Imprese più resilienti ma corsa a inflazione ‘brucia’ potere di acquisto delle famiglie

Imprese più resilienti ma famiglie più deboli rispetto al boom dell’inflazione. E’ quanto emerge incrociando i dati dell’indice Pmi Composite di marzo con quelli diffusi da Istat su consumi e potere d’acquisto. L’Indice S&P Global Pmi che mette insieme industria e terziario in Italia, basato su 400 interviste ai principali direttori acquisti, è sostenuto dalla forte accelerazione di crescita del settore terziario e ha registrato a marzo un forte rialzo, toccando il valore più alto in 16 mesi. L’indice si è posizionato su 55.2, ovvero tre punti in più rispetto a 52.2 di febbraio. Salgono a 3 i mesi consecutivi in cui l’indice segna valori superiori alla soglia di non cambiamento di 50 (sopra espansione e sotto contrazione) e, insieme ad una crescita più forte del settore terziario, è stato di nuovo sostenuto dal forte incremento della produzione manifatturiera. Il volume registrato dai nuovi ordini è stato simile, e quello del terziario ha supportato l’elevato rialzo delle commesse totali ricevute a marzo. “Con il calo dei prezzi di acquisto registrato nel settore manifatturiero, le spese operative generali hanno indicato il più debole rialzo in più di due anni. Similmente, i prezzi di vendita sono aumentati ad un tasso molto minore”, si legge nella nota che accompagna la diffusione dell’indice Pmi.

La robusta risalita dell’economia italiana è figlia del calo, appunto, delle bollette e dell’aumento dei prezzi di vendita deciso dal 60% delle imprese, come aveva certificato proprio l’Istat ieri nel suo rapporto sulla competitività delle aziende. Rincari che hanno però impoverito le famiglie consumatrici, dato che mediamente gli stipendi sono saliti di un quinto rispetto all’incremento dell’inflazione. E così, come segnalato dall’istituto di statistica, nel quarto trimestre 2022 il potere d’acquisto delle famiglie è sceso del 3,7%. Secondo Confesercenti si tratta di un impoverimento di 12 miliardi. I consumi tuttavia, almeno fino allo scorso anno hanno anche tenuto, intaccando i risparmi visto che proprio “la propensione al risparmio è scesa di 2 punti percentuali rispetto al trimestre precedente”. Tuttavia a febbraio, l’accumulo dei rincari soprattutto energetici ed alimentari hanno fatto scendere anche le vendite al dettaglio a livello nominale (un dato per certi versi drogato proprio dall’inflazione). In particolare i consumi sono diminuiti dello 0,1% mensile, in lieve calo rispetto all’aumento dell’1,7% del massimo di otto mesi nel mese precedente, quando però era forte l’effetto saldi. Le vendite di generi alimentari sono scese dello 0,3% dopo il +2,2% di gennaio.

Nel frattempo, le vendite non alimentari sono cresciute dello 0,1% amplificando il +1,4% di inizio anno. Questi i dati appunto nominali. Se si guardano invece i volumi, è tutto un segno rosso: -0,9% la percentuale complessiva, -1,8% quella relativa ai soli alimentari, -0,3% per i beni non alimentari. E’ “il nono mese consecutivo di contrazione tendenziale, con una flessione che ha ormai raggiunto il 2% rispetto a un anno fa”, sottolinea ancora Confesercenti, preoccupata “soprattutto per le piccole superfici di vendita che, stimiamo, abbiano già registrato un crollo in volume del 5% in soli due mesi, contro un -0,6% della Grande distribuzione. Questa perdita mostra come le realtà commerciali di minori dimensioni siano quelle in maggiore difficoltà a causa dell’aumento dei prezzi”. In effetti, il dato sulle imprese legato all’indice Pmi andrebbe spacchettato, come spiegava ieri Istat in tema di competitività: “La reazione più frequente, a fronte di entrambi gli shock (energetico e pandemico, ndr), è rappresentata dall’aumento dei prezzi di vendita, con una caratterizzazione in termini dimensionali: per le piccole e medie imprese l’unica alternativa all’aumento dei prezzi sembra essere rappresentata dal sacrificio dei margini di profitto mentre le grandi sembrano poter attuare strategie più complesse, incentrate anche sulla rinegoziazione dei contratti di fornitura e, in misura più contenuta, sul consumo di elettricità autoprodotta e sull’efficientamento energetico degli impianti”.

L’inflazione cala poco, sale quella extra energia

L’inflazione cala in Italia, complice la discesa dei prezzi energetici. Risale, però, il carrello della spesa e soprattutto continua a crescere la cosiddetta inflazione core, quella extra energia ed extra alimentari, che arriva al +6,4% a febbraio. Segno che il carovita ora dipende meno dalle bollette, ma più dalle aziende che scaricano i costi sostenuti nei mesi scorsi sui prezzi finali. La tendenza è osservata dall’indagine Pmi S&P Global diffusa ieri secondo la quale “le aziende manifatturiere applicano maggiorazioni dovute alle più alte spese operative”. Per Carlo Alberto Buttarelli, direttore Ufficio Studi e Relazioni con la Filiera di Federdistribuzione, “nel corso dell’ultimo anno le aziende della Distribuzione Moderna hanno fatto uno sforzo economico significativo, assorbendo parte degli aumenti generalizzati sui beni di consumo, per attenuare l’impatto sui prezzi e tutelare il potere di acquisto degli italiani. Oggi da parte delle nostre aziende non ci sono le condizioni per assorbire nuovi incrementi dei prezzi – conclude Buttarelli -, ci auguriamo che i chiari segnali di rallentamento sui costi dell’energia e delle materie prime di queste settimane portino anche il sistema industriale ad agire in questo senso e porre un freno alla spinta agli aumenti che ha caratterizzato il mercato in questi mesi”.

“Si mantengono le spinte al rialzo dei prezzi nel comparto dei Beni alimentari, lavorati e non, dei Tabacchi e dei Servizi, tutti in accelerazione tendenziale. Come conseguenza di tali andamenti, si accentua la crescita su base annua della componente di fondo (+6,4%) e quella del cosiddetto carrello della spesa, che risale a +13%, dopo il rallentamento osservato a gennaio”, commenta l’Istat i dati di febbraio. Dati che complessivamente vedono l’indice nazionale dei prezzi al consumo registrare un aumento dello 0,3% su base mensile e del 9,2% su base annua, da +10% nel mese precedente ma più dell’8,8% stimato dagli analisti. L’aumento congiunturale – mese su mese – dell’indice generale “si deve prevalentemente ai prezzi degli Alimentari non lavorati (+2,2%), dei Tabacchi (+1,9%), degli Alimentari lavorati (+1,5%), dei Beni durevoli e non durevoli (+0,8% e +0,6% rispettivamente), dei Servizi relativi ai trasporti (+0,7%), dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona e dei Servizi relativi all’abitazione (+0,5% per entrambi); un effetto di contenimento deriva invece dal calo dei prezzi degli Energetici, sia regolamentati (-5,2%) sia non regolamentati (-4,2%)”, conclude l’istituto di statistica.

