinvolga anche nuovi Paesi, settore privato, enti filantropici e banche multilaterali di sviluppo“, spiega il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, in una pausa dei lavori. L’approccio di Roma è “quello di perseguire la decarbonizzazione e la crescita dei più vulnerabili”, riferisce, alla base della strategia e dei progetti del Piano Mattei per l’Africa, attraverso collaborazioni pubblico-privato e “partenariati paritari e non predatori”.

Secondo la bozza, i fondi per il clima dovranno arrivare “da un’ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, comprese le fonti alternative”, con azioni “significative e ambiziose” di mitigazione e adattamento, e di “trasparenza nell’attuazione”, quindi con il monitoraggio degli obiettivi; riconoscendo l’intenzione volontaria delle Parti di “conteggiare tutti i flussi in uscita e i finanziamenti mobilitati dalle banche multilaterali di sviluppo” e invita i Paesi in via di sviluppo ad apportare altri contributi, anche attraverso la cooperazione cooperazione Sud-Sud, per raggiungere l’obiettivo. Si riflette quindi sull’espansione della base dei donatori e sulla richiesta cinese di riconoscerla ma su base volontaria.

Nel testo sulla mitigazione, l’abbassamento delle emissioni, si riprende il linguaggio di Parigi sulla necessità di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C come opzione prioritaria. Manca però un riferimento esplicito all’uscita dalle fonti fossili: si “riaffermano” gli esiti del Global Stocktake, senza però citarli.

I fondi per il clima andrebbero a finanziare i piani nazionali sotto l’Accordo di Parigi (gli Ndc); i Piani Nazionali di Adattamento e le Comunicazioni sull’Adattamento, “inter alia”, quindi oltre a una serie di azioni e piani non esplicitati.

La Cop prende poi “atto” del bisogno di finanza per il clima in forma di concessioni, prestiti altamente agevolati e in forma di finanza pubblica, specialmente a supporto di azioni di adattamento e per compensare perdite e danni e riconosce l’importanza di aumentare entro il 2030 la percentuale di finanza mobilitata da fonti pubbliche, ma senza imporre obiettivi specifici o scadenze.

Cop29, sulla finanza la bozza della discordia. A Baku si cerca il compromesso

Unacceptable”, semplicemente inaccettabile. E’ la parola più ripetuta di oggi nello stadio di Baku, che ospita il decimo giorno di lavori della Cop29: serpeggia tra gli analisti, tuona in plenaria. La prima bozza sulla finanza climatica viene respinta da tutti. Perché non offre nessuna idea di compromesso tra i Paesi sviluppati e i Paesi in via di sviluppo, si limita a fotografare la situazione attuale. Il documento non indica una cifra precisa da stanziare o mobilitare e offre due scenari, che riflettono le posizioni dei due gruppi di Paesi.

La prima opzione è vicina ai ‘developing’, i paesi in via di sviluppo. Prevede che il nuovo obiettivo di finanza climatica, da stabilire alla conferenza annuale delle Nazioni Unite, si basi esclusivamente sui fondi dei Paesi sviluppati, che sono obbligati a contribuire secondo i testi delle Nazioni Unite, in virtù delle proprie responsabilità storiche sull’inquinamento. Secondo questa prima opzione, almeno mille miliardi di dollari all’anno devono essere forniti da fondi pubblici dei Paesi ricchi – essenzialmente Europa, Stati Uniti e Giappone – e da fondi privati associati, “nel periodo 2025-2035”, essenzialmente sotto forma di sovvenzioni piuttosto che di prestiti. Si tratta di un importo dieci volte superiore ai 100 miliardi che i Paesi ricchi si erano impegnati a fornire nel periodo 2020-2025, in parte solo sotto forma di sovvenzioni.

