Dialuce (ENEA): Nucleare soluzione per futuro, idrogeno non ancora competitivo

Idrogeno verde, nucleare di quarta generazione o modulare, spinta sulle rinnovabili e sui sistemi di accumulo: “Non c’è un’unica strada che ci porterà alla decarbonizzazione al 2050 perché un sistema soltanto elettrico difficilmente riuscirà a integrare le esigenze dell’industria, dei trasporti, soprattutto quelli aerei e navali e della produzione di calore”. E, ancora, “è fondamentale guardare alle nuove tecnologie, ma con un occhio alle ricadute sul Pil, all’industria e alla filiera nazionale”. Gilberto Dialuce, presidente dell’ENEA (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), guarda avanti, ma lo fa con quella lungimiranza e quel senso pratico frutto di 40 anni di lavoro nel campo degli idrocarburi, della sicurezza degli approvvigionamenti, della liberalizzazione dei mercati, ma anche delle nuove tecnologie, efficienza energetica, fonti rinnovabili e ricerca di sistema elettrico.

CENTRALI A CARBONE

Nell’intervista a GEA, Dialuce traccia il cammino del futuro prossimo, ma non prima di aver stilato il bilancio di un anno di lavoro: “Essere qui è un compito complesso e sfidante, soprattutto in questo momento caratterizzato da una accelerazione della transizione energetica ed ecologica”. Un momento in cui la guerra in Ucraina ha fatto deflagrare la crisi degli approvvigionamenti, al punto che alcuni Paesi si sono riconvertiti all’uso del carbone con il rischio di fermare il percorso di decarbonizzazione: “Le tensioni sul fronte del petrolio e del gas confermano che il percorso della decarbonizzazione è fondamentale sia per il raggiungimento degli obiettivi climatici sia per una maggiore indipendenza energetica”, sottolinea Dialuce. “Nell’immediato – puntualizza – c’è un problema: avremo sufficienti forniture di gas per il prossimo inverno? In Italia non si tratta di riaprire centrali a carbone già chiuse, anche perché non sarebbe comunque così facilmente attuabile, ma di utilizzare quelle ancora in esercizio al livello massimo consentito per quelli che sono i limiti emissivi, cercando in questo modo di risparmiare gas”. Il tema decarbonizzazione, quindi, resta più che mai valido “ma ovviamente abbiamo una fase contingente in cui occorre fare ricorso a tutto quello che esiste”.

TRIVELLE

La diversificazione delle fonti di approvvigionamento è la strada intrapresa dal governo per superare la ‘schiavitù’ dalla Russia. Ma in Italia il gas c’è, solo che non viene estratto: “Nel corso degli ultimi anni – spiega il presidente dell’ENEA – si è assistito a una riduzione di queste attività perché l’opinione pubblica le ha percepite come eccessivamente rischiose per l’ambiente”. In realtà, ricorda, “queste attività si svolgono nel nostro Paese da moltissimi anni e non ci sono stati gravi incidenti con conseguenze irreversibili sull’ambiente. Tornare indietro ora è complesso perché molte compagnie sono andate all’estero a lavorare”. E quindi? “Si possono valorizzare le infrastrutture e concessioni esistenti, perché fare altri investimenti in zone come l’Alto Adriatico – dove sono concentrate le maggiori risorse da sviluppare- richiederebbe di partire con nuove infrastrutture da zero e servirebbero alcuni anni”, puntualizza Dialuce.

NUCLEARE E SMALL REACTOR

Una via d’uscita potrebbe essere rappresentata dal nucleare, ancorché osteggiato da due referendum e da tanta preoccupazione. Ma Dialuce apre uno spiraglio, sia pure con prudenza. “ENEA – dice – segue varie linee di ricerca, focalizzate in modo particolare sulla fusione. Potrebbe essere la soluzione definitiva del futuro, perché consentirebbe di avere a disposizione volumi di energia notevolissimi e del tutto indipendenti. Si tratta, però, di fare un grande sviluppo tecnologico, su cui Enea sta investendo moltissimo, circa 600 milioni di euro in 5 anni per arrivare poi a un progetto complessivo europeo e internazionale di un reattore a fusione”.

ENEA sta lavorando anche sulla ricerca per il nucleare di quarta generazione “con la società newcleo che, attraverso il crowdfounding, sta promuovendo lo sviluppo di questo tipo di reattori”. In base all’accordo, ENEA realizzerà un prototipo in scala più piccola per testare questo meccanismo di reattore di quarta generazione raffreddato a piombo fuso, “che è un sistema innovativo – ricorda Dialuce – che dà grandi garanzie di sicurezza rispetto ai sistemi tradizionali ad acqua. Potrebbe essere una tecnologia disponibile tra 5-10 anni”.
C’è poi la soluzione degli Small Modular Reactor, “dei piccoli reattori di potenza più bassa che hanno un diverso tipo di utilizzo, perché sono prefabbricabili in serie in unità singola, costruiti in luoghi diversi dal sito in cui verranno poi effettivamente utilizzati”. Sono l’evoluzione di quelli già in uso sulle portaerei, sui sommergibili, sui rompighiaccio. “Questa tecnologia potrebbe avere una futura diffusione – afferma il presidente dell’ENEA – se raggiungesse costi di produzione energetica concorrenziali per un seguito commerciale”.