Cala ma non come dovrebbe anche l’inflazione nell’eurozona. Secondo la stima flash di Eurostat, è salita dell’8,5% a febbraio, in calo rispetto all’8,6% di gennaio ma più dell’8,2% stimato. Mese su mese il rialzo è stato dello 0,8%, quando invece nel primo mese del 2023 i prezzi erano scesi dello 0,2%. Cibo, alcol e tabacco hanno il tasso annuo più alto a febbraio (15,0%, in calo rispetto al 14,1% di gennaio), seguito dall’energia (13,7%, rispetto al 18,9% di gennaio), dai beni non alimentari e dal tabacco. 18,9% a gennaio), i beni industriali non energetici (6,8%, rispetto al 6,7% di gennaio) e i servizi (4,8%, rispetto al 4,4% di gennaio).

La ripresa del carovita era attesa dopo il ritorno di fiamma dei prezzi in Germania e Spagna. Ora i riflettori sono puntati sulla Bce. Christine Lagarde stamattina durante una intervista all’emittente spagnola Antena 3, dove si è commossa per aver visto uno dei fratelli in collegamento ricordando il padre morto quando aveva 16 anni, ha annunciato che probabilmente aumenterà i tassi anche dopo la stretta da +0,5% già decisa per marzo: in questo mese “i dati scenderanno, continueranno a scendere, ma sappiamo che è ancora molto alta. Quando vado a fare la spesa vedo che tutto è aumentato, speriamo di riuscire a ridurlo, ma ci vorrà tempo”.

“Un rialzo di 50 punti base a marzo è ormai cosa fatta e si prevede che la riunione della BCE di maggio risulterà in un rialzo di 0,4%. Ci aspettiamo – ipotizza Tim Graf, Managing Director, Head of Macro Strategy for EMEA di State Street Global Markets – che la comunicazione della Bce non solo confermi questo dato, ma accenni con forza a un ulteriore rialzo di 50 pb a maggio, proprio come si è effettivamente impegnata a 50 pb a marzo”. Più pessimista è invece Filippo Diodovich, Senior Market Strategist di IG Italia: “L’inflazione soprattutto core continua a essere persistente su livelli alti. La Bce dovrà necessariamente cambiare passo sia nelle scelte sui tassi di interesse ma soprattutto nella comunicazione. E qualcosa in effetti è cambiato nelle ultime dichiarazioni da parte dei membri del Governing Council. Nelle ultime ore il governatore della banca centrale francese Villeroy ha affermato che il picco del livello dei tassi potrebbe essere raggiunto in estate, al massimo nel mese di settembre. Crediamo che l’istituto di Francoforte dovrà prolungare molto più a lungo del previsto gli sforzi per riportare l’inflazione in un sentiero per raggiungere il 2%. Ci aspettiamo un aumento di 125 punti base del costo del denaro nei prossimi mesi. Nel dettaglio – continua Diodovich – crediamo che il Governing Council alzerà a marzo il costo del denaro di 50 pb per poi continuare ad aumentarlo anche nelle riunioni di maggio, giugno e luglio (25 pb a riunione portando il tasso benchmark a un terminal rate del 4,25%)”.

Nell’anno della crisi energetica Pil Italia meglio di Usa, Cina e Germania

L’Italia, se l’Istat confermerà la sua stima nelle prossime settimane, chiuderà il 2022 con una crescita del Pil nettamente superiore a quella tedesca, a quella degli Usa e addirittura della Cina. Il dato sull’economia conferma che ha gli Usa hanno lo scorso anno in rialzo del 2,1%, registrando un inaspettato allungo nel quarto trimestre con un +2,9% contro previsioni di un +2,6%. Wall Street ha aperto così in rialzo perché forse è scongiurato lo spettro recessione, in seguito a una forte stretta sul costo del denaro impressa dalla Federal Reserve per stendere l’inflazione. Oppure se ci sarà, la contrazione non dovrebbe essere pesante. Anche i listini europei hanno accelerato dopo le 15.30. E Piazza Affari, con la seduta odierna (1,27%), ha messo a segno un balzo del 24% dal 23 settembre, il venerdì prima delle elezioni politiche.
Tornando all’economia reale, come sintetizzava la Cgia di Mestre poco prima di Natale, il 2022 è stato da record per l’Italia. “Nonostante la crescita dell’inflazione, il caro energia e il boom dei prezzi delle materie prime abbiano creato non pochi problemi a famiglie e imprese, la crescita economica italiana è stata doppia rispetto a quella registrata dai nostri principali competitors commerciali presenti nell’area dell’euro”. L’Istat meno di un mese fa prospettava una crescita economica per l’anno appena concluso di un +3,9%. Il prodotto interno lordo tedesco è salito invece dell’1,9% nel 2022 rispetto al precedente anno, secondo quanto comunicato recentemente dall’ufficio federale di statistica Destatis, in base al quale “l’economia tedesca è in ripresa nonostante le difficili condizioni di contesto”.
La Germania ha subito oltre alla crisi energetica e all’interruzione delle forniture di gas dalla Russia, anche il semi-lockdown cinese, che per Berlino negli ultimi anni aveva rappresentato lo sbocco principali degli scambi commerciali. Pechino infatti ha chiuso il 2022 con un Pil in crescita del 3%, il dato più basso degli ultimi 40 anni. A differenza dei tedeschi l’Italia invece ha potuto contare su forniture di gas, benché pagate a caro prezzo, provenienti da Algeria o Azerbaigian e di tre rigassificatori già in funzione. Inoltre il nostro Paese non era dipendente principalmente da un unico mercato. Sfruttando invece il cambio favorevole ha incrementato le esportazioni verso Usa e nuovi mercati asiatici, nonostante la chiusura della Russia.
“La crescita del Pil registrata nel 2022 dell’economia italiana (+3,9%) ci restituisce una fotografia di un Paese in grado di rimboccarsi le maniche, nonostante l’aumento dei prezzi dell’energia e la spinta inflazionistica. Le prospettive di crescita per il 2023, però, non sono così rosee: si parla di una frenata al +0,6% rispetto al 2022. E’ necessario agire subito per ribaltare questa prospettiva e preservare la crescita”, sottolineava poi Alessandro Spada, presiedente di Assolombarda. La prospettiva per quest’anno dell’Italia è nettamente ridimensionata, anche se non dovrebbe esserci una recessione. Pochi giorni fa Bankitalia ha addirittura alzato da 0,4% a +0,6% le stime sul Pil tricolore del 2023. “Il 2023 può essere l’anno, soprattutto nella seconda parte, della ripresa dopo la tempesta”, spiegava stamattina Adolfo Urso, ministro delle Imprese del Made in Italy, durante un evento di Assolombarda, dove Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, si è spinto oltre: “Se quest’anno il prezzo medio del gas fosse a 100 euro/Mwh, algebricamente avremmo una crescita all’1%”.
In questo senso appaiono confortanti le prime indicazioni ufficiali che arrivano da questo 2023. A gennaio “il clima di fiducia delle imprese aumenta per il terzo mese consecutivo raggiungendo un livello superiore alla media del periodo gennaio-dicembre 2022. L’aumento dell’indice è trainato dal comparto dei servizi e da quello dell’industria”, rivela l’Istat. Invece “il clima di fiducia dei consumatori torna a diminuire dopo due mesi consecutivi di crescita. Il ripiegamento dell’indice è dovuto soprattutto ad un’evoluzione negativa delle opinioni sulla situazione personale”, conclude l’istituto di statistica. Infatti le aspettative sulla situazione economica generale e quelle sulle disoccupazione salgono.