La seconda opzione è quella che accontenta il blocco dei Paesi sviluppati. Qui l’obiettivo finanziario sarebbe “un aumento dei finanziamenti globali per l’azione a favore del clima” di almeno mille miliardi di dollari all’anno da raggiungere “entro il 2035” a partire da almeno ‘100 milioni+’, cioè una cifra sicuramente superiore ai 100 milioni ma non si sa di quanto. In più, questa opzione includerebbe “tutte le fonti di finanziamento”, compresi i fondi pubblici di ogni Paese del mondo, i fondi privati e le nuove tasse globali, come quelle sull’aviazione o sul trasporto marittimo. Questa opzione evita di indicare una cifra per l’impegno dei Paesi ricchi, che fin dall’inizio del vertice hanno dichiarato di voler stabilire le modalità di erogazione e di monitoraggio dei fondi, prima di proporre una cifra.

Non c’è quindi un incontro a metà strada sulle due posizioni. Ecco perché le prime reazioni sono incandescenti. “Non intendo indorare la pillola. Il testo così com’è ora è chiaramente inaccettabile“, taglia corto il commissario europeo al Clima, Wopke Hoekstra. Lamenta innanzi tutto l’assenza dell’impegno a uscire dai fossili, che era stato preso a Dubai lo scorso anno: “Non possiamo accettare l’idea che, a quanto pare, per alcuni la precedente Cop non si è svolta”, afferma, ricordando che il programma dell’Ue non prevedeva solo di ribadire il consenso dell’unione, ma anche di rafforzarlo e renderlo operativo. E le nuove tasse che incrementerebbero il fondo clima, osserva, “vanno in realtà nella direzione opposta”. Sull’aspetto finanziario, per Hoekstra serve prima “un’infrastruttura migliore”, più chiarezza anche sui finanziamenti del settore pubblico per l’adattamento, sugli elementi da prendere in considerazione per arrivare a una cifra significativa. Quindi, insiste, “c’è molto lavoro da fare per la presidenza e per tutte le parti coinvolte”.

Anche il ministro italiano Gilberto Pichetto denuncia l’assenza di idee di compromesso nel primo documento: “Ci aspettiamo progressi“, scandisce, nella speranza di avere quanto prima una “proposta di mediazione”.

Il testo “non offre alcun progresso, nessun segnale sulle aspettative di piani nazionali ambiziosi, né uno spazio per discutere l’ambizione collettiva dei piani da presentare l’anno prossimo“, commenta Jennifer Morgan, inviata speciale della Germania per il clima, per cui questa “non può e non deve essere la nostra risposta alla sofferenza di milioni di persone nel mondo”. La Germania chiede messaggi chiari sui prossimi impegni climatici, riduzioni assolute delle emissioni a livello economico in linea con 1,5 gradi e il rinnovo dell’impegno a eliminare gradualmente tutti i sussidi ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o la transizione nel più breve tempo possibile. Il gruppo dei Paesi arabi fa sapere che rifiuterà qualsiasi testo che abbia come obiettivo i “combustibili fossili”. Lo mette in chiaro in plenaria il rappresentante, il saudita Albara Tawfiq, alla Conferenza ONU sul clima di Baku, nel penultimo giorno teorico della COP29. Sul piede di guerra i piccoli Paesi insulari, quelli più a rischio di scomparire con le conseguenze del cambiamento climatico. “Il tempo dei giochi politici è finito”, avverte il rappresentante, il samoano Cedric Schuster, a nome dell’alleanza Aosis, ribadendo che il mondo non può permettersi di andare in direzione opposta a quella dell’Accordo di Parigi.

Il rappresentante dei G77 (l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo in via di sviluppo) ripete come un mantra da giorni ai ministri e alle delegazioni di non lasciare Baku “senza stabilire una cifra chiara” sulla finanza climatica. Spiega che i Paesi in via di sviluppo chiedono ai Paesi ricchi “almeno” 500 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti per il clima entro il 2030, per raggiungere mille miliardi con fondi pubblici, senza perdere di vista l’obiettivo di 1,3 trillions.

Molti elementi non sono “né soddisfacenti né accettabili” anche per la Cina. Il rappresentante Xia Yingxian, ribadisce intanto in plenaria il rifiuto di qualsiasi testo che obblighi la Cina a contribuire agli aiuti finanziari internazionali per i Paesi in via di sviluppo (mentre l’Europa e gli altri Paesi ricchi vorrebbero includere ufficialmente il denaro già fornito dalla Cina nel totale). Pechino invita “tutte le parti a incontrarsi a metà strada”, ponendosi come una potenza equilibratrice tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Il delegato suggerisce che il contributo obbligatorio dei Paesi sviluppati “sia ben superiore a 100 miliardi di dollari all’anno”.

