inquinamento

Le emissioni di CO2 della Cina diminuiranno nel 2024 grazie alle rinnovabili

Secondo un nuovo studio, le emissioni di CO2 della Cina sono destinate a diminuire nel 2024, grazie alla crescita record della sua capacità di energia rinnovabile, che ora è sufficiente a coprire la crescente domanda del Paese. La Cina è attualmente il più grande emettitore di gas serra al mondo e prevede di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, respingendo le richieste di un obiettivo più ambizioso. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) stima che il Paese sarà responsabile del 45% delle emissioni di combustibili fossili tra il 2023 e il 2050. Ma la Cina sta anche costruendo capacità di energia rinnovabile a rotta di collo, con nuove installazioni solari che solo nel 2023 rappresentano il doppio della capacità totale degli Stati Uniti, secondo l’analisi del sito web britannico sul clima Carbon Brief pubblicata lunedì.

La nuova capacità aggiuntiva di energia solare, eolica, idroelettrica e nucleare nel solo 2023 genererà circa 423 terawattora (TWh) all’anno, equivalenti al consumo totale di elettricità della Francia“, si legge nel rapporto di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research. Il massiccio aumento della capacità installata e la prevista ripresa della produzione idroelettrica dopo una prevedibile battuta d’arresto a causa della siccità “sono praticamente garantiti per ridurre la produzione di elettricità basata sui combustibili fossili e le emissioni di CO2 nel 2024”, si legge nel rapporto. Questo calo potrebbe essere sostenibile perché “il ritmo di sviluppo dell’energia a basse emissioni di carbonio è ora sufficiente non solo a fornire, ma anche a superare l’aumento medio annuo della domanda totale di elettricità in Cina“, precisa il rapporto. Questa analisi si basa su cifre ufficiali e dati commerciali.

Allo stesso tempo, però, la Cina continua ad espandere la sua capacità di produzione di energia elettrica a carbone, e il rapporto avverte che questo potrebbe portare a “uno scontro” tra gruppi di interesse divergenti. La crescita delle energie rinnovabili “minaccia gli interessi dell’industria del carbone e dei governi locali che dipendono fortemente dal settore del carbone“, avverte Carbon Brief. “Ci si può aspettare che questi attori si oppongano e ostacolino la transizione“.

Alti funzionari cinesi e statunitensi per il clima si sono incontrati questa settimana, prima dei colloqui della COP28 previsti per novembre, e hanno dichiarato di aver avuto colloqui “costruttivi“, senza fornire ulteriori dettagli.

emissioni industriali

Clima, Aie: “Ancora possibile limitare riscaldamento a 1,5°, ma Paesi ricchi anticipino net zero”

Non tutto è perduto. Portare a zero le emissioni di gas serra del settore energetico mondiale e limitare il riscaldamento globale a 1,5 ̊C è ancora possibile “grazie alla crescita record delle principali tecnologie energetiche pulite, anche se è necessario aumentare rapidamente lo slancio in molte aree”. Lo annuncia l’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia, nella nuova edizione della storica Net Zero Roadmap. “Per mantenere vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ̊C è necessario che il mondo si unisca rapidamente. La buona notizia è che sappiamo cosa dobbiamo fare e come farlo. La nostra tabella di marcia Net Zero 2023, basata sui dati e sulle analisi più recenti, mostra un percorso da seguire”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aie, Fatih Birol. “Ma abbiamo anche un messaggio molto chiaro: una forte cooperazione internazionale – ha aggiunto – è fondamentale per il successo. I governi devono separare il clima dalla geopolitica, data la portata della sfida che abbiamo di fronte”.

Per Birol, “il percorso verso 1,5 ̊C si è ristretto negli ultimi due anni, ma le tecnologie energetiche pulite lo stanno mantenendo aperto”. Con lo slancio internazionale che si sta sviluppando a favore di obiettivi globali chiave come la triplicazione della capacità rinnovabile e il raddoppio dell’efficienza energetica entro il 2030, che insieme porterebbero a un calo più marcato della domanda di combustibili fossili in questo decennio, “il vertice sul clima COP28 a Dubai è un’opportunità vitale per impegnarsi a rafforzare l’ambizione e l’attuazione negli anni rimanenti di questo decennio critico”.

Ma c’è un aspetto sul quale l’Aie punta moltissimo. La strada verso le emissioni nette zero per il settore energetico globale entro il 2050 ha bisogno di “un’azione più coraggiosa” che “tenga conto delle diverse situazioni nazionali” per promuovere una “transizione equa”. Per questo le economie avanzate “devono anticipare le date previste per lo zero netto” per dare più tempo alle economie emergenti e in via di sviluppo.

