Usa, Fed abbassa tassi di un quarto di punto: possibili altri due tagli entro fine anno

La Federal Reserve (Fed) ha abbassato i tassi di interesse per la prima volta quest’anno, in misura ritenuta troppo timida dal nuovo governatore dell’istituzione, appena promosso da Donald Trump. La banca centrale degli Stati Uniti ha, senza sorpresa, abbassato i tassi di riferimento di un quarto di punto percentuale. E una piccola maggioranza dei suoi responsabili ha lasciato aperta la porta a due ulteriori ribassi entro la fine dell’anno. I tassi sono ora compresi tra il 4% e il 4,25%, ovvero ancora molto più alti di quanto desideri il presidente americano. Negli Stati Uniti, la strategia monetaria, che di solito è di competenza del mondo accademico e riservato, è scivolata verso la saga politica e la cronaca giudiziaria. Da diversi mesi Donald Trump rimprovera alla Fed di aver tardato troppo ad allentare la sua politica. Ha appena inserito uno dei suoi fedeli e sta cercando di licenziare una governatrice – il caso è davanti alla giustizia.

Durante la conferenza stampa al termine dei due giorni di riunione sulla politica monetaria, il presidente dell’istituzione Jerome Powell ha cercato accuratamente di parlare solo di economia. La Federal Reserve “ha fatto bene ad aspettare” prima di abbassare i tassi, ha affermato. Mercoledì, solo il nuovo governatore nominato da Trump ha votato contro il taglio dei tassi di un quarto di punto: Stephen Miran voleva un taglio più netto, di mezzo punto, secondo un comunicato dell’istituzione. Miran ha assunto l’incarico solo martedì, giusto in tempo per la riunione. Fino ad allora era stato un zelante sostenitore delle iniziative del presidente, di cui dirige il Comitato dei consulenti economici (CEA). Davanti ai senatori incaricati di confermare la sua nomina, ha affermato che avrebbe ricoperto la carica in piena indipendenza. Ha anche avvertito che non avrebbe rassegnato le dimissioni dal suo incarico alla Casa Bianca, poiché il suo mandato alla Fed era previsto per durare solo pochi mesi. Interrogato su questa situazione senza precedenti, Jerome Powell ha glissato e si è limitato a sottolineare che la Fed era “fermamente determinata a preservare la (sua) indipendenza”. Ha anche rifiutato di commentare il procedimento giudiziario avviato dal governatore Lisa Cook per opporsi al tentativo di destituzione da parte di Donald Trump. Sul piano economico, i responsabili della Fed si sono mostrati un po’ più ottimisti riguardo alla crescita americana. Ora la prevedono all’1,6% per il 2025, contro l’1,4% stimato nelle loro previsioni pubblicate a giugno. Ciò rappresenta comunque un forte rallentamento rispetto alla crescita registrata nel 2024 (+2,8%). Le altre previsioni per il 2025 non sono cambiate rispetto a giugno.

L’inflazione dovrebbe attestarsi al 3%, ben al di sopra dell’obiettivo del 2%, e la disoccupazione al 4,5%, leggermente superiore a quella che è considerata la piena occupazione. Ryan Chahrour, professore di economia alla Cornell University, trova “sorprendente” che la banca centrale abbia abbassato i tassi ora, vista la resistenza dell’inflazione. Si aspettava che i responsabili preferissero lasciare i tassi invariati, ma ritiene che l’unità dimostrata alla fine (ad eccezione di Stephen Miran) invii un messaggio all’esterno. “Non vogliono rendere la situazione ancora più confusa apparendo divisi. Mostrarsi uniti dovrebbe consentire loro di sentire meno la pressione politica in futuro”, ha dichiarato all’AFP. L’abbassamento dei tassi da parte della Fed era necessario “per cercare di evitare nuovi licenziamenti in questa economia” in perdita di velocità, ritiene Heather Long, della banca Navy Federal Credit Union. “Molti americani della classe media e popolare attendono con impazienza di poter contrarre prestiti a tassi più bassi”, ha osservato l’economista in una nota, citando i costi legati alle carte di credito, ai prestiti automobilistici e immobiliari, ma anche ai prestiti alle piccole imprese. Secondo la mediana delle previsioni dei responsabili della Fed, nel 2025 potrebbero esserci altri due tagli dei tassi, il che implicherebbe un nuovo allentamento in ciascuna delle riunioni programmate da qui alla fine dell’anno. Il presidente della Fed si è tuttavia astenuto dal prendere impegni in merito. “Continuiamo ad affermare che non stiamo seguendo un percorso prestabilito, e lo pensiamo davvero”, ha sottolineato Powell.

Lagarde

Lagarde avverte: “Pericolo grave se Trump prende il controllo della politica monetaria”

Un’acquisizione del controllo della politica monetaria americana da parte di Donald Trump rappresenterebbe “un pericolo molto grave” per l’economia americana e mondiale. A lanciare l’allarme è la presidente della Bce, Christine Lagarde, in un’intervista a Radio Classique, ricordando che la politica della banca centrale americana (Fed) “ha ovviamente effetti sugli Stati Uniti per mantenere la stabilità dei prezzi e garantire un’occupazione ottimale”. “Se dipendesse dal diktat di questo o quello”, ha continuato Lagarde, “l’equilibrio dell’economia americana, e di conseguenza gli effetti che ciò avrebbe in tutto il mondo, sarebbero molto preoccupanti”.