Su tutti, l’appello di Antonio Guterres al compromesso: “Il tempo stringe“, esorta. Confessa di percepire “una certa propensione all’accordo“, pur ammettendo l’esistenza di differenze importanti. Chiede una “grande spinta per portare le discussioni oltre il traguardo” per realizzare un “pacchetto ambizioso ed equilibrato” su tutte le questioni in sospeso, con al centro un nuovo obiettivo finanziario. “Il fallimento non è un’opzione“, avverte. Quello che serve è chiaro, per il segretario dell’Onu: “Un accordo su un nuovo ambizioso obiettivo di finanziamento del clima a Baku“, da cui ripartire l’anno prossimo a Belem, in Amazzonia.

Occhi puntati sulla nuova bozza, che dovrebbe contemplare una sola opzione, un compromesso tra le parti. La sfida sarà, per gli analisti, fare in modo che il documento finale non sia un ‘fantadocumento’, che non parli di qualcosa che non esiste e che non passi l’idea che la Conferenza delle Parti possa partorire della carta straccia.

Cop29 al rush finale. Paesi poveri avvertono: “Su fondo clima cifra sia chiara, 1,3 trilioni di dollari”

A due giorni dalla chiusura della Cop29 di Baku, i negoziati si addensano e i toni si alzano. In serata si attende la pubblicazione delle bozze dei singoli dossier della conferenza delle parti, ma quello più atteso, sulla finanza climatica, è in stallo. Le cifre che circolano sono tante, troppe. Di certo i Paesi del G77 (l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo principalmente in via di sviluppo) vorrebbe leggere nel dossier un numero non equivocabile: 1,3 trilioni di dollari.

La cifra al 2030 è la stima del fabbisogno fatta dagli economisti Nicholas Stern e Amar Bhattacharya, su commissione dell’Onu. Secondo i testi delle Nazioni Unite, solo i Paesi sviluppati sarebbero obbligati a contribuire. Ma l’Europa spinge perché gli emergenti, come la Cina, diano un segnale di disponibilità. I Paesi sviluppati non si sbilanciano, ma si orientano su una somma molto, molto più bassa. Secondo le indiscrezioni di Politico, per trovare un compromesso tra mitigazione e finanza l’Unione europea avrebbe proposto una cifra tra i 200 e i 300 miliardi di dollari all’anno.

E’ uno scherzo?”, tuona in conferenza stampa Adonia Ayebare, dell’Uganda, a nome dei Paesi del G77. Seguono un silenzio gelido e un applauso scrosciante della sala. “Nella bozza vogliamo vedere una cifra chiara, ed è in trilioni, 1,3 trilioni. Un buon titolo che parli davvero dei grandi ingredienti, poi possiamo approfondire altre questioni“, argomenta. Ayebare denuncia un’assenza di aggiornamenti sui piani dei Paesi sviluppati che “accresce l’incertezza e l’urgenza della nostra situazione“, e insiste: “È imperativo che i Paesi sviluppati si facciano avanti e soddisfino le aspettative dei Paesi in via di sviluppo, che sono in prima linea nell’emergenza climatica e hanno bisogno di un sostegno immediato per mitigare e adattare gli impatti del clima e affrontare efficacemente le perdite e i danni“. Quanto all’ipotesi di ampliare la base dei contribuenti, cioè se far partecipare la Cina tra i finanziatori, la risposta è no. L’accordo di Parigi non si riapre, ma si può valutare “un altro livello nella decisione che parla di contributi volontari. Questo, comunque, viene dopo“, scandisce.

