luxury fashion

La sostenibilità nella moda tra luxury, fast fashion e riciclo

In Cina c’è un detto popolare: “Se vuoi conoscere i colori e le tendenze della prossima stagione, guarda il colore dei fiumi“. E no, purtroppo non è solo un modo di dire: nel quadrante asiatico non sempre esiste e viene applicata una vera e propria regolamentazione nei confronti del materiale di scarico delle industrie, e quelle tessili – con le oltre 200 sostanze chimiche utilizzate, tra cui coloranti, sali e metalli pesanti – sono davvero le dirette responsabili del cambio di colore delle acque di fiumi e torrenti.

IL TESSILE, SECONDA INDUSTRIA PIÙ INQUINANTE AL MONDO

Il settore tessile, infatti, rappresenta la seconda industria più inquinante al mondo, preceduta – com’è immaginabile – solo da quella petrolifera. E se vi pare assurdo, pensate che ogni anno vengono venduti oltre ottanta miliardi di abiti, ovvero il 400% in più rispetto a 20 anni fa. Per avere un quadro generale sulla situazione e immaginarne gli scenari futuri, GEA ha intervistato il professor Luca Andriola, docente universitario ed esperto in sostenibilità nel settore della moda, il quale ci ha raccontato che, finalmente, nel mondo del fashion qualcosa sta cambiando.
Fortunatamente anche in questo settore c’è una maggior attenzione nei confronti dell’ambiente e della sostenibilità dei prodotti e dei processi industriali“, ha spiegato Andriola, “in particolare l’attenzione è massima nel settore di alta gamma, ovvero i marchi del lusso, in cui le catene di fornitura si stanno muovendo tutte in ottiche green“.

IL SISTEMA DI TRACCIABILITÀ NELLA MODA

Il sistema di tracciabilità della catena produttiva in ambito luxury infatti “è rigidissimo“, e questo anche “per un concetto di brand reputation: ora che il consumatore è più consapevole, disinteressarsi a queste tematiche potrebbe comportare perdite di quote importanti di mercato“. In particolare, “il settore lifestyle del luxury è ormai orientato alla sostenibilità, e rispecchia un altro concetto importante, ovvero quello del wellness: chi ha anche un minimo potere di spesa ricerca oggi il benessere e la sostenibilità. Essere green, essere smart ed essere luxury oggi sono diventati concetti quasi sovrapponibili“. Anche i grandi marchi dello sportswear sono già molto attenti al green lifestyle, che “pervade le nuove generazioni che sono acquirenti della moda: i giovani sono molto attenti alla cura del corpo e al benessere. E il concetto stesso dello sport, che è fatto principalmente all’aria aperta, si sposa in automatico con il concetto di sostenibilità e di rispetto per l’ambiente“.

IL ‘MADE GREEN IN ITALY’

L’Italia è molto innovativa attenta su questo tema, “e il cliente finale ricerca anche il “made green in Italy”, ovvero l’unica certificazione in grado di coniugare la dimensione delle performance ambientali dei prodotti con la dimensione del made in Italy, legata alle eccellenze del sistema produttivo nazionale“.

IL FAST FASHION

Discorso totalmente diverso in caso di fast fashion, “che risulterebbe a maggior impatto di più anche per i numeri e le numerose collezioni che vengono prodotte ogni anno. E qui la problematica ambientale si intreccia con quella etica, ovvero le condizioni di vita e di lavoro, spesso precarie e non regolamentate, di chi lavora in questo settore nei Paesi extra Ue”.

LE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI DI PROCESSO E DI PRODOTTO

Le certificazioni, specifica il professor Andriola, “sono ancora su base volontaria. Il sistema di registrazione EMAS, ma anche quello di certificazione ISO, forniscono garanzie al consumatore finale, in quanto schemi riconosciuti sia a livello europeo che a livello globale. Ne consegue che «sia una registrazione Emas che una certificazione ISO 14001 del processo produttivo possono fornire credibilità ed affidabilità“. Sulla certificazione di prodotto, “al momento le garanzie maggiori per il consumatore finale sono date dall’Ecolabel, un regolamento comunitario su prodotti e servizi“. Per quanto riguarda le sostanze pericolose, “in Europa abbiamo già un sistema molto protettivo per i consumatori, ma extra UE è evidente che non è la stessa cosa, anche per un evidente problema di tracciabilità, che diventa talvolta molto complessa“.

