Patto di stabilità, Giorgetti: “E’ un compromesso, vittoria italiana sul Pnrr”. Opposizioni all’attacco

La riforma del Patto di stabilità e crescita europeo continua a infiammare lo scontro politico in Italia. Come richiesto dalle opposizioni, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, si presenta in commissione Bilancio alla Camera per una informativa sulla legge di Bilancio 2024. Ma, a dispetto delle indiscrezioni della vigilia, non si sottrae (sarebbe stato forse difficile fare il contrario) alle domande sull’accordo raggiunto solo pochi giorni fa in Ecofin, dopo un negoziato difficile, durato mesi, dal quale il nostro Paese non sembra essere uscito senza ‘graffi’.

Il responsabile del Mef ricorda che si tratta di un compromesso, senza il quale “dal 1 gennaio sarebbero tornate in vigore le vecchie regole scritte col Fiscal Compact”. Quindi, “da questo punto di vista è stato fatto un passo avanti”. Poi, però, ammette che rispetto alla proposta originaria della Commissione Ue può essere visto anche come un passo indietro, ma “la valutazione la faremo tra qualche tempo”, quando si saranno dispiegati gli effetti. Anche se, chiarisce, “il 2024 non sarà toccato dalle nuove regole”, perché il nuovo Patto “non può che partire dal 2025”.

Alle critiche ricevute risponde a tono: “Abbiamo ottenuto che le spese del Pnrr siano ritenute leggibili a livello europeo, questo è il successo italiano che trovate in qualche modo nel Patto di stabilità”. Ma, avverte Giorgetti, la clausola di allungamento del Patto da 4 a 7 anni è per coloro “che rispettano il Piano in tutto: negli investimenti ma anche nelle riforme“.

Il passaggio che accende lo scontro con le opposizioni, però, è quello sulle misure varate in questi ultimi anni, anche a causa della crisi economica provocata dalla pandemia e che ha imposto interventi drastici e non convenzionali. Quello che Giorgetti lamenta è una mancata visione d’insieme dei suoi predecessori: “Un concetto deve essere chiaro, il dibattito è viziato dall’allucinazione psichedelica che abbiamo vissuto negli ultimi quattro anni in cui abbiamo pensato che gli scostamenti, debito e deficit si potessero fare senza tornare a un sistema di regole”. Parla di disciplina il responsabile del Mef, poi affonda il colpo: “Ci siamo assuefatti a questo ‘Lsd’ preso in questi anni“.

Parole che scatenano la rabbia degli avversari politici. “La premier Giorgia Meloni si renda conto delle parole pronunciate oggi in audizione da Giorgetti”, tuona il presidente dei senatori M5S, Stefano Patuanelli. Per il ministro dell’Economia “la sospensione del Patto di stabilità è stata solo un’allucinazione collettiva e non un’occasione per cambiare in modo strutturale le regole verso una maggiore integrazione e solidarietà europee”, commenta la capogruppo Pd alla Camera, Chiara Braga. Che aggiunge: “Ora dà lezioni contro il debito e accetta il Patto di stabilità dopo aver messo l’Italia nelle condizioni di non contare nulla e di far pagare al Paese a breve il prezzo di un compromesso che è passato sulla testa del governo e della Meloni“.

La partita ovviamente non si esaurirà qui. L’impressione è che lo scontro sia solo l’inizio di una lunga campagna elettorale che porterà alle europee del giugno prossimo. In attesa, ovviamente, di vedere che effetti avrà il nuovo Patto di stabilità sull’Italia.

Dopo la Cop28 troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale

Che la Cop 28 sia stata un fiasco o quasi un fiasco dipende solo dai punti di vista più o meno ideologici. Che molto poco si potesse pretendere da un evento che ha avuto come presidente Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato di Abu Dahbi National Oil Company (la Adnoc, principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi), era abbastanza scontato. Che la Cop28 potesse riservare un epilogo analogo alla Cop27 era persino prevedibile. Che non tutte le posizioni emerse dalla convention Onu di Dubai siano da buttare nel bidone della spazzatura un’altra evidenza sulla quale riflettere.

Dopo una decina di giorni di chiacchiere e confronti, alla fine sembra che troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale. La prima bozza di accordo non convince, gas & oil continuano a farla da padrone, i Paesi produttori non ne vogliono sapere di dare un taglio alla loro principale fonte di introiti, la progressiva dismissione dei combustibili fossili pare abbia la cadenza musicale del fado. E pure la sua tristezza. La luce in fondo al tunnel sono le rinnovabili e, forse, il nucleare. Ma tra mille eccezioni, come da dichiarazione del ministro Gilberto Pichetto Fratin per quanto riguarda la posizione dell’Italia: una fessura non un’apertura. E, comunque, siamo nell’ordine di molti anni, insomma non una soluzione immediata.

Mentre le associazioni ambientaliste si ostinano a gettare vernice verde in fiumi, lagune e fontane, il mondo prende la sua piega. La spaccatura che emerge è netta. C’è preoccupazione per l’innalzamento della temperatura planetaria e per i risultati non in linea con le prospettive delineate dall’accordo di Parigi, probabilmente adesso c’è anche minore distanza tra Europa, Usa, Cina e India, nessuno dubita sulla necessità di “fare qualcosa”, ma sono i tempi e i modi che generano lo stallo. Da un lato la Ue che pesta sull’acceleratore per velocizzare la transizione green, dall’altro i Paesi produttori e in via di sviluppo che azionano il freno. Usando la ragione e non la pancia, è inimmaginabile pensare al mondo senza gas e senza petrolio in uno spazio temporale ristretto. Sultan al-Jaber sostiene con un’iperbole che si tornerebbe alla caverne: non è così, però non è nemmeno possibile ipotizzare a breve una società spinta solo da energie rinnovabili o biocarburanti. E siccome di radicalismo si perisce, lo sforzo maggiore dovrebbe farlo il buonsenso che non produce gas serra: non tutto subito, ma nemmeno niente per sempre. Sarebbe utile conoscere, oltre alla posizione del Governo, anche quelle delle nostre aziende di bandiera: da Eni a Enel, fino a Terna e Edison, Eph, A2A. Come si pongono in questa controversia?