Molto preoccupato” della “grande fuga dei Paesi sviluppati dalla proprie responsabilitàDiego Pacheco, della Bolivia, a nome dei Paesi in via di sviluppo ‘like minded’ (Lmdc). La finanza “non è carità”, mette in chiaro, ma è un “obbligo legale dei Paesi sviluppati nei confronti dei Paesi in via di sviluppo“. “Non è vero che nel mondo non ci sono soldi, nel mondo ci sono un sacco di soldi”, chiosa Pacheco, che insiste: “I paesi sviluppati hanno programmi per le guerre, usarli per risolvere la crisi climatica potrebbe essere davvero una grande idea. Sono molto creativi, sono molto innovativi nel processo negoziale, quindi dovrebbero essere molto creativi a casa loro per trovare il modo di aumentare la quantità di denaro che i Paesi in via di sviluppo richiedono“. Lo stallo sul capitolo della finanza “è davvero frustrante e deludente” per Ali Mohamed, del Kenya, che parla a nome dei Paesi del gruppo dei negoziatori africani (Agn). “Ci auguriamo che i nostri partner propongano una cifra giustificabile che risponda alle esigenze e all’entità dei crescenti problemi legati al cambiamento climatico”.

A qualche ora dalla chiusura delle bozze dei facilitatori, il ministro dell’Ambiente italiano, Gilberto Pichetto, non è ottimista: “Le posizioni sono ancora distanti, perché chiaramente nella parte finanziaria ci sono richieste molto alte da parte dei Paesi in via di sviluppo“, afferma a margine di un evento nel padiglione Etiopia, parlando di “cifre colossali, non raggiungibili“. Sull’adattamento, finora, la Germania si è impegnata a raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento e ha sottolineato la necessità di contributi del settore privato accanto ai finanziamenti pubblici e ha annunciato un impegno di 60 milioni di euro per il Fondo di adattamento; la Francia si è impegnata a destinare il 30% dei suoi finanziamenti per il clima all’adattamento entro il 2025, gli Stati Uniti di Biden hanno sottolineato la necessità di incrementare i finanziamenti concentrandosi sui soggetti più vulnerabili, annunciando il rispetto dell’impegno annuale di 3 miliardi di dollari per il finanziamento dell’adattamento. L’Italia intende aumentare il proprio contributo a IDA, il Fondo per lo sviluppo della Banca Mondiale, senza parlare però di cifre. Oggi arrivano il contributo australiano di 32,5 milioni di dollari al Fondo Loss and Damage e, ancora da parte degli Stati Uniti, l’annuncio di 325 milioni di dollari al Fondo per le tecnologie pulite. “Dobbiamo sfruttare questo slancio”, esorta il negoziatore capo di Cop29, Yalchin Rafiyev.

La posizione del commissario europeo per l’Azione per il clima, Wopke Hoekstra, è chiara. La Cina dovrebbe essere tra i finanziatori, non si può tornare indietro sull’uscita dai fossili e di cifre non si può parlare se prima non si definiscono i modi di erogazione dei fondi: “Se si considerano le dimensioni del problema, è estremamente importante che tutti coloro che hanno la possibilità di farlo siano all’altezza della situazione e che ci assicuriamo che i più vulnerabili siano quelli che ricevono effettivamente i fondi e vengono aiutati“, sostiene. Le ore che i negoziatori hanno davanti sono lunghe e la strada “in salita“, osserva Hoekstra, ma “ci stiamo impegnando al massimo e ci assicuriamo di farlo con tutti i Paesi e gli interlocutori disponibili“.

Cop29, Ferri (Acea): Riutilizzo delle acque reflue il futuro in agricoltura

La Dichiarazione sull’Acqua per l’Azione Climatica è tra gli impegni della Cop29 di Baku, in Azerbaigian e l’Italia sul dossier gioca un ruolo importante. Nella giornata dedicata all’alimentazione, all’agricoltura e all’acqua, Fabrizio Ferri, presidente esecutivo Acea International, spiega a Gea qual è il ruolo del gruppo nella spinta verso lo sviluppo delle infrastrutture e cosa aspettarci dalle sperimentazioni in corso nel settore. “Acea è il principale operatore nel settore idrico in Italia e il secondo in Europa. Serviamo 10 milioni di abitanti in 6 diverse regioni italiane. Lo stesso numero di abitanti lo serviamo anche all’estero, in America Latina, attraverso le nostre società in Honduras, Perù, Repubblica Dominicana”, ricorda. Nel settore idrico, spiega Ferri, è “indispensabile un piano di ammodernamento delle infrastrutture, visto che in Italia il 60% della rete ha più di 30 anni”. Da qui, il ruolo di Acea, nella gestione e nello sviluppo: “Abbiamo un know how all’avanguardia nella realizzazione di progetti di ingegneria nell’idrico – rivendica -. A breve partirà una delle opere più importanti in Italia dei prossimi anni, la realizzazione del secondo tronco dell’acquedotto Peschiera, uno dei più complessi e importanti d’Europa, gestito da Acea”.