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Blangiardo: “L’aumento del costo dei carburanti impatta sulle fasce deboli”

“Fare previsioni sui prezzi dei carburanti non è semplice. Il loro effetto è diretto perché chi compra diesel o benzina li paga di più, ma è anche indiretto perché agisce su altri costi”, come quello dei trasporti in generale. Lo ha detto Gian Carlo Blangiardo, presidente di Istat, a SkyTg24. L’aumento dei prezzi “è un grande problema in prospettiva se continua a crescere”, perché “accentuerebbe ancora i problemi delle famiglie”, impattando sulla crescita del Paese.
Il tema è, naturalmente, quello dell’inflazione. “Abbiamo chiuso il 2022 a livelli preoccupanti – ha detto Blangiardo – e nel 2023 se le cose non peggiorano si stima che crescerà del 5,1%”. Si tratta, ha aggiunto “di un valore di quasi tre volte più alto di quello dell’anno scorso”. E se le cose peggioreranno ancora? “Dipende da quanto andrà male – ha detto Blangiardo – e dall’entità degli aumenti, che non sono prevedibili ora. L’esperienza ci ha insegnato che gli eventi non previsti ci hanno portato a questa situazione. Possiamo aspettarci ulteriori aumenti, ma speriamo che non siano così consistenti. Ci auguriamo un rallentamento della tendenza”.
Nessun allarme, invece, sul Pil, il cui dato del 2022 è stimato a +3,9%. “È un buon risultato – ha detto il presidente dell’Istat – superiore alle attese. Sul 2023 la stima è dello 0,4%, che non ci pone in recessione, ma ha bisogno di due elementi: il controllo dei prezzi e il mantenimento degli investimenti”. Se riusciamo a mantenere questi due vincoli – ha aggiunto – lo +0,4% può essere un risultato accettabile vista la situazione. Il momento è difficile, già galleggiare sopra il livello negativo è un risultato di cui possiamo accontentarci”.
E il governo da parte sua, con la Manovra, ha previsto misure “ragionevoli, tenendo conto della situazione e delle risorse disponibili. Si è evitato – ha spiegato Blangiardo – di accentuare i problemi e si è tentato di avviare il rilancio del Paese. Mi sembra si vada nella direzione giusta, ci sono buone prospettive. È stato fatto tutto quello che si poteva fare? È stato fatto molto, compatibilmente con le risorse disponibili”.

Prezzi energia trainano calo inflazione a dicembre. Ma è record nel 2022: mai così alta dal 1985

Rallenta l’inflazione a dicembre ma è record nel 2002: mai così alta dal 1985. Secondo le stime preliminari dell’Istat, nel mese di dicembre 2022 infatti l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, aumenta dello 0,3% su base mensile e dell’11,6% su base annua (da +11,8% del mese precedente). Il rallentamento su base tendenziale dell’inflazione è dovuto prevalentemente ai prezzi dei beni energetici, (che passano da +67,6% di novembre a +64,7%), in particolare della componente non regolamentata (da +69,9% a +63,3%) e ai prezzi dei beni alimentari non lavorati (da +11,4% a +9,5%) e dei servizi relativi ai trasporti (da +6,8% a +6,0%); per contro, un sostegno alla dinamica dell’inflazione deriva dall’accelerazione dei prezzi degli energetici regolamentati (da +57,9% a +70,3%), di quelli dei beni alimentari lavorati (da +14,3% a +14,9%), di quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +5,5% a +6,2%) e dei servizi relativi alle comunicazioni (da +0,2% a +0,7%).

Sempre secondo le stime preliminari Istat, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) – il cosiddetto ‘carrello della spesa’ – aumenta dello 0,2% su base mensile e del 12,3% su base annua (da +12,6% di novembre). La variazione media annua del 2022 è pari a +8,7% (+1,9% nel 2021). In media, nel 2022 i prezzi al consumo registrano una crescita pari a +8,1% (+1,9% nel 2021). Al netto degli energetici e degli alimentari freschi, i prezzi al consumo crescono del 3,8% (+0,8% nell’anno precedente) e al netto dei soli energetici del 4,1% (+0,8% nel 2021).
“In base alle stime preliminari – commenta l’Istat –  l’inflazione acquisita, o trascinamento, per il 2023 (ossia la crescita media che si avrebbe nell’anno se i prezzi rimanessero stabili fino al prossimo dicembre) è pari a +5,1%, ben più ampia di quella osservata per il 2022, quando fu pari a +1,8%”.

Sulla scorta dei dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica, arrivano le reazioni e le analisi delle associazione a tutela dei consumatori e dei produttori, come nel caso di Coldiretti. “L’impennata dell’inflazione pesa sul carrello degli italiani che hanno speso quasi 13 miliardi in più per acquistare cibi e bevande nel 2022 a causa dell’effetto valanga dei rincari energetici e della dipendenza dall’estero, in un contesto di aumento dei costi dovuto alla guerra in Ucraina che fa soffrire l’intera filiera, dai campi alle tavole”. Secondo la Coldiretti, tra le categorie di prodotti che hanno pesato di più sull’aumento di spesa degli italiani ci sono la verdura che precede sul podio “pane, pasta e riso” e poi “carne e salumi” mentre al quarto posto la frutta precede il pesce, poi “latte, formaggi e uova” e quindi “olio, burro e grassi”. Per cercare di risparmiare, 8 italiani su 10 (81%) hanno preso l’abitudine di fare una lista ponderata degli acquisti da effettuare per mettere sotto controllo le spese d’impulso, cambiando anche i luoghi scelti per fare la spesa: il 72% degli italiani si reca nei discount, mentre l’83% punta su prodotti in offerta e in promozione, “andando a caccia dei prezzi più bassi anche facendo lo slalom nel punto vendita, cambiando negozio, supermercato o discount alla ricerca di promozioni per i diversi prodotti”, spiega la Coldiretti. La quale evidenzia come gli aumenti dei prezzi non incidano solamente sulle tasche delle famiglie, bensì sull’intera filiera agroalimentare “a partire dalle campagne, dove più di un’azienda agricola su 10 (13%) è in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività, ma ben oltre 1/3 del totale nazionale (34%) si trova comunque costretta in questo momento a lavorare in una condizione di reddito negativo per effetto dei rincari, secondo il Crea. Ettore Prandini chiede “rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare, riducano la dipendenza dall’estero e garantiscono un giusto prezzo degli alimenti per produttori e consumatori”, sottolineando l’esigenza di “raddoppiare da 5 a 10 miliardi le risorse destinate all’agroalimentare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza spostando fondi da altri comparti per evitare di perdere i finanziamenti dell’Europa”.