Lagarde ha tuttavia aggiunto che sarà “molto difficile” per Donald Trump arrivare a una situazione del genere, perché “la Corte Suprema degli Stati Uniti, che è ampiamente rispettata nel Paese e che spero sarà rispettata anche da lui, ha precisato che un governatore della Fed può essere revocato solo per colpa grave”. “Bisogna comunque spingersi molto oltre per essere revocati per colpa grave”, ha affermato.

“Quindi penso che sarà molto difficile per lui arrivare (tra) il consiglio dei governatori che riunisce i sette che sono a Washington” più quelli delle banche regionali americane “per ribaltare completamente la maggioranza”, ha aggiunto la presidente della Bce.

Donald Trump, che ritiene di avere voce in capitolo sulla politica monetaria e auspica regolarmente che la Fed abbassi i tassi di interesse, sta cercando di minare alcuni dei suoi più alti funzionari. Dopo aver inveito per mesi contro il presidente dell’istituzione, Jerome Powell, che lui stesso aveva nominato durante il suo primo mandato, il presidente americano sta ora cercando di far revocare una delle governatrici, Lisa Cook, accusata dal campo presidenziale di aver mentito per ottenere mutui immobiliari a tassi più favorevoli. La scorsa settimana i tribunali Usa non si sono pronunciati sul suo destino, chiedendo alle parti di presentare nuove prove martedì.

La controversia segna l’ingresso dei giudici in una battaglia il cui esito potrebbe cambiare il volto della Federal Reserve, la banca centrale più potente al mondo, responsabile della lotta all’inflazione negli Stati Uniti e della promozione della piena occupazione. Alla fine, sarà probabilmente la Corte Suprema, con la sua maggioranza conservatrice, a pronunciarsi. Definirà anche con precisione in quali circostanze il presidente degli Stati Uniti può rimuovere un membro della Fed, cosa che i documenti del tribunale non prevedono.

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Usa, Trump aumenta pressione sulla Fed: licenziata governatrice Lisa Cook

Donald Trump ha annunciato il licenziamento “immediato” della governatrice della Federal Reserve Lisa Cook, con l’accusa di frode per un prestito immobiliare personale, aumentando la pressione sulla Banca centrale americana, istituzione indipendente.

In una lettera della Casa Bianca firmata di proprio pugno e pubblicata sul suo social network Truth Social, il presidente americano ha scritto alla diretta interessata che era “destituita dal suo incarico nel Consiglio dei governatori, con effetto immediato”. “Ho stabilito che ci sono motivi sufficienti per licenziarla dal suo incarico”, ha insistito il presidente, in linea di principio vincolato giuridicamente in materia.

Il miliardario repubblicano ha fatto della Fed, e in particolare del suo presidente Jerome Powell, il suo nemico numero uno a causa della sua riluttanza ad abbassare i tassi.

Venerdì, Donald Trump aveva avvertito che era disposto a “licenziare” Lisa Cook se non si fosse dimessa, mentre è accusata da un collaboratore del presidente di aver falsificato dei documenti per ottenere un mutuo immobiliare. Aveva già esercitato pressioni perché la donna afroamericana, la prima a ricoprire la carica di governatrice della Fed, si dimettesse.

Nominata nel 2022 dall’allora presidente Joe Biden (2021-2025), ex collaboratrice di Barack Obama (2009-2017), Lisa Cook è sotto pressione da diversi giorni da parte della Casa Bianca. Il responsabile dell’Agenzia per il finanziamento degli alloggi (FHFA), Bill Pulte, nominato da Trump, l’ha accusata di aver “falsificato documenti bancari e registri di proprietà per ottenere condizioni di prestito favorevoli” per due mutui immobiliari, secondo l’agenzia Bloomberg.

Cook, accusata di aver dichiarato due residenze principali – una nel Michigan (nord) e l’altra in Georgia (sud) – aveva risposto la scorsa settimana in una dichiarazione all’AFP che il suo prestito era stato contratto prima che lei entrasse a far parte della Fed. “Non ho intenzione di lasciarmi intimidire e di dimettermi dal mio incarico”, aveva assicurato. Nella sua lettera, Trump accusa la Cook di aver tenuto “come minimo una condotta che denota grave negligenza nelle transazioni finanziarie, il che solleva interrogativi sulla sua competenza e affidabilità come regolatrice finanziaria”. È la prima volta nella storia della Federal Reserve che un presidente degli Stati Uniti licenzia un governatore, riferisce la CNN.

È probabile che la decisione di Donald Trump sarà rapidamente contestata in tribunale, il che consentirebbe a Lisa Cook di rimanere in carica per tutta la durata del procedimento.