Qual è il futuro della gestione sostenibile dell’acqua in agricoltura?

Il riutilizzo delle acque reflue trattate per applicazioni agricole è una soluzione importante per ridurre il consumo di risorse naturali e per contribuire all’apporto di nutrienti alle colture, in linea con i principi dell’economia circolare. Consideriamo che l’agricoltura rappresenta quasi il 60% del consumo totale di acqua in Italia. Acea ha già sviluppato diversi progetti per il riutilizzo delle acque reflue trattate e la gestione delle risorse idriche non convenzionali (NCW), puntando sull’innovazione tecnologica. In un momento in cui la disponibilità della risorsa sta diminuendo è necessario fare in modo che l’acqua venga riutilizzata più possibile, alleggerendo la pressione sulle fonti.

Quanto è importante il “lavoro di squadra”, le collaborazioni con altre realtà, come banche, fondi, centri di ricerca?

Il lavoro di squadra è imprescindibile. Molti territori non dispongono delle risorse finanziarie per investire in tecnologie avanzate come gli impianti di trattamento delle acque reflue. Spesso mancano anche le competenze tecniche necessarie. La collaborazione è necessaria per garantire che si sviluppino queste conoscenze specifiche che servono per mantenere con efficacia questi sistemi. Dall’altra parte, gli accordi con banche e fondi possono facilitare gli investimenti nel settore. Su questo ad esempio Acea e Intesa Sanpaolo hanno siglato un’intesa che metterà a disposizione 20 miliardi di Euro per supportare iniziative sulla gestione sostenibile dell’acqua.

Quanto è urgente adeguare le normative in materia, in Italia e in Europa?

È fondamentale un’evoluzione del quadro normativo, adottando un approccio più flessibile al riutilizzo delle acque reflue in agricoltura. Questo soprattutto perché l’incertezza normativa rappresenta una barriera per gli investimenti. Per massimizzare la quantità d’acqua che si può riutilizzare sarebbe opportuno anche pensare a processi di trattamento non standard, in modo da abbinare le qualità dell’acqua alle esigenze delle colture circostanti.

Acea siede nella cabina di regia del Piano Mattei come water expert. Quali dei tanti progetti per la gestione dell’acqua è indispensabile esportare in Africa?

Acea partecipa attivamente all’attuazione del Piano Mattei nel continente africano, un programma del Governo italiano che mira a favorire la cooperazione in 5 diversi pilastri, uno dei quali è l’acqua. L’obiettivo è quello di creare sinergie che consentano un approccio globale alla gestione sostenibile dell’acqua, agendo su progetti specifici, politiche locali, infrastrutture verdi ed educazione alla gestione dell’acqua.

Cop29, Pichetto: “Dal G20 nessun input, in questo momento evitiamo di parlare di cifre”

Al via a Baku, in Azerbaigian, la seconda giornata di lavori della seconda settimana della Cop29. Oggi il focus è sui temi cibo, agricoltura e acqua. La conferenza stampa della presidenza è attesa per le 13.15 locali (le 10.15 italiane).

Occhi puntati sul G20 di Rio, in Brasile, dove però i leader non hanno fatto progressi per sbloccare i negoziati sul clima di Baku, come aveva chiesto ieri la conferenza della parti. Gli sherpa non hanno nemmeno incluso nel loro comunicato l’impegno per “una giusta, ordinata ed equa transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici”, che era stato ottenuto nell’ultima COP a Dubai lo scorso anno.