Carlo Alberto Buttarelli, direttore Ufficio Studi e Relazioni con la Filiera di Federdistribuzione, racconta lo stato dell’arte delle imprese italiane, “impegnate da oltre un anno a gradualizzare il trasferimento sui prezzi al consumo degli aumenti subiti in fase di acquisto, investendo risorse economiche e riducendo i propri margini per salvaguardare il potere d’acquisto degli italiani. Uno sforzo che non è più sostenibile dal nostro settore che in questi mesi ha dovuto anche fronteggiare i rincari energetici. Per scongiurare una possibile crisi dei consumi nei prossimi mesi è necessario che tutti gli attori della filiera agiscano con senso di responsabilità per limitare il più possibile la spirale della crescita dei prezzi, considerando anche che si registrano i primi segnali di rallentamento delle quotazioni delle materie prime e dei prodotti energetici”.

Nel 2022, gli aumenti di prezzi e tariffe si sono tradotti in una spesa di 61,3 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente, come afferma il Codacons. Che, dati Istat alla mano, traduce – a parità di consumi – la percentuale del tasso annuo dell’8,1% in un maggiore esborso pari in media a +2.369 euro per la famiglia ‘tipo’, cifra che sale a 3.069 euro annui per un nucleo con due figli. “Sono numeri da capogiro – commenta – che avranno ripercussioni pesanti nel 2023. L’andamento al rialzo delle bollette del gas, i carburanti che hanno ripreso a correre e i listini degli alimentari ancora a livelli elevatissimi, faranno sentire i loro effetti nel breve termine, erodendo il potere d’acquisto dei cittadini e riducendo la spesa. Il governo Meloni deve correre ai ripari, adottando misure in grado di calmierare i prezzi al dettaglio e accelerare la riduzione dei listini, allo scopo di salvaguardare i bilanci delle famiglie, che sempre più numerose intaccano i risparmi per riuscire a sostenere bollette e prezzi alle stelle”, conclude Carlo Rienzi, presidente del coordinamento.

Gli fa eco l’Unione Italiana Consumatori: “Sono dati catastrofici. Le famiglie sono sempre più inguaiate. Una coppia con 2 figli ha pagato 700 euro in più rispetto al 2021 per poter mangiare e bere. Una famiglia media ha avuto una stangata per i prodotti alimentari e le bevande analcoliche pari a 513 euro, cifra che sale a 632 per una coppia con 1 figlio e che arriva a 836 euro per le coppie con 3 figli”, fa presente Massimiliano Dona, presidente dell’associazione. “In media per una famiglia – evidenzia – il rincaro dello scorso anno è di 2219 euro, 1200 per l’abitazione, 532 per il solo carrello della spesa”.

Sul tema si sofferma anche la Confederazione Selp. Il suo presidente Giovanni Centrella rimarca il fatto che i dati diffusi stamani dall’Istat sull’inflazione “fanno emergere con chiarezza le difficoltà delle famiglie italiane nell’acquisto dei beni di prima necessità. Al Governo chiediamo di intervenire attivando controlli sui prezzi per evitare speculazioni che potrebbero incidere ancora pesantemente sulle famiglie e le categorie dei lavoratori dipendenti”. Sulla stessa lunghezza d’onda Furio Truzzi, presidente di Assoutenti che, di fronte ai dati diffusi dall’Istat, chiede al governo Meloni “di inserire l’emergenza prezzi tra le priorità dell’esecutivo, varando il taglio dell’Iva sui beni primari come alimentari e generi di prima necessità, e intervenendo sulla tassazione relativa ai carburanti, seguendo l’esempio del suo predecessore Draghi e tagliando le accise che pesano sui costi di una moltitudine di prodotti, considerato che in Italia l’85% della merce viaggia su gomma”.

Per Confesercenti, non bisogna dimenticare “che le famiglie hanno quasi terminato i risparmi con i quali hanno finora sostenuto la spesa, la cui dinamica d’ora in poi sarà guidata sempre più dal potere d’acquisto. Per questo il governo, terminata la fase di emergenza, dovrà garantire interventi decisivi per ridurre innanzitutto la pressione fiscale ed il costo del lavoro, per ridare fiato a famiglie ed imprese e sostenere la ripresa della domanda interna”.

Qual è infine la situazione a livello europeo? Secondo Eurostat, a novembre 2022 i prezzi alla produzione industriale sono diminuiti dello 0,9% sia nell’area dell’euro che nell’Ue, rispetto a ottobre.
I prezzi alla produzione industriale nell’area dell’euro a novembre 2022, rispetto a ottobre, sono diminuiti del 2,2% nel settore energetico e dello 0,4% per i beni intermedi, mentre i prezzi sono aumentati dello 0,2% per i beni di consumo durevoli, dello 0,3% per i beni strumentali e dello 0,6% per i beni di consumo non durevoli. Esclusa l’energia, i prezzi sono cresciuti dello 0,1%.
Nell’intera Ue, i prezzi alla produzione industriale sono aumentati del 56% nel settore energetico, del 17,1% per i beni di consumo non durevoli, del 15,5% per i beni intermedi, del 9,7% per i beni di consumo durevoli e del 7,7% per i beni strumentali. I prezzi nell’industria, esclusa l’energia, sono cresciuti del 13,6%.

 

 

 

 

 

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Piccole aziende più digitalizzate e più attente a sprechi energetici

Le piccole aziende italiane sono sempre più digitalizzate e fra le leader in Europa nella lotta allo spreco energetico. Il Covid, che ha costretto tutti a lavorare da remoto, e il caro-bollette, che ha appesantito i bilanci, stanno cambiando l’appoggio alla tecnologia e alla sostenibilità delle piccole aziende italiane, le quali sono appunto sono sempre più digitalizzate e addirittura fra le leader in Europa nella lotta allo spreco energetico Lo certifica l’Istat nel suo ultimo rapporto ‘Imprese e ICT. Anno 2022′.

Più internet significa anche più commercio on line. Il 13,0% delle piccole e medie aziende ha effettuato vendite online per almeno l’1% del fatturato totale (12,7% nel 2021) e il 17,7% delle pmi attivo nell’e-commerce ha realizzato online il 13,5% dei ricavi totali (rispettivamente 17,9% e 9,4% nel 2021). In generale, il 18,3% delle imprese con almeno 10 addetti ha effettuato vendite online fatturando il 17,8% del fatturato totale, rispettivamente 22,8% e 17,6% a livello Ue. In termini di composizione, il valore delle vendite online si realizza soprattutto nel comparto del commercio (35,6%), per il 28% nel settore manifatturiero (con prevalenza delle attività legate all’automotive), e per un’analoga quota nel settore energetico. In termini dimensionali, il 60% del valore online proviene da vendite delle imprese di maggiori dimensioni e il 40% dalle pmi. Nella composizione delle imprese che vendono online si confermano i settori già individuati, a parte quello energetico dove sono presenti poche imprese. Inoltre, emergono i settori della ristorazione e degli alloggi, che coprono più di un terzo (35%) di tutte le imprese attive nell’e-commerce e che, per il 95,1%, appartengono alla dimensione delle Pmi.

