Addio a Benedetto XVI. Il ‘Papa verde’ denunciò la Terra ferita per fame di energia

Ci sono molti modi di cercare Dio. Si dice che quando abbia preso possesso degli appartamenti di Castel Gandolfo, dopo la morte di Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI abbia fatto spostare il letto della stanza. Lo fece posizionare in modo che la prima cosa che vedesse al risveglio fossero i colli e il lago.
Il Papa bavarese, morto oggi dopo che nei gironi scorsi le sue condizioni si erano aggravate, aveva un rapporto strettissimo con la natura, con la montagna in particolare. I suoi discorsi sull’ambiente gli valsero il soprannome di ‘Papa verde’. A contatto con la natura, diceva, la persona ritrova la sua giusta dimensione, “si riscopre creatura, piccola ma al tempo stesso unica, ‘capace di Dio’ perché interiormente aperta all’Infinito”.
Con la natura, sosteneva Joseph Ratzinger, l’uomo “percepisce nel mondo l’impronta della bontà, della bellezza e della provvidenza divina e quasi naturalmente si apre alla lode e alla preghiera”.
L’1 luglio del 2007, nel discorso di saluto al nuovo ambasciatore d’Islanda presso la Santa Sede, pronunciò parole profetiche, denunciando la “fame di energia” dei Paesi industrializzati, che depaupera le risorse della Terra, determinando uno “sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, con l’illusione che esso sia a piacimento e a tempo indeterminato”.
“Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali?”, ammoniva nel Messaggio per la Giornata per la Pace 2010, dedicato all’ambiente, in coincidenza con la conferenza dell’Onu di Copenaghen. Sono tutte questioni, osservava il Pontefice, che hanno un “profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo”. In quella occasione, tra i primi, parlò di profughi ambientali: “persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare, spesso insieme ai loro beni, per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato”.
L’abuso ‘politico’ del pianeta e dell’ambiente, avvertiva Ratzinger, minaccia l’umanità tanto quanto le guerre e il terrorismo: “Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale (guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani), non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza, se non addirittura dall’abuso, nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito”.
Se si vuole coltivare la pace, è necessario custodire il Creato, confermava poi nell’enciclica ‘Caritas in Veritate’. Nella lettera individuò un legame stretto tra lo sviluppo umano integrale e i doveri del rapporto dell’uomo con la natura, il cui uso comporta, scriveva, una “comune responsabilità verso l’umanità intera e specialmente i poveri e le generazioni future”. E richiamava l’umanità a rivedere profondamente e in modo lungimirante il modello di sviluppo, riflettere sul senso dell’economia, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni: “Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo”.
Anche la Chiesa, era convinto, è chiamata a fare la sua parte dal momento che “ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso”.

Balzan (ARB): L’impatto zero non esiste, ecco il metodo per essere sostenibili

Ada Rosa Balzan (nella foto) è sociologa ambientale, docente per numerose università e business school, nonché fondatrice di Arb, società benefit per azioni in grado di misurare la sostenibilità. In poche parole, è una delle maggiori esperte italiane sui temi della sostenibilità e il suo ultimo libro ‘L’impatto zero non esiste’ (Este libri, 207 pp, 20 euro) è una vera e propria bussola, rivolta soprattutto a imprenditori e manager, per orientarsi nell’economia presente e futura basandosi su un metodo scientifico a 360 gradi.
Nel volume finalmente si fa chiarezza su una parola, sostenibilità, che è entrata nel vocabolario quotidiano ma che talvolta è travisata, o per meglio dire utilizzata in modo limitante, come racconta l’autrice a GEA.

Dottoressa, servirà un salto culturale per passare dall’estemporaneità di singole azioni, anche virtuose, a un approccio, come sostiene lei, scientifico?
Serve una cultura della sostenibilità, che sembra una parola astratta ma è uno strumento di gestione dell’azienda. Intanto bisogna dire che cos’è. Primo non c’è solo l’aspetto green, sarebbe riduttivo. Mi spiego meglio con un altra parola: biologico. Può essere sostenibile, ma anche no. Biologico è solo inerente la procedura che si deve rispettare per arrivare a certificare il prodotto come tale, ma se manca l’aspetto sociale, ad esempio faccio lavorare persone in nero, il prodotto è biologico ma non sostenibile. Quindi sostenibilità include sempre aspetti sociali, di gestione aziendale e l’ambiente”.

Il titolo del libro, scritto da una sociologa ambientale, è forte se pensiamo a come l’argomento green sia diventato quasi politicizzato…
Ma è così. Ogni nostra azione produce un impatto ambientale, sociale, e sulla governance. Io magari butto la bottiglia di plastica nel cestino, tuttavia se non c’è un sistema che valorizza il recupero della plastica, si ferma il valore della sostenibilità. Serve un’ottica a 360 gradi che guardi all’ambiente, al territorio, a come si trattano i lavoratori. Abbiamo fatto campagne ‘plastic free’ prima del Covid, facendo passare il messaggio che se avessimo levato la plastica avremmo risolto i problemi mondiale dell’ambiente, e poi siamo andati al monouso per la tutela della nostra salute, soprattutto nella sanità, penso al materiale presente in sala operatoria o alle sacche ematiche, è quasi tutto monouso. Non si possono generalizzare e appiattire temi del genere, riducendoli a uno slogan ma studiare e analizzare ogni aspetto. Torno a ribadire l’importanza di fare cultura della sostenibilità, un contenitore di plastica non arriva in autonomia sul marciapiede ma qualcuno lo ha gettato. Anche quando sentiamo dire ‘Salviamo il pianeta’ per cui dobbiamo riuscire a non far alzare ulteriormente le temperature, c’è qualcosa che non va nell’impostazione del messaggio stesso, stiamo dando un’informazione sbagliata: se la temperatura aumentasse o diminuisse anche di 20 gradi, il pianeta ci sarebbe lo stesso, non gli esseri umani. Siamo noi che ci estinguiamo”.