HYDROGEN VALLEY

Infine, ma non certo ultimo, c’è l’idrogeno. Un tema che sta molto a cuore a ENEA e ai suoi ricercatori perché “può sostituire alcuni usi finali del metano – ricorda Dialuce – soprattutto per la produzione di calore ad alta temperatura, come l’industria del vetro, dell’acciaio, della ceramica, per le quali al momento sembra essere l’unica alternativa a portata di mano”. Il problema è che l’idrogeno non esiste in natura, ma va estratto dall’acqua o dal metano utilizzando energia. Se lo vogliamo ‘clean’ non si può partire dal metano, ma si deve usare energia rinnovabile per il processo di elettrolisi o per la produzione da biomasse con cattura e riutilizzo della CO2. In ogni caso si tratta di processi energetici ancora costosi e, dal punto di vista dell’efficienza “vanno testate le linee di produzione, di trasporto, di distribuzione e di utilizzo”, racconta Dialuce. Con una precisazione non di poco conto: “L’idrogeno è un gas altamente infiammabile, più del metano e va testato dal punto di vista della sicurezza. Bisognerà poi investire per abbassare il costo di produzione perché oggi non è competitivo. Grazie ai fondi ottenuti dal Ministero della Transizione Ecologica in ambito PNRR, ENEA sta lavorando proprio su questo. Siamo partiti con un programma di ricerche con Cnr e Rse per mettere insieme il meglio delle tecnologie e delle professionalità dei nostri tre enti di ricerca e l’Hydrogen Valley che sorgerà alla Casaccia seguirà in scala reale l’intero ciclo dell’idrogeno verde per testarlo e trasferirne poi i risultati alle imprese della filiera italiana”, conclude il presidente dell’ENEA.

Parte il progetto della prima centrale a fusione di idrogeno

Entrerà in funzione intorno alla metà del secolo, producendo fino a 500 MW di potenza per soddisfare i consumi annuali di circa 1,5 milioni di famiglie. E questo grazie anche al lavoro delle 21 organizzazioni di ricerca italiane (tra cui Cnr-Istp e Consozrio Rfx) coordinate da Enea. Sono solo alcuni dei numeri del progetto Demo (Demonstration Fusion Power Reactor), il primo impianto dimostrativo a fusione di idrogeno annunciato oggi a Bruxelles dal Consorzio EuroFusion in occasione del lancio di Horizon EuroFusion, nuovo programma europeo di ricerca sulla fusione cofinanziato dalla Commissione Ue tramite Euratom. “Si tratta di un passo importante che traghetterà la ricerca sulla fusione da un ambito puramente sperimentale alla produzione vera e propria di energia elettrica” ha sottolineato Alessandro Dodaro, direttore del dipartimento Enea di Fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare. Il reattore dimostrativo Demo sarà il successore dell’impianto sperimentale Iter, attualmente in costruzione a Cadarache, nel sud della Francia, e a cui contribuiscono Cina, Corea del Sud, India, Giappone, Russia, Usa e ovviamente Ue.

Il progetto potrebbe presto diventare una pietra miliare della ricerca sull’energia. E questo grazie all’ingegno italiano. “Demo – aggiunge Dodaro – dovrà adottare le più avanzate tecnologie per controllare il plasma e generare elettricità in modo sicuro e continuo operando con un ciclo del combustibile chiuso”. A questo scopo servirà il super laboratorio Divertor Tokamak Test (Dtt) al Centro Ricerche di Frascati. “Qui testeremo nuove e diverse configurazioni e materiali per il divertore, il dispositivo che avrà il compito di smaltire il calore residuo all’interno dei reattori a fusione con flussi di potenza superiori a 10 milioni di Watt per metro quadrato, confrontabili a quelli della superficie del Sole”, aggiunge l’esperto di Enea. Tra le organizzazioni coinvolte nel progetto c’è anche il Consorzio Rfx, i cui soci sono il Cnr, l’Enea, l’Infn, l’Università di Padova e Acciaierie Venete. “La decisione di sviluppare un reattore a fusione dimostrativo in Europa è il naturale sviluppo del costante impegno europeo nella promozione della ricerca di risorse energetiche a basso impatto ambientale di cui la fusione dell’idrogeno rappresenta uno degli ingredienti del paniere di fonti rinnovabili ed eco-sostenibili” ha spiegato Piergiorgio Sonato, presidente del Consorzio Rfx che a Padova ospita il laboratorio di sviluppo degli iniettori di particelle neutre per Iter, ovvero il NBTF-Neutral Beam Test Facility. Un altro centro di eccellenza per la ricerca, dato che, spiega Sonato, “rappresenta l’elemento indispensabile per accendere e controllare la reazione di fusione dell’idrogeno nel reattore Iter di Cadarache”.

L’annuncio dell’avvio di Demo è arrivato peraltro dopo il risultato record ottenuto dal programma EuroFusion all’impianto Jet (Joint European Torus) di Culham (Regno Unito), che ha prodotto 59 megajoule di energia totale da fusione utilizzando lo stesso mix di combustibili di deuterio-trizio (plasma) che sarà impiegato in Iter, in Demo e nelle future centrali elettriche a fusione. EuroFusion, chiarisce Enea in una nota, può contare su un finanziamento di oltre 1 miliardo di euro per gli anni 2021-2025, di cui oltre 550 milioni da Euroatom: l’Italia, secondo partner più importante del consorzio dopo la Germania, riceverà il 16% del contributo europeo, ovvero circa 90 milioni.

nucleare

Nucleare di quarta generazione, Dodaro (Enea): “Strada giusta ma ancora lunga”

Più sostenibile, sicuro, resistente alla proliferazione e economico, o quantomeno non più costoso rispetto a oggi. Sono le promettenti caratteristiche del cosiddetto nucleare di quarta generazione, una tecnologia sulla quale ha dichiarato più volte di voler puntare lo stesso ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