Il balzo tecnologico si è poi accompagnato a una riduzione degli sprechi. È aumentato fra le piccole e medie aziende il controllo del consumo di carta (68,0%) e del consumo di energia delle apparecchiature ICT (52,2%). L’Italia, preceduta solo dal Portogallo, è ora in vetta alla classifica europea su due fronti: il 74,9% delle imprese adotta comportamenti green nella scelta della tecnologia valutandone anche l’impatto ambientale, mentre il 59,9% delle imprese combina la valutazione dell’impatto ambientale dei servizi o delle apparecchiature ICT, prima di selezionarli, con l’adozione di misure che incidono sul consumo di carta o di energia delle tecnologie informatiche.

Infine, l’86,9% delle imprese destina le apparecchiature non più utilizzate alla raccolta differenziata dei rifiuti elettronici (compresa quella effettuata direttamente dai propri fornitori), il 48,6% le conserva nell’impresa per utilizzare le parti di ricambio o per evitare che vengano divulgate informazioni sensibili, il 25% le rivende o le restituisce se in leasing, oppure le dona. La variabilità dei comportamenti dipende più dall’attività economica svolta dalle imprese che dalla loro classe dimensionale e, in generale, le più attente all’ambiente sono quelle attive nei servizi. In particolare, nell’impatto ambientale dell’ICT risultano più virtuose le imprese attive nei servizi postali e di corriere, nelle telecomunicazioni e nei servizi di alloggio mentre per il riutilizzo circolare dell’ICT sono più attive quelle del comparto editoriale, della fabbricazione di prodotti farmaceutici e della fornitura di energia.

Meriti e bisogni, un’alleanza liberale e riformista per l’Italia

Carlo Calenda e Matteo Renzi stanno proponendo un approccio molto nuovo per la politica italiana: delineare soluzioni analitiche e strutturate per ognuno dei problemi che il nostro Paese deve fronteggiare. Si tratta di una grande novità perché la politica italiana negli ultimi decenni è stata incatenata alla moda dei tweet, di TikTok e delle parole d’ordine urlate.

Molti commentatori tendono a rappresentare questa impostazione come ‘post ideologica’, talvolta per criticarla, talvolta per apprezzarla. In realtà, a noi non pare esserci contrapposizione tra le proposte concrete e la buona amministrazione da una parte e una ‘visione’ fondante che sostenga e sorregga la costruzione di un progetto dall’altra. Pensiamo al contrario che ci possa essere in questo approccio un pensiero profondo capace di orientare una vasta area politica, che crescerà nei prossimi mesi ed anni, rappresentata da tutti coloro che non si riconoscono più né in una sinistra astratta ed estremista a vocazione sempre più minoritaria né in una destra sovranista e populista.

Pensiamo che nell’era dei tweet e dei social che semplificano ogni ragionamento fino a banalizzarlo ci sia ancora e sempre più bisogno di un pensiero profondo capace di dominare la complessità della situazione italiana, proponendo però uno schema di gioco nuovo e non più legato agli ideologismi e schematismi di destra e sinistra.

L’Italia di oggi è un’altra Italia rispetto a quella che i profeti di sventura continuano a narrare: è un’Italia più moderna e competitiva che cresce di più degli altri Paesi; non è più il ‘fanalino di coda’ dell’Europa e anzi, con una crescita che nel biennio 2021-2022 supererà certamente il 10%, si presenta come una delle economie più dinamiche del mondo.

Una crescita dovuta alla forza di un sistema industriale manifatturiero altamente diversificato e profondamente mutato grazie, va riconosciuto, all’innovazione tecnologica consentita dal Piano Industria 4.0 del Governo Renzi e del Ministro Calenda; piano che ha consentito all’Italia, negli ultimi sette anni, di essere tra le grandi economie europee quella con il più forte aumento di produttività del settore.

Nonostante le tante profezie di sventura (ve le ricordate le previsioni di Landini della ‘macelleria sociale’ e dei milioni di disoccupati a venire, ma anche le previsioni completamente sbagliate sulla nostra crescita del Fondo Monetario Internazionale?), l’occupazione negli ultimi due anni è cresciuta di molto e non solo nel lavoro occasionale ma anche nei contratti a tempo indeterminato, e le diseguaglianze sociali, come ci conferma l’Istat, sono diminuite.

Ciò è avvenuto grazie alla forza dell’industria italiana ed alle sue straordinarie caratteristiche di diversificazione, territorialità, innovazione, bellezza e capillarità; ma è avvenuto anche per il prestigio internazionale del Governo Draghi e per la sua azione, improntata a un riformismo pragmatico e solidale che costituisce il riferimento obbligato per quella parte d’Italia che cerca una nuova via.

È nostra convinzione che il cuore della visione che quest’Italia merita, che il fulcro del ragionamento che va proposto, siano quelli della costruzione di un equilibrio virtuoso tra crescita economica ed equità sociale, tra mercato e società, tra meriti e bisogni Merito come riconoscimento della creatività, dell’impegno, del valore e dei risultati individuali; ma anche come strumento essenziale per dare risposte efficienti e inclusive ai bisogni vecchi e nuovi provenienti in particolare dagli strati più deboli della società.

Il principale riferimento culturale del ragionamento che stiamo proponendo è quello al liberalismo egualitario del filosofo americano del ’900 John Rawls, un liberalismo attento alla questione dell’uguaglianza e delle pari opportunità e per questo molto in voga negli anni ’60 e ’70 del novecento tra i democratici americani; un liberalismo il cui tratto distintivo e immancabile era un’idea di giustizia concepita come equità.

Ma è impossibile non pensare che quella riflessione fosse influenzata anche dal concetto di ‘socialismo liberale’, dottrina politica elaborata da Carlo Rosselli negli anni ’30 sempre del secolo scorso, ritenuta per molto tempo una conciliazione impossibile tra due sistemi di pensiero apparentemente incompatibili; in realtà essa fu il riferimento, nel secondo dopoguerra, dell’azione di molti governi europei e in particolare di quello laburista britannico tra il 1946 e il 1951, dove un partito socialista aveva ispirato la sua azione alle proposte di due liberali, sia pure in senso anglosassone, come Keynes e Beveridge.

Anche in Italia negli anni del centro-sinistra aveva agito una corrente socialista liberale intesa come sintesi tra il filone socialista di Pietro Nenni e Riccardo Lombardi, quello cattolico di Pasquale Saraceno e quello laico di Ugo La Malfa.

Il tema di un riformismo socialista e liberale fu poi al centro di tutta l’elaborazione del Psi negli anni di Craxi lanciata nel 1982 dalla conferenza programmatica di Rimini dal titolo ‘Governare il cambiamento’.

Perché ritorniamo ancora una volta sul tema evocato, nel lontano 1982, dell’alleanza riformista tra il merito e il bisogno e sul filone culturale del socialismo liberale o del liberalsocialismo? Perché siamo profondamente convinti che quel pensiero e quelle intuizioni contengano una straordinaria modernità e costituiscano l’unica àncora di salvezza per fare uscire le società occidentali dal vicolo cieco di un capitalismo senza inclusione e di un mercato senza equità che provocano sfiducia nella democrazia, rivolta contro le classi dirigenti, complottismi e populismi di varia natura.