Per la senatrice democratica Elizabeth Warren, si tratta di una “presa di potere autoritaria che viola palesemente la legislazione sulla Federal Reserve”. In un comunicato, ha chiesto che la decisione “sia annullata da un tribunale”. Il presidente repubblicano conservatore ha da settimane Jerome Powell nel mirino. Quest’ultimo si è tuttavia mostrato venerdì aperto a un prossimo taglio dei tassi, al fine di sostenere l’occupazione a causa di un possibile “rapido” deterioramento del mercato del lavoro. Il mandato della Fed è quello di fissare i tassi di interesse in modo tale da mantenere stabile il tasso di inflazione (intorno al 2%) e garantire la piena occupazione. Tuttavia, i dazi doganali introdotti da Donald Trump ad aprile stanno sconvolgendo l’economia. Il presidente americano ha soprannominato Powell “Troppo tardi” perché, secondo lui, avrebbe dovuto abbassare i tassi “un anno fa”, nonostante le pressioni inflazionistiche.

Powell da Jackson Hole apre al taglio dei tassi Usa ma avverte: “Effetti dei dazi già visibili”

Cautela “motivata dai dati”, soprattutto sull’occupazione e sull’inflazione, ma le “condizioni sono cambiate” rispetto ad un anno fa, nonostante “nuove sfide da affrontare”. Tuttavia, “le prospettive di base e il mutevole equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un adeguamento del nostro orientamento di politica monetaria”. Jerome Powell ha scelto il palco più prestigioso della finanza Usa per aprire ad un possibile taglio dei tassi di interesse. Proprio a Jackson Hole, tra i banchieri centrali, in quello che è stato il suo ultimo intervento da governatore della Fed prima della scadenza naturale del suo mandato (maggio 2026). Una delle parole più ricorrenti del suo attesissimo discorso è “incertezza”. Perchè “dazi doganali significativamente più elevati tra i nostri partner commerciali stanno rimodellando il sistema commerciale globale. Una politica migratoria più restrittiva ha portato a un brusco rallentamento della crescita della forza lavoro”. E nel lungo periodo, ha spiegato Powell, anche i cambiamenti nelle politiche fiscali, di spesa e di regolamentazione potrebbero avere “importanti implicazioni per la crescita economica e la produttività”. Insomma, “vi è notevole incertezza su dove tutte queste politiche si stabilizzeranno e sui loro effetti duraturi sull’economia”.

Ricordando che il rapporto sull’occupazione Usa di luglio ha mostrato che la crescita dei posti di lavoro retribuiti è rallentata a un ritmo medio di soli 35.000 al mese negli ultimi tre mesi, in calo rispetto ai 168.000 al mese del 2024, ma che comunque “il tasso di disoccupazione, pur essendo in leggero aumento, si attesta su un livello storicamente basso del 4,2% ed è rimasto sostanzialmente stabile nell’ultimo anno”, il presidente della Fed ha chiarito che i rischi sul mercato del lavoro sono orientati al ribasso. E se tali rischi si concretizzassero, possono farlo rapidamente “sotto forma di un netto aumento dei licenziamenti e della disoccupazione”. Allo stesso tempo, ha spiegato Powell, la crescita del Pil ha subito un notevole rallentamento nella prima metà di quest’anno, attestandosi a un ritmo dell’1,2%, circa la metà del 2,5% previsto per il 2024. Il calo della crescita “ha riflesso in gran parte un rallentamento della spesa dei consumatori”. E come per il mercato del lavoro, parte di questo rallentamento “riflette probabilmente una crescita più lenta dell’offerta o del prodotto potenziale”.

Atteso era anche un riferimento all’impatto dei dazi Usa sull’inflazione americana. A tal riguardo, Powell ha confermato che gli “effetti sui prezzi al consumo sono ormai chiaramente visibili”: “Prevediamo che tali effetti si accumuleranno nei prossimi mesi, con elevata incertezza su tempi e importi. La questione fondamentale per la politica monetaria è se questi aumenti dei prezzi possano aumentare significativamente il rischio di un problema di inflazione persistente. Uno scenario di base ragionevole prevede che gli effetti saranno relativamente di breve durata: una variazione una tantum del livello dei prezzi. Naturalmente, una tantum non significa tutto in una volta. Ci vorrà ancora tempo prima che gli aumenti tariffari si diffondano lungo le catene di approvvigionamento e le reti di distribuzione. Inoltre, le aliquote tariffarie continuano a evolversi, prolungando potenzialmente il processo di aggiustamento”.