Nel libro sostiene che c’è un nesso tra rispetto dei criteri Esg e buone performance economiche. E lei cita una decina di casi aziendali. Ma è sempre così?
Guardi, Banca d’Italia, nel maggio 2019, nel sostenere la necessità di dare valore a investimenti sostenibili, citò 2.220 ricerche accademiche che dimostrano la diretta correlazione fra rispetto dei criteri Esg e performance economica. C’è un altro passaggio poco conosciuto dai più: la sostenibilità è analisi e misurazione dei rischi. Quando facciamo l’analisi con SI rating portiamo spesso a evidenza cose che l’imprenditore non sapeva o sottovalutava. Se riconosci i pericoli, sbagli meno e dunque migliori il risultato aziendale”.

Nel libro parla di quattro C: capire, costruire, concretizzare, comunicare. È questo il percorso da fare?
Il nostro algoritmo indica la strada che una azienda deve poter fare. Otto volte su 10 nelle aziende con cui ci confrontiamo, mi dicono ‘non pensavo che fosse anche un tema sociale’ la sostenibilità. Si inizia dunque col capire, col conoscere il perimetro in cui muoversi e le parole chiave tipo neutralità climatica, tassonomia europea, ad esempio per la parte ambientale. Poi entriamo nei temi sociali e quindi welfare personalizzato, parità di genere. E nel costruire mettiamo a terra come applicare ad esempio un sistema di gestione ambientale-sociale. Esempio: valutando se si può utilizzare una materia prima recuperata o usarne semplicemente meno o invece di un certo prodotto, se ne può utilizzare uno simile magari realizzato da un laboratorio di ragazzi disabili della zona… In 3 microparagrafi cerchiamo di dare una cassetta degli attrezzi per imprenditori e manager, che col libro possono farsi un’idea di come concretizzare la sostenibilità nella propria realtà. Solo dopo questo percorso si può comunicare“.

Il tema sostenibilità è stato forse un po’ ideologizzato e qualcuno non l’ha compreso e per questo prova a combatterlo?
Non deve infatti diventare una ideologia, ma deve essere un nuovo paradigma dell’economia e della sua evoluzione. Crescita e quantità non funzionano più per un problema di ipergestione della produzione, meglio invece produzione minore ma di qualità. Torniamo al significato delle parole: qualità e non quantità, sviluppo e non crescita. Non si parla più di profitto ma di prosperità, cioè di un qualcosa che ricade su tutti gli stakeholder”.

Lei aveva capito tutto negli anni ’90 culminato con una tesi sul turismo sostenibile a Sociologia a Trento. Un lavoro che – come racconta nel libro – era stato apprezzato dai docenti, che però le dissero: di questa tesi non se ne farà niente. Adesso si sta prendendo numerose rivincite, vede anche il resto del sistema economico sulla retta via o siamo ancora lontani?
C’è stata una accelerazione con il Covid. Fino a 6 anni fa, quando ho fondato la mia start up innovativa, mi dicevano: ‘Algoritmo per calcolare la sostenibilità????’… Infatti mi sono autofinanziata. Ora però la sostenibilità a 360 gradi, non è più ‘nice to have’, ma ‘must to have’. Il Pnrr dà e darà una grande spinta, con i suoi obiettivi, e un grande contributo arriva dalla finanza: anche nel mondo bancario-finanziario si finanziano sempre più solo progetti sostenibili perché hanno maggiore contezza dei rischi”.

A Roma si accende l’albero di Natale ‘green’ ma è polemica: Pannelli deturpano paesaggio

Non c’è pace per l’albero di Natale di piazza Venezia a Roma, sempre al centro delle polemiche. E se per molti il ricordo corre all’abete della Val di Fiemme che arrivò già spoglio e agonizzante, guadagnandosi il soprannome di ‘Spelacchio’ e un titolo sul Guardian che lo ribattezzò ‘toilet brush’, quest’anno lo scontro è sull’alimentazione. Perché, al passo con i tempi, l’albero si illumina a risparmio energetico, con un impianto fotovoltaico per ridurre i consumi.
È stato acceso giovedì 8 dicembre, alimentato dall’impianto da 16 kWp, con accumulo di energia attraverso batterie agli ioni di litio da 25 kWh. Un sistema che consente un risparmio atteso di 27 kWh al giorno e che fornirà l’eventuale energia eccedente direttamente alla rete di distribuzione. Il taglio delle emissioni di CO2 si stima in 17,55 kg al giorno che, per tutta la durata dell’illuminazione, equivalgono a 526 kg di CO2.
“Il messaggio che intendiamo lanciare anche per queste festività – osserva il sindaco di Roma, Roberto Gualtieriè che bastano gesti semplici per fare la differenza. Una scelta forte, innovativa che non è solo simbolica ma che vuole rappresentare l’impegno di Roma nel promuovere con forza una cultura della sostenibilità, anche tenendo conto del delicato momento storico internazionale legato alla guerra in Ucraina e al protrarsi di una pesante crisi energetica. Rispetto dell’ambiente, risparmio energetico, pace: celebriamo questo Natale illuminando la piazza e la via più importante della città con un messaggio di fiducia e speranza verso un futuro sostenibile e solidale”.