Se le prime tre generazioni di reattori presentano una filosofia simile e derivano da progetti nati alla fine degli anni 40 e poi affinati per migliorarne efficienza e sicurezza, la quarta generazione promette di superare alcune delle principali criticità collegate alla produzione di energia nucleare. Dispositivi come i reattori veloci refrigerati a piombo (LFR), sui quali già da più di 20 anni sta lavorando Enea, rappresentano la quasi esclusività delle attività di ricerca e sviluppo nel settore in Italia. A delinearne i potenziali vantaggi parlando con Gea è Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza Nucleare Enea. “Il nucleare di quarta generazione non utilizza uranio-235 bensì uranio naturale che non viene trasformato in rifiuto radioattivo. Si può così arrivare a eliminare il 99% di quelle che sono chiamate volgarmente scorie radioattive”, spiega innanzitutto. A questo aspetto ne è legato un altro molto importante, quello della resistenza alla proliferazione degli armamenti nucleari visto che “diventerebbe inutile recuperare l’uranio-235 a partire dall’uranio naturale presente nel combustibile per realizzare ordigni: è un aspetto cruciale a livello di sicurezza”, ricorda Dodaro. Sicurezza che riguarda anche i reattori, dotati di sistemi passivi basati su leggi fisiche e non sull’intervento dell’uomo o sulla disponibilità di energia elettrica, capaci di attivarsi in automatico in caso di incidente. Un’altra Chernobyl, insomma, non sarebbe più possibile: il reattore tende spontaneamente a una condizione stabile e sicura. Infine, l’efficienza. L’esponente di Enea prova a esemplificare i vantaggi attraverso semplici numeri. “Con un reattore di quarta generazione raffreddato a metallo liquido, se il nocciolo produce 1.000 di energia, 400 vanno in corrente elettrica, 250 si possono sfruttare per altri scopi come generare idrogeno o il teleriscaldamento, e solo 350 viene disperso nell’ambiente. Con i reattori attuali invece tutto ciò che non diventa energia elettrica viene perso”.

Non è però tutto oro quel che luccica. C’è un grande ostacolo da superare per arrivare a utilizzare su larga scala sistemi nucleari di quarta generazione. “La difficoltà principale è gestire il metallo liquido che deve muoversi e assorbire calore dal nocciolo del reattore – afferma Dodaro -. Il piombo liquido è dieci volte più denso dell’acqua ed è quindi impossibile movimentarlo con i sistemi tradizionali. Occorre trovare un modo per gestire la parte termofluidodinamica del reattore”. I costi invece non rappresentano un problema, quantomeno se rapportati a quanto si spende oggi per produrre energia nucleare. “Bisogna considerare il costo del kilowattora di energia, comprendendo sia la spesa per la costruzione dell’impianto sia i costi successivi per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi e quelli per lo smantellamento del reattore una volta finito il suo ciclo di vita – afferma Dodaro -. Un reattore di quarta generazione ha un costo di costruzione dell’impianto simile a uno di terza, ma avrà costi decisamente minori legati ai rifiuti e allo smantellamento, visto che ha dimensioni minori rispetto a uno di terza. Il costo finale sarà, se non più basso, almeno uguale a quello attuale”.

Nonostante negli ultimi tempi il dibattito sul nucleare si sia riacceso, complice anche la crisi energetica generata dal conflitto russo-ucraino, la strada per gli impianti ‘generation four’ è ancora piuttosto lunga. Secondo Dodaro, “bisognerà attendere il 2035 per i prototipi più consolidati di quarta generazione ‘classica’, e almeno il 2040 per vedere questi impianti pienamente operativi. Ci sono però progetti per reattori di taglia più piccola, come quelli su cui stiamo lavorando con al strat-up newcleo, che hanno orizzonti temporali più brevi e potrebbero concretizzarsi già attorno al 2030”.

(Photo credits: Sameer Al-DOUMY / AFP)

atomo

Italia senza energia atomica, ma Enea è leader nella ricerca applicata

Anche se l’Italia ha detto di fatto addio all’energia nucleare con i referendum del 1987, il nostro Paese rimane un punto di riferimento internazionale a livello di ricerca sull’atomo. La testimonianza più chiara arriva da Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile al centro di importanti progetti di ricerca e sviluppo sul nucleare di quarta generazione. Lo scorso dicembre è stato rinnovato il Consorzio Falcon (Fostering Alfred Construction) con Ansaldo Nucleare e Istituto di Ricerca Nucleare della Romania per realizzare un dimostratore di reattore a piombo di media taglia di IV generazione, il primo in Europa. Un’altra collaborazione al via in questo periodo coinvolge uno spin-off del Cern e riguarda reattori cosiddetti ADS (Accelerator Driven System) cioè ‘sistemi guidati da un acceleratore’ di protoni. Impianti che garantirebbero un livello di sicurezza molto maggiore visto che il reattore si spegnerebbe subito in caso di blackout elettrico, l’incubo peggiore per una centrale nucleare. “Questo tipo di reattore funziona ad acqua e sta a metà strada tra terza e quarta generazione, ma permette comunque di ridurre di molto il carico di rifiuti pericolosi”, spiega, parlando con GEA, Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza Nucleare Enea. A marzo, inoltre, Enea ha siglato un accordo con la startup newcleo che prevede la realizzazione di Advanced Modular Reactors di piccole dimensioni raffreddati al piombo invece che ad acqua. L’obiettivo, ambizioso, della società è di sviluppare i primi prototipi entro sette anni e quindi di commercializzare i nuovi reattori per sostituire quelli oggi in funzione, di seconda e terza generazione. Un progetto che sta attirando le attenzioni di molti investitori, come testimoniano i 300 milioni di capitale raccolti a metà giugno coinvolgendo realtà di primissimo piano come Exor e Azimut. Enea in questa partita metterà in campo infrastrutture, know-how e professionalità del suo Centro Ricerche del Brasimone (Bologna), potendo anche implementate nuove strutture e laboratori con investimenti attorno ai 50 milioni di parte di newcleo e l’assunzione di diversi ingegneri. “È un progetto in cui io e tutta Enea crediamo molto – conferma Dodaro -. Vogliamo sviluppare un dimostratore di un reattore nucleare che però non è nucleare: non ci sarà alcun isotopo radioattivo e le funzioni del nocciolo saranno svolte da resistenze elettriche. Di fatto, noi costruiremo uno ‘scaldabagno’ ma non a acqua, bensì a piombo per dare la possibilità a newcleo di realizzare in Regno Unito e Francia i primi due prototipi di reattori al piombo di piccole dimensioni”.