La fotografia scattata alla Cop28 è chiarissima: Emirati, Arabia Saudita, Iraq, Iran e Russia non vogliono abbandonare la strada dei combustibili fossili, gli Stati Uniti stanno strategicamente nel mezzo, i giganti Cina e India manco si sono fatti sentire e tirano dritto allegramente. Insieme fanno 3 miliardi di persone, oltre un terzo della popolazione mondiale. Assodato che la transizione ecologica costi cara, vanno tutelate parimenti la stabilità delle economie e la salute del pianeta. Senza la prima non c’è la seconda. Sono da evitare gli estremismi o le asticelle fissate troppo in alto. E qui l’Europa può e deve darsi una regolata perché l’era-Timmermans ha prodotto guasti e lasciato strascichi. C’era una volta l’Europa che dettava il ritmo al mondo, adesso ci sono nazioni che da sole contano più di un continente intero. E che inquinano anche di più. Prenderne coscienza non è avere meno peso geopolitico ma capire in che epoca si sta vivendo. Diceva Seneca: non possiamo dirigere il vento ma possiamo orientare le vele.

TAP Melendugno

Gozzi: “L’Italia deve definire una strategia energetica per il futuro”

È ormai del tutto evidente che l’Europa non riesce a fare una politica energetica comune. Le vicende recenti lo dimostrano ampiamente: dall’impossibilità pratica di trovare un accordo sul price cap del gas nel pieno della crisi causata dall’invasione russa dell’Ucraina, alle politiche di sussidio ai prezzi dell’energia che i singoli Stati, specie i più forti come Germania Francia, hanno deciso di fare autonomamente piuttosto che impegnarsi per un accordo complessivo europeo.

Le politiche di sussidio ai prezzi sono state consentite dal fatto che di fronte alla crisi economica provocata dal Covid prima e dalle conseguenze della guerra Russia-Ucraina poi, la Commissione Europea è intervenuta con il Temporary crisis and transiction framework, in pratica una deroga alle stringenti regole sugli aiuti di stato che ha consentito ai singoli governi di intervenire secondo una logica “ognun per sé Dio per tutti” per alleviare il caro energia per famiglie ed imprese.

Ovviamente questi interventi, specie quelli a favore delle imprese e in particolare delle imprese energivore, creano asimmetrie competitive gravi tra le imprese degli stati forti, che tali interventi si possono permettere, e quelle degli stati meno forti finanziariamente. E ciò mina alla base il principio del mercato unico.

Si potrebbe ovviare a queste distorsioni istituendo ad esempio una tariffa elettrica comune europea per le imprese energivore. Ma purtroppo nessuno ne parla, da un lato perché a Bruxelles, come abbiamo più volte ricordato, a causa dell’ubriacatura dell’estremismo ambientalista c’è disinteresse, se non un vero e proprio pregiudizio, nei confronti dell’industria di base; dall’altro perché i singoli Stati, schiacciati dalle stringenti regole europee sul climate change, stanno cercando, ognuno per proprio conto, una via alla transizione energetica che consenta contemporaneamente di decarbonizzare e di abbassare il costo dell’energia.

Vasto programma che a breve farà i conti con la realtà, in particolare mostrando che gli obiettivi del cosiddetto Green Deal al 2050 (zero emissioni nette di gas con effetto serra, crescita economica dissociata dall’uso delle risorse senza trascurare nessuna persona e nessun luogo) sono di fatto irraggiungibili. Ma tant’è.

Realisticamente dobbiamo prendere atto che una politica comune europea dell’energia, sia pure auspicabile, non è possibile per i troppi conflitti di interesse fra Stati e per la diversità dei punti di partenza che spesso rappresentano vantaggi competitivi per i sistemi economici e industriali nazionali a cui chi ne può godere non vuole rinunciare.

Alla luce di ciò l’Italia, secondo sistema industriale d’Europa, si deve rapidamente attrezzare con una strategia energetica di medio-lungo periodo che consenta alla sua industria di rimanere competitiva.

Gli altri grandi Stati europei stanno facendo così. Basta guardare i differenziali di prezzo dell’energia dei maggiori Paesi Europei rispetto all’Italia che si trova fortemente penalizzata.

La Germania ha puntato moltissimo sul vento del mare del Nord, sul fotovoltaico e sull’approvvigionamento di idrogeno. Negli ultimi mesi si stanno installando nel Paese l’equivalente di 30 campi di calcio di fotovoltaico al giorno e 4-5 turbine eoliche al giorno. Per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030 i tedeschi dichiarano che sarà necessario costruire 43 campi di calcio al giorno di fotovoltaico e mantenere il ritmo di 5 turbine eoliche al giorno. Ci riusciranno? Si vedrà. Nel frattempo la chiusura di centrali nucleari e centrali a carbone spiazza l’industria tedesca e la obbliga a riscoprire le centrali a gas: Ansaldo Energia ha recentemente vinto una gara in Germania per la costruzione di una grande centrale a gas.

La Francia, coerentemente alla sua storia, ha fatto e ribadito la scelta del nucleare. Vinta la battaglia in Europa per inserirlo nella Tassonomia (la lista delle tecnologie ammissibili con il Green Deal) da un lato sta facendo giganteschi interventi di manutenzione sulle centrali esistenti, tutte risalenti a molti decenni fa, dall’altro è all’avanguardia sui progetti di nucleare di quarta generazione, molto più sicuro e meno costoso del tradizionale, su cui mantiene e manterrà una leadership continentale. Il nucleare, specie quello di nuova generazione, è naturalmente la fonte energetica ideale per l’industria: completamente decarbonizzata e stabile, sicura e relativamente poco costosa nel lungo periodo.