Un gesto che voleva essere al tempo stesso concreto e simbolico, ma non compreso da tutti. Secondo il consigliere comunale leghista Daniele Giannini, i pannelli fotovoltaici deturperebbero la bellezza della piazza: “Dopo Spelacchio arriva ‘Fotovoltacchio'”, afferma, chiedendo: “Dov’è finita la vera magia del Natale romano? Possibile che la Capitale d’Italia non possa avere un abete degno e bello come le altre più grandi metropoli del pianeta?”.
Per il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, si tratta di “una finta battaglia ambientalista, diseducativa. Un’idea alla Greta Thunberg…come se bastasse mettere lì due pannelli per quattro palle mentre al Gianicolo, davanti alla Fontana dell’Acqua Paola, sostano i compattatori dell’Ama”.
Il critico d’arte si è rivolto alla Sovrintendenza perché, spiega, “questi pannelli non sono autorizzati e per il suolo pubblico occorre avere un’autorizzazione”. Da sempre, Sgarbi è contrario al fotovoltaico e all’eolico: “Le ritengo forme di pornografia rispetto all’Italia, però tutto questo è una mia posizione che ho fatto diventare anche istituzionale e ne faccio una battaglia in difesa del paesaggio”. E conclude sottolineando come sia “tutto sbagliato. È sbagliato rispetto al paesaggio, è sbagliato rispetto al luogo perché lo contamina. È sbagliato rispetto a un messaggio simbolico, quindi un messaggio che dà l’idea che quello è il bene, ed è sbagliato sul piano estetico”.

Credits photo: Imagoeconomica

I consigli di Legambiente per un Natale 2022 ecosostenibile

È iniziato il conto alla rovescia per il Natale e, di conseguenza, la corsa ai regali. Ma come fare per vivere un 25 diccembre ecosostenibile? I suggerimenti arrivano da Legambiente che ha stilato una serie di consigli e accorgimenti che contribuiscono a dare alle festività un‘impronta più eco-friendly, dagli addobbi alla tavola, dal cibo alla scelta dei doni. Per quest’ultimo punto l’associazione propone le sue confezioni di prodotti coltivati nei terreni confiscati alle mafie, il cui ricavato va a sostegno delle attività di salvaguardia delle specie a rischio e minacciate nelle aree di Legambiente Natura, oppure di adottare una tartaruga marina o di donare per salvare le api regine. Di seguito, invece, il decalogo per un Natale ecofriendly.

Addobbi. Scegliere quelli sostenibili: illuminazioni a led per adornare l’albero e la casa e decorazioni ‘di recupero’ riutilizzando tappi di sughero, legno, cartoncini, tessuti e oggetti di uso comune da trasformare in segnaposto, ghirlande e centrotavola 100% green.

La tavola. Scegliere prodotti a filiera corta provenienti dalla propria regione: si potrà risparmiare, riscoprire cibi tradizionali e, al contempo, sostenere piccole realtà imprenditoriali del territorio
Abbigliamento. Se si desidera regalare capi d’abbigliamento o accessori, scegliere prodotti sostenibili o il ‘pre-loved’, un’espressione internazionale che fa riferimento a oggetti che sono già appartenuti a qualcuno che li ha scelti e amati prima di noi. Usati, quindi, ma che meritano una seconda possibilità di impiego.

Tecnologia. Sì, ma rigenerata. Sono sempre più le opportunità di acquisto di regali hi-tech usati ma ricondizionati: costano meno e con la garanzia della stessa durata di oggetti nuovi.

Alimentazione. Che sia vegetale e a zero sprechi: spesso l’abbondanza accompagna la tavola delle feste. Recuperare gli avanzi dei pasti e utilizzarli come ingredienti per nuove ricette.

No all’usa e getta. Per allestire la tavola frugare nei pensili e nei cassetti di casa: troverete sicuramente complementi d’arredo e stoviglie sottoutilizzate che potranno dare una svolta vintage alle feste. Non avete piatti e bicchieri coordinati? Niente paura: mescolare stili diversi, sposando la filosofia del Mix&match, è di tendenza.

Doni fai da te. Recuperate vecchi barattoli e, dopo averli opportunamente sanificati, riempiteli di ingredienti utili a realizzare biscotti e dolci, corredando il dono di un biglietto con la ricetta per cucinarli, o riutilizzateli per contenere piccole piante grasse, adatte anche a chi non ha il pollice verde.

Regali di troppo. Avete ricevuto regali poco graditi? Organizzate una tombola di riuso.

Esperienze green. Regalate un’esperienza green. Un viaggio sostenibile o per un’iniziativa in natura, magari a pochi chilometri da casa tua: dal corso per il riconoscimento delle erbe spontanee, al weekend fuori porta, passando per laboratori di cucina organizzati da agriturismi e associazioni del territorio, è pieno di iniziative che potrebbero fare al caso vostro.

Regalarsi del tempo. Per quello che è tra i momenti più attesi, e a volte stressanti, dell’anno, perché non concedersi un momento di auto-gratificazione? Un libro, una passeggiata o una piccola coccola potranno rendere ancora più belle le feste che stanno per arrivare.

L’Italia non è un Paese per bici: investe 100 volte di più su auto

L’Italia punta sugli spostamenti in auto anziché in bicicletta. Il nostro Paese, infatti, investe poco più di un miliardo per bonus bici e ciclabili cittadine ed extraurbane, contro i 98 miliardi di euro destinati al comparto automobilistico (considerando anche le infrastrutture). Il rapporto è, dunque, impietoso, nonostante sullo sfondo ci sia la sfida dell’Italia e dell’Ue di ridurre le proprie emissioni climalteranti del 55% entro il 2030. E lo è ancora di più, considerando che nel 2019 il settore dei trasporti è stato responsabile per il 30,7% delle emissioni totali di Co2, il 92,6% delle quali attribuibili proprio al trasporto stradale. A scattare questa fotografia è il rapporto ‘Clean Cities‘ pubblicato da FIAB, Kyoto Club, Legambiente e, appunto, Clean Cities.
La nostra analisi – spiega Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna Clean Cities – evidenzia che spendiamo tante, troppe delle nostre tasse per sovvenzionare l’uso dell’automobile privata, e pochi spiccioli per dare a tutti la possibilità di muoversi in bicicletta; inoltre, le nostre città sono ancora molto poco ciclabili eppure, per renderle tali, basterebbe investire poco più di tre miliardi di euro, tanto quanto stiamo spendendo ogni tre mesi per abbassare i prezzi di diesel e benzina“.