Enea però vanta anche una tradizione pluridecennale nel campo della fusione nucleare, la cosiddetta ‘energia delle stelle‘ che, spiega Dodaro, ci “renderà indipendenti dai combustibili e sarà pulita e sicura”. Al Dipartimento Fusione e Sicurezza Nucleare Enea lavorano quasi 500 fra ricercatori e tecnologi nei Centri di ricerca di Brasimone e Frascati. “Oggi c’è un grande interesse dal punto di vista industriale per la fusione”, dice Dodaro. I numeri mostrano che nel maggior progetto internazionale sulla fusione, cioè ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) le imprese italiane hanno vinto quasi 2 miliardi di euro di commesse: meglio di noi soltanto la Francia. “Le competenze sul nucleare erano un fiore all’occhiello per l’Italia già quando avevamo le centrali. Fortunatamente dopo il referendum del 1987 le competenze italiane sul nucleare non sono andate perdute e sono state reinvestite in altri ambiti. L’Enea rappresenta un esempio piuttosto chiaro di questa capacità”. Prova ne sia che di recente a Brasimone la ricerca sulla fusione ha dato il la a due nuovi filoni: la produzione di radiofarmaci, con la prospettiva di realizzare un Polo Nazionale per la medicina nucleare e lo sviluppo di tecnologie avanzate per il monitoraggio e la sicurezza/difesa del territorio.

cappotto verde

Un ‘cappotto verde’ su tetti e pareti per abbassare la temperatura di 3°C

Forse non potrà sostituire completamente i condizionatori, ma un ‘cappotto verde’ su tetti e pareti potrebbe abbassare la temperatura interna delle case in estate fino a 3 °C. La sperimentazione è stata condotta su un edificio prototipo presso il Centro Ricerche Enea Casaccia (Roma), dove la vegetazione messa a copertura del solaio e delle pareti esterne è stata in grado di mantenere le temperature superficiali al di sotto dei 30 °C, preservando dai picchi di temperatura di oltre 50 °C nelle ore più calde. Il ‘cappotto’ consente di abbattere quasi il 50% del flusso termico attraverso l’ombra e la traspirazione delle piante. Il progetto Enea ‘Infrastrutture verdi per migliorare l’efficienza energetica degli edifici e la qualità del microclima nelle aree urbane’ è finanziato nell’ambito dell’Accordo di Programma per la Ricerca di Sistema Elettrico 2019-2021 del ministero dello Sviluppo Economico, oggi in capo al ministero della Transizione ecologica.

La copertura vegetale agisce tutto l’anno come isolante termico, con effetti maggiori nel periodo primavera-estate quando le piante diventano estrattori naturali di calore dall’ambiente. In generale, l’effetto benefico di regolazione termica è dovuto all’ombreggiamento estivo, all’evapotraspirazione e alla fotosintesi clorofilliana delle piante. “I dati preliminari – spiega Arianna Latini, ricercatrice del Dipartimento Unità per l’Efficienza Energetica- fanno supporre che si possa ottenere una riduzione dei consumi elettrici di circa 2 kWh/m². Mediamente questo si traduce in un risparmio di energia elettrica di circa 200 kWh per la climatizzazione estiva di un’abitazione di 100 m², tenuto conto di una temperatura di comfort dell’ambiente interno non superiore a 26 gradi”.

Diverse le piante utilizzate durante la sperimentazione: la viperina piantaginea (Echium plantagineum) e la viperina azzurra (Echium vulgare), che favoriscono anche la biodiversità degli impollinatori, la vite americana (Parthenocissus quinquefolia), un rampicante resistentissimo sia al caldo sia al freddo e diverse piante grasse, molto resistenti a condizioni di estrema siccità. “Abbiamo rilevato – dice Latini – che le temperature superficiali della parete verde sono fino a 13 °C inferiori rispetto alla facciata non vegetata, con una riduzione dei flussi termici verso l’interno di circa 7 kWh/m² e un abbattimento delle emissioni fino a 1 kg di CO2/m² per il minore consumo di energia elettrica”.

Enea stima che l’inverdimento del 35% della superficie urbana dell’Unione europea (oltre 26 mila km²) permetterebbe di ridurre la domanda di energia per il raffrescamento estivo di edifici pubblici, residenziali e commerciali fino a 92 TWh l’anno, con un valore attuale netto di oltre 364 miliardi di euro, e di evitare le emissioni di gas serra equivalenti a 55,8 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. Per avere un’idea realistica delle emissioni evitate, si pensi che il settore agricoltura in Italia emette 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti l’anno (dati Ispra 2021).

Da qui la necessità di intervenire sulle aree urbane, avviando iniziative e interventi per contrastare gli impatti negativi del riscaldamento globale, che comprendono l’eccesso di consumi di energia fossile (la climatizzazione estiva rappresenta circa il 30% dei consumi complessivi con un trend in crescita), le ondate di calore sempre più frequenti nei mesi estivi, l’inquinamento ambientale e la perdita di biodiversità. I tetti verdi, infatti, oltre a ridurre gli aumenti di temperatura dovuti all’effetto isola di calore in città, migliorano la qualità dell’aria. Da uno studio condotto su specie di alberi e cespugli comunemente presenti nel verde urbano, la capacità media di mitigazione degli inquinanti atmosferici è risultata mediamente di 58-140 g di ozono (O3), di 17-139 g di particolato PM10, di 11-20 kg di anidride carbonica CO2 per pianta l’anno. La vegetazione sugli edifici è utile anche nell’assorbimento dei composti organici volatili: l’edera e altre specie vegetali rampicanti sulla parete verde presso il Centro Ricerche Enea Casaccia hanno consentito una riduzione di circa il 20% di benzene, toluene, etilene e xileni, i composti più comuni in ambiente urbano. Non solo. Il verde urbano svolge anche una serie di servizi ecosistemici come il miglioramento estetico dell’ambiente per vivere e lavorare, la tutela della biodiversità e il rallentamento del deflusso delle acque piovane in eccesso.

repair score

Il progetto Enea per recuperare 96% materiali dai vecchi cellulari

Tra meno di un anno (il 25 aprile 2023, per la precisione) terminerà il progetto Enea, avviato un anno fa, pensato per rendere lo smaltimento degli smartphone più sostenibile grazie al recupero e al riciclo dei metalli e materiali che compongono questi apparecchi. Si tratta del progetto Portent.