Proprio l’inflazione è uno dei due pilastri su cui si basano le mosse della Fed. Anche qui, Powell ha lanciato il proprio monito: l’aumento delle tariffe ha iniziato a far salire i prezzi in alcune categorie di beni. Le stime basate sugli ultimi dati disponibili indicano che i prezzi totali delle spese per consumi personali (Pce) sono aumentati del 2,6% annuale (a luglio). Escludendo le categorie volatili di cibo ed energia, l’indice core Pce è aumentato del 2,9%, al di sopra del livello di un anno fa. L’inflazione “è al di sopra del nostro obiettivo da oltre quattro anni” e “rimane una preoccupazione importante per famiglie e imprese”. Tuttavia, le aspettative a lungo termine sembrano rimanere ben ancorate e coerenti con il nostro obiettivo del 2%. Considerato tutto questo, Powell ha infine aperto alla possibilità di un futuro taglio dei tassi di interesse. Senza però indicare tempi ed entità, visto che prima della prossima riunione della Fed (16-17 settembre) usciranno gli ultimi dati sull’occupazione e sull’inflazione di agosto. Nel breve termine, ha spiegato il governatore della Fed, “i rischi per l’inflazione sono orientati al rialzo e i rischi per l’occupazione al ribasso: una situazione difficile. Quando i nostri obiettivi sono in tensione in questo modo, il nostro quadro di riferimento ci impone di bilanciare entrambi i lati del nostro doppio mandato. Il nostro tasso di riferimento è ora di 100 punti base più vicino alla neutralità rispetto a un anno fa, e la stabilità del tasso di disoccupazione e di altri indicatori del mercato del lavoro ci consente di procedere con cautela nel valutare modifiche al nostro orientamento di politica monetaria”. Tuttavia, “con la politica monetaria in territorio restrittivo, le prospettive di base e il mutevole equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un adeguamento del nostro orientamento di politica monetaria”.

Una risposta indiretta alle pressioni del presidente Usa, Donald Trump, che da mesi non usa mezzi termini e, anzi, non ha risparmiato insulti a Powell, ‘colpevole’ di non aver agito più rapidamente nel tagliare i tassi. Proprio mentre era in corso il discorso a Jackson Hole, il tycoon ha alzato il tiro contro Lisa Cook, membro del board dei governatori della Fed, accusata dal direttore della Federal Housing Finance Agency di aver “falsificato i documenti per ottenere condizioni di prestito più favorevoli per due immobili”: “Se Cook non si dimette la licenzierò io” ha dichiarato Trump davanti ai giornalisti, a Washington.

Nel frattempo Wall Street esulta. Alle 17:30 il Dow Jones saliva di oltre il 2%, il Nasdaq guadagnava l’1,96% e l’S&P 500 segnava un +1,6%.

Tra rassicurazioni ai mercati e pressioni di Trump, Powell in bilico a Jackson Hole

Dare prospettive ai mercati pur mostrandosi insensibile alle crescenti pressioni provenienti da Donald Trump: è questa la linea di condotta che dovrà seguire venerdì il presidente della Fed, Jerome Powell, durante un discorso molto atteso. Se il presidente della Federal Reserve (Fed), che dovrà intervenire agli incontri di Jackson Hole, nel Wyoming, non si impegna mai in modo definitivo su una tendenza, uno dei suoi compiti è quello di gestire le aspettative dei mercati, indicando in quale direzione potrebbero andare le prossime decisioni della banca centrale. E in questo caso, la possibilità di un taglio dei tassi durante la riunione prevista a metà settembre, dopo averli mantenuti invariati da dicembre, è ampiamente attesa dagli analisti, secondo lo strumento di monitoraggio CME, FedWatch.

Tuttavia, finora né la conferenza stampa di Powell al termine della riunione di fine luglio né i “verbali” della Fed pubblicati mercoledì hanno fornito alcuna indicazione in tal senso. “Trovo sorprendente che i mercati abbiano tanta fiducia” in un prossimo taglio dei tassi, ha osservato Tim Urbanowicz, analista di Innovator Capital Management, intervistato dall’AFP. “Penso che ciò sia dovuto principalmente al fatto che (Donald) Trump ha ribadito di volere che la Fed abbassi i tassi. Sta esercitando una pressione enorme su Powell”.

Prima ancora del suo ritorno alla Casa Bianca, il presidente americano aveva sostenuto che i tassi della Fed, attualmente compresi tra il 4,25% e il 4,50%, fossero troppo elevati. Una convinzione che si è rafforzata negli ultimi mesi, durante i quali Donald Trump ha chiesto alla Fed di abbassare i tassi di tre punti percentuali, ritenendo che Powell, da lui soprannominato “Troppo lento”, non stesse facendo ciò che era necessario. A suo avviso, un taglio dei tassi consentirebbe di sostenere la sua politica economica, in particolare i dazi doganali e la riduzione delle tasse per i più ricchi, aumentando l’accesso al credito. “Qualcuno potrebbe dire a ‘Troppo lento’ Powell che sta danneggiando il settore delle costruzioni? La gente non ha più accesso ai mutui immobiliari, tutto indica la necessità di un calo significativo dei tassi. ‘Troppo lento’ è un disastro“, ha scritto nuovamente martedì sera Donald Trump sul suo account Truth Social. Senza successo, tuttavia, finora: nonostante gli attacchi sempre più virulenti, Jerome Powell si è mostrato imperturbabile, ripetendo ogni volta che le decisioni dell’istituzione devono essere basate innanzitutto sui dati economici.