La Spagna sta sfruttando intelligentemente la sua configurazione geografica che le mette a disposizione enormi estensioni pianeggianti poco abitate e quindi ideali per installare fotovoltaico ed eolico, ed una grande estensione costiera grazie alla quale con l’aiuto europeo ha installato, già molti anni fa, diversi rigassificatori per l’importazione di LNG (gas naturale liquefatto); e può contare su tutte le tecnologie energetiche disponibili, perché accanto alle rinnovabili vi troviamo ben 5 centrali nucleari e molte centrali a gas.

Non parliamo dei Paesi del Nord Europa, in particolare Norvegia Svezia, dove la risorsa idroelettrica è sovrana. Ma accanto all’idroelettrico la Svezia, consapevole che le rinnovabili non sono sufficienti per garantire l’approvvigionamento energetico del Paese, ha annunciato un piano per la costruzione di altri 10 reattori nucleari oltre ai 6 già esistenti. La Norvegia, accanto alle immense risorse idroelettriche che soddisfano il 60% del fabbisogno energetico del Paese, è un grande produttore di gas. Nel 2022 ha fornito, con enormi guadagni, circa 90 miliardi di metri cubi di gas all’UE e 36 alla Gran Bretagna. Inoltre il paese è all’avanguardia nelle tecnologie di cattura e stoccaggio delle CO2.

E l’Italia?

L’Italia dal punto di vista delle emissioni di CO2 è in una posizione virtuosa in Europa. Pur essendo un grande paese industriale abbiamo emissioni molto più basse ad esempio della Germania. Ciò si deve soprattutto al fatto che l’industria italiana negli ultimi 20 anni ha fatto importantissime politiche di risparmio energetico; che il settore della produzione d’acciaio, secondo in Europa dopo quello tedesco, è praticamente decarbonizzato perché usa per più dell’80% delle produzioni la tecnologia del forno elettrico; che negli ultimi anni c’è stato un importante sviluppo delle energie rinnovabili.

La configurazione orografica del Paese, con pochi o nessun terreno pianeggiante non dedicato all’agricoltura, la non cospicua presenza di zone ventose, le grandi bellezze naturali e paesaggistiche, il sistema delle regole e burocratico non efficiente: tutto ciò non consente né consentirà all’Italia di crescere più di tanto nelle energie rinnovabili.

I Paesi industriali come il nostro hanno un gran bisogno, accanto alle energie intermittenti come sono le rinnovabili, di energia di base (base load) decarbonizzata. Le uniche due tecnologie capaci di assicurare energia elettrica di base stabile per almeno 6000 ore l’anno sono le centrali turbogas e in prospettiva il nucleare di quarta generazione. Del nucleare di quarta generazione si parlerà come minimo tra quindici anni e non è chiaro che ruolo potrà avere l’Italia sullo sviluppo di questa tecnologia.

Per fortuna anche negli anni del nucleare messo al bando Ansaldo ha mantenuto una capacità di ricerca e di intervento che è stata impiegata fuori dall’Italia e oggi può essere una grandissima risorsa per il Paese.

Ma dobbiamo risolvere il problema dei prossimi 15/20 anni senza essere completamente spiazzati nel costo dell’energia rispetto a quello di cui potranno godere gli altri Paesi europei.

Anche noi abbiamo un grande vantaggio competitivo per posizione geografica e infrastrutturazione: siamo l’unico Paese europeo che ha 5 pipe line di ingresso del gas e 5 rigassificatori, e siamo quindi in posizione ideale per l’importazione di gas.

Il prezzo del gas naturale potrebbe scendere significativamente nei prossimi anni per il combinato disposto di una riduzione della domanda europea e una contemporanea forte crescita di offerta nel bacino del Mediterraneo. L’Algeria ha in programma di passare in cinque anni dai 120 miliardi di metri cubi di produzione annuale attuale a 160 miliardi di metri cubi, i giacimenti tra CiproEgitto ed Israele sono di dimensione gigantesca e non se ne conosce ancora la reale dimensione, la stessa Libia una volta stabilizzata aumenterà la sua produzione annuale di gas.

Insomma si potrà comprare il gas a buon prezzo e ciò aiuterà a produrre energia elettrica a basso costo nelle nostre centrali turbogas. Ovviamente a queste centrali vanno applicate le tecnologie della Carbon Capture Utilisation e Storage (CCUS). Queste tecnologie, che in Italia soprattutto l’Eni conosce e domina, e che consistono nel catturare la CO2 dai processi industriali e utilizzarla ad esempio per produrre metano sintetico o carburanti sintetici decarbonizzati (metanolo) e/o nello stoccarla in giacimenti esausti, come fanno da tempo inglesi e norvegesi, stupidamente sono state osteggiate per molto tempo a livello europeo perché l’ideologia estremista ritiene che il gas, che è enormemente meno inquinante del carbone, non possa essere utilizzato neppure se decarbonizzato.

L’Italia dovrebbe lanciare invece una grande campagna a favore di queste tecnologie e applicarle intensivamente alle centrali elettriche turbogas. Esistono problemi di costi che vanno stimati e gestiti, bisogna promuovere molta ricerca per abbattere questi costi come si è fatto per le rinnovabili, ma questa è l’unica strada intelligente che il nostro Paese ha per gestire la fase di transizione senza chiudere le sue industrie.

Frans Timmermans

Gozzi: “Timmermans ha smesso di fare danni ma la sua eredità è pesante”

Frans Timmermans, olandese, socialista, Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’, ha lasciato il suo incarico per candidarsi primo ministro dello schieramento di sinistra per le elezioni che si terranno prossimamente nel suo Paese.