In particolare, le economie avanzate dovrebbero raggiungere “l’azzeramento delle emissioni entro il 2045 circa”, la Cina “intorno al 2050 e le altre economie emergenti e in via di sviluppo” solo “molto dopo il 2050”. “Ogni Paese – afferma l’Aie – seguirà il proprio percorso in base alle proprie risorse e circostanze. Tuttavia, tutti devono agire in modo molto più deciso di quanto non facciano oggi”.

Il percorso net zero “consente a tutti di accedere a forme moderne di energia entro il 2030, grazie a un investimento annuo di circa 45 miliardi di dollari – poco più dell’1% degli investimenti nel settore energetico”.

L’Agenzia punta sulla necessità di “mobilitare un aumento significativo degli investimenti, soprattutto nelle economie emergenti e in via di sviluppo”. Nel nuovo percorso zero, la spesa globale per l’energia pulita passa da 1,8 trilioni di dollari nel 2023 a 4,5 trilioni di dollari all’anno entro i primi anni 2030.

 

L’impronta di carbonio si dimezza con lo smart working, ma conta anche lo stile di vita

L’impronta di carbonio di un lavoratore in smart working può essere inferiore del 54% rispetto a chi, invece, lavora in sede, ma gli stili di vita e le modalità di lavoro giocano un ruolo essenziale nel determinare i benefici ambientali di questa forma di occupazione. Ad analizzare la questione – divenuta di grande attualità con la pandemia – è uno studio della Cornell University e di Microsoft, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca rivela anche che i cosiddetti lavoratori ‘ibridi’ – cioè chi sta a casa da due a quattro giorni alla settimana – possono ridurre la loro impronta di carbonio dall’11% al 29%, mentre lo smart working un solo giorno alla settimana dà risultati più trascurabili, riducendo l’impronta di carbonio solo del 2%.

“Il lavoro a distanza non è a zero emissioni di carbonio e i benefici di quello ibrido non sono perfettamente lineari”, spiega l’autore dello studio, Fengqi You, professore di ingegneria dei sistemi energetici alla Cornell. “Tutti sanno che senza pendolarismo si risparmia sull’energia dei trasporti – dice – ma ci sono sempre gli effetti dello stile di vita e molti altri fattori”.

Secondo la ricerca, i principali elementi che contribuiscono all’impronta di carbonio dei lavoratori in sede e di quelli ibridi sono gli spostamenti e l’uso dell’energia in ufficio. Questo non sorprende i ricercatori che quantificano l’impatto dello smart working sull’ambiente, ma Cornell e Microsoft hanno utilizzato i dati di un sondaggio e la modellazione per incorporare fattori a volte trascurati nel calcolo dell’impronta di carbonio, tra cui l’uso di energia residenziale, la distanza e il modo di trasporto, l’uso di dispositivi di comunicazione, il numero di membri della famiglia e la configurazione dell’ufficio, come la condivisione dei posti e le dimensioni dell’edificio.

Molte le scoperte fatte dagli autori. Intanto, gli spostamenti non pendolari, come quelli per le attività sociali e ricreative, diventano più significativi con l’aumentare del numero di giorni di lavoro a distanza. Inoltre, condividere i posti a sedere in presenza può ridurre l’impronta di carbonio del 28%. E, ancora, i lavoratori ibridi tendono a spostarsi più lontano rispetto ai lavoratori in sede a causa delle differenze nelle scelte abitative. Gli effetti del lavoro remoto e ibrido sulle tecnologie di comunicazione, come l’uso di computer, telefono e internet, invece, hanno un impatto trascurabile sull’impronta di carbonio complessiva.

“Il lavoro remoto e ibrido mostra un grande potenziale di riduzione dell’impronta di carbonio, ma quali sono i comportamenti che le aziende e altri responsabili politici dovrebbero incoraggiare per massimizzare i benefici?”, dice Longqi Yang, principal applied research manager di Microsoft e autore dello studio. “I risultati suggeriscono che le organizzazioni dovrebbero dare priorità ai miglioramenti dello stile di vita e del luogo di lavoro”.