Ma alla fine di luglio sono emerse divisioni tra i membri del Comitato di politica monetaria della Fed (FOMC), con due voci a favore di un taglio dei tassi. Per Michelle Bowman e Christopher Waller, entrambi nominati, come Jerome Powell, da Donald Trump durante il suo primo mandato, l’impatto dei dazi sui prezzi è transitorio, mentre l’economia rallenta e il rischio di un deterioramento del mercato del lavoro si è rafforzato. La Fed ha però una duplice missione, di pari importanza: mantenere l’inflazione a lungo termine il più possibile vicina al suo obiettivo del 2% e garantire la piena occupazione. In questo contesto, sarà particolarmente seguito il discorso di apertura delle riunioni di Jackson Hole di Powell, l’ultimo prima che lasci la presidenza della Fed il prossimo maggio.

Gli analisti cercheranno in particolare qualsiasi indicazione che dimostri un cambiamento nell’equilibrio dei rischi tra inflazione e disoccupazione da parte dell’istituzione, che sarebbe un segnale di un possibile riorientamento della politica monetaria.

Gli ultimi mesi alla guida dell’istituzione si preannunciano complicati per Powell, mentre Donald Trump rafforza il suo controllo sull’istituzione. Il presidente ha già nominato nel Comitato di politica monetaria della Fed uno dei suoi più stretti consiglieri economici, Stephen Miran, che deve ancora essere confermato dal Senato, dopo le dimissioni di un’altra responsabile della Fed, Adriana Kugler. Mercoledì Trump ha attaccato un’altra responsabile, Lisa Cook, la prima donna afroamericana ad essere nominata alla prestigiosa carica di governatrice (nel 2022 da Joe Biden), chiedendone le dimissioni dopo che un collaboratore del presidente l’ha accusata di aver falsificato dei documenti per ottenere un mutuo immobiliare. Nel mirino, la scelta del successore di Jerome Powell, per la quale vengono regolarmente citati altri vicini di Donald Trump, in particolare il suo principale consigliere economico Kevin Hassett.

Se dalla casa al terziario la crescita Usa perde tutto il suo slancio

I recenti dati economici provenienti dagli Stati Uniti mostrano segnali di rallentamento della crescita, suggerendo che l’economia americana stia perdendo slancio dopo mesi di performance positive. A febbraio, l’indice dell’attività manifatturiera della Fed di Dallas ha subito un netto calo, scendendo di 22 punti a -8,3, rispetto al picco di 14,1 di gennaio. Un altro indicatore chiave, l’indice delle prospettive aziendali, è diminuito di 24 punti, registrando un valore di -5,2, mentre l’incertezza sulle prospettive future ha toccato il massimo dei sette mesi, salendo a 29,2. Il settore manifatturiero continua a mostrare debolezza, con l’indice di produzione che è sceso a -9,1, un segno evidente di difficoltà nella produzione statunitense. Tuttavia, i prezzi delle materie prime e dei prodotti finiti sono aumentati, suggerendo una certa pressione sui costi.

A livello nazionale, il Chicago Fed National Activity Index è sceso a -0,03 a gennaio, in calo rispetto al dato rivisitato di dicembre (0,18), indicando una contrazione nell’attività economica complessiva. In particolare, la categoria dei consumi personali e abitazioni ha contribuito negativamente con -0,14, un ulteriore segno di rallentamento nei consumi.

Un altro dato significativo è arrivato la scorsa settimana dall’indice Pmi dei servizi, che a febbraio è sceso sotto la soglia di espansione, registrando 49,7 rispetto ai 52,9 di gennaio. Questa è la prima contrazione dell’attività del settore dei servizi in oltre due anni, un indicatore che evidenzia una perdita di slancio in un settore chiave per l’economia statunitense.

Anche le vendite di case esistenti hanno subito una flessione del 4,9% a gennaio, il calo più marcato in sette mesi, scendendo a un tasso annualizzato di 4,08 milioni. Questo segna un indebolimento nel mercato immobiliare, con un prezzo medio di vendita sceso dell’1,9% rispetto al mese precedente. L’aumento delle scorte di case invendute, che sono passate a 3,9 mesi di fornitura, aggiunge ulteriori preoccupazioni.

Il rallentamento però non sembra andare di pari passo con una discesa dei prezzi. Infatti anche l’inflazione preoccupa, con le aspettative dei consumatori riguardo all’andamento dei prezzi aumentate al 4,3% per il 2025, il valore più alto dal novembre 2023. A lungo termine, le aspettative di inflazione sono salite al 3,5%, il più grande aumento mese su mese dal maggio 2021. E questi rialzi hanno avuto impatti negativi sul sentiment dei consumatori, con un crollo del 19% nelle condizioni di acquisto di beni durevoli, in parte dovuto ai timori legati all’innalzamento dei prezzi causato dai dazi.