La tendenza della imprenditoria italiana che si occupa di riciclo – spiega l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – è di fermarsi alle fasi di trattamento e riciclo più semplici, ma meno remunerative, lasciando ad operatori stranieri il vantaggio di recuperare la parte ‘nobile’ del rifiuto (in particolare le schede elettroniche, ricche di metalli quali oro, argento, palladio e rame)”. Spesso infatti si recupera soltanto quello che interessa di più, mentre altri materiali come la plastica ad esempio, vengono gettati.

Partendo dalle ampie competenze nel settore, Enea ha quindi sviluppato, in sinergia con l’università La Sapienza di Roma, un processo innovativo per il recupero di materiali dai cellulari a fine vita, propedeutico al completamento della filiera che adesso si ferma al commercio verso l’estero degli stock dei materiali separati. Nel campo del recupero e purificazione di materiali da matrici complesse, l’Enea ha realizzato un impianto pilota denominato ‘Romeo’ (Recovery Of MEtal by hydrOmetallurgy) per testare le potenzialità industriali dei processi chimici sviluppati. L’impianto è collocato nella hall tecnologica del Laboratorio Tecnologie per il Riuso, il Riciclo, il Recupero e la valorizzazione di Rifiuti e Materiali del Cr Enea Casaccia.

Grazie alle tecnologie a disposizione, sarebbe possibile riciclare oltre il 96% dei dispositivi elettronici: in questo modo si eviterebbe anche di danneggiare il pianeta attraverso l’estrazione di nuovi materiali che potrebbero essere già disponibili grazie al recupero da vecchi cellulari.

Le persone, in media, cambiano il proprio cellulare ogni 2-5 anni e quindi in tantissimi si ritrovano nei cassetti di casa vecchi smartphone inutilizzati, ma a volte ancora funzionanti. Essendo rifiuti speciali, i cellulari vanno smaltiti nelle isole ecologiche, oppure possono essere resi ai negozi di elettronica o all’e-commerce da cui sono stati acquistati. Per legge entrambi i canali sono obbligati al ritiro.

Un discorso a parte merita invece il fenomeno dei cellulari ricondizionati. Da qualche anno a questa parte, soprattutto nelle grandi città italiane, sono spuntate decine di negozi che ritirano e rimettono a nuovo cellulari di seconda mano ancora funzionanti, ma ‘passati di moda’. Una volta ottenuta una nuova ‘verginità’ vengono rimessi sul mercato a prezzi molto più contenuti. Siti come Trendevice, BlackMarket, Refurbed, Rebuy, Swappie, Ricompro, Joojea o negozi fisici che svolgono lo stesso compito, permettono di recuperare cellulari funzionanti portando vantaggi per l’ambiente e il portafogli.

Un esempio per tutti: Apple ogni hanno sforna un nuovo modello di iPhone per il quale migliaia di ragazzi fanno la fila fuori dagli Apple store; ora siamo al modello numero 13 e a settembre sarà presentato il 14. Ma quelli dal 7 in avanti sono ancora perfettamente funzionanti, forse un po’ più lenti e meno glam, ma comunque utilizzabili. Quindi questi nuovi negozi li ricondizionano (ovvero liberano la memoria, nel caso sostituiscono la batteria) e li vendono a prezzi contenuti. L’aspetto interessante è che queste piattaforme allungano la vita ai modelli più vecchi, senza contare che chi li compra tende, secondo le indagini delle diverse società, a tenerlo più a lungo, contribuendo a salvarli dallo smaltimento, spesso incontrollato o criminale.

Acquistando un telefono ricondizionato si risparmiano infatti 185 grammi di rifiuti tecnologici, si taglia dell’84% il peso in termini di CO2 rispetto all’acquisto di uno nuovo (56 kg di CO2 equivalente contro 9 kg per il ricondizionato, stando a uno studio di Recommerce) e si evita l’estrazione di oltre 200 kg di materiali rocciosi necessari per le materie prime utili alla produzione di un nuovo pezzo con un display da 5,5 pollici.

(Photo credits: Bruno Germany)

comunità energetiche

Comunità energetiche: diritti, normative e possibilità

In tema di comunità energetica, il Pnrr potrebbe rappresentare ciò che i bonus per la riqualificazione (soprattutto Superbonus 110%) rappresentano per l’edilizia. In pratica un boost per un intero settore, quello delle rinnovabili. A beneficiarne sarebbero però tutti gli stakeholders della comunità locale. La stessa Enea stabilisce che “l’autoconsumo collettivo è fatto da una pluralità di consumatori ubicati all’interno di un edificio in cui è presente uno o più impianti alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili. Gli impianti possono essere di proprietà di soggetti terzi e usufruire di specifici benefici, come le detrazioni fiscali”. Si tratta di una delle disposizioni contenute nel decreto Milleproroghe 2019, convertito in legge nel febbraio 2020, nei relativi decreti attuativi, e del decreto legislativo del 2021 che dà attuazione alla direttiva europea RED II sulla “promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”. Il Gse (Gestore servizi energetici), ricorda che una comunità di energia rinnovabile” è “un soggetto giuridico autonomo, che si basa sulla partecipazione aperta e volontaria (a condizione che, per le imprese private, la partecipazione alla comunità di energia rinnovabile non costituisca l’attività commerciale principale). Gli azionisti o i membri “che esercitano potere di controllo” sono persone fisiche, piccole e medie imprese (Pmi) ma anche enti territoriali o autorità locali incluse le amministrazioni comunali, gli enti di ricerca e formazione, gli enti religiosi, del terzo settore e di protezione ambientale. Tali soggetti devono essere situati “nelle vicinanze degli impianti di produzione” detenuti dalla comunità energetica. L’obiettivo principale delle comunità energetiche è quindi “fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai propri azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari”. La normativa stabilisce inoltre che azionisti e associati mantengono i loro diritti di “cliente finale”, compreso quello di scegliere il proprio fornitore di energia elettrica e “possono uscire dalla comunità quando lo desiderano”.

