Bankitalia smorza l’allarme dazi: -1% fatturato per chi esporta negli Usa

L’imposizione dei dazi da parte degli Stati Uniti potrebbe pesare sulle imprese italiane esportatrici, ma alcuni fattori strutturali del nostro sistema produttivo potrebbero attenuarne gli effetti più critici. È quanto emerge dal secondo Bollettino economico della Bankitalia, che analizza le prospettive economiche italiane alla luce delle recenti tensioni commerciali internazionali. Secondo le proiezioni contenute nel documento, il Prodotto interno lordo dell’Italia crescerà dello 0,6% nel 2025, dello 0,8% nel 2026 e dello 0,7% nel 2027.

Queste stime includono già una prima, seppur parziale, valutazione degli effetti derivanti dai dazi annunciati dagli Stati Uniti lo scorso 2 aprile. Tuttavia, non considerano possibili contromisure da parte dell’Europa o altre conseguenze sui mercati internazionali, né la sospensione parziale dei dazi annunciata il 9 aprile. L’impatto principale sull’economia italiana sarà un rallentamento della domanda estera, che influenzerà negativamente il Pil.

A contrastare questo effetto interverrà però la crescita dei consumi interni, favorita dall’andamento positivo dei redditi reali. Gli investimenti saranno sostenuti dalle misure del Pnrr, anche se potrebbero essere frenati dall’incertezza derivante dalle tensioni commerciali e dalla fine degli incentivi all’edilizia residenziale. L’inflazione al consumo dovrebbe mantenersi stabile attorno all’1,5% nel 2025 e nel 2026, per poi salire al 2% nel 2027. Bankitalia avverte che ulteriori peggioramenti dello scenario potrebbero derivare da un inasprimento delle politiche commerciali, con ripercussioni su domanda estera, fiducia degli operatori economici e mercati finanziari.

Gli Stati Uniti rappresentano uno sbocco strategico per le esportazioni italiane, con un valore complessivo di 60 miliardi di euro nel 2024, pari al 10,4% del totale. Tuttavia, l’impatto dei dazi va valutato anche tenendo conto delle catene globali del valore, che rendono rilevante non solo l’esposizione diretta, ma anche quella indiretta, legata all’uso di componenti italiane da parte di altri Paesi che esportano verso gli Usa. Secondo le analisi di Via Nazionale, circa l’8,1% del valore aggiunto generato dalla manifattura italiana – ovvero l’1,2% del Pil – è destinato direttamente o indirettamente al mercato statunitense. I settori più esposti risultano essere la farmaceutica e quello dei mezzi di trasporto, in particolare cantieristica e aerospazio. Nonostante l’esposizione significativa, il sistema produttivo italiano presenta caratteristiche che potrebbero però mitigare gli effetti negativi nel breve periodo, sottolinea Bankitalia. Solo un terzo delle imprese esportatrici vende direttamente negli Stati Uniti, ma oltre la metà delle esportazioni verso questo mercato è realizzata da aziende di grandi dimensioni, con almeno 250 addetti, che godono di una maggiore diversificazione. L’impatto dei dazi sarà comunque legato a due fattori principali: la capacità delle imprese statunitensi di sostituire i prodotti italiani e quella delle aziende italiane di assorbire i rincari riducendo i margini di profitto. Da questo punto di vista, la natura multilaterale dei dazi imposti dagli Stati Uniti limita le possibilità di sostituzione con beni provenienti da altri Paesi, anch’essi colpiti da misure simili. Inoltre, il 92% dei prodotti italiani esportati è di fascia medio-alta o alta, meno soggetta a una riduzione della domanda legata al prezzo, poiché destinata a consumatori benestanti o imprese di fascia alta. Questo posizionamento qualitativo è superiore a quello della maggior parte dei concorrenti Ocse, ad eccezione di Francia e Germania, evidenzia Via Nazionale. Nel dettaglio, secondo Bankitalia le imprese italiane che esportano negli Usa registrano in media il 5,5% del loro fatturato proprio da questo mercato, con margini operativi lordi pari al 10% del totale. Anche in caso di rincari dovuti ai dazi, la riduzione media del fatturato sarebbe contenuta a circa l’1%. Per tre quarti delle imprese, i margini scenderebbero al massimo di mezzo punto percentuale. Solo una piccola quota di aziende vedrebbe i propri margini virare in negativo, mentre la percentuale di imprese con perdite elevate crescerebbe di circa 4 punti percentuali, colpendo soprattutto le realtà più piccole.