In mezzo a questo scenario incerto, il presidente della Fed di Atlanta, Raphael Bostic, ha sottolineato nel suo blog come la politica economica degli Stati Uniti sia sempre più influenzata da un clima di incertezza. Le preoccupazioni per le politiche fiscali, commerciali e di immigrazione, insieme alle fluttuazioni dei mercati, stanno creando un ambiente di decisioni difficili per i responsabili politici. Un ritornello simile a quello degli altri banchieri centrali della Fed, i quali pur rimanendo ottimisti sulla posizione economica, hanno espresso cautela, facendo riferimento alla difficoltà di prevedere gli effetti di eventuali cambiamenti nelle politiche economiche. Il termine “incertezza” è ormai ricorrente nelle dichiarazioni ufficiali, e i verbali dell’ultimo incontro della Fed evidenziano preoccupazioni sulla portata e sull’impatto dei cambiamenti nelle politiche commerciali e fiscali.

La Fed dunque sembra voler stare ferma sui tassi in attesa di capire l’effetto che avranno le politiche di Donald Trump, a partire dai dazi. Wall Street ha capito l’antifona e da tre sedute zoppica.

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L’inflazione risale e per la Fed il taglio dei tassi diventa un rebus

L’inflazione non molla negli Usa disorientando ulteriormente la Fed che invece ha iniziato un percorso di riduzione tassi. Secondo i dati del Dipartimento del Commercio americano, l’indice dei prezzi delle spese per consumi personali (Pce), il principale indicatore di inflazione secondo la Federal Reserve, ha registrato un tasso annuale del 2,3%. Un dato in linea con le previsioni di consenso, ma superiore al 2,1% di settembre. Escludendo cibo ed energia, la cosiddetta inflazione ‘core’ ha mostrato segnali ancora più marcati, con un incremento mensile dello 0,3% e un tasso annuale del 2,8%. Entrambi i numeri sono risultati conformi alle aspettative e superiori a quelli del mese precedente. A guidare l’aumento del carovita sono stati i prezzi dei servizi, che sono saliti dello 0,4%, mentre i prezzi dei beni sono scesi dello 0,1%. I costi energetici sono diminuiti dello 0,1%, mentre quelli alimentari sono rimasti sostanzialmente invariati.

Nonostante il lieve aumento dell’inflazione complessiva, i mercati hanno reagito con una previsione positiva di nuovi tagli ai tassi da parte della Fed, con il 66% degli operatori che puntano a una riduzione di un quarto di punto percentuale già a dicembre, secondo i dati del Cme Group, nonostante l’inflazione sia ancora lontana dall’obiettivo del 2% fissato dalla Fed. I dati suggeriscono che, sebbene l’inflazione sia rallentata rispetto ai picchi registrati nel 2022, il costo della vita rimane un problema importante, soprattutto per le famiglie con redditi più bassi. Nonostante un rallentamento rispetto ai tassi di crescita rapidi del 2022, gli effetti cumulativi dell’inflazione continuano a incidere pesantemente sui consumatori, tema fra l’altro centrale nella recente campagna elettorale per le presidenziali Usa. E in effetti c’è stato un incremento delle spese correnti dello 0,4% a ottobre, ma il ritmo di crescita ha mostrato un lieve rallentamento rispetto a settembre. Eppure il reddito personale è salito dello 0,6%, ben oltre le stime degli analisti, però il tasso di risparmio è sceso al 4,4%, il livello più basso dall’inizio del 2023. Segno dunque che i prezzi mangiano i guadagni.

Sebbene la Federal Reserve abbia avviato una serie di aumenti dei tassi di interesse per contenere l’inflazione, gli analisti restano così divisi su quanti ulteriori interventi saranno necessari. A settembre e novembre, la Fed ha già ridotto i tassi di interesse per un totale di tre quarti di punto percentuale, e i funzionari continuano a seguire attentamente i segnali economici, mantenendo un atteggiamento cautamente ottimista riguardo al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione del 2%. I numeri però stanno andando in un’altra direzione, senza contare che – secondo Goldman Sachs – l’effetto Trump sui dazi potrebbe valere un +1% dell’inflazione. L’atterraggio morbido, teorizzato dalla Federal Reserve, non è ancora così morbido…

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Se la manifattura è debole… il petrolio (forse) sta peggio

Una manifattura debole in mezzo mondo, dagli Usa alla Cina passando per l’Europa, e le voci insistenti di un possibile aumento della produzione dei Paesi Opec hanno sgonfiato i prezzi del petrolio, che rivedono i minimi da un anno. Nemmeno l’attacco ad opera degli Houthi nello Yemen a una petroliera saudita ha ravvivato gli acquisti. Anzi, proprio l’assenza di smentite del club di Vienna, dove ha sede l’organizzazione internazionale degli Stati esportatori di greggio, su un cambio di rotta della politica di tagli alla produzione (comunque non del tutto rispettata) che prosegue da un paio di anni, ha fatto peggiorare le quotazione di Wti texano e Brent europeo, i quali lasciano sul terreno circa il 4%, col primo che scivola a 70,6 e il secondo a 74,2 dollari al barile.