Secondo Yang, dallo studio emerge che le aziende e i responsabili politici dovrebbero concentrarsi anche sull‘incentivazione del trasporto pubblico rispetto all’auto, sull’eliminazione degli uffici per i lavoratori a distanza e sul miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici adibiti a ufficio. “A livello globale, ogni persona, ogni Paese e ogni settore ha questo tipo di opportunità con il lavoro a distanza. Come potrebbero i benefici combinati cambiare il mondo intero? Questo è un aspetto che vogliamo davvero approfondire”, dice Yanqiu Tao, dottorando e primo autore dello studio.

Lo studio si basa su un lavoro sostenuto dalla National Science Foundation e si è avvalso di dati provenienti da Microsoft, dall’American Time Use Survey, dal National Household Travel Survey e dal Residential Energy Consumption Survey.

L’impronta di carbonio di un letto di ospedale è la stessa di cinque famiglie

Le emissioni di CO2 di un letto di ospedale sono paragonabili a quelle di cinque famiglie. A rivelarlo è uno studio dell’Università di Waterloo, pubblicato sul Journal of Industrial Ecology, che per la prima volta ha completato la valutazione di un nosocomio canadese per rivelare la sua impronta ambientale totale e gli specifici punti di emissione di carbonio.

Studiando un ospedale della Columbia Britannica nel 2019, i ricercatori hanno individuato nell’uso di energia e acqua e nell’acquisto di prodotti medici i principali punti critici, che rappresentano oltre la metà dell’impronta annuale, per un totale di 3500-5000 tonnellate di CO2 equivalente. Un letto d’ospedale equivale all’incirca, quindi, all’impronta di carbonio di cinque famiglie canadesi. Il nuovo metodo porta un livello di completezza e di dettaglio senza precedenti in merito ai dati sulle emissioni degli ospedali, che possono aiutare i dirigenti amministrativi a valutare su quali miglioramenti concentrarsi per rispettare i loro impegni ambientali. “Nel nostro lavoro, spesso scopriamo che le impronte ambientali più grandi sono quelle che meno ci si aspetta di trovare“, spiega Alex Cimprich, borsista post-dottorato presso la School of Environment, Enterprise and Development.L’obiettivo – dice – è rendere più visibili le impronte ambientali nascoste, in modo da poter iniziare a gestirle“.

I ricercatori hanno calcolato l’impronta di carbonio valutando migliaia di prodotti acquistati dagli ospedali e utilizzando una combinazione di campionamento statistico e calcolo dell’intensità di carbonio – CO2 equivalente per dollaro speso – per gli articoli campionati. Questo approccio si distingue dalle valutazioni ambientali comunemente utilizzate, che forniscono una stima generale approssimativa, perché impiega un approccio dal basso verso l’alto.

I risultati suggeriscono che le iniziative di sostenibilità degli ospedali devono guardare oltre per ottenere riduzioni più profonde delle emissioni“, riferisce Cimprich. Mentre il trasporto dei pazienti, dei prodotti forniti agli ospedali e i rifiuti ospedalieri sono aree visibili di “preoccupazione ambientale, altre aree più nascoste come le catene di fornitura dei prodotti medici potrebbero avere impronte ambientali molto più grandi“.

Ricerche future potrebbero approfondire i punti critici individuati e il nuovo approccio potrebbe essere applicato anche ad altri ospedali e ad altri tipi di strutture sanitarie, come quelle di assistenza primaria o a lungo termine, o anche a organizzazioni esterne al settore sanitario.

Clima, se le emissioni triplicano addio a metà dei ghiacciai del mondo entro il 2100

(Lo scioglimento del ghiacciaio sul Monte Bianco. Photocredit: Jean-Baptiste Bosson, Asters-CEN74)

I cambiamenti climatici causati dall’attività umana in uno scenario ad alte emissioni potrebbero dimezzare l’area coperta dai ghiacciai al di fuori delle calotte antartiche e della Groenlandia entro la fine del secolo. E questo ritiro potrebbe creare nuovi ecosistemi che copriranno una superficie grande quanto l’area compresa tra il Nepal e la Finlandia entro il 2100. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su Nature e condotto da Jean-Baptiste Bosson, del Conservatoire d’espaces naturels de Haute-Savoie, in Francia e da Nicolas Lecomte dell’Università di Moncton in Canada.

La comprensione di questi ecosistemi post-glaciali crea ora un nuovo obiettivo per i ricercatori che si affianca ai continui sforzi per mitigare l’ulteriore declino glaciale. Una delle conseguenze dei cambiamenti climatici causati dall’uomo, infatti, è la riduzione dei ghiacciai, che provoca un rapido cambiamento ecologico con lo sviluppo di nuovi ecosistemi per riempire il nuovo habitat emergente.