Gli ultimi mesi della sua attività europea sono stati frenetici nel tentativo di far passare, nel complesso meccanismo legislativo comunitario (Commissione, Consiglio Europeo e Parlamento, il cosiddetto Trilogo), il maggior numero di norme e regolamenti riguardanti la transizione energetica e la lotta al climate change.

Timmermans, che parla un perfetto italiano e che è tutt’altro che un idealista sognatore ma, a detta di chi lo conosce bene, un politico scaltro e navigato che ha cavalcato l’onda ambientalista, è stato l’esempio e l’alfiere di un approccio ideologico ed estremista che ha pervaso tutta l’azione europea degli ultimi anni in tema di transizione, decarbonizzazione, emissioni di CO2. Un approccio fatto di obiettivi irraggiungibili in tema di decarbonizzazione (Fit for 55), di sovrana noncuranza per le conseguenze economiche, industriali e sociali delle scelte estremiste che hanno trasformato le politiche ambientali e la lotta al cambiamento climatico in una nuova religione pagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e tecnologico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

In molti hanno salutato il suo ritiro dalla scena europea dicendo che “ha finito di fare danni”.

In particolare sembra finalmente farsi strada, all’interno del mondo industriale europeo, una più forte riflessione e consapevolezza sulle conseguenze e sui danni provocati da un approccio estremista alla transizione. Non stiamo parlando di posizioni negazioniste, ma al contrario di soggetti attivi che perseguono convintamente politiche di decarbonizzazione dei processi industriali, fatte però con razionalità e pragmatismo e senza fanatismi ideologici.

Alla Assemblea di Assolombarda tenutasi nel luglio scorso il presidente Alessandro Spada ha ad esempio affermato: “L’Unione Europea con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee. E quello che è del tutto irragionevole è l’accelerazione impressa dalla Commissione Europea che con questi tempi e modalità sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica”.

Una riflessione matura sul tema apre molteplici interrogativi.

Quale è la ragione per la quale un’area del mondo, l’Europa, responsabile di meno dell’8% delle emissioni globali di CO2 deve adottare un atteggiamento così estremista e così negativo per il futuro economico, industriale e quindi sociale del continente quando a livello mondiale le emissioni crescono ogni anno soprattutto per la fame di energia e di crescita che caratterizza quelli che una volta si chiamavano paesi in via di sviluppo?

Se con un colpo di bacchetta magica l’industria europea, tutta l’industria europea, che è responsabile di meno della metà di quell’8%, chiudesse i battenti (con le conseguenze economiche e sociali facilmente immaginabili) a livello mondiale non cambierebbe praticamente niente in termini di emissioni di CO2.

Quale è la ragione per la quale l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna e per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico (senza peraltro dire come verrà prodotta tutta questa energia elettrica) anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici ecc.?

Le conseguenze di questa scelta, fatta sulla base di un postulato ideologico (rifiuto della neutralità tecnologica ma scelta di una sola tecnologia per la decarbonizzazione e cioè l’elettrico), sono l’aver creato una nuova gigantesca dipendenza dalla Cina, primo paese al mondo per la produzione di auto e di auto elettriche e quasi monopolista nel controllo di tutte le materie prime necessarie alla produzione di batterie (litio, cobalto, vanadio, nichel). Su queste basi il futuro è quello di una grave perdita di quote di mercato dell’industria dell’auto europea a favore di quella cinese.

Quale è la ragione per la quale l’Europa si appresta a perdere una parte consistente della sua produzione di acciaio fatto con gli altoforni e con il carbone quando questo acciaio, detto da ‘ciclo integrale’, è indispensabile alla produzione automobilistica?

E ancora: se perderemo quote importanti di produzione di acciaio, settore in cui l’Italia eccelle (perché applica per più dell’80% della sua produzione la tecnologia del forno elettrico che ha ridottissime emissioni di CO2) perché dobbiamo farlo a favore di Cina, India, Indonesia ecc. mettendoci in condizione di esportare lavoratori disoccupati e di importare CO2?

Abbiamo sostenuto più volte, anche da queste pagine, che l’applicazione delle direttive europee nei prossimi anni comporterà la desertificazione industriale del continente con la scomparsa e/o il ridimensionamento di settori strategici quali l’acciaio, la chimica, la carta, il cemento, il vetro, la ceramica.

Perché tutto questo? Ritorniamo alla domanda iniziale.

L’atteggiamento di Timmermans e della maggioranza della sinistra europea può essere spiegato con il fatto che, persa la rappresentanza della classe operaia e dei ceti produttivi (ad esempio, il 75% degli operai iscritti alla Fiom di Brescia, sulla base di un sondaggio coraggiosamente pubblicato dalla Fiom stessa, ha votato Lega) ha sposato l’ecologismo estremista come nuovo rifugio ideologico.

La sinistra radicale, che non ha mai vinto le elezioni in Europa, non può fare a meno di un nemico (i capitalisti che inquinano) e di un totem ideologico (la decrescita infelice).

Questo estremismo della sinistra, che purtroppo ha condizionato e talvolta improntato le politiche europee, nasce anche da un senso di colpa sui temi dell’ambiente che considerata la situazione dell’Europa è totalmente ingiustificato. Questo senso di colpa non tiene conto infatti degli importantissimi risultati positivi messi a segno, in questi anni, dalla UE sul fronte della difesa dell’ambiente.

Secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto delle pressioni esercitate sull’ambiente da ogni singola nazione, l’Italia figura, nell’elenco dei virtuosi, terza al mondo dopo Regno UnitoSpagna e, tra i paesi che emettono meno CO2, sette sui primi dieci in classifica, tra cui anche Germania Francia oltreché l’Italia, appartengono all’Unione Europea.

Il perché di una posizione ambientalista radicale, astratta e ideologica della sinistra può dunque essere spiegato come sopra, anche se è in contraddizione con la tradizione di quello schieramento politico storicamente attento all’economia e ai problemi del mondo del lavoro.