Per la realizzazione del dossier, le organizzazioni – dati Istat alla mano – hanno analizzato i chilometri di corsie o piste ciclabili per 10mila abitanti al 2020 e i chilometri aggiuntivi previsti dal Piano urbano mobilità sostenibile e biciplan. È emerso che le città italiane hanno una media di 2,8 km di ciclabili per diecimila abitanti, con grandi disparità territoriali: da zero km in molti capoluoghi del centro-sud ai 12-15km di Modena, Ferrara, Reggio Emilia. Molte città sono quindi fanalino di coda nel contesto europeo, anche se alcune risultano ciclabili quanto Helsinki (20km/10.000 abitanti), Amsterdam (14km/10.000 abitanti) e Copenaghen (8km/10.000 abitanti). Tra il 2015 e il 2020, le ciclabili urbane sono aumentate, (+18% nei capoluoghi di provincia e +30% nei capoluoghi di città metropolitana), ma la crescita si è concentrata quasi esclusivamente nei centri urbani che già avevano un livello di infrastrutture ciclabili superiore alla media.
Raffaele Di Marcello, consigliere di presidenza e responsabile Centro studi nazionale Fiab (Federazione italiana ambiente e bicicletta), fa notare che “la situazione infrastrutturale delle nostre città, per quanto riguarda i percorsi ciclabili, è ancora da migliorare. Le poche piste, spesso non collegate tra loro, insieme con la mancanza di una visione che metta insieme pianificazione urbanistica e mobilità sostenibile rendono difficile, quando non impossibile, utilizzare la bicicletta come mezzo alternativo all’automobile“.

Secondo l’analisi, per colmare il gap con il resto d’Europa e consentire un robusto spostamento modale, alle città italiane servirebbero 16mila km di ciclabili in più (rispetto al 2020), per un totale di 21mila km al 2030. Da una stima prudenziale del fabbisogno economico, l’investimento dovrebbe essere di almeno 3,2 miliardi di euro nell’arco dei prossimi sette anni, pari a 500 milioni di euro all’anno, ovvero appena il 3,5% di quanto già stanziato per il comparto auto e le infrastrutture connesse, “ma molto di più di quanto predisposto fino ad ora per la ciclabilità“.
Insieme al dossier le quattro organizzazioni hanno lanciato la petizione ‘Vogliamo città sostenibili’. Obiettivo: raggiungere 5mila firme per chiedere al Governo e al Parlamento di prevedere un programma di investimenti di 500 milioni di euro all’anno da qui al 2030.

agriturismo/Imago

Istat certifica il boom degli agriturismi: in 10 anni +24.4%

Il settore agrituristico è in ripresa e i viaggiatori apprezzano soprattutto le strutture che offrono servizi green. L’Istat ha reso noti i dati del rapporto “Le aziende agrituristiche tra pandemia e resilienza”, che confronta il 2021 con il 2020 e, per alcune categorie, l’arco temporale di un decennio (2011-2021). In questo decennio, le strutture agrituristiche sono aumentate del 24,4%. Il tasso medio annuo di crescita è del 2% (1,3% nel nord-est e 2,6% al centro), 330 nuove aziende solo nell’ultimo anno. Se si considerano solo le strutture con alloggio che, per numero e importanza economica, formano il core di questo settore, la crescita rispetto al 2011 è del 23,2%, con un tasso medio annuo di crescita dell’1,9%.

Rispetto all’anno caratterizzato dalla pandemia, le aziende prese in esame sono cresciute dell’1,3%; tra il 2011 e il 2021, il tasso medio annuo di crescita è del 2%. Il 63,3% dei comuni italiani ospita almeno una struttura di questo tipo, con picchi virtuosi in Toscana e Umbria. L’anno scorso, oltre tre milioni di persone hanno visitato agriturismi: un aumento del 36,9% rispetto al 2020, complice la pandemia e gli spostamenti vietati (o, quantomeno, limitati), ma comunque inferiore ai 3,2 milioni registrati nel 2011. Crescono, tuttavia, i viaggiatori stranieri di questo settore: 68% in più rispetto al 2020. Dal rapporto, che analizza vari aspetti compresa la conduzione al femminile delle strutture e la cessazione delle attività, si evince che risulta vincente la struttura che mira a offrire varie tipologie di servizi, meglio ancora se collegati alla natura: escursionismo, equitazione, fattorie didattiche, mountain bike, osservazioni naturalistiche, sport e trekking. Rispetto al 2020, il maggiore incremento (+5,5%) si registra quindi nelle strutture che offrono “altre attività”; in particolare, cresce l’offerta di mountain bike (+9,5%), osservazioni naturalistiche (+7,9%) ed escursioni (+7%). Curioso come alcune province tendano a specializzarsi nell’offerta di specifiche tipologie di servizi: a Palermo, il 62% delle aziende offre equitazione e il 97% escursioni; a Napoli, il 74% propone osservazioni naturalistiche; a Catania, il 97% mette a disposizione attività sportive; a Caserta, il 59% organizza trekking. Le strutture che offrono la tradizionale attività di alloggio sono invece rimaste invariate (+0,8%), mentre quelle con ristorazione sono cresciute del 2,8%. Per quanto riguarda infine la distribuzione sul territorio, il 53,3% di queste strutture è ubicato in zona collinare (53,3%), il 30% si trova invece in zone montuose: spicca in particolare la Provincia autonoma di Bolzano con le sue 3.253 aziende, che coprono il 42% del totale delle 7.788 strutture ubicate in montagna. Il restante 16,1% delle strutture si trova in pianura (4.076 in totale), con Puglia ed Emilia-Romagna in testa (rispettivamente 559 e 467 aziende agrituristiche). La densità delle strutture sull’intera superfice italiana è di 8,3 per 100 km2 (era 6,7 nel 2011), dato che aumenta se si considera il Centro: 16 aziende agrituristiche per 100 km2, con la Toscana (23 aziende per 100km2) che detiene il primato. Segue il Nord-est, con una densità di circa 12 strutture ogni 100 km2, dove la regione con più alta densità è il Trentino Alto-Adige (28 aziende agrituristiche per 100 km2).