Tuttavia, mancano analisi di questo cambiamento su scala globale. Jean-Baptiste Bosson e colleghi utilizzano un modello di evoluzione globale dei ghiacciai per esaminare la traiettoria prevista per il XXI secolo di 650.000 km2 di terreno ghiacciato che si trovano al di fuori delle calotte antartiche e groenlandesi. I profili dei ghiacciai, i modelli digitali di elevazione del terreno subglaciale e i dati climatici sono utilizzati per prevedere la risposta di ogni singolo ghiacciaio agli scenari climatici fino al 2100. Inoltre, il modello è in grado di prevedere le caratteristiche degli ecosistemi emergenti nelle aree deglaciate, classificati in categorie marine, d’acqua dolce o terrestri.

Lo studio prevede che la deglaciazione si verificherà a un ritmo simile, indipendentemente dallo scenario climatico, fino al 2040, dopodiché le stime divergono a seconda della gravità delle emissioni. In uno scenario ad alte emissioni (in cui quelle globali di gas serra triplicano entro il 2075), circa la metà dell’area dei ghiacciai del 2020 potrebbe andare persa entro il 2100. Tuttavia, questo fenomeno potrebbe essere frenato da uno scenario a basse emissioni (in cui si raggiunge lo zero netto entro il 2050), che ridurrebbe questa perdita a circa il 22%.

Si prevede che entro la fine del secolo la deglaciazione esporrà un’area di terra grande all’incirca come il Nepal (149.000 ± 55.000 km2) e la Finlandia (339.000 ± 99.000 km2), con questi habitat classificati come 78% terrestri, 14% marini e 8% di acqua dolce. Queste aree potrebbero fornire un rifugio per le specie adattate al freddo e spostate dal riscaldamento altrove. Gli autori sostengono che, oltre a limitare la deglaciazione, si dovrebbero destinare risorse e attenzione alla protezione di questi ecosistemi di nuova formazione per garantirne il futuro.

 

 

Aumentano le rinnovabili ma si impennano le emissioni: tutta colpa della domanda di energia

“Nonostante l’ulteriore forte crescita dell’eolico e del solare nel settore energetico, le emissioni globali globali di gas serra legate all’energia sono nuovamente aumentate. Stiamo ancora andando nella direzione opposta a quella richiesta dall’Accordo di Parigi”. A dirlo è Juliet Davenport, presidente dell’Energy Institute, che oggi ha presentato la 72esima edizione annuale della Statistical Review of World Energy, dove per la prima volta sono riassunti i dati energetici globali completi per il 2022.

Tre sono i dati salienti, che statisticamente gettano ombre sulla bontà del percorso verso il Net Zero nel 2050. Lo scorso anno c’è stato il più grande aumento mai registrato nella capacità di nuove costruzioni eoliche e solari. Insieme hanno raggiunto una quota record del 12% nella produzione di energia, con il solare in aumento del 25% e il vento in crescita del 13,5%. E le rinnovabili (escluso l’idroelettrico) hanno soddisfatto l’84% della crescita della domanda netta di elettricità nel 2022. Il consumo globale di energia primaria tuttavia è aumentato di circa l’1%, portandolo a quasi il 3% in più rispetto al livello pre-Covid del 2019. All’interno di questo contesto, il gas è diminuito del 3% e le rinnovabili (escluso l’idro) sono aumentate del 13%, mentre il predominio dei combustibili fossili è rimasto sostanzialmente invariato a quasi l’82% del consumo totale. Le emissioni globali legate all’energia hanno però continuato a crescere, con un aumento dello 0,8%, nonostante la forte crescita delle rinnovabili.

E’ l’aumento di domanda di energia dunque, al di là del peso dei fossili, a spingere verso nuovi massimi l’anidride carbonica nell’aria: le emissioni derivanti dall’uso di energia è infatti in aumento dello 0,9% a 34,4 GtCo2. Nel dettaglio la produzione globale di elettricità è aumentata del 2,3% nel 2022. Quella eolica e solare hanno raggiunto un livello record del 12% di quota di produzione col solare che ha registrato un +25% e l’eolico +13,5%. La generazione combinata da eolico e solare ha superato ancora una volta quella dell’energia nucleare. Il carbone è rimasto il combustibile dominante per la produzione di energia elettrica nel 2022, con una quota stabile intorno al 35,4%, ma in lieve calo rispetto al 35,8% del 2021. Mentre la produzione di energia elettrica da gas naturale è rimasta stabile nel 2022 con una quota di circa il 23%, l’idroelettrica è salito dell’1,1% nonostante la siccità e la produzione dal nucleare è diminuita del 4,4%.
Verrebbe da pensare che l’Asia, ancora affamata di petrolio e carbone, sia la parte del mondo che garantisce la leadership del fossile, in realtà la maggior parte della crescita del solare e dell’eolico si è verificata in Cina, rappresentando rispettivamente circa il 37% e il 41% delle aggiunte di capacità globale.