Venerdì la Reuters ha rilanciato sei fonti dell’Opec+ che inizieranno ad allentare i tagli alla produzione a partire da ottobre. Se l’organizzazione decidesse di avviare il processo di incremento della produzione a ottobre, ciò sarebbe ampiamente compensato dalle significative perdite nella produzione di petrolio della Libia, membro dell’Opec, iniziate la scorsa settimana. Finora, la produzione della Libia ha visto un -700.000 barili al giorno per la chiusura dei giacimenti petroliferi da parte del governo orientale della Libia. Un calo che offre all’Opec+ un po’ di margine agli altri membri per iniziare il lento processo di aumento della produzione di greggio senza alterare il numero complessivo di barili che entrano nel mercato. Sarebbero 8 i Paesi membri dell’Opec+ pronti a pompare 180.000 barili al giorno in più a ottobre come parte del piano esistente del gruppo per annullare i 2,2 milioni di barili al giorno di tagli volontari.

Certo è che, al di là della battaglia per il controllo del mercato petrolifero tra Opec e Paesi non Opec (dagli Usa alla Guyana), sono anche i dati economici a indicare un rallentamento della manifattura e di conseguenza della domanda di greggio. I prezzi sono stati appesantiti infatti dagli ultimi dati economici dalla Cina, che hanno mostrato che l’attività delle fabbriche continua a contrarsi, con l’indice ufficiale dei direttori degli acquisti dell’Ufficio nazionale di statistica che ha mostrato come l’attività manifatturiera di Pechino si sia contratta per il quarto mese consecutivo ad agosto, raggiungendo il  valore più basso degli ultimi sei mesi.

In Europa, Francia e Germania continuano a navigare all’interno di una profonda fase di contrazione come hanno testimoniato ieri gli indici Pmi industriali. E oggi pomeriggio l’indice Ism manifatturiero americano è risalito leggermente a 47,2 ad agosto, dal minimo di novembre 2023 di 46,8 registrato a luglio, ma è risultato inferiore alle stime di mercato di 47,5, segnalando così la 21esima contrazione mensile dell’attività manifatturiera statunitense negli ultimi 22 mesi. Quinto ribasso di fila.
La Federal Reserve e la Bce taglieranno i tassi nelle prossime settimane per allentare la pressione e non deprimere ulteriormente la domanda. Da vedere se non sia troppo tardi.

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Argento al top da 11 anni e le commodity fanno risalire inflazione industriale

Oro, argento e rame sembrano ‘prendere fuoco’. Continua il rally delle commodity nonostante dalla Fed si mantenga una linea aggressiva sulla politica monetaria, che potrebbe non contemplare alcun taglio dei tassi nel 2024 a causa di una inflazione ben sopra il 3%. Un’inflazione che rischia addirittura di salire proprio per il rally delle materie prime, scattato negli ultimi due mesi. Infatti i dati provenienti da due grandi Paesi leader nelle materie prime non lasciano intravvedere una frenata dei rincari.

I prezzi alla produzione industriale in Canada sono aumentati dell’1,5% mensile ad aprile, al di sopra delle previsioni di mercato dello 0,8% per raggiungere un nuovo massimo di 8 mesi, dopo il +0,9% rivisto al rialzo del mese precedente. Questo aumento è stato determinato dai costi più elevati dei prodotti primari di metalli non ferrosi (+8,3%), vale a dire argento greggio e leghe d’argento (+13,5%) e oro greggio e leghe d’oro (+9,1%), poiché le tensioni geopolitiche hanno avuto un impatto sulla prezzi dei metalli preziosi in aprile. Inoltre, i prezzi sono cresciuti per i metalli industriali, in particolare rame greggio e leghe di rame (+10,3%) e rame e leghe di alluminio (+7,4%), guidati dalla crescita della produzione in Cina. E in Brasile i prezzi alla produzione sono aumentati dello 0,74% rispetto al mese precedente ad aprile, il terzo aumento consecutivo e al ritmo più forte dall’ottobre 2023, in linea con l’opinione della banca centrale secondo cui la tendenza crescente dei prezzi delle materie prime globali può sostenere la pressione inflazionistica nel paese. I costi alla produzione dei beni d’investimento sono saliti dell’1,16%, mentre i prezzi dei produttori di beni intermedi sono aumentati dello 0,59% e quelli dei produttori di beni di consumo dello 0,89%.

Il prezzo dell’argento sale del 5,2% a 32 dollari l’oncia al massimo di 11 anni e continuando a sovraperformare i prezzi di riferimento dell’oro – che sale dell’1% a 2,358 dollari per oncia – poiché il contesto macroeconomico favorevole per i metalli preziosi ha aggravato l’acquisto fisico di argento per usi industriali. La domanda di pannelli solari in un contesto di volatilità dei prezzi dell’energia elettrica in tutto il mondo ha sostenuto la domanda industriale di argento, riflessa dalle azioni solari scambiate ai massimi da inizio anno. I forti guadagni dell’argento arrivano anche in un contesto di notizie di una più forte domanda cinese di argento.