Bankitalia: Con guerra e stop gas russo rischio crescita zero

Nello scenario peggiore, in caso di escalation della guerra in Ucraina e di interruzione delle forniture di gas dalla Russia già da quest’estate, la crescita in Italia sarebbe nulla nel 2022 e si andrebbe in recessione di oltre 1 punto percentuale nel 2023. L’ipotesi è della Banca d’Italia, nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana 2022-2024. L’inflazione al consumo subirebbe un’impennata dell’8% nel 2022, ma resterebbe alta anche nel 2023, vicina al 5,5 %, per scendere solo nel 2024.

Previsioni molto più rosee, ma riviste rispetto a quelle precedenti, nello scenario base. In questo caso Via Nazionale stima la crescita del Pil al 2,6% per quest’anno, all’1,6% nel 2023 e all’1,8% nel 2024. A gennaio la previsione era stata di una crescita del +3,8% nel 2022, del 2,5 nel 2023 e dell’1,7 nel 2024. Il quadro è fortemente condizionato dall’evoluzione della guerra in Ucraina, i cui sviluppi potrebbero avere effetti sull’economia nelle due direzioni opposte.

In uno scenario di base si assume che le tensioni associate alla guerra (che si ipotizza resti confinata all’Ucraina) proseguano per tutto il 2022, continuando a comportare il rialzo dei prezzi delle materie prime, mantenendo elevata l’incertezza e rallentando il commercio internazionale. In questo caso, però, “si esclude un’intensificazione delle ostilità tale da portare a una sospensione delle forniture di materie prime energetiche dalla Russia“. Dopo essere rimasto stagnante nel primo trimestre dell’anno, il Prodotto interno lordo si espanderebbe a ritmi modesti nel trimestre per il 2022, per poi rafforzarsi dall’anno prossimo. L’inflazione al consumo si collocherebbe al 6,2 per cento nella media di quest’anno, spinta dagli effetti del rincaro dei beni energetici e delle strozzature all’offerta; scenderebbe al 2,7 per cento nel 2023 e al 2,0 per cento nel 2024.

Un’intensificazione del conflitto avrebbe ripercussioni più pesanti. In uno scenario avverso, in cui si ipotizza un arresto delle forniture a partire dal trimestre estivo, solo parzialmente compensato per il nostro paese mediante altre fonti, si prevedono ricadute dirette, in particolare per le attività a più elevata intensità energetica, ulteriori forti rialzi nei prezzi delle materie prime, un più deciso rallentamento dell’export, un più forte deterioramento dei climi di fiducia e un aumento dell’incertezza. Sotto queste ipotesi, il Pil prodotto aumenterebbe in misura pressoché nulla in media d’anno nel 2022, si ridurrebbe di oltre 1 punto percentuale nel 2023 e tornerebbe a crescere nel 2024. L’inflazione al consumo subirebbe un netto aumento nel 2022, avvicinandosi all’8,0 per cento, e rimarrebbe elevata anche nel 2023, al 5,5 per cento, per scendere decisamente solo nel 2024.

Né l’uno, né l’altro scenario includono ulteriori misure di politica economica – precisa Bankitalia -, che potrebbero essere introdotte per mitigare le ricadute dell’inasprimento del conflitto sulle famiglie e le imprese“.