Ma perché il Partito Popolare e le altre forze moderate, compreso Renew Europe di Macron, hanno seguito questo approccio in maniera quasi acritica? Mistero.

Un mistero che ha aperto spazi e consenso a movimenti populisti e sovranisti di destra cresciuti in molti paesi riscuotendo sostegno in fasce di popolazione che non si sono sentite rappresentate (gilets jaunes in Francia, il partito dei contadini in Olanda, AfD in Germania).

A me sembra che oggi si presenti l’occasione di rilanciare una nuova visione europeista, non sovranista né populista, che non neghi i problemi del climate change, che continui ad essere attenta ai problemi della transizione energetica, ma che lo faccia con gradualità e buon senso e con la consapevolezza che solo le tecnologie e le imprese possono essere i motori di questa transizione. Ciò significa mettere al centro dell’agenda europea la difesa dell’industria, la sua competitività, il suo accompagnamento e sostegno nel difficilissimo sentiero della transizione.

Tale visione deve essere comune a tutte le grandi famiglie politiche europee: Popolari, Liberal-democratici, e perfino i Verdi tedeschi che ultimamente sembrano riflettere sugli errori commessi seguendo l’approccio radicale alla Timmermans. Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembrano andare in questa direzione anche se non si può negare che l’appoggio dei verdi e dei socialisti alla sua presidenza l’abbia condizionata non poco.

Anche i socialisti dovrebbero adottare una visione più realistica e razionale invece di continuare ad assecondare la retorica ideologica degli ambientalisti estremisti di fatto nemici dell’Europa. Un aiuto più importante del Sindacato in questo senso forse aiuterebbe, richiamando la sinistra al fatto che senza economia e senza lavoro l’unica transizione è verso la miseria e sarebbero i ceti più deboli a pagarne le peggiori conseguenze.

Europa

Governo prepara inverno: nel mirino Patto stabilità Ue. Elettricità sopra 100 euro/MWh

Agatha Christie sosteneva che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. Al momento, sull’azione politica del governo da settembre in poi ce ne sono soltanto due, ma autorevoli: il ché fa supporre fortemente che non sia frutto della casualità. Ieri Giancarlo Giorgetti, oggi Raffaele Fitto, infatti, hanno lanciato messaggi piuttosto chiari all’Europa che sarà quello il campo da gioco ‘preferito’ nel prossimo autunno-inverno per Giorgia Meloni e la sua squadra. Dalle regole sul Patto di stabilità e crescita che il ministro dell’Economia vorrebbe non vedere riattivate nel 2024, alla flessibilità invocata – e rivendicata – dal responsabile degli Affari Ue, la Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, è abbastanza nitido l’orizzonte. Anche i toni sembrano proprio quelli da clima pre elettorale: del resto, le europee sono in programma nella prima decade di giugno del prossimo anno.

Come insegna la ‘regina dei romanzi gialli’, è meglio mettere in ordine i fatti. Già da qualche settimana prima della pausa ferragostana, da esponenti del governo italiano erano partiti i primi avvertimenti all’attuale maggioranza che sostiene la Commissione guidata da Ursula von der Leyen: ‘l’anno prossimo si cambia’ i messaggi (poco velati), ad esempio, di ministri con portafoglio di peso come Adolfo Urso o Matteo Salvini. Ora è il turno di quelli più vicini alla premier, Giorgia Meloni: chi per importanza della delega (Mef), chi politicamente (Fitto). Entrambi puntano forte contro la fine della sospensione alle regole del Patto di stabilità, che riporterebbe in auge il temibile rapporto deficit/Pil al 3%, cui tutti gli esecutivi hanno attribuito la colpa di mancati investimenti per paura di sforare e finire nel mirino della Troika.

Per Giorgetti il Prodotto interno lordo non è, però, un indicatore sufficiente a misurare la politica economica del Paese, perché “si può gonfiare anche facendo spese totalmente assurde o che non promuovano assolutamente lo sviluppo economico”, non permettendo di “cogliere fenomeni importanti“, come “il degrado dell’ambiente, che oggi è diventato veramente un tema centrale“. Semmai, per l’esponente della Lega, il tema è scegliere priorità e assicurarsi che ci sia sostenibilità nelle scelte compiute. A rinforzare questo ragionamento è Fitto. Dal palco del Meeting di Rimini, esattamente come fatto dal collega di governo 24 ore prima, il ministro degli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, avvisa sui rischi che comporterebbe il ritorno alle regole pre-pandemia. Proprio ora che le condizioni geopolitiche sono cambiate e non stabili a causa della crisi energetica prima e della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina poi.

A febbraio, ricorda Fitto, l’Italia era riuscita a far inserire il criterio della flessibilità – in merito agli aiuti di Stato, ma non solo – nelle conclusioni del Consiglio europeo. Ora questo strumento diventa fondamentale per non sprecare l’occasione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (che al suo interno ha anche i capitoli aggiuntivi del RePowerEu) e le risorse dei Fondi di coesione 2021-2027. Per questo occorre “mettere in campo scelte che vanno nella direzione di poter utilizzare le risorse in funzione anche dei cambiamenti”, perché “sarebbe paradossale non modificare nulla lasciando quanto si è deciso prima degli accadimenti che hanno modificato complessivamente lo scenario”. Volendoci proprio vedere un risvolto politico, il messaggio tra le righe a von der Leyen e i suoi commissari è quello di non avere fretta di tornare al passato, altrimenti a pensarci sarà la prossima maggioranza. A patto, ovviamente, che il centrodestra e le forze popolari e conservatrici vincano le elezioni.