La sfida ecologica della 24 Ore di Le Mans: biglietto ‘verde’ e carburante 100% rinnovabile

Carburante 100% rinnovabile, auto a idrogeno, un ‘biglietto verde’: la 24 Ore di Le Mans, che celebra il suo 100° anniversario questo fine settimana, sta accelerando la sua visione ecologica con l’ambizione di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030. L’equazione tra ecologia e prestazioni può sembrare difficile da risolvere. A maggior ragione quando si parla di auto da corsa che compiono giri di pista a velocità superiori ai 300 km/h. Ma Pierre Fillon, presidente dell’Automobile Club de l’Ouest (ACO), organizzatore della più famosa gara di durata, è categorico: “La 24 Ore di Le Mans serve a dimostrare che, insieme ai costruttori, esistono soluzioni per la decarbonizzazione“.

Una di queste soluzioni è l’introduzione di un carburante “100% rinnovabile” indrodotto nel Campionato del Mondo 2022. Secondo il suo ideatore, TotalEnergies, questo carburante, ricavato dai residui di vino, riduce le emissioni di CO2 delle auto in pista di oltre il 65%. Un altro progetto sulla tabella di marcia della 24 Ore di Le Mans prevede, a partire dal 2026, la presenza di veicoli alimentati a idrogeno, più rispettosi dell’ambiente ma altrettanto efficaci in pista. L’ACO e la società svizzera Green GT, specializzata in soluzioni elettriche e a idrogeno, hanno lanciato MissionH24 nel 2018 con l’obiettivo che entro il 2030 “la classe regina di Le Mans sarà interamente alimentata a idrogeno“, spiega Pierre Fillon. “È una tecnologia che va oltre le automobili e può essere adattata anche al trasporto pesante, ai treni, alle imbarcazioni e persino agli aerei“, continua il presidente. Per il momento, gli ibridi dominano nella categoria Hypercar, la principale categoria di endurance, con 13 delle 16 auto che corrono a Le Mans che utilizzano questa tecnologia.

Come per molti eventi sportivi, non è la gara in sé a generare la maggior parte dell’inquinamento perché, delle oltre 36.000 tonnellate di CO2 emesse durante l’edizione 2019, solo il 4,6% è legato al circuito e all’organizzazione, di cui il 2,5% è direttamente legato alla pista (carburante, pneumatici, ecc.). Il resto proviene dai fornitori di servizi, dai media e da altri volontari (9,3% dell’impronta di carbonio), dalle squadre (21,7%) e soprattutto dagli spettatori (64,4%), secondo i dati dell’ACO.

Su quest’ultimo punto, Pierre Fillon si difende: “Abbiamo iniziato a sensibilizzare gli spettatori a ridurre la loro impronta di carbonio quando viaggiano“. In particolare, l’ACO ha introdotto un ‘biglietto verde’, un biglietto a basse emissioni di carbonio che offre una riduzione del 10% sul prezzo del biglietto a chi viaggia con i mezzi pubblici, l’auto elettrica o la bicicletta. Per l’edizione 2023 sono stati venduti 7.000 di questi biglietti – per gli oltre 260.000 spettatori attesi nel fine settimana – rispetto ai 2.000 dell’anno scorso. Ma questa iniziativa è ancora lontana dal soddisfare le associazioni ambientaliste: “Il biglietto verde riduce il bilancio energetico in modo aneddotico, perché la maggior parte delle persone verrà in auto“, commenta Stephen Kerckhove, direttore generale di Agir pour l’Environnement. “C’è ancora molto spazio per i miglioramenti“, ammette Jérôme Lachaze, consulente CSR (Corporate Social Responsibility) per la 24 Ore di Le Mans, “ma abbiamo avviato il processo”.