Torna il tempo delle mele: dalle bucce alle eco-sneakers

Moda e sostenibilità, ci prova anche il mondo del calzaturificio italiano. Alcuni brand vegani sperimentano ed emergono negli ultimi anni: Acbc, Womsh e Id.Eight.

Bucce di mela, uva, foglie d’ananas. Così gli scarti diventano eco-sneakers. I brand coinvolgono gli influencer, che le indossano e creano un bisogno indotto sì, ma sostenibile.

Per le Id.Eight, dal design ricercato che richiama gli anni ‘90, vengono utilizzati solo residui e scarti della frutta non commestibili. Materiali che derivano dalla polimerizzazione di bucce e raspi d’uva, foglie dell’ananas, cotone, poliestere riciclato e la similpelle di Frumat, ricavata dagli scarti delle mele attraverso un processo innovativo. Nessun materiale poliuretanico. Ogni componente della scarpa è realizzato con materiali a basso impatto ambientale, a partire da tomaia, suola, lacci, fodera ed etichetta, fino alla scatola che contiene le sneakers ed alla busta che usiamo per l’imballaggio. Id sta per Identità e Eight incarna l’infinito, la capacità di rigenerarsi e quindi l’eco-sostenibilità. Id.Eight è il progetto di sneakers ecosostenibili, realizzate con scarti dell’industria alimentare e materiali di riciclo. Il progetto nasce dall’unione tra il designer coreano Dong Seon Lee e la product manager italiana Giuliana Borzillo. I due sono una coppia anche nella vita:  la passione per le calzature li fa incontrare nel 2017 durante una fiera, ed è amore a prima vista.

Crediamo nel ‘cambiamento in meglio’, è per questo che viviamo“, spiegano i fondatori di Acbc, che sta per ‘Anythig can be changed’. Il team affianca le aziende per produrre calzature econologiche e lavora non solo su processi, prodotti e analisi, ma aiuta le imprese a “cambiare mentalità“. “Abbiamo un approccio scientifico alla sostenibilità. Partiamo dall’LCA o dall’analisi della CO2 per avere dati reali da cui partire“. L’obiettivo è la trasformazione profonda del modello di business: “I nostri clienti sono seriamente intenzionati a ridurre il loro impatto ambientale e a catalizzare il cambiamento nei loro settori. Insieme, definiamo un’ambizione e una strategia coraggiose che trasformano l’impegno in azione e producono risultati reali e duraturi“.

Womsh parte nel 2014. E’ l’acronimo di word of mouth shoes: il nome racconta di scarpe che “sanno parlare e che hanno un messaggio, che usano il passaparola per diffondere il rispetto per l’ambiente“. Progetta, fabbrica e confeziona scarpe in Italia selezionando i materiali e le aziende partner: “Cerchiamo soluzioni che possano lasciare un segno positivo.
Abbiamo occhi grandi per scambiarceli, per immaginare più vita, per trovare nuovi punti di vista. Siamo appassionati, entusiasti, curiosi: dalla diversità e dal rispetto abbiamo imparato tutto quello che sappiamo oggi“. Anni di prove, test, ricerche, mestiere, fino ad arrivare a un prodotto “in cui crediamo molto perché ben fatto, bello e amico dell’ambiente, pronti a comunicare quello che per noi conta di più: la bellezza sostenibile.

 

(Photo credits: id-eight)

idrogeno

Pnrr, sul fronte green 12 obiettivi in 250 giorni: è corsa al tempo

Bollette, inflazione e rischio recessione incombono sul governo. Ma sullo sfondo c’è una sfida ulteriore, forse decisiva per l’Italia, che è quella dell’attuazione del Pnrr entro i tempi prefissati (2026) per accedere ai fondi europei. Il percorso è abbastanza scadenzato, con target da rispettare trimestre per trimestre. Sul fronte green, secondo l’ultimo aggiornamento del lavoro svolto dal Ministero della Transizione/Sicurezza Energetica (fermo al 31 ottobre), ci sono 6 Milestone (obiettivi) non del tutto conseguiti nel 2022 (su nove, quindi solo 3 già centrati) e ben 6 nuovi obiettivi da raggiungere entro i primi sei mesi del 2023. In tutto 12 provvedimenti da mettere a terra più o meno in 250 giorni.