Piccolo inciso rispetto allo scenario, i prezzi iniziano a risalire. Non solo la benzina, ma anche quelli dell’energia, seppur di poco. A certificarlo sono i dati del Gestore mercati energetici, che ha registrato, nella settimana dal 14 al 20 agosto, un aumento del 10% rispetto alla settimana scorsa, raggiungendo quota 105,79 euro per megawattora. Un segnale, nemmeno troppo preoccupante (l’Italia ha visto di peggio nella sua storia recente), ma che comunque non va sottovalutato. In patria, come in Europa.

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Amazzonia

Foreste in pericolo in Ue: aumentano fattori di ‘disturbo’ come vento e incendi

Vento, fuoco, scolitidi di abete rosso europeo e altri agenti biotici e abiotici (come funghi, nematodi, siccità, gelo o grandine). Tutte fonti di ‘disturbo’ per le foreste che in settant’anni, tra il 1950 e il 2019, hanno causato perdite in 34 Paesi del vecchio continente che si stimano tra 52,4 milioni di metri cubi (Mm 3) e 62,1 Mm 3 di legname ogni anno, in media. A rivelarlo uno studio finanziato dalla Commissione europea, a cura della Science Communication Unit, dell’Università di Bristol, in Inghilterra, che sottolinea come un disturbo eccessivo per l’ecosistema forestale sia dannoso, in quanto “minaccia la fornitura di servizi ecosistemici vitali, come lo stoccaggio del carbonio e la fornitura di habitat per la fauna selvatica”. Inoltre, un disturbo eccessivo “rende più difficile raggiungere obiettivi politici che dipendono da foreste sane”.

Tra cui quelli varati dalla Commissione europea nel quadro del suo Green Deal, il Patto verde per l’Europa. È del 16 luglio 2021 la strategia europea per le foreste, in cui hanno trovato spazio sia nuovi obiettivi di assorbimento della CO2, sia azioni concrete per migliorare la quantità e la qualità delle foreste sul territorio dell’Unione. Proprio gli ecosistemi forestali rappresentano i più grandi pozzi di assorbimento di carbonio, ma la Commissione Ue ha riconosciuto che quelli europei soffrono di molteplici pressioni, incluso il cambiamento climatico. Da qui arriva la proposta di piantare tre miliardi di nuovi alberi entro l’inizio del prossimo decennio, per rispondere anche all’obiettivo vincolante di rimuovere 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente al 2030.

I ricercatori hanno creato un database online gratuito di disturbi forestali, coprendo 34 paesi europei e utilizzando i dati di studi scientifici e una rete di esperti. Il set di dati risultante contiene 173.506 record provenienti da 600 fonti e, in particolare, migliora il quadro per paesi come Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia e Serbia, dove i dati erano precedentemente di difficile accessibilità. Quando i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti nelle perdite, hanno registrato alcune tendenze: ovvero che in media le perdite di legname sono cresciute di 845mila metri cubi all’anno e negli ultimi 20 anni, la quantità totale di legno danneggiato all’anno è stata in media di 80 milioni di metri cubi, abbastanza per costruire l’edificio in legno più alto d’Europa, il Mjostarnet di 18 piani, sul lago Mjosa, Norvegia, 15 volte.

Lo studio osserva che a causare il danno maggiore è stato il vento, rappresentando il 46% del volume di legname ‘disturbato’. Gli anni ’90 e 2000 hanno registrato tassi di disturbo del vento particolarmente elevati (rispettivamente 47,8 e 38,3 Mm 3/anno). Sia gli eventi estremi che i danni cronici sono aumentati durante il periodo di studio. Il fuoco è stato il secondo disturbo più significativo, rappresentando il 24% dei danni al volume di legname. Il suo impatto è aumentato in modo significativo, con ampi picchi negli anni ’70 e ’90 in poi. Fin dagli anni ’90 sono state utilizzate migliori strategie di gestione degli incendi, ma sono contrastate dagli effetti del cambiamento climatico. Anche i coleotteri della corteccia hanno causato un forte aumento del disturbo, con il 17% del volume di legname disturbato, principalmente a causa delle enormi epidemie dell’ultimo decennio. Anche il cambiamento climatico guida questa tendenza creando condizioni più ospitali per i coleotteri.

Infine, altri disturbi biotici hanno rappresentato l’8% del volume di legname danneggiato, con un forte aumento dopo gli anni ’80. Il volume medio di legname danneggiato da altri disturbi abiotici è aumentato di quasi sei volte. Alla luce di questi risultati, lo studio raccomanda ai gestori forestali e ai responsabili politici di porre nuove strategie di adattamento al centro della pratica. I ricercatori suggeriscono che è necessario un sistema paneuropeo di monitoraggio e segnalazione dei disturbi forestali armonizzato, coerente e quasi in tempo reale, che combini osservazioni da terra e telerilevamento.

Alluvione

La strage del cambiamento climatico: 195mila morti in Europa dal 1980 a oggi

Eventi meteorologici estremi come ondate di calore e inondazioni sono costati circa 195.000 vite e quasi 560 miliardi di euro in Europa dal 1980. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea). “Gli eventi meteorologici e climatici estremi – si legge nel documento – hanno causato perdite economiche stimate in 560 miliardi di euro nell’Ue tra il 1980 e il 2021, di cui solo 170 miliardi di euro (30%) sono stati assicurati” e hanno causato quasi 195.000 vittime, ha osservato l’agenzia europea, che ha messo on line un nuovo portale che raccoglie i dati più recenti relativi all’impatto di questi eventi.

A febbraio 2022 il bilancio presentato dall’Aea ammontava a 510 miliardi di euro e 142mila morti, per il periodo 1980-2020. Nel 2021 le inondazioni in Germania e Belgio sono costate quasi 50 miliardi di euro.

“Per evitare ulteriori vittime, dobbiamo passare urgentemente dalla reazione agli eventi meteorologici estremi alla preparazione proattiva”, spiega Aleksandra Kazmierczak, esperta dell’Aea.