Il decreto legislativo del 2021 inoltre ha specificato nuovi criteri di età, allacciamento e soprattutto dimensionamento degli impianti di produzione da energia rinnovabile. La norma prevede che debbano avere “una potenza complessiva non superiore a 1 MW” sotto la medesima cabina elettrica di bassa tensione (che in Italia corrisponde a circa 3-4 piccoli Comuni o 2-3 quartieri di una grande città). Per condividere l’energia prodotta, gli utenti possono utilizzare le reti di distribuzione già esistenti e utilizzare forme di autoconsumo virtuale. Ad una comunità energetica possono oltre aderire anche impianti a fonti rinnovabili già esistenti (alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 199/2021), purché entro la quota del 30% della potenza complessiva che fa capo alla comunità. Lo Stato ha previsto anche un sistema di incentivi “per promuovere l’utilizzo di sistemi di accumulo e la coincidenza fra produzione e consumo” e “remunerare l’energia autoconsumata istantaneamente”. I requisiti prevedono che l’impianto sia di nuova realizzazione, cioè costruito dopo l’1 marzo 2020. La tariffa d’incentivo (cumulabile con le detrazioni fiscali) può essere di 100 euro per MWh nel caso di “energia condivisa nell’ambito dell’autoconsumo collettivo (stesso edificio o condominio)” e di 110 euro/MWh nel caso di “energia condivisa nell’ambito delle comunità energetiche rinnovabili (stessa cabina elettrica di media/bassa tensione)”.

A ciò si affianca la possibilità di restituzione in bolletta “a fronte dell’evitata trasmissione dell’energia in rete che questi impianti permettono”, con conseguente sgravio che Arera quantifica in 10 euro/MWh per l’autoconsumo collettivo e in 8 euro/MWh per l’energia condivisa. Secondo Enea, la somma di tutti i benefici ammonterebbe a circa 150-160 euro/MWh. Tra le varie misure introdotte dal governo in tema di incentivi per la riqualificazione energetica, quello che più riguarda le comunità energetiche è l’Ecobonus, che introduce una detrazione pari al 110% delle spese relative a specifici interventi di efficientamento. Al momento la legge non fa riferimento alla tecnologia di fonte rinnovabile da adottare, ma a conti fatti quella che si presta meglio agli attuali provvedimenti è il fotovoltaico, per cui sono previste detrazioni fiscali del 50% in 10 anni o del 110% in 5 anni (ma solo per i primi 20 kWp di potenza e in questo caso con il nuovo incentivo calcolato solo sulla quota di produzione a partire da 20,01 kWp dell’impianto).

rinnovabili

Cingolani: “Rinnovabili? Clamorosa accelerazione rispetto al passato”

La guerra ha cambiato tutto. È l’evento più tragico che abbia visto, a parte le questioni personali, ed è impressionante pensare a cosa succede dietro l’angolo, alle porte dell’Europa”. Il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è intervenuto a ‘Italia 2022: Persone, Lavoro, Impresa’, piattaforma di dialogo promossa da Pwc Italia in collaborazione con il gruppo editoriale Gedi, dal titolo ‘Tecnologia e nuovo umanesimo’.

Come superare le criticità sollevate da questo conflitto, che non vede solamente protagoniste Mosca e Kiev, ma che pian piano si sta estendendo in tutto il mondo? Sul fronte della dipendenza italiana dal gas russo, per l’Italia saranno fondamentali i nuovi accordi allacciati con i Paesi africani e del Medio oriente, che, ha spiegato Cingolani, “ci permetteranno di disporre di circa 5 miliardi di metri cubi di gas nel corso di quest’anno, 18 miliardi dal 2023 e 25 miliardi andranno a regime tra altri due anni”. Nonostante tutto, “per quest’inverno dipenderemo ancora dagli stoccaggi, a proposito dei quali l’obiettivo è arrivare a completarli entro fine 2022. Dall’anno prossimo si incominceranno a sentire fortemente gli effetti delle nuove forniture”, ha puntualizzato il ministro. Tuttavia, per ora è impensabile un’interruzione della somministrazione del gas russo al Paese, dal momento che “noi ne importiamo 29 miliardi di metri cubi, non avremmo un’alternativa e non solo saremmo al freddo, ma fermeremmo le aziende”, l’avvertimento del titolare del Mite.

RINNOVABILI

Sul tema delle rinnovabili, Cingolani ha preso una posizione netta: “È clamorosa l’accelerazione rispetto agli anni scorsi, quindi qualcosa è successo. Si può fare di più? Sì, ma dobbiamo dare il tempo a tutto il sistema di crescere”. I dati parlano chiaro, infatti, “secondo le stime di Terna ci sono state richieste di allacciamenti per 5,1 gigawatt nei primi mesi del 2022, e ne abbiamo già 3 circa per il prossimo anno: secondo il Pnrr dovremmo metterne 7-8 all’anno. Quindi, direi che abbiamo cominciato bene“, la sottolineatura.