Nel dettaglio, entro quest’anno restano questi target da portare a casa:
– Rafforzamento smart grid: aggiudicazione di tutti gli appalti pubblici per l’aumento della capacità di rete per la distribuzione di energia rinnovabile e l’elettrificazione dei consumi energetici. L’avviso è stato pubblicato a fine giugno 2022, le proposte sono state ricevute nei termini (con richieste che hanno superato il contingente a disposizione) e l’aggiudicazione attesa entro fine anno. Valore: 3,61 miliardi di euro.
– Interventi su resilienza climatica reti: aggiudicazione progetti per migliorare la resilienza della rete del sistema elettrico. Anche in questo caso manca solo il provvedimento entro dicembre. Valore: 500 milioni.
– Promozione teleriscaldamento efficiente: aggiudicazione di tutti gli appalti pubblici per la costruzione di nuove reti di teleriscaldamento o l’ampliamento di quelle esistenti. Tutto pronto, si attende solo il documento. Valore: 200 milioni.
– Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano: piantumazione di alberi (almeno 1.650.000). E’ stato emanato il decreto direttoriale di finanziamento progetti delle città Metropolitane, per un totale di oltre 2 milioni di piante previste a fine anno (350 mila oltre il target di 1,65 milioni). Sono invece in corso di stipula gli accordi con le Città Metropolitane e la convenzione con i vivai regionali per supportare appunto le Città Metropolitane. Valore: 330 milioni.
– Misure per i servizi idrici integrati: Entrata in vigore della riforma volta a garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati, nel rispetto di specifici requisiti. In questo caso bisogna emanare 2 decreti Interministeriali: uno del MIPAAF (di concerto con il MiTE) che dovrebbe essere già stato firmato, e uno del MEF (di concerto con il MiTE e MiPAAF) già pronto in attesa del parere delle Regioni che dovrebbe uscire dalla conferenza unificata del 30 novembre.
– Porti verdi: aggiudicazione di opere alle Autorità di sistema portuale. Operativamente è stata chiusa la manifestazione di interesse per l’individuazione progetti da parte di AdSP (Autorità di Sistema Portuale), la valutazione è in fase avanzata ed è in corso un confronto in materia di aiuti di Stato per la finalizzazione dell’ammissione dei progetti. Valore: 270 milioni.

PRIMO TRIMESTRE 2023
Nel primo trimestre 2023 invece l’attenzione del ministro Pichetto Fratin, del suo staff e dei suoi colleghi di governo dovrà concentrarsi soprattutto sull’idrogeno. Tre i provvedimenti da licenziare che valgono complessivamente 2,5 miliardi.
Produzione di idrogeno in aree industriali dismesse: aggiudicazione di tutti gli appalti pubblici per progetti di produzione di idrogeno in aree industriali dismesse. La manifestazione di interesse si è conclusa con l’interesse da parte Regioni e Province autonome, è stato firmato il decreto ministeriale di riparto risorse (in attesa di pubblicazione), mentre è in corso di elaborazione il decreto direttoriale con definizione degli adempimenti e dello schema di bando tipo per le Regioni e Province autonome.
Utilizzo idrogeno in settori hard-to-abate: firma dell’accordo con i titolari dei progetti selezionati per promuovere la transizione dal metano all’idrogeno verde. Anche in questo caso è stato firmato il decreto ministeriale, ma non pubblicato, ed è in via di elaborazione quello direttoriale per l’avvio della selezione dei progetti.
Semplificazione amministrativa e riduzione degli ostacoli normativi alla diffusione dell’idrogeno, cioè l’entrata in vigore delle misure legislative necessarie. Qua lo stato dell’arte è un po’ più complesso. E’ stata modificata con decreto ministeriale la norma tecnica ed è già in vigore, sono state introdotte con decreto legislativo le semplificazioni per la costruzione e l’esercizio di elettrolizzatori di dimensione inferiore a 10 MW (ovvero installati in aree industriali o standalone), è in fase di predisposizione l’atto di indirizzo a Snam per l’uso di standard condivisi per il trasporto di idrogeno, infine è in corso di finalizzazione schema di decreto attuativo in merito all’aggiornamento del sistema di garanzie di origine che comprenderà l’idrogeno.

SECONDO TRIMESTRE 2023
Decisivo per la svolta elettrica dell’automotive è uno dei Milestone da raggiungere nel secondo trimestre 2023. Si comincia infatti con lo ‘Sviluppo infrastrutture di ricarica elettrica’, o meglio: aggiudicazione di (tutti gli) appalti pubblici per la costruzione di 2 500 stazioni di ricarica rapida per veicoli elettrici in autostrada e almeno 4 000 in zone urbane. Poi, in base alle scelte governative in materia, sarà la volta di ‘Ecobonus e Sismabonus fino al 110% per l’efficienza energetica e la sicurezza degli edifici’, quindi completamento della ristrutturazione di edifici per: i) almeno 12.000.000 di metri quadri per scopi di risparmio energia; ii) almeno 1.400.000 metri quadri per scopi antisismici. Infine, in vista della prossima estate, ‘Rinaturazione dell’area Po’: Entrata in vigore della pertinente legislazione finalizzata al recupero del corridoio ecologico rappresentato dall’alveo del fiume.
Questi ultimi tre Milestone sono i più corposi degli ultimi 12 mesi: oltre 15 miliardi, dove la voce Ecobonus e Sismabonus ne vale quasi 14 anche se il governo è già intervenuto per ridurre la spesa.

Sostenibile, naturale, ecobio: chi decide se un cosmetico è green?

Si fa presto a dire bio. E altrettanto in fretta a discutere di sostenibilità. Ma quando si parla di cosmetici, come facciamo a essere sicuri che un prodotto sia davvero rispettoso dell’ambiente e del pianeta? Semplice, non lo sappiamo. O meglio, dobbiamo fidarci: della lista degli ingredienti, degli esperti della materia, dell’azienda che lo produce e della giungla di certificazioni che – ahinoi – non seguono standard univoci.