Non è arrivato nessun input politico preciso dal G20 nell’aumentare i fondi per i paesi vulnerabili, anzi in questo momento noi evitiamo di parlare di cifre”, commenta il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, arrivato a Baku ieri sera. Si intrattiene con i giornalisti a margine dell’evento ‘Le tecnologie di Leonardo per supportare le transizioni climatiche e proteggere territori e comunità‘, nel padiglione italiano. “Abbiamo appena finito la riunione e l’impegno che abbiamo assunto è quello di non parlare di numeri, anche perché vogliamo legare i numeri alle misurazioni e alle mitigazioni”, fa sapere.

La situazione dei negoziati, ammette, è “ancora abbastanza difficoltosa”, riferisce. Il ministro fa riferimento al dossier Cina, che non vorrebbe rientrare direttamente tra i Paesi contributori, al nodo della mitigazione, cioè l’abbassamento delle emissioni, che molti Paesi, in particolare i Paesi via di sviluppo, non vogliono tenere in considerazione. E ancora, “sembrava a buon punto la trattativa che riguardava l’articolo 6 dell’accordo di Parigi con le misurazioni, ma questa notte nelle trattative tecniche c’è stata ancora qualche difficoltà“, informa.

Per allargare la platea dei donatori, la ricetta italiana è quella di coinvolgere i fondi multilaterali.Portando dentro i fondi multilaterali naturalmente si va ad allargare la base perché sono certamente per più della metà, per circa un 60% dei paesi del G7, ma per il 40% è molto più allargato, perché riguarda anche paesi che possono essere a questo punto contributori e fruitori“, ricorda Pichetto. Sarebbe un modo per far contribuire anche la Cina, presente in modo massiccio nei fondi asiatici: “La Cina rimarrebbe in una condizione di contributore ma anche di fruitore, questo è uno degli elementi“.

Un altro modo per dare più respiro al piano di finanza climatica è per il ministro italiano quello di considerarlo decennale e non attivare meccanismi vincolanti annuali. Però, mette in guardia, “siamo al primo giorno delle ministeriali, i nostri negoziatori cominciano adesso, vedremo“.

L’Italia conferma gli impegni sui fondi definiti finora: “Abbiamo ribadito quindi la disponibilità sul fondo clima, l’impegno sul loss and damage nel momento in cui verranno definite anche le modalità“, afferma Pichetto, ribadendo di avere la piena volontà di discutere un nuovo quadro finanziario, ma “che sia essere legato a un sistema di misurazione delle ricadute”.

Oggi il ministro interviene al dialogo ministeriale di Alto Livello sull’urgente necessità di aumentare gradualmente i finanziamenti per l’adattamento, poi, al Padiglione ucraino, partecipa all’evento di Alto Livello dedicato al punto ‘Sicurezza Ambientale’ della ‘Formula di Pace’ Ucraina. Alle 17.30 (14.30 italiane) il ministro è atteso al Padiglione Italiano per il Side Event organizzato dalla Fondazione Patto per la Decarbonizzazione del Trasporto Aereo (PACTA) sulle sfide del settore per la decarbonizzazione. Conclude la giornata l’evento di lancio del progetto ‘Giubileo e Ambiente’ sostenuto dal MASE in collaborazione in ISPRA e promosso da Earth Day Italia (Padiglione Mediterraneo, ore 18.30 – le 15.30 in Italia).

In programma per oggi un incontro bilaterale con Ugochi Daniels, vicedirettrice generale per le Operazioni dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Salta invece il bilaterale con Idit Silman, ministra della protezione ambientale d’Israele, che non ha potuto raggiungere Baku a causa dello spazio aereo che Ankara ha chiuso a Israele. Domani, mercoledì 20, il ministro tiene il bilaterale con Habib Abid, ministro dell’Ambiente della Tunisia, con Seyoum Mekonen, vice ministro di Stato per la Pianificazione e lo Sviluppo della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia e con Svetlana Grinchuk, ministra della Protezione Ambientale e delle Risorse Naturali dell’Ucraina,

La Cop29 si appella al G20: “Leader diano segnale chiaro, senza non possiamo farcela”