Al di là delle iniziative messe in atto dall’ACO per ridurre l’impronta di carbonio dell’evento, Stephen Kerckhove sottolinea soprattutto “l’enorme divario tra ciò che deve essere fatto per ridurre le emissioni di gas serra e lo spettacolo (…) che enfatizza la potenza e la velocità, il che è terribile in un momento di sconvolgimento climatico“. Alla fine del 2022, un collettivo chiamato ‘Stop24H’ ha chiesto la cancellazione dell’edizione 2023, spiegando di “prendere di mira la 24 Ore perché è la gara automobilistica più popolare“. “Chiediamo l’abolizione di tutte le oppressioni inquinanti, di tutte le gare automobilistiche“, si è difeso uno degli attivisti anonimi intervistati dal quotidiano Ouest-France. “Sappiamo che la corsa finirà un giorno. Un grande gesto per passare alla storia sarebbe stato quello di dire ‘Abbiamo corso per 100 anni, ci fermiamo’“. “Siamo assolutamente consapevoli della necessità di ridurre la nostra impronta di carbonio“, replica Pierre Fillon. “Ma oggi è impossibile spostarsi senza auto“, conclude.

Arriva il cemento green: niente acqua e cinque volte meno CO2 di quello tradizionale

A 70 chilometri a sud di Nantes sorge un’alta torre circolare rossa e bianca in mezzo al verde del paesaggio: è quella del cementificio della start-up francese Hoffmann Green, che ha l’ambizione di diventare il faro di un’industria del cemento carbon free, dopo due secoli di massicce emissioni di CO2. Inaugurato venerdì, il nuovissimo stabilimento è l’espressione concreta della strategia di reindustrializzazione verde auspicata dal governo. Promette di emettere da tre a cinque volte meno gas serra rispetto ai grandi produttori tradizionali di cemento ed è stato sostenuto finanziariamente dai piani di risanamento e da Francia 2030.

Nei piani, ogni anno dovrebbe produrre 250.000 tonnellate di cemento a basse emissioni di carbonio. Una pagliuzza rispetto al fabbisogno del Paese che ne consuma 18 milioni di tonnellate all’anno. Ma una rivoluzione in un settore che, dall’invenzione del cemento 200 anni fa, non ha quasi cambiato i suoi metodi di produzione altamente inquinanti. Il processo tradizionale – la cottura della farina di materie prime per 18 ore consecutive a oltre 1.400°C per ottenere l’elemento essenziale del cemento, il clinker – richiede enormi volumi di gas naturale ed emette quasi una tonnellata di CO2 per ogni tonnellata di cemento prodotti. In pratica, inquina di più del settore aereo.

Il cemento della Vandea di Hoffmann Green “non ha clinker”, emette “in media 200 kg di CO2” per tonnellata, è prodotto “senza cottura”, “senza gas”, “senza acqua” e “a temperatura ambiente”, “mescolando polvere di rifiuti industriali”, spiega Julien Blanchard, presidente del consiglio di amministrazione e co-fondatore della start-up nata nel 2015. I tre ingredienti principali sono gli scarti di lavorazione dell’acciaio, “i fanghi argillosi” recuperati dalle cave e il “gesso” contenuto nei pannelli di cartongesso provenienti dalla demolizione degli edifici. Gli additivi interni innescano quindi una reazione a freddo che consente al cemento di amalgamarsi. La ricetta è stata sviluppata da David Hoffmann, ingegnere chimico minerario ed ex co-fondatore della start-up Séché Environnement.

In questa fabbrica verticale dal concept unico, la torre alta 70 metri mescola gli ingredienti di 19 silos alti diverse decine di metri. Altro elemento essenziale della decarbonizzazione del processo, è che l’energia pesa appena per il 2% dei costi complessivi dell’azienda “rispetto al 20% del settore tradizionale”, secondo Blanchard. Una serie di pannelli fotovoltaici su palafitte, come grandi alberi di metallo che seguono l’orientamento del sole durante tutta la giornata, generano il 50% del consumo elettrico del sito.