Ma facciamo un passo indietro. Ipotizziamo di voler lanciare sul mercato la nostra nuova linea di cosmetici. Abbiamo tutto ciò che ci serve, autorizzazioni comprese. La filiera dei nostri prodotti è, secondo gli standard che abbiamo a disposizione, sostenibile. Poche emissioni di CO2, packaging riciclato, materie prime provenienti da agricoltura biologica. La lista degli ingredienti – il cosiddetto Inci (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients) – ha superato la prova dell’EcoBiocontrol, cioè la ‘bibbia’ per gli appassionati della cosmesi bio e magari abbiamo scelto fornitori locali a km0. Siamo persino diventati soci di Cosmetica Italia, l’associazione di categoria appartenente a Confindustria, che riunisce le aziende cosmetiche. Insomma, siamo pronti a dire al mondo che ci siamo e che siamo sostenibili e naturali. E ora?

Nessun ente governativo, nazionale o europeo, potrà mettere un ‘bollino’ green ai nostri prodotti, perché il Regolamento Ue 1223 del 2009 – che rappresenta lo strumento giuridico in materia di cosmetici a cui devono attenersi tutte le aziende del settore – non prevede una classificazione in questo senso. Il testo norma la sicurezza d’uso dei prodotti e delle materie prime, ma non distingue tra cosmetici naturali e cosmetici che non lo sono. “Una nostra commissione interna – dice a GEA Gian Andrea Positano, responsabile del Centro Studi di Cosmetica Italiaha definito un perimetro di classificazione di questi prodotti, distinguendo tra cosmetici a connotazione naturale e cosmetici sostenibili, che spesso si sovrappongono, ma questa distinzione serve a contestualizzare i dati (di produzione e di mercato) in termini comunicazionali e di marketing, ovviando a qualsiasi forma di definizione cogente a livello normativo”.

All’interno di questo perimetro i cosmetici a connotazione naturale sono caratterizzati da elementi grafici o testuali (claim) che comunicano la presenza di un alto numero di ingredienti biologici o di origine naturale. Quelli definiti sostenibili, invece, comunicano la loro connotazione di sostenibilità ambientale/green in ambiti che possono riguardare tutto il suo ciclo di vita o le politiche corporate dell’impresa verso la sostenibilità (ambientale, sociale, economica).

E allora come facciamo a raccontare al mondo che i nostri prodotti sono green? La prima strada è quella di comunicarlo attraverso azioni di marketing – spiegando chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo – provando a conquistare la fiducia dei consumatori grazie alla nostra promessa. Sarà poi il mercato a dirci se abbiamo raggiunto lo scopo.

La seconda strada è quella delle certificazioni che, però, come detto, vengono fornite solo da organismi privati specializzati. Ad esempio, possiamo comunicare la conformità allo standard internazionale ISO 16128 – cioè la validazione del calcolo degli indici di naturalità e biologicità di cosmetici e dei loro ingredienti in base – attribuita da CCPB, che la Commissione Europea ha riconosciuto come organismo di certificazione equivalente in numerosi Paesi nel mondo, ma in Italia no.

Oppure, possiamo affidarci a una delle principali certificazioni private di bio cosmesi europee ed italiane. Intanto, però, è necessario chiarire un aspetto fondamentale: “non potrà mai essere messo sul mercato – dice Positano – un prodotto che non ha la garanzia di essere sicuro per i consumatori. Per esserlo potrebbe contenere sostanze chimiche di sintesi, come ad esempio conservanti”. Chimico, però, non significa ‘non naturale’, anche se nella narrazione, soprattutto online, spesso si fa confusione. Una sostanza di sintesi, inoltre, può risultare innocua per la salute e per l’ambiente, indipendentemente dalla sua origine. Così, ad esempio, in una crema possiamo trovare l’alcool cetilstearilico, che dal nome pare tutto fuorché naturale, invece è di origine vegetale e magari deriva anche da agricoltura biologica.

Il fatto stesso che ci siano molti enti di certificazione e molti metodi per farlo, perché ciascuno usa parametri diversi – spiega Positano – è la dimostrazione che non esiste un cosmetico naturale tout court, altrimenti ci sarebbe un regolamento in materia. Si tratta di classificazioni di marketing”. Che, però, considerando che il mercato dei cosmetici naturali o sostenibili ha raggiunto i 2,6 miliardi di euro nel 2021, evidentemente funzionano.

E se volessimo certificare la sostenibilità dei nostri prodotti, cosa dovremmo fare? Potremmo, ad esempio, provare a ottenere il bollino del Sistema Gestione Ambientale, che indica l’impegno dell’impresa nella salvaguardia dell’ambiente, nell’utilizzo consapevole delle risorse naturali e nella prevenzione dell’inquinamento, in modo coerente con le necessità del contesto socio-economico di riferimento, nel pieno rispetto delle normative ambientali cogenti e volontarie applicabili.

Ma le certificazioni davvero garantiscono la sostenibilità di tutta la filiera? “No, non riescono a farlo, magari riuscissero”, spiega il chimico Fabrizio Zago, creatore dell’EcoBiocontrol. “Ci sono degli enti di certificazione più o meno seri – spiega – che la vedono in maniera olistica. Il migliore si chiama Eu-Ecolabel. È l’unico sistema di certificazione che guarda a 360 gradi la provenienza e dà un giudizio di sostenibilità complessivo”.

Ovviamente far certificare i prodotti costa e molte aziende, racconta il responsabile del Centro studi di Cosmetica Italia “scelgono di non farlo, non solo per ragioni economiche, ma anche per una propria strategia di marketing”: come si diceva, preferiscono ‘raccontare’ i loro prodotti, senza la necessità di avere un ente terzo che dica quanto siano buoni e giusti.

Un capitolo a parte merita la questione della sperimentazione sugli animali. “In Europa i test animali sono assolutamente vietati sia sui prodotti cosmetici sia sui loro ingredienti””, dice Positano. Ma – e qui nasce l’ennesima incongruenza – per esportare in alcuni Paesi extra Ue (come la Cina) i cosmetici prodotti in Europa è necessario dimostrare che siano stati testati sugli animali.