LA WATER FOOTPRINT

Un altro tema fondamentale da trattare necessariamente quando si parla di sostenibilità “è la water footprint, ovvero – come si legge sul sito del Governo – l’impronta idrica di un singolo, una comunità o di un’azienda, definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi d’acqua consumati e inquinati per unità di tempo“. Oggi, nel settore della moda, “si è finalmente affacciato anche il concetto dell’impronta ecologica dell’acqua“, spiega Andriola. “Non basterà più parlare del proprio contributo alla diminuzione della Co2, ma lo scenario sarà soprattutto focalizzato sull’acqua e sul suo utilizzo nel processo produttivo“.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Il professor Andriola, immaginando il mondo da qui ai prossimi dieci anni, è positivo, ma serve che le associazioni appartenenti al settore della moda “continuino a fare cultura di sostenibilità: sono loro che devono diffondere criteri di sostenibilità, policy ambientali e dichiarazioni di impegno. Un secondo passaggio è quello di introdurre indicatori di performance ambientale, ovvero: quanta acqua si utilizza per metro quadrato tessuto, quanta energia, etc., arrivando a creare un benchmark ambientale tra le imprese da pubblicare ogni anno in un report sostenibilità dell’associazione“. E il futuro? “Arriveremo a un punto in cui la moda sarà al 100% di materiale riciclato. Ed è un obiettivo reale, per tutti i settori. Ne sono sicuro”.

Gucci

Sostenibilità fashion, all’Italia la medaglia d’argento

Tra le tante medaglie sportive vinte dal nostro Paese nel corso del 2021, arriva un “secondo posto” di tutto rispetto anche da un settore in cui, da sempre, è considerato l’emblema: il mondo del fashion. Secondo il Circular Fashion Index 2022 di Kearney, infatti, l’Italia risulta essere il secondo Paese sostenibile tra i principali produttori in ambito moda.

LA RICERCA DI KEARNEY

Kearney, società di consulenza che valuta gli sforzi dei brand per estendere il ciclo di vita dei prodotti, ha preso in considerazione 150 marchi globali in rappresentanza di 20 Paesi e sei categorie: sport e outdoor, biancheria intima e lingerie, lusso, lusso conveniente, mercato di massa e fast fashion. Le performance di circolarità delle aziende sono state valutate su sette dimensioni, coprendo sia il mercato primario, come la vendita di nuovi prodotti ai clienti (valutando la quota di tessuti riciclati, il peso della circolarità nella comunicazione, il livello di dettaglio delle istruzioni di lavaggio e la disponibilità di servizi di riparazione) che quello secondario (ovvero la vendita di seconda mano, i servizi di noleggio e di raccolta di indumenti usati). Successivamente, sono stati combinati questi punteggi per averne uno complessivo tra 1 e 10 (1 rappresenta il punteggio più basso e 10 il più alto).
I risultati non sono incoraggianti: solo il 7 % dei brand utilizza materiali riciclati in misura credibile; il 54 % utilizza materiali riciclati solo per alcuni articoli selezionati, ma il 39 % non utilizza materiali riciclati di nessun tipo. Riguardo alla comunicazione sulla cura del prodotto, solo il 46% dei brand fornisce questi dettagli – ma in modo approssimativo – alla clientela, mentre il 44% non lo fa per niente. E anche se la promozione della circolarità è tra le misure più facili da implementare, il 44 % dei marchi non la promuove affatto, e il 40 % si accontenta di dare la quantità minima di istruzioni richieste dalla legge.

GUCCI e OVS SUL PODIO

Da Italiani possiamo essere orgogliosi: nel settore del lusso, il podio va alla maison fiorentina Gucci, ma nella Top 10 della classifica generale c’è anche Ovs, che si posiziona al quinto posto: l’azienda è passata dal 65% di tessuti riciclati della collezione 2020 a un’ambizione del 90% entro il 2025, con maggiori istruzioni per la cura dei capi, servizio di riparazione disponibile in alcuni negozi e donazioni di abiti usati in beneficenza. La Francia, con i suoi 22 marchi, resta fuori dalle prime posizioni ma raggiunge il punteggio più alto nel Circular Fashion Index 2022 (3.65 punti), seguita da Italia a 2.95 (come gli Stati Uniti) e Germania a 2.63. Sul podio della classifica generale restano invece Patagonia, The North Face e Levi’s. Difficile spostare questi colossi, che si contendono da anni le prime tre posizioni.

Rinnovabili

PoliMi: “Il 2021 un anno sprecato per le rinnovabili”

1,3 Gigawatt. È la capacità di rinnovabili installata in Italia nel 2021. Tanto? Poco? Dipende. È molto più rispetto all’anno precedente, e allo stesso tempo è un tasso di installazione troppo debole per gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050. Ma 1,3 Gigawatt – e qui viene il dato più curioso – equivale anche alla potenza che abbiamo perso fino ad oggi a causa dell’invecchiamento di impianti fotovoltaici installati oltre dieci anni fa, e mai rinnovati. In altre parole: installiamo oggi per colmare una perdita che potrebbe essere evitabile.

La proiezione è calcolata all’interno del Renewable Energy Report del Politecnico di Milano, appena pubblicato. Un report che, non a caso, ha parlato del 2021 come ennesimo “anno sprecato” per il mercato delle rinnovabili. Ma che indica il tema del revamping e del repowering delle installazioni esistenti come una delle leve per investire sul futuro in maniera integrata.