“Tutti questi elementi fanno sì che nel complesso il nostro cemento generi cinque volte meno emissioni di CO2 rispetto al cemento tradizionale”, riassume Blanchard. Naturalmente anche il prezzo è “il doppio”, ammette. “Ma più produciamo, più i prezzi scenderanno”, dice, scommettendo su un “incrocio delle curve dei costi” tra il suo cemento e quello tradizionale “nel 2026-2027”. L’industria del settore “ci vede come i cattivi che vogliono chiudere i cementifici tradizionali”, osserva Stéphane Pierronnet, direttore operativo dell’impianto. Eppure gli ultimi cinque anni sono stati una strada lunga e onerosa. Soprattutto per ottenere le certificazioni che consentono a questo prodotto di entrare nella corte dei cementi standardizzati e referenziati. Sono stati necessari “tra i 5 ei 10 milioni di euro” per finanziare gli accertamenti che hanno permesso di ottenere la garanzia che “i nostri cementi sono altrettanto solidi”, “con una durata così lunga, la stessa resistenza al fuoco, ai sali marini..” dei cementi tradizionali, spiega Blanchard. L’azienda, che impiega 55 persone, di cui il 20% in ricerca e sviluppo, sta progettando un secondo stabilimento a Dunkerque. Ha anche progetti in Svizzera, Belgio e Regno Unito.

 

(Photocredit: AFP)

emissioni gas serra

Stretta Usa su emissioni: piano per ridurre CO2 centrali elettriche

Continua l’azione del governo americano a difesa del clima. L’amministrazione di Joe Biden ha annunciato un maxi piano per ridurre le emissioni di CO2 per le centrali elettriche, comprese quelle a gas e carbone, a partire dal 2030, misure tanto attese nell’ambito degli impegni climatici degli Stati Uniti. Queste nuove norme prevedono, tra l’altro, l’obbligo per alcune centrali elettriche a carbone di catturare le proprie emissioni di CO2, invece di immetterle nell’atmosfera. Se entreranno in vigore, sarà la prima volta che l’Environmental Protection Agency (Epa) imporrà restrizioni sulle emissioni di CO2 delle centrali elettriche esistenti. La produzione di elettricità rappresenta circa un quarto delle emissioni di gas serra americane.

Come un precedente tentativo sotto il presidente Obama, è probabile che questi regolamenti vengano combattuti in tribunale. Secondo il direttore dell’Epa, Michael Regan, avranno il potenziale per prevenire l’emissione di “oltre 600 milioni di tonnellate di carbonio entro il 2042“, che equivalgono alle emissioni di “metà delle auto americane in un anno“. Regan ha però avvertito che porterebbero alla chiusura delle centrali elettriche a carbone, ma ha assicurato che avrebbero “un impatto trascurabile sui prezzi dell’elettricità“.

In concreto, le regole proposte variano a seconda del tipo di centrale, del loro livello di utilizzo o anche della loro eventuale data di chiusura prevista. L’agenzia fa affidamento in particolare sulle tecniche di cattura e stoccaggio della CO2, che sono ancora rare e costose. Nel 2022, secondo la US Energy Information Agency, circa il 60% della produzione di elettricità negli Stati Uniti proveniva da gas (40%) o carbone (20%), seguita dal nucleare (18%) e dalle energie rinnovabili ( 21,5%).

Il governo sta scommettendo sul loro sviluppo, dopo aver approvato lo scorso anno una legge (il controverso Inflation Reduction Act) che prevede maggiori crediti d’imposta per le centrali elettriche che utilizzano queste tecniche. Una prima categoria riguarda le centrali termoelettriche a turbina a vapore, cioè prevalentemente a carbone. Secondo le nuove regole, chi intende proseguire dopo il 2040 dovrà installare tecnologie che consentano di catturare il 90% della CO2 emessa dal 2030. Nessuna restrizione, invece, per le centrali a carbone dismesse entro il 2032, o addirittura entro il 2035 per quelle funzionanti a meno del 20% della loro capacità.

L’Epa sostiene che l’installazione di queste tecnologie richiederà tempo e sarà particolarmente conveniente per gli impianti che operano più a lungo. Per le centrali elettriche a gas che utilizzano turbine a combustione, si propongono due percorsi: da un lato la cattura della CO2, dall’altro l’idrogeno a basse emissioni di carbonio. Le nuove centrali elettriche a gas utilizzate ad alta capacità dovranno catturare il 90% della loro CO2 entro il 2035, oppure utilizzare idrogeno a basse emissioni di carbonio al 30% entro il 2032 e al 96% entro il 2038. Si applicano le stesse regole alle più grandi centrali elettriche a gas già esistenti. Regan ha assicurato che queste proposte erano “al 100% in linea” con gli impegni di Joe Biden, che ha promesso una produzione di energia a emissioni zero dal 2035.
Già nel 2015 Barack Obama aveva annunciato un piano per ridurre le emissioni di CO2 delle centrali elettriche, che è stato bloccato prima di entrare in vigore: la Corte Suprema aveva limitato la capacità di agire dell’EPA l’anno scorso. Secondo la sentenza, le regole generali, che avrebbero la conseguenza di imporre una transizione dal carbone ad altre fonti energetiche, esulano dall’autorità dell’agenzia.
Le misure presentate giovedì seguono “l’approccio tradizionale” dell’EPA per agire sotto il ‘Clean air act’, ha assicurato Regan. “Siamo fiduciosi di agire entro questi limiti”, ha affermato. Prima di essere finalizzate, le nuove regole devono essere oggetto di un periodo di dibattito pubblico.