Nel nuovo database dell’agenzia le ondate di caldo rappresentano l’81% del bilancio delle vittime e il 15% dei danni finanziari. L’estate 2022, proprio a causa del caldo, ha visto un numero di morti superiore alla media in tutta Europa. Ci sono stati 53.000 (16%) decessi in più nel luglio 2022 rispetto alla media mensile per il 2016-2019, anche se non tutti sono direttamente attribuiti al caldo. La Spagna ha registrato più di 4.600 morti legate al caldo estremo tra giugno e agosto.

I modelli climatici prevedono per il futuro ondate di caldo estremo più lunghe, più intense e più frequenti, che “devono costringere l’Europa – spiega l’Agenzia – ad agire per proteggere la sua popolazione che invecchia ed è più vulnerabile alle alte temperature”. “La maggior parte delle politiche nazionali di adattamento riconosce gli effetti del calore sui sistemi cardiovascolare e respiratorio, ma meno della metà copre gli effetti diretti del calore come la disidratazione o il colpo di calore”, osserva l’istituto comunitario.

Sul suolo, il cambiamento climatico indotto dall’uomo ha aumentato la probabilità di siccità da cinque a sei volte nel 2022, anno in cui gli incendi boschivi sono stati più del doppio rispetto agli ultimi anni, osserva il rapporto. Ma la siccità potrebbe rivelarsi anche estremamente costosa, passando dagli attuali 9 miliardi di euro all’anno a 25 miliardi all’anno alla fine del secolo se il riscaldamento resterà entro la soglia di 1,5°, ma potrebbe salire a 31 miliardi con 2° e a 45 miliardi con 3°.

E per l’agricoltura le conseguenze potrebbero essere “devastanti”. “Gli agricoltori possono limitare gli effetti negativi adattando le varietà delle colture, cambiando le date di semina e modificando i metodi di irrigazione”, spiega l’Aea. “Se non ci adattiamo, si prevede che i raccolti e i redditi agricoli diminuiranno in futuro”, è l’avvertimento dell’Agenzia ambientale europea.
Infine, pur con perdite umane molto inferiori (2% del totale), le inondazioni sono i disastri più costosi, rappresentando il 56% del conto finale.

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Ambiente, l’Europa vuole essere un esempio virtuoso per i Grandi Inquinatori

La plastica? Il nemico numero uno dell’ambiente. Plastiche e microplastiche, che deturpano il territori e contaminano il nostro cibo. Plastiche e microplastiche da tenere lontano, da evitare, sicuramente da raccogliere qua e là dove sono illegittimamente abbandonate. La giornata mondiale dell’ambiente è dedicata proprio a questo tema, la lotta alla plastica, crociata internazionale che non può diventare fine a se stessa perché, si dice, il Pianeta è nostro, non di altri. E va salvaguardato. Dalle plastiche, certamente, ma non solo.

La tutela dell’ambiente è diventato un must: non possiamo più ignorarla, non possiamo più farla scivolare in fondo alla lista delle cose importanti da fare. In fretta, non domani. Eppure c’è chi storce il naso, per i tempi e per i modi. Subito e bene non sempre vanno d’accordo, prova ne sia le polemiche che stanno nascendo in Europa per la brusca accelerazione data ad alcune tematiche di interesse comune dalla Commissione che ha sede a Bruxelles: auto elettriche e case green, imballaggi e condizionatori… Il rischio che ci sia una contrapposizione tra Europa dell’Est e dell’Ovest è alta, il vicepresidente olandese Frans Timmermans non è solito toccarla piano e, ormai, si porta addosso l’etichetta dell’ultra ambientalista. Timmermans non ha mezze misure, sicuramente, ma non è folle.

La plastica, dicevamo. Poi il carbone e il petrolio, poi il gas. Fossili, ecco. Il mondo ideale sarebbe quello che viene mosso, riscaldato, raffreddato attraverso energia prodotta da fonti rinnovabili, con molto idrogeno verde e con un nucleare di quarta generazione che non sia tossico. Siano a metà del guardo, adesso. Siamo al vorrei ma non posso. L’Europa ci sta provando, lo sta facendo questa Commissione agli ultimi mesi di attività, forzando i tempi, mentre altri – India, Cina. Russia, anche gli Stati Uniti – sembrano ancora lontani da una percezione allarmistica. Europa che rappresenta l’8% della produzione mondiale, bruscolini rispetto ai Grandi inquinatori mondiali. Però l’Europa vuole essere di esempio – raccontano – come una locomotiva che possiede la forza per trascinare vagoni grandi e grossi.

I gasdotti e i flussi di gas verso l’Italia e l’Europa

Nella videografica GEA una panoramica sui gasdotti che arrivano in Italia e sui flussi delle importazioni di gas.

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Washington consensus: gli Usa e le politiche di decarbonizzazione europee

Un importante discorso, pronunciato lo scorso 27 aprile alla Brooking Institution dal consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati UnitiJake Sullivan, propone un’analisi critica di alcuni effetti della globalizzazione e si pone la questione di come fare affinché le società aperte e democratiche possano “costruire un ordine economico globale più equo e duraturo a vantaggio di noi stessi e delle persone di tutto il mondo”.

Sulla costruzione di questo nuovo ordine economico globale più equo e duraturo l’America di Biden è alla ricerca di un nuovo consenso che tenga conto degli sconvolgimenti che hanno investito il mondo negli ultimi decenni e che hanno messo in crisi il vecchio ordine mondiale: dalle crisi finanziarie che si sono succedute, ai sacrifici patiti dalle fasce di popolazione più impattate dal processo di globalizzazione dell’economia mondiale, alla pandemia che ha messo in luce la fragilità delle catene di approvvigionamento dell’occidente, fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha mostrato i rischi di dipendenza da nazioni e Paesi non democratici.