In apertura della settimana che porterà alla chiusura dei lavori, si alza il grido d’aiuto della presidenza azera della Cop29 al G20 di Rio de Janeiro. I venti grandi “rappresentano l’85% del Pil globale e l’80% delle emissioni”, chiosa Mukhtav Babayev, ministro dell’Ecologia e delle risorse naturali, considerando il G20 “essenziale per compiere progressi su tutti i pilastri dell’Accordo di Parigi”, dalla finanza alla mitigazione e all’adattamento. “Non possiamo farcela senza di loro e il mondo aspetta di sentirli”, insiste, esortando il summit a inviare un segnale positivo dell’impegno ad affrontare la crisi climatica: “Vogliamo che forniscano mandati chiari per ottenere risultati alla COP29. Questa è la loro occasione per dimostrare la loro leadership”.
Il segretario esecutivo dell’United Nations Climate Change Conference, Simon Stiell, fa presente che i costi dell’adattamento al cambiamento climatico “salgono alle stelle per tutti, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo” e i loro costi potrebbero salire a “340 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, fino a raggiungere i 565 miliardi di dollari all’anno entro il 2050″.
A Rio, anche il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres invita i Paesi del G20 a dare l’esempio e a trovare “compromessi” per salvare la conferenza sul clima. Che comunque non resta ferma. Dopo l’adozione del comma 4 dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, sulla finanza privata, oggi da Baku arriva anche l’adesione della conferenza al comma 8 dello stesso articolo, sugli “approcci non di mercato”, quindi sulla finanza pubblica.

Babayev però si dice preoccupato dalla lentezza dei negoziati: “Le parti non si stiano avvicinando l’una all’altra con sufficiente rapidità, è ora che si muovano più velocemente”, esorta, domandando un accordo “equo e ambizioso”.
L’obiettivo è quello di inserire nei documenti delle Nazioni Unite le modalità di finanziamento di circa 1.000 miliardi di dollari all’anno di aiuti al clima per i Paesi in via di sviluppo da qui al 2030. Denaro che sarà utilizzato per costruire centrali solari, investire nell’irrigazione e proteggere le città dalle inondazioni. Bisognerà capire se questa cifra dovrà essere solo pubblica o mobilitata, quanto sarà ampia la platea dei Paesi donatori e quali saranno le tempistiche indicate nel documento.

La cifra al 2030 è la stima del fabbisogno fatta dagli economisti Nicholas Stern e Amar Bhattacharya, su commissione dell’ONU. Secondo i testi delle Nazioni Unite, solo i Paesi sviluppati sarebbero obbligati a contribuire. Ma l’Europa spinge perché i Paesi emergenti, come la Cina, diano un segnale di disponibilità.
Il contesto internazionale non aiuta. Gli Stati Uniti di Joe Biden stanno cercando di guidare l’uscita dall’impasse, a due mesi dal ritorno al potere di Donald Trump. Domenica, il Presidente uscente ha fatto una visita simbolica in Amazzonia, chiedendo un’azione “per l’umanità”. Nonostante il momento geopolitico così complesso, da Baku il commissario europeo all’Ambiente, Wopke Hoekstra si mostra ottimista: “Credo davvero che possiamo e dobbiamo ottenere un buon risultato entro la fine di questa settimana”, scandisce, ricordando che la sfida da affrontare è “davvero politica”: “Quindi questa settimana, in questa sede, smorziamo il rumore di fondo e concentriamoci sui negoziati che ci attendono”.

Tre le richieste di fondo dell’Europa: il denaro vada ai Paesi realmente più bisognosi e più vulnerabili; aumentino le risorse private perché “la realtà è che non ci sarà mai abbastanza denaro pubblico da nessuna fonte” e i Paesi contribuiscano “in base alle loro emissioni e alla loro crescita economica”. Qui il riferimento chiaro, anche se non esplicito, è alla Cina. Quanto alla capacità di attrarre fondi privati, la ricetta è il carbon pricing: “A contribuire maggiormente è la determinazione del prezzo del carbonio e i mercati del carbonio. Per questo stiamo anche negoziando il completamento delle norme dell’Accordo di Parigi che regolano i mercati internazionali del carbonio”, fa sapere Hoekstra.