I cambiamenti che ci stanno davanti e che vanno governati sono enormi:

  • Economici, perché la centralità e il dominio dell’occidente si sono progressivamente indeboliti dinanzi all’impetuosa crescita di altre aree del mondo, in primis la Cina. La globalizzazione, così benefica per lo sviluppo di nuove economie e l’emancipazione di enormi masse di popolazioni nel mondo, in Occidente ha colpito duramente le fasce sociali deboli non adeguatamente protette dagli effetti delle trasformazioni in atto;
  • Politici, perché il disorientamento provocato in occidente dalle nuove povertà e dalle nuove emarginazioni ha causato una diffusa insoddisfazione e critica nei confronti dell’establishment, contestato e messo in discussione da nuovi soggetti politici di cui Trump è stato l’emblema ma di cui vi sono stati esempi anche in Europa ;
  • Culturali, infine, perché i venti impetuosi del populismo e del sovranismo hanno generato mostri come la negazione del valore delle competenze, la strumentalizzazione della paura verso i flussi migratori e gli ‘stranieri’ in generale, la convinzione che i politici siano tutti incapaci e/o ladri. In molte situazioni il giustizialismo, con la crescita debordante di un potere distorto e abnorme della magistratura e dei pubblici ministeri, ha condizionato la politica fino a farla rinunciare a quote sempre maggiori di potere a favore dei giudici.

In altre parole, fino ad ora non si è riusciti a ‘governare il cambiamento’ come auspicavano i socialisti italiani quasi quaranta anni fa. L’immensa ricchezza generata dalla crescita dell’economia mondiale e dalla diffusione dello sviluppo in aree del mondo che non l’avevano ancora conosciuto, in Occidente non sembra aver allargato il benessere ma al contrario lo ha ristretto concentrando sempre di più la disponibilità di denaro nelle mani di pochi. Le conseguenze della globalizzazione, al contrario, hanno impoverito ceti sociali intermedi che avevano conosciuto negli anni del dopoguerra e successivi un sostanziale miglioramento delle loro condizioni di vita.

In definitiva il capitalismo occidentale molte volte non è riuscito ad essere né gentile né inclusivo. Si è trattato spesso di un capitalismo soprattutto finanziario, con logiche di ritorni molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con stipendi e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi, molto bassi per impiegati e operai. Un capitalismo senz’anima e destinato al fallimento.

In questo contesto i meriti o non sono stati riconosciuti o hanno generato invidia sociale anziché ammirazione. Non si è riusciti a creare una vera situazione di pari opportunità che consentisse ai migliori di ogni strato sociale di emergere e di affermarsi, povertà nuove si sono aggiunte a quelle vecchie e moltissimi bisogni sono rimasti insoddisfatti.

Come diceva Claudio Martelli nel lontano 1982, non ci sono più, o ci sono sempre meno, gli operai alienati dalla catene di montaggio (oggi le catene di montaggio con la presenza umana non esistono praticamente più grazie ai robot). Ci sono altre figure: i reietti dalle società contemporanee non sono più soltanto i poveri in senso tradizionale, denutriti e disoccupati, bensì gli esclusi dalla conoscenza, o dagli affetti o dalla salute. Cittadini dimezzati e dimenticati, affetti da nuove forme di povertà spirituale, affettiva, culturale oltre che materiale, povertà che amplificano il dolore insito nella condizione umana e ne deprimono la volontà di riscatto.

Nel nostro Paese, bloccatosi l’ascensore sociale che aveva caratterizzato gli anni del ‘miracolo italiano’, si è avuta molto spesso la sensazione che fossero più le relazioni e le influenze, piuttosto che il merito, a garantire il successo individuale; questa contraddizione è esplosa fragorosamente con la fuga all’estero di decine di migliaia di giovani ben formati nelle nostre scuole e università ma frustrati dall’impossibilità di trovare un lavoro e un reddito consoni alla loro formazione.

E ancora: la tremenda caduta della produttività in Italia nel settore pubblico e dei servizi è frutto anche della mancata modernizzazione del Paese, delle riforme che non si sono fatte e delle rigidità del mercato del lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, dove le politiche sindacali sono state sempre pervicacemente contrarie a formule contrattuali capaci di premiare il merito, la qualità del lavoro svolto, la dedizione e la lealtà al servizio. Un egualitarismo senza merito che ha spinto verso il basso le performance pubbliche del Paese e in forza del quale il riconoscimento dei bisogni è diventato assistenzialismo.

Oggi l’Italia, forte della straordinaria performance della sua economia e della sua industria nel post-covid, e dell’importante processo di riforme avviate dal Governo Draghi è in grado di essere il luogo dove si possono coniugare crescita e inclusione sociale richiamando la cultura dei diritti ma anche quella dei doveri, premiando una via che non mortifichi i talenti, la creatività, le energie individuali e imprenditoriali, ma al contrario le valorizzi per risolvere i problemi di tutti.

Per fare tutto ciò occorre una visione e una leadership. Non può esistere una leadership senza visione, ma una visione è impossibile senza un solido radicamento ai valori-guida. Un’alleanza riformista e liberale tra meriti e bisogni potrebbe il potente motore che finalmente porta a compimento la modernizzazione del Paese. Nenni diceva che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Chi potrebbero essere i protagonisti di questa alleanza riformista per la rinascita del Paese?

Tutti coloro i quali, sia in maggioranza che all’opposizione, si ispirano ad una cultura riformista e liberale e che devono avere la forza di superare divisioni e personalismi creando una grande aggregazione politica e riempiendo quello spazio che sarà una prateria quando finirà la fiera delle balle e quando gli italiani si saranno riavuti dall’ubriacatura dell’uno vale uno, dei no vax, del no alle grandi opere, della decrescita felice, di un ambientalismo estremista, triste ed inutile.

Lasciateci dire, da imprenditori e uomini di azienda, che le imprese, veri attori delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, possono essere luoghi privilegiati per la costruzione di questa alleanza. Le imprese virtuose misurano il valore di questa visione tutti i giorni e costruiscono dal basso il futuro di un capitalismo gentile e inclusivo.

Molti di noi hanno sempre avuto nel modello di Adriano Olivetti il punto di riferimento. Un modello oggi, dopo più di settanta anni, riscoperto da molte imprese soprattutto al nord.

Al centro di questo modello c’è la consapevolezza che il capitale umano è la più grande ricchezza di cui le imprese dispongono; che bisogna migliorare continuamente il welfare aziendale; che bisogna consentire con opportuni interventi la migliore parità tra uomini e donne, consentendo a queste ultime di rendere compatibile famiglia e lavoro, anche con la realizzazione di asili nido interni alle aziende per favorire la maternità; che bisogna realizzare spazi sempre più belli e accoglienti dove la gente lavora; che bisogna intensificare le attività di formazione permanente dei lavoratori, aumentare le borse di studio e i supporti all’educazione dei loro figli; che bisogna lavorare per meccanismi retributivi sempre più incentivanti il merito, la creatività e l’impegno e la partecipazione dei dipendenti agli utili delle imprese.