Zago: “Io ecologista antimilitarista. Oggi dico sostenibilità con ragionevolezza”

In principio c’era lui. Per molti Fabrizio Zago, è il guru della biocosmesi, il padre del Bio-Dizionario, oggi BioEcoControl, la prima guida per i consumatori consapevoli. Che, però, fino ai primi anni Duemila erano ancora molto pochi, una nicchia.

Gli altri se ne fregavano”, spiega a GEA, raccontando gli inizi del suo lavoro. Ricollega il percorso fatto con un certo spirito ribelle che lo animava: “L’idea è nata perché mi sono sempre sentito un ecologista senza sapere di esserlo, ho fatto studi di chimica che potevano indirizzarmi diversamente. Invece mi sono schierato dalla parte debole del sistema. Ecco, probabilmente è nato tutto da questo mio sentirmi dalla parte dei più deboli, dal non voler far male a nessuno”. La scelta in campo cosmetico e detersivistico orientata verso l’ecologia, in quegli anni, non era ancora una “moda”: “Ho fatto obiezione di coscienza quando ti mettevano le manette, non era facile. Ho fatto poi il servizio civile, facevo azione antimilitarista”.

Con il suo compagno di studi, che si occupava di impianti di depurazione, ha iniziato a lavorare nell’ambito delle materie prime: “Sono riuscito a entrare in contatto con dati scientifici che non aveva nessuno, mi è servito enormemente per costruirmi una cultura specifica. Da qui capisci se una sostanza è più o meno tossica o biodegradabile”.

Prima del 2000, Zago collaborava con aziende che però “facevano numeri insignificanti”: “È successo che a un certo punto mi sono detto che bisognava fornire strumenti perché i consumatori diventassero autonomi e consapevoli. All’epoca c’era un sito dove fu aperto un forum di discussione, tra il 1999 e il 2000 e molte persone si sono fiondate nel forum. C’erano anche Barbara Righini (fondatrice di ‘Sai cosa ti spalmi?’, ndr) e ‘mamma chimica’, che un po’ alla volta hanno sviluppato i propri progetti”.

Il problema era non solo che le etichette non erano esaustive, ma che non c’era la possibilità di leggere i dati, perché “non erano disponibili. “Che determinate sostanze fossero altamente tossichespiega Zago – lo sapevano quelle quattro persone dei laboratori delle multinazionali e basta. C’era una ignoranza assoluta che portava a usare in maniera inconsapevole una sostanza senza sapere che si stava inquinando in maniera indecente”.

In campo cosmetico le prove della tossicità sull’uomo sono recenti. Anche oggi, rivela, “uno dei problemi più grossi sono i perturbatori endocrini, sostanze che penetrano nella pelle, entrano in circolo e sono fatte per ingannare il corpo umano e farsi riconoscere come similari a ormoni, solo che non funzionano come ormoni. Uno di questi, usato frequentemente nei filtri solari, è l’octocrylene”. Il rischio di tumore alla pelle con i raggi Uv c’è, Zago non vuol essere tranchant: “Consiglio di usare la crema protettiva, ma aggiungo che è meglio portare un cappellino. In generale, in maniera chiarissima dico che si può creare un filtro solare con fattore spf 50 anche senza Octocylene”.

Sull’annosa questione dei loghi vegan, non lascia spazio a interpretazioni: “Fornirli è un errore. Qualsiasi sostanza ha un certo impatto sull’ambiente. Posso dire di non aver usato animali o derivati di animali in un determinato prodotto, ma quando questo finisce nelle acque di scarico, i pesci li uccide e sono in mare anche loro. O si è rigidi su questo principio o non possiamo dirci coerenti. Io do il logo vegan a condizione che sia gratuito, perché nessuno deve avere la sfrontatezza di far pagare la salute degli animali, e poi bisogna che il prodotto in questione abbia davvero un bassissimo impatto sull’ambiente, è l’unico modo per garantire la sopravvivenza dei pesci”.

Oggi, le certificazioni non indicano ancora la sostenibilità di tutta la filiera. “Magari ci riuscissero. Ci sono degli enti più o meno seri che la vedono in maniera olistica, il migliore si chiama Eu-Ecolabel. È l’unico sistema di certificazione che guarda a 360 gradi la provenienza e dà un giudizio di sostenibilità complessivo”.

La sfida della sostenibilità, in sostanza, per Zago va affrontata in maniera “ragionevole”: “Se diciamo basta a tutto finisce che tutti tornano ai siliconi e l’industria dei siliconi sta facendo carte false per redimersi. Ma non esistono siliconi buoni, ci sono prove che alcuni di questi, inalati, provochino delle gravissime sensibilizzazioni e irritazioni”.

Oggi si va nella direzione giusta, ma tanto c’è ancora da fare per una cosmesi più vicina alle esigenze dell’uomo e del pianeta: “Il futuro sarà migliore a due condizioni, la prima è che venga approvata una legge europea che faccia chiarezza su cosa è biologico e cosa non lo è, perché qui tutti si svegliano una mattina e scrivono bio senza nessuna chiarezza. Lo trovo scorretto. L’altra cosa che serve è che vengano fatti i controlli: è inutile avere leggi che nessuno fa rispettare, questo è drammatico”.

Pensa ai più giovani, con cui ha confronti continui: “Quando parlo con gli attivisti del movimento del Fridays for Future, mi vergogno. La mia generazione gli ha rovinato il mondo, gli stiamo consegnando in eredità uno straccio. Io per prima cosa chiedo loro scusa per non aver fatto di più di quello che ho fatto, lasciando in mano un mondo tremendo. Tutti dobbiamo dare elementi di discernimento alle nuove generazioni. Non possiamo deluderli, non dobbiamo tradirli”.