Da oggi, la Cop29 ospita i ministri dell’Ambiente, compreso Gilberto Pichetto Fratin, per l’Italia e che ribadisce l’importanza di essere presente al vertice: “La Cop29 è una delle tante tappe di un processo irreversibile in atto“, spiega a Gea il ministro, che torna sulla contingenza globale: “Usa e Ue stanno per cambiare governo, il governo tedesco è in crisi. L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, se ci sarà, non cambierà le politiche americane in modo importante. Anche se alla Cop non sono presenti molti dei grandi leader, ci sono tante altre occasioni per vedersi. I Paesi Opec, che sono tra i maggiori emettitori, sono quelli che hanno i piani più ambiziosi“, ammette. Pichetto si dice convinto che sia “importante continuare anche a Baku ad agire con pazienza e determinazione per raggiungere, passo dopo passo, gli obiettivi della decarbonizzazione“.

La palla, per il momento, passa al Brasile, con un assist da Parigi, dove si discute anche della proposta di tagliare la spesa pubblica internazionale dei Paesi Ocse per progetti di combustibili fossili attraverso le agenzie di credito all’esportazione. Se approvata, la proposta prevede l’eliminazione di 40 miliardi di dollari dai nuovi investimenti in combustibili fossili.

Meloni a Baku: “Al momento no alternativa a fossili”. Pichetto: “Nodo contribuzioni”

L’Italia è in prima linea per raggiungere gli obiettivi climatici fissati a Dubai, ma al momento “non c’è alternativa ai combustibili fossili”. Giorgia Meloni non lancia il cuore oltre l’ostacolo dal palco della Cop29 di Baku, in Azerbaigian, dove fa una ‘toccata e fuga’ per intervenire in presenza, prima di riprendere l’aereo per Roma.

Dalla Cop la premier rilancia la necessità di adottare un approccio pragmatico e “non ideologico” per la decarbonizzazione, sfruttando tutte le tecnologie a disposizione. Anche per questo, gli sforzi di Roma si concentrano sulla fusione nucleare, che potrà fornire in futuro energia illimitata a una popolazione mondiale in continua espansione.

I negoziati non saranno semplici, ricorda in radio il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto. Quella di Baku è destinata a essere considerala una Cop delle assenze. Non ci saranno il presidente americano uscente Joe Biden, la presidente della Commissione europea Von der Leyen, il francese Macron, il cancelliere tedesco Scholz, il presidente cinese Xi Jinping, il presidente indiano Modi e il brasiliano Lula, nonostante riceva il testimone della prossima conferenza delle parti, che si terrà proprio in Brasile.
Per Pichetto, che sarà a Baku da lunedì 18, pesa non poco “il cambio al governo negli Stati Uniti“. Uno dei temi è determinare le regole per le contribuzioni sui Paesi in via di sviluppo, che al momento, ricorda, “è su base volontaria“. Essendo un meccanismo volontaristico, osserva, non è “completamente equilibrato“, in questi dieci giorni serviranno “confronti serrati” per arrivare al documento finale.

La premier richiama tutti alla cooperazione per raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030, “a partire dai maggiori emettitori” e avendo a disposizione un “supporto finanziario adeguato”. Si lavora per raggiungere nuovi obiettivi finanziari, un compromesso efficace, ma, insiste, “c’è bisogno di responsabilità condivise, c’è bisogno di superare le divisioni, le divergenze tra i paesi emergenti e quelli già sviluppati”.

Come tutte le altre Cop, il successo dipenderà dai governatori dei singoli Paesi: “Sappiamo che potremmo non trarre dei benefici personali dagli sforzi che stiamo facendo – ammette Meloni -, ma questa non è la cosa importante”. La leader italiana torna sul tema della maternità: “Io sono una madre e come madre nulla mi dà più soddisfazione di quando lavoro per delle politiche che permetteranno a mia figlia e alla sua generazione di vivere in un mondo migliore”, scandisce. E prende in prestito le parole del filosofo statunitense William James: “L’azione è quello che fa la differenza, perché lo farà”.