IDROGENO

Sulla produzione di idrogeno, accumulatore di energia molto prezioso per la futura decarbonizzazione, il target dell’Europa è quello di arrivare a 500 megawatt in tempi relativamente brevi. “La firma dei primi protocolli d’intesa con le Regioni per le ‘Hydrogen valleys‘ è un’ottima notizia e ci mette in linea con i migliori Paesi d’Europa in un settore che è strategico per il futuro“, ha dichiarato Cingolani nel corso della cerimonia di firma delle intese a Palazzo Chigi, precisando che saranno cinque le Regioni a ospitare questi distretti per la produzione di idrogeno verde: Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Puglia e Umbria.

CARBURANTI SINTETICI

I carburanti sintetici in una fase di transizione potrebbero essere una buona soluzione”, ha spiegato il titolare del Mite rispondendo a una domanda sul voto che attende il Parlamento Ue in merito al pacchetto Fit for 55 che riguarda anche il passaggio da automobili a combustione a modelli elettrici a basso impatto sulle emissioni. “I grandi Paesi che costruiscono automobili, come Francia, Germania e Italia, erano tutti d’accordo per il face out dal motore a combustione per le automobili di uso privato dovesse avvenire entro il 2035, chiedendo un po’ più di tempo per i furgoni che non hanno una soluzione pronta cassa sull’elettrico, mentre i Paesi che non producono auto volevano il face out prima, tanto a loro che cosa costa, il problema della manodopera ce l’abbiamo noi, francesi e tedeschi”. Il ministro evidenza poi che si potrebbero trovare soluzioni per minimizzare l’impatto senza costringere la gente che non può a cambiare l’auto.

NUCLEARE

Per arrivare a net zero nel 2050 ci servirà un accesso universale all’energia. “La fusione nucleare, è il meccanismo di produzione dell’energia dell’universo, quello delle stelle. Siamo veramente impauriti del cambiamento climatico? Basta chiacchiere: 18 mesi per il vaccino Covid, in 18 anni si faccia la fusione sul termonucleare, ogni Paese faccia abbia la sua stella per produrre energia pressoché illimitata a zero costo“, la riflessione di Cingolani. Su questo l’Italia sta facendo un ottimo lavoro, c’è l’Enea che sta facendo investimenti importanti in ricerca: si sono dimostrate moltiplicazioni in energia prodotta molto importanti, il confinamento magnetico è stato dimostrato per la prima volta come molto promettente. “Chissà che non si abbia qualche sorpresa nell’arco di circa 15 anni. Però bisogna crederci“, conclude il ministro della Transizione ecologica.

cappotto termico

Corsa all’Ecobonus: l’intervento più richiesto è il cappotto termico

Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e il presidente dell’Enea, Gilberto Dialuce, hanno recentemente lanciato il portale nazionale sulla prestazione energetica degli edifici (Pnpe2), destinato a svolgere una funzione informativa e di assistenza per cittadini, imprese e pubblica amministrazione. “Si tratta di uno strumento – spiegano dall’Enea – che risponde a più esigenze e che offre un insieme di servizi nel campo dell’efficienza energetica. Innanzitutto, il singolo cittadino può trovare dati ed elaborazioni personalizzate per orientarsi sulle opportunità di investimento per il proprio immobile. Le stesse informazioni sono rese disponibili, in forma aggregata, per finalità statistiche e di studio, grazie all’integrazione nel sistema del portale dei dati degli Attestati di prestazione energetica degli immobili (Ape) contenuti nelle piattaforme regionali”.

ecobonus

PORTALE IN LINEA CON LE DIRETTIVE EUROPEE

Il portale è una assoluta novità prevista dai decreti attuativi della direttiva europea 2018/844/UE, che modifica le precedenti su efficienza energetica, in un’ottica di ottimizzazione del rapporto tra oneri e benefici delle misure di sostegno e degli investimenti in efficienza energetica per la collettività. Il portale è stato inserito tra le ‘riforme abilitanti’ indicate nel Pnrr per la misura M2C3 (efficienza energetica e riqualificazione degli edifici). “Il portale è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 – spiega il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani – in uno dei settori in cui è più difficile farlo, quello degli edifici”. “Siamo orgogliosi di poter mettere a disposizione dei cittadini, della PA e del Ministero un pacchetto di informazioni cruciali per una programmazione efficace e ottimale degli investimenti in efficienza energetica – sottolinea il Presidente dell’Enea, Gilberto Dialuce – per il singolo utente che intende intervenire sulla propria abitazione, per supportare i livelli amministrativi territoriali nelle scelte di indirizzo della spesa pubblica, per fornire al governo centrale un’informazione precisa e in tempo reale sugli avanzamenti compiuti dal Paese riguardo a misure di cruciale importanza nel contesto nazionale e internazionale”. Dando un’occhiata alle statistiche nazionali che riguardano gli interventi di miglioramento edilizio degli stabili italiani, si nota che negli anni che vanno dal 2018 al 2021 il numero di richieste è stato 1.811.632 per un totale di 1.901.351 interventi. Poco esaltante invece la fotografia scattata sul numero di Ape (attestato di prestazione energetica) parametro che serve a misurare quanto un edificio consuma ed è ‘prestante’ dal punto di vista energetico. In Italia nell’ultima classe energetica, ovvero la G ci sono 758.427 unità abitative; in quella appena sopra, la F, 537.703. Le classi ‘peggiori’ D, E, F e G assorbono quasi il 90% del totale delle unità abitative. Quelle in classe A4 sono appena 30.453.

INVOLUCRI E CLIMATIZZAZIONE INVERNALE GLI INTERVENTI PIÙ RICHIESTI

Passando poi al numero di richieste per tipo di intervento, si nota come quello per l’involucro (il cosiddetto ‘cappotto’ termico dei palazzi) sia quello più richiesto: 913.073 interventi. Segue la climatizzazione invernale 856.558 casi e poi il solare termico con 20.537 casi. Fanalini di coda la riqualificazione globale dell’unità abitativa, il building automation, le facciate e gli interventi nei condomini.