La dimensione piccola e media e la natura molto spesso di proprietà familiare delle nostre imprese posizionano bene il nostro sistema imprenditoriale rispetto ad un approccio rispettoso e inclusivo dell’attività aziendale, che è normalmente permeata da un fitto sistema di scambi e relazioni positive e virtuose con le persone che lavorano nell’impresa e che spesso la sentono come loro.

Moltissimi imprenditori italiani pensano che non vi sia meccanismo più inclusivo dell’impresa stessa, quando è capace di creare contemporaneamente ricchezza e occupazione qualificata e di investire continuamente in idee, innovazione e tecnologia per garantire un futuro sostenibile di lungo periodo. Quando è capace di dar vita all’alleanza virtuosa tra meriti e bisogni, mettendo i primi a disposizione dei secondi e cercando che questa alleanza non si limiti soltanto all’interno dell’impresa stessa ma giochi anche al suo esterno interpretando correttamente il concetto di responsabilità sociale.

L’Inflazione scende in Europa, in Italia invece no. Ecco spiegato il perché

Stabile a novembre l’inflazione in Italia anche se rimane a livelli che non si vedevano dal 1984.
“Dopo la brusca accelerazione di ottobre, a novembre l’inflazione, che rimane a livelli che non si vedevano da marzo 1984 (quando fu +11,9%), è stabile. I prezzi di alcune componenti, che ne avevano sostenuto l’ascesa, tra cui gli energetici non regolamentati e in misura minore gli alimentari non lavorati, rallentano su base annua, mentre quelli di altre componenti continuano ad accelerare, tra cui gli energetici regolamentati e in misura minore gli alimentari lavorati. Anche i prezzi del carrello della spesa accelerano ma di poco. Se nei prossimi mesi continuasse la discesa in corso dei prezzi all’ingrosso del gas e di altre materie prime, il fuoco dell’inflazione, che ha caratterizzato sin qui l’anno in corso, potrebbe iniziare a ritirarsi”. Commenta così l’Istat la stima preliminare flash sull’inflazione, che ha visto i prezzi crescere dello 0,5% rispetto ad ottobre, contro attese di un +0,2%, e dell’11,8% nei confronti di novembre 2021, la stessa percentuale dello scorso mese. Per le associazioni dei consumatori una famiglia tipo spenderà mille euro in più solo per il cibo, mentre le organizzazioni imprenditoriali lanciano l’allarme consumi in vista del Natale ma soprattutto verso il 2023.
Secondo l’Istat l’aumento mensile del tasso d’inflazione è dovuto prevalentemente ai prezzi dei Beni energetici regolamentati (+3%) – nonostante la diminuzione nel mercato tutelato delle bollette del gas, – degli Energetici non regolamentati (+2,2%), degli Alimentari lavorati (+1,5%) e dei Beni non durevoli (+0,6%). In calo invece, a causa per lo più di fattori stagionali, i prezzi dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-0,4%) e dei Servizi relativi ai trasporti (-0,2%). Anno su anno continua a essere più caro il famoso carrello della spesa: i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una accelerazione su base tendenziale (da +12,6% a +12,8%), mentre rallentano, al contrario, quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +8,9% a +8,8%). E sempre 2022 su 2021 va segnalato che l’inflazione ‘di fondo’, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +5,3% a +5,7% e quella al netto dei soli beni energetici sale da +5,9% a +6,1%.
Stabili congiunturalmente i prezzi dei Beni alimentari non lavorati (da +12,9% a +11,3% anno su anno), a causa della decelerazione dei vegetali (da +25,1% a +14,8%; -4,9% su base mensile), mentre accelerano quelli della frutta (da +6,4% a +6,9%; +3,4% rispetto a ottobre).
Andamenti in accelerazione si osservano per i prezzi del gas di città e nel mercato tutelato (da +3,4% a +13,4%; +9,8 rispetto al mese precedente), per i prezzi degli alimentari lavorati (da +13,3% a +14,4%; +1,5 su base mensile) e di ristoranti e bar (da +6,6% a +7,3%; +0,9% il congiunturale).
Proprio l’incremento di quasi il 10% del prezzo del gas rispetto ad ottobre, nonostante il crollo della quotazione all’ingrosso della materia prima e l’abbassamento delle bollette nel mercato tutelato, fa sì che in Italia l’inflazione continui ancora a salire. Nel resto d’Europa invece, mese su mese, il caro-vita è sceso nei principali Paesi: -0,5% in Germania, +0,4% in Francia (con un annuale però di +6,2% rispetto al +11,8% italiano) e -0,1% in Spagna.
Infatti l’Eurostat certifica che su base mensile l’indice dei prezzi al consumo nella Ue ha mostrato una flessione dello 0,1% rispetto al +1,5% dello scorso mese, mentre anno su anno l’inflazione è salita del +10% contro attese ferme al +10,4% e un dato precedente al +10,6%.

riciclo

Cresce la raccolta differenziata in Italia, ora è al 63%. Ma pesano i costi elevati

Migliora la situazione rifiuti in Italia. Cresce la raccolta differenziata e aumenta l’energia prodotta dalla spazzatura. Restano, tuttavia, criticità, lamentate dalle famiglie sulle modalità della raccolta e sui costi. Questo, in sintesi, è quello che emerge dal rapporto Istat e da un’analisi di Utilitalia.

Nel 2020 diminuisce la produzione di rifiuti urbani rispetto al 2019 (-3,6% con 487 kg di rifiuti urbani prodotti per abitante), mentre raggiunge il 63% la quota di raccolta differenziata che nel 2019 era pari al 61,3%, fa sapere l’istituto di statistica. Sono più del 90% le famiglie che dichiarano di aver sempre effettuato la raccolta differenziata nel 2021 (91,8% per la carta, 90,8% per la plastica e 91,1% per il vetro). In crescita anche la differenziazione dell’umido/organico (86,7% dall’83,9% del 2018), quella dell’alluminio (81,3% dal 71,3%), la raccolta costante di farmaci (84,8% dal 48,2%) e di batterie (52,8% dal 45,6%).

A TRENTO RECORD RACCOLTA DIFFERENZIATA. La quota di raccolta differenziata dei rifiuti urbani aumenta in tutte le regioni, fatta eccezione per la provincia autonoma di Trento (-0,9 punti percentuali rispetto al 2019) e la Val D’Aosta (-0,6 punti percentuali). Nonostante il lieve calo, qui si ha la quota più alta di raccolta differenziata (76,7%) e una produzione di rifiuti urbani pro capite inferiore alla media nazionale (486,4 kg per abitante). A seguire il Veneto (76,1% di raccolta differenziata e 476,1 kg per abitante di rifiuti urbani), la Sardegna (74,5% di raccolta differenziata e 444,4 kg per abitante di rifiuti urbani prodotti) e la Lombardia (73,3 e 467,8). A livello di città, 56 capoluoghi hanno superato il target del 65% (51 nel 2019 e 17 nel 2015). Tra questi svettano Treviso, Ferrara e Pordenone con oltre l’87%. In 37 capoluoghi si registra una quota di raccolta differenziata inferiore rispetto all’anno precedente; il calo più consistente si rileva a Catania, che passa da 14,5% a quota 9,7% di raccolta differenziata. In sei capoluoghi si registra invece un incremento di oltre 10 punti percentuali: ad esempio a Siracusa e Messina.