Per sottolineare l’aumento della domanda globale di metalli, il broker SP Angel ha riferito che uno studio dell’Università del Michigan ha affermato che la quantità di rame necessaria per i veicoli elettrici è “impossibile da produrre per le società minerarie”. Lo studio ha evidenziato la sfida critica rappresentata dall’insufficiente produzione di rame per la transizione globale ai veicoli elettrici, affermando che la quantità di rame necessaria per i veicoli elettrici è “sostanzialmente impossibile da produrre per le società minerarie”. Un veicolo elettrico richiede da tre a cinque volte più rame rispetto alle tradizionali auto a gas o diesel. Lo studio ha analizzato 120 anni di dati sulla produzione globale di rame e ha modellato la produzione futura rispetto al fabbisogno di rame previsto per le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. Lo studio ha concluso che il fabbisogno di rame delle energie rinnovabili supera l’attuale capacità di produzione. Risultato finale: il rame sale del 2%, tornando a 10.500 dollari per tonnellata. Non è record, ma poco ci manca. Così come puntano ad altre vette i prezzi di alluminio, platino, e zinco. Tutti legati alla transizione, tutti con rialzi intorno al 2 per cento.

Usa, l’inflazione cala e Fed si ferma sui tassi. La Bce no…

L’inflazione cala, poco, negli Usa, lasciando presagire una pausa della Federal Reserve nell’aumento dei tassi a giugno. In Europa invece, col costo del denaro al 3,75% contro il 5,25% statunitense, la stretta è destinata a continuare, emerge leggendo l’intervista di Christine Lagarde al giapponese Nikkei. La forbice tra i due continenti sulla politica monetaria potrebbe prendere due strade distinte, se i dati sui prezzi alla produzione industriale Usa, in uscita domani, confermeranno il raffreddamento delle fiammate inflattive.

Ad aprile l’inflazione a stelle e strisce è salita dello 0,4% mensile e del 4,9% annuale. Le stime erano per un +0,4% mensile, confermate, e per un 5% annuale, quindi sotto le attese. I prezzi al consumo sono leggermente scesi, a livello tendenziale, rispetto al dato di marzo (5%), mentre sono saliti a livello congiunturale (+0,1% nel mese precedente). L’indice shelter, legato a tutto quello che ruota attorno alla casa, è stato quello che ha fornito il contributo maggiore all’aumento mensile di tutti gli articoli, seguito dagli incrementi dell’indice di auto e autocarri usati, e a quello della benzina. L’aumento di quest’ultimo ha compensato il calo degli altri indici dei componenti energetici, così l’indice energetico è salito dello 0,6% ad aprile. L’indice di tutti gli articoli è appunto aumentato del 4,9% annuale, l’incremento più piccolo da maggio 2021. L’indice core, che esclude cibo ed energia, è invece cresciuto mensilmente dello 0,4% ad aprile come a marzo. Anno su anno è salito del 5,5%, stabile nei confronti del dato precedente. A livello tendenziale l’indice energetico è diminuito del 5,1% mentre quello alimentare è aumentato del 7,7%. In ogni caso cibo ed energia sono le voci che hanno fatto diminuire l’indice complessivo.

“Le nostre valutazioni sono che i dati sulle pressioni inflazionistiche mostrano un lieve miglioramento ma soprattutto non registrano sorprese negative che avrebbero potuto portare argomentazioni ai membri più falchi all’interno della commissione operativa della Federal Reserve per effettuare ancora un rialzo del costo del denaro nella prossima riunione di giugno”, sottolinea Filippo Diodovich, Senior Market Strategist di IG Italia, che aggiunge: “Riteniamo, infatti, che la Fed possa decidere di fare una pausa nel processo di rialzo dei tassi di interesse, esaminando così ancora più attentamente gli effetti delle politiche monetarie portate avanti negli ultimi mesi sull’economia reale in particolare su inflazione, occupazione, crescita delle attività economiche e salari dei lavoratori. Solamente dati fuori dalla norma nel prossimo report sul mondo del lavoro sulla crescita dei salari dei lavoratori potrebbe convincere i banchieri centrali ad applicare un nuovo rialzo”.

Tutt’altra musica nell’eurozona. “Siamo determinati a domare l’inflazione e riportarla al nostro obiettivo a medio termine del 2% in modo tempestivo”, ha detto a Nikkei la presidente della Bce, Christine Lagarde. “Abbiamo già intrapreso un’azione politica considerevole per farlo, ma c’è ancora molto terreno da percorrere”. “Ci sono fattori che possono indurre significativi rischi al rialzo per le prospettive di inflazione. E siamo ancora in una situazione in cui l’incertezza sul percorso dell’inflazione è elevata, quindi dobbiamo essere estremamente attenti a quei potenziali rischi, il cui elenco esatto troverete nella nostra ultima dichiarazione di politica monetaria, in particolare in relazione all’aumento dei salari in vari Paesi europei”, ha continuato la numero uno dell’Eurotower. La Bce poteva alzare i tassi prima? “Possibile. Avrebbe fatto una differenza enorme? Probabilmente no”, ha aggiunto Lagarde. “Quello che so è che siamo determinati a domare l’inflazione, per riportarlo al nostro obiettivo a medio termine del 2 per cento in modo tempestivo e abbiamo già effettuato un aggiustamento considerevole. Ma abbiamo ancora più terreno da percorrere”.