IL PORTALE È INTERCONNESSO CON DIVERSI DATABASE

Chiave di volta per la completa realizzazione del portale, spiegano dall’Enea, è l’interconnessione con diversi database. Ad oggi, sono già interoperative nel sistema le basi di dati sviluppate da Enea. In particolare, sono stati integrati i dati presenti nelle piattaforme regionali di attestati delle prestazioni energetiche (Ape-R), nei siti regionali di catasto impianti termici (Cit-R), nei portali per le politiche di sviluppo territoriale (Espa-Paes) e in quelli per le diagnosi energetiche delle imprese (Audit 102), tutte raccolte e gestite dal dipartimento efficienza energetica dell’Agenzia. In ottemperanza alla normativa, conclude l’Enea, verranno in futuro integrate anche gli ulteriori database relativi alla gestione di altre amministrazioni.

Mar mediterraneo

Med16, il nuovo modello per stimare evoluzione livello Mar Mediterraneo

Si chiama MED16 ed è un modello matematico in grado di riprodurre nel modo più fedele possibile l’evoluzione del livello del Mar Mediterraneo, dal passato al futuro. È stato messo a punto dai ricercatori di Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. “Le proiezioni medie di innalzamento del livello del mare sulla Terra non sono abbastanza accurate per i bacini marginali, come il Mediterraneo, che richiedono lo sviluppo di modelli specifici. Ecco, il nostro studio finalmente colma questo gap scientifico”, spiega Gianmaria Sannino, responsabile del laboratorio Enea di Modellistica climatica e Impatti e autore del nuovo studio ‘Modelling present and future climate in the Mediterranean Sea: a focus on sea-level change’. Per la prima volta, quindi, “avremo a disposizione un database affidabile per seguire l’innalzamento del nostro mare che, a partire dal 1980, è andato riscaldandosi più velocemente dell’oceano globale e dove, quindi, gli effetti dei cambiamenti climatici saranno amplificati, con grave rischio per le comunità costiere”, aggiunge Sannino.

Il livello del Mar Mediterraneo varia da sito a sito ed è il risultato dei movimenti tettonici locali, di una complessa dinamica delle masse d’acqua anche su piccola scala e degli scambi con l’Oceano Atlantico attraverso lo Stretto di Gibilterra. Anche la connessione col Mar Nero, punto di raccolta delle acque di molti tra i maggiori fiumi europei, influenza le caratteristiche del bacino, correlandole al ciclo idrologico di una vasta porzione dell’Europa continentale. Il nuovo modello climatico Enea ha un dettaglio spaziale mai raggiunto prima. “Gli attuali modelli globali rappresentano il Mediterraneo come un lago, isolato dall’Atlantico, e per questo non sono sufficienti a fornire stime realistiche sulle sue variazioni di livello. Ora invece, grazie a MED16, riusciamo a coprire l’intero sistema ‘Mediterraneo-Mar Nero’, e una piccola parte dell’Oceano Atlantico ad ovest dello Stretto di Gibilterra, con una risoluzione spaziale uniforme di 1/16°, che corrisponde a circa 7 km”, sottolinea Sannino, che aggiunge: “Inoltre abbiamo aumentato notevolmente il dettaglio in corrispondenza degli stretti, per rappresentare in modo affidabile la dinamica locale degli scambi d’acqua; parliamo, quindi, di circa 200 metri per lo Stretto di Gibilterra e di 550 metri per i Dardanelli e il Bosforo”.

Il cambiamento climatico di origine antropica ha contribuito ad aumentare il livello medio dei nostri mari di oltre 25 centimetri negli ultimi 130 anni. Ma cosa accadrà nei prossimi anni al Mediterraneo? “Il futuro non ci riserva buone notizie. Se non riusciremo a invertire l’attuale crescita della temperatura globale, a fine secolo, tra 80 anni, il livello del mare sarà più alto di circa 60 centimetri rispetto ad oggi. Si tratta di valori da non sottovalutare. Pochi centimetri di innalzamento determinano l’allagamento di parecchi chilometri quadrati delle nostre coste”, spiega Sannino.

Negli ultimi decenni l’innalzamento del mare non è stato omogeneo nel Mediterraneo: dai dati del periodo 1993–2017, l’aumento osservato varia da un minimo di 1,95 mm/anno nello Ionio a un massimo di 3,73 mm/anno nell’Egeo. Il Mediterraneo occidentale mostra un trend più regolare, indotto prevalentemente dal segnale proveniente dall’Atlantico. Il bacino orientale mostra un comportamento più complesso, con una marcata variabilità interna. “Con il modello MED16 abbiamo simulato l’evoluzione passata della circolazione del Mediterraneo e quella futura fino al 2100. Il confronto con i dati osservati ha confermato la capacità del nostro nuovo modello di riprodurre correttamente le caratteristiche del bacino. Queste simulazioni costituiscono la base di riferimento per le proiezioni future non solo per il lungo arco temporale che coprono e per l’alta risoluzione spaziale, ma anche perché tengono conto esplicitamente delle maree e delle loro interazioni con la circolazione”, conclude Sannino.

Secondo la proiezione Enea al 2100, considerando lo scenario più pessimistico dell’Ipcc (elevata emissione ed elevato valore della forzante radiativa, paria a 8.5 W/m2), la temperatura del Mar Mediterraneo continuerà a crescere, mentre diminuirà la salinità superficiale nella parte occidentale del bacino, interessata dalla corrente atlantica. Oltre all’innalzamento del livello, il riscaldamento delle acque marine provocherà l’inibizione parziale della formazione delle acque profonde che, trasportando ossigeno verso gli strati profondi, permette al mare di ‘respirare’, creando le condizioni per la sopravvivenza degli habitat naturali.