La riflessione parte, come detto, da una serie di considerazioni critiche su ciò che è successo negli anni della cosiddetta ‘globalizzazione’ e in particolare da ciò che non ha funzionato per gli Usa e per l’Occidente in tutto in quel gigantesco processo di trasformazione del mondo.

La prima grave insufficienza riguarda i sistemi industriali occidentali, che con lo spirare vorticoso dei venti della globalizzazione si sono progressivamente svuotati mettendo in sofferenza territori e classi sociali non protetti.

Liberalizzazione del commercio mondiale fine a se stessa, deregolamentazione, riduzione o scomparsa dell’intervento pubblico anche nei settori strategici con ritorni più lunghi e lenti: tutto ciò ha messo in crisi soprattutto gli apparati industriali di base, che sono fondamentali per tutte le filiere sottostanti.

Alla base di queste scelte politiche secondo Sullivan stava un assunto: che i mercati allochino sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i concorrenti e da quali strumenti e politiche di protezione vengano adottati.

In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata intere catene di approvvigionamento di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono spostate in paesi terzi che presentavano costi delle produzioni inferiori a quelli dell’Occidente. E il postulato secondo il quale una profonda liberalizzazione dei commerci mondiali avrebbe comportato per le economie occidentali, sempre e comunque, maggiori esportazioni, maggior benessere, maggiore crescita non si è verificato del tutto.

Altro postulato di questa visione era che il tipo di crescita non fosse importante: tutta la crescita era buona crescita. Così sono stati privilegiati alcuni settori dell’economia come la finanza e i servizi, mentre altri settori essenziali e strategici come i semiconduttori, le infrastrutture e parte dell’industria manifatturiera si sono atrofizzati.

La capacità industriale dell’Occidente ha subito duri colpi e con essa la capacità di fare innovazione.

Gli choc che negli ultimi 10/15 anni si sono succeduti colpendo l’economia mondiale, prima la crisi finanziaria del 2008/2009, poi la crisi pandemica del 2020/2021, hanno mostrato tutti i limiti di questa impostazione sovente segnata da estremismo liberista o mercatista, da eccesso di finanziarizzazione, da sottovalutazione dei problemi di sicurezza oltre che di economicità degli scambi mondiali.

La seconda grande insufficienza, le cui conseguenze peseranno, e molto, negli anni futuri, è stata il non capire che si stavano creando dipendenze strategiche dell’Occidente dalla scelte e dalle forniture di Paesi ed economie non occidentali, spesso conflittuali con noi, minando alle fondamenta la sicurezza del nostro vivere.

Questa insufficienza e incomprensione deriva dal fatto che l’impostazione della politica economica internazionale degli ultimi decenni si basava sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo. In maniera quasi automatica e spontanea, secondo questo assunto, i Paesi coinvolti in questi processi di integrazione e nelle loro regole sarebbero stati progressivamente portati a fare proprie queste regole e a rispettarle.

Sullivan rileva e sottolinea che non è andata così. O meglio, alcuni casi sì in molti altri no.

L’integrazione della Cina nel novero dei Paesi aderenti all’organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) ha rappresentato e rappresenta un’enorme sfida per gli apparati industriali dell’Occidente.

La Repubblica popolare cinese ha continuato, nonostante l’adesione al WTO, a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali sia le industrie fondamentali per il futuro come l’energia pulita, le infrastrutture digitali, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie avanzate.

L’Europa, più che gli Stati Uniti, ha creato, nei decenni di globalizzazione, dipendenze che si sono rivelate davvero pericolose: la dipendenza energetica dal gas russo in primis, ma anche la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento di apparecchiature mediche, semiconduttori, minerali critici.

Sempre l’Europa, forzando ideologicamente i processi di decarbonizzazione, con il ricorso spinto alle energie rinnovabili e all’elettrificazione e alla mobilità elettrica come uniche tecnologie capaci di portare alla sostenibilità delle nostre economie (senza peraltro  porsi il problema della sicurezza degli approvvigionamenti) , sta ponendosi nuovamente in posizione di dipendenza strategica dalla Cina per tutto ciò che riguarda litio, cobalto, terre rare, nickel e cioè  tutto quello che serve per costruire batterie.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le proprie ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi (Cina e Russia) è diventato più responsabile e collaborativo.

La terza grave insufficienza è stata, soprattutto in Europa, l’impostazione delle politiche di decarbonizzazione e di transizione energetica. In molte fasi recenti della storia dell’Unione Europea è sembrata prevalere un’impostazione dettata da un ambientalismo estremo trasformato in religione neopagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

La quarta grave insufficienza è stata quella di non occuparsi abbastanza delle diseguaglianze crescenti scaturite dai processi di globalizzazione.

L’ipotesi prevalente, anche qui sbagliata, era che la crescita indotta dall’espansione del commercio internazionale sarebbe stata una crescita inclusiva, che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi da vasti strati di popolazione agendo come un gigantesco meccanismo redistributivo della ricchezza.

Ciò è avvenuto in effetti per le popolazioni, o almeno per significative parti di esse, dei Paesi in via di sviluppo che, con la globalizzazione, hanno visto crescere il loro benessere. Ma in Occidente moltissimi lavoratori da questi guadagni non sono stati minimamente toccati. Le classi medie hanno perso sempre più terreno subendo processi gravi di impoverimento, mentre si è assistito ad una concentrazione della ricchezza, sempre di più nelle mani di pochi, anzi di pochissimi.

C’è stata, in altri termini, una progressiva disconnessione e tra politiche economiche internazionali e politiche interne; laddove queste ultime non sono riuscite a gestire le conseguenze pesanti della globalizzazione su molti settori industriali manifatturieri, nei confronti dei quali non vi è stata alcuna attenzione né cura.

Le conseguenze sociali di questa disattenzione e assenza di cura è stata la nascita e la crescita, nei Paesi occidentali, di populismi e estremismi che mettono in pericolo la convivenza civile e la stessa democrazia.