Al via a Strasburgo la plenaria del Parlamento Europeo tra metano e dibattito con Olaf Scholz

Riduzione delle emissioni di metano nel settore energetico, riforma del Patto di stabilità e nuove norme sulla sostenibilità dei prodotti. Tanti i dossier all’ordine del giorno della sessione plenaria del Parlamento europeo che si riunirà a Strasburgo fino a giovedì 11 maggio e che sarà segnata dal confronto degli eurodeputati con il cancelliere tedesco Olaf Scholz che interverrà martedì mattina in emiciclo nel consueto ciclo di dibattiti ‘Questa è l’Europa (This is Europe)’ che ormai da un anno in ogni sessione plenaria ospita un capo di stato e governo dei 27 Stati membri. Questa volta sarà il turno della Germania di Scholz. E non è una scelta casuale, dal momento che il 9 maggio ricorre anche la data simbolica della Festa dell’Europa, che celebra i 73 anni della Dichiarazione di Schuman, considerata il primo passo verso l’integrazione europea.

Prima del dibattito con Scholz, l’Europarlamento discuterà per la prima volta con la Commissione Ue sulla proposta di riforma del Patto di stabilità, avanzata da Palazzo Berlaymont la scorsa settimana. Gli eurodeputati voteranno anche su diversi dossier importanti, a partire dalle nuove regole per ridurre le emissioni (e le perdite) di metano nel settore energetico, su cui discuteranno lunedì pomeriggio alla ripresa dei lavori e voteranno martedì sul mandato per avviare i negoziati con gli Stati membri. La proposta di regolamento è stata avanzata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2021, all’interno di un più ampio pacchetto di decarbonizzazione del mercato del gas. Il metano è tra i peggiori gas inquinanti atmosferici che contribuisce ai cambiamenti climatici: intrappola più calore rispetto alla CO2, ma si decompone nell’atmosfera più rapidamente, quindi impegnarsi per tagliare queste emissioni dovrebbe avere un impatto più rapido sul surriscaldamento globale. Oltre a petrolio, gas fossili, carbone e biometano i deputati hanno chiesto che le nuove regole includano anche il settore petrolchimico, esortando la Commissione Ue a proporre entro la fine del 2025 un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni di metano dell’Ue per il 2030 per tutti i settori interessati dalla normativa.

L’Europarlamento discuterà, sempre martedì, il mandato negoziale su una nuova direttiva per migliorare l’etichettatura dei prodotti e porre fine alle false dichiarazioni ambientali, ovvero le regole Ue contro il greenwashing. L’Europarlamento vuole vietare l’uso di indicazioni ambientali generiche, come “rispettoso dal punto di vista ambientale“, “naturale“, “biodegradabile“, “neutrale dal punto di vista climatico” o “eco“, quando non accompagnate da prove scientifiche.

Sul fronte agricolo, mercoledì mattina la sessione sarà aperta da un dibattito sul ruolo degli agricoltori nella transizione verde e su come sostenere il settore agricolo in modo più efficace, mentre gli eurodeputati dovrebbero dare via libera alla proroga di un altro anno della sospensione dei dazi all’importazione dell’Ue sui prodotti agricoli ucraini. In un dibattito separato, discuteranno dell’impatto delle importazioni di cereali dall’Ucraina sui prezzi dell’Ue, appena dopo l’accordo tra la Commissione Ue e Bulgaria, Polonia, Ungheria, Romania e Slovacchia per un pacchetto di aiuti da 100 milioni di euro per sostenere gli agricoltori gravati dall’eccesso di beni agroalimentari importati da Kiev. A margine dei lavori di plenaria, a Strasburgo le commissioni per il mercato interno e per le libertà civili voteranno su un progetto di norme per garantire la sicurezza e la legalità dei sistemi di intelligenza artificiale immessi sul mercato dell’Ue, con obblighi specifici per i sistemi di IA ad alto rischio e il divieto di alcune pratiche considerate inaccettabili.