AL NORD LE FAMIGLIE PIU’ VIRTUOSE. Nel dettaglio, le famiglie che dichiarano di differenziare sempre i contenitori in plastica passano dall’87,1% del 2018 al 90,8% del 2021. Invece quelle che differenziano sempre i contenitori in vetro sono il 91,1% nel 2021 dall’85,9% del 2018, una quota da sempre più alta rispetto agli altri tipi di rifiuti e in costante crescita. Per la carta l’andamento è simile a quello del vetro: 91,8% nel 2021 da 86,6% nel 2018. In decisa crescita nel tempo anche la raccolta di batterie esauste (dal 45,6% nel 2018 al 52,8% nel 2021) e di farmaci scaduti (dal 48,2% al 54,6%). Ma la crescita più sostenuta nei tre anni considerati si registra per la raccolta dei contenitori in alluminio (dal 71,3% all’81,3%). Sul territorio la quota di famiglie che differenzia costantemente i rifiuti è più alta al Nord ma la distanza con le altre zone del Paese si è ridotta nel tempo grazie alla progressiva diffusione di buone prassi, come il servizio di raccolta porta a porta attivato in molti comuni italiani. Infatti è salita a poco più del 73% la percentuale delle famiglie che dichiara di essere servita dal servizio di raccolta porta a porta: nel 2018 era al 66%.

I RIFIUTI COME RISORSA DI ECONOMIA CIRCOLARE. Grazie a questi sforzi sono aumentati i benefici, legati a uno sfruttamento dell’economia circolare. Tra i risultati ottenuti – emerge dallo studio “Utilities protagoniste della transizione ecologica: le sfide dell’economia circolare”, realizzato dalla Fondazione Utilitatis in collaborazione con AGICI e presentato oggi a Rimini alla Fiera Ecomondo – spiccano i 160 milioni di metri cubi di biogas prodotti, un tasso di recupero dei fanghi di depurazione pari all’87% e un tasso di rifiuti avviati a riciclo superiore al 90%. A livello europeo il rapporto tra uso di materia proveniente da processi circolari e uso complessivo di materia si attesta al 12,8%, in Italia questo valore è pari al 21,6%, secondo solamente a quello della Francia (22,2%) e di quasi dieci punti percentuali superiore a quello della Germania (13,4%).

COSTI E MODALITA’ DI RACCOLTA RESTANO CRITICI. Restano tuttavia criticità. Nel 2021 il 58,6% delle famiglie reputa elevato il costo dei rifiuti (in diminuzione dal 2018 quando erano il 68,2%), il 37,2% lo definisce adeguato e solo lo 0,9% lo giudica basso. In Sicilia e in Umbria supera il 70% la quota di famiglie critiche sul costo della raccolta dei rifiuti, definito adeguato da circa il 49% delle famiglie sia della Provincia Autonoma di Trento che della Lombardia; seguono Molise (47,6%) e Friuli Venezia-Giulia (42,4%). Tranne il Molise, le regioni del Sud mostrano la percentuale più bassa di famiglie che ritengono adeguato il costo del servizio di raccolta rifiuti toccando il minimo del 23,2% in Sicilia (33,2% la media nazionale).
Inoltre le famiglie servite dal servizio di raccolta rifiuti porta a porta si dichiarano insoddisfatte soprattutto per la frequenza della raccolta dei rifiuti (57,3%). Nell’ordine seguono problemi legati agli odori dei rifiuti organici non raccolti (40,3%), agli orari (32,3%) e alla gestione dei sacchetti/contenitori destinati alla raccolta (28,0%). Quasi tre famiglie su 10 non sono convinte che i rifiuti vengano separati adeguatamente una volta raccolti e una quota del 17,2% non è soddisfatta delle informazioni ricevute. Per i cittadini, infine, la presenza di detrazioni o agevolazioni fiscali migliorerebbe in termini sia quantitativi che qualitativi la partecipazione alla raccolta differenziata (lo dichiara l’88,8% delle famiglie). Sarebbero poi utili maggiori garanzie di un effettivo riciclo (per il 69,9%) e la presenza di sanzioni /multe per chi non differenzia i rifiuti secondo il 61,7% degli intervistati da Istat.

agricoltura

L’agricoltura attira i giovani: oltre 19mila under 35 tornano in campagna nel 2022

Pandemia, crisi energetica, precarizzazione. E i giovani si rifugiano nell’agricoltura. Sono infatti oltre 19mila gli under 35 che nel 2022 si sono dedicati alla campagna, tornando a rinvigorire un settore che prima della pandemia sembrava in sofferenza. I dati diffusi dalla Coldiretti, sulla base del focus ‘La dinamica dell’occupazione giovanile’, contenuto nella rilevazione Istat sul mercato del lavoro nel II trimestre del 2022, mostrano come in piena pandemia sia cresciuto il numero di giovani imprenditori agricoli, con un incremento dell’8% negli ultimi cinque anni, in netta controtendenza rispetto all’andamento generale dell’economia.

Rispetto al mercato del lavoro nazionale, quello della popolazione giovane è caratterizzata da un’elevata diffusione di lavoro precario che per primo risente degli andamenti restrittivi o espansivi del ciclo economico. Per la fascia 15-34 anni, infatti, è stato più intenso sia il calo tendenziale iniziato nel secondo trimestre 2020, quando tra gli under35 ha sfiorato i 4 punti percentuali, fermandosi a poco più di 2 punti tra i più adulti e protrattosi fino al primo trimestre 2021, sia la ripresa successiva iniziata nel secondo trimestre 2021, quando l’incremento del tasso tra i giovani è stato quasi il triplo di quello dei più adulti. Parola di Istat. Ma con la crisi provocata dall’emergenza sanitaria, il settore agricolo sembra essere diventato di fatto il punto di riferimento importante per le nuove generazioni tanto che, come ricorda Coldiretti, al lavoro nelle campagne italiane c’è un esercito di 55mila imprese giovani che ha di fatto rivoluzionato il mestiere dell’agricoltore impegnandosi in attività multifunzionali che vanno dalla trasformazione aziendale dei prodotti alla vendita diretta, dalle fattorie didattiche agli agriasilo, ma anche alle attività ricreative, l’agricoltura sociale per l’inserimento di disabili, detenuti e tossicodipendenti, la sistemazione di parchi, giardini, strade, l’agribenessere e la cura del paesaggio o la produzione di energie rinnovabili.

La pandemia ha accelerato il fenomeno del ritorno alla terra e maturato la convinzione comune che le campagne siano oggi capaci di offrire e creare opportunità occupazionali e di crescita professionale, peraltro destinate ad aumentare nel tempo”, ha affermato la leader dei giovani della Coldiretti Veronica Barbati nel sottolineare che “occorre ora sostenere il sogno imprenditoriale di una parte importante della nostra generazione che mai come adesso vuole investire il proprio futuro nelle campagne, abbattendo gli ostacoli burocratici che troppo spesso si frappongono”.