Anche perché il patrimonio di impianti ormai datati è grande. Il 75% delle potenza fotovoltaica oggi a disposizione in Italia è stata installata tra il 2010 e il 2013, nell’ambito degli incentivi del Conto Energia. Una stagione importante quella, “che ha avuto il pregio di farci prendere coscienza sul ruolo e sul potenziale delle rinnovabili nel mix energetico” spiega Davide Chiaroni, cofondatore dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, “anche se, col senno di poi, un sistema di incentivazione forse troppo generoso”, che aveva portato in pochissimi anni a una corsa all’installazione improvvisa.

Una delle eredità di quella stagione”, continua Chiaroni, “è stata una diffusione sul territorio di progetti non sempre ben ottimizzati, spesso realizzati da imprese che installavano per la prima volta. Impianti che oggi producono tra il 6,2% e 8,5% in meno”. Diventa allora fondamentale intervenire per non perdere gli sforzi fatti. Con ricostruzioni, rifacimenti, riattivazioni e potenziamenti. “Anche perché dal punto di vista tecnologico” continua Chiaroni, “un impianto fotovoltaico oggi, a parità di superficie coperta, riuscirebbe a produrre oltre il 20% in più”.

Certo, non è semplice attivare una campagna di riqualificazione efficace. Soprattutto per stimolare chi, dieci anni fa, ha investito su taglie di impianti né troppo grandi né troppo piccole, e che quindi può non avere un interesse economico importante nell’intervenire nuovamente. “Un punto di partenza possono essere proposte che invitano i proprietari a sentirsi responsabili verso la comunità” conclude Chiaroni. Il futuro energetico ci riguarda da vicino.

Italia-Giappone

Italia e Giappone insieme per la transizione ecologica

Sono passati quasi 156 anni da quando i nostri paesi firmarono un trattato per la pace perpetua e una amicizia costante”. Inizia così il discorso del presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel punto stampa a Palazzo Chigi, al termine dell’incontro con il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida.

La condanna dell’invasione Russa all’Ucraina è stato l’argomento fulcro del colloquio. A questo proposito, Italia e Giappone, hanno confermato l’impegno congiunto nel “favorire tregue anche localizzate per permettere l’evacuazione dei civili e sostenere i negoziati di pace”, ha annunciato Draghi, sostenendo che “i nostri Paesi sono alleati nella gestione delle emergenze legate alla guerra, prima fra tutte quella energetica“.

Ringraziando il paese del sol levante per aver “accettato con straordinaria prontezza che carichi di gas naturale liquefatto già pre-contrattualizzati con Paesi terzi siano reindirizzati verso l’Europa“, il premier ha posto l’accento sulla “ricca cooperazione economica e commerciale” tra gli Stati, sottolineando che il Giappone è “il secondo mercato asiatico per le nostre esportazioni”. Spingendosi oltre, il presidente del Consiglio ha annunciato: “Dobbiamo rafforzare i nostri partenariati industriali, in particolare in settori innovativi, come l’energia rinnovabile, le biotecnologie, la farmaceutica, la robotica, l’aeronautica“.

Il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, in merito al legame economico e commerciale tra Italia e Giappone, ha ritenuto importante che tra le imprese dei nostri Paesi “sia iniziata una cooperazione in settori quali l’energia, l’idrogeno e il ferroviario“. “I nostri governi – ha concluso Kishida – stanno lavorando anche per sostenere un ulteriore sviluppo della collaborazione tra le aziende, in settori come quelli delle energie rinnovabili e della connettività“.

satellite

Lanciatori satellitari a basso impatto ambientale. In Italia il primo test

Portano in orbita piccoli satelliti con costi bassi, consumi ridotti e a limitato impatto ambientale. I lanciatori satellitari ibridi fanno parte di una nuova tecnologia dove l’Italia è all’avanguardia, con il progetto che ha superato la prima prova con successo. Rampa di lancio, il Poligono Interforze del Salto di Quirra in Sardegna dove il test è stato portato a termine poche settimane fa. Il programma Aviolancio del Dipartimento di ingegneria ICT e tecnologie per l’energia e i trasporti del Consiglio nazionale delle ricerche è in collaborazione con il ministero della Difesa. Si tratta di un programma coordinato dal Cnr- Diitet che consiste nello sviluppo di un lanciatore satellitare aviotrasportato, dotato di un motore a propulsione ibrida. Oltre che a consumi molto bassi, la soluzione innovativa può consentire l’accesso flessibile e autonomo alle orbite Leo (Low earth orbit, a bassa altitudine tra 300 e 1000 km) di piccole piattaforme satellitari con costi notevolmente ridotti, soprattutto rispetto ai lanciatori tradizionali.

È molto difficile, e forse anche non tanto corretto, fare un paragone con lanciatori come il Vega C, sono diverse sia la tecnologia che le modalità di lancio”, spiega a GEA Pantaleone Carlucci che con Lucia Paciucci del Cnr segue il programma. “Il fulcro del progetto è un’innovativa propulsione a razzo ibrida basata su propellenti verdi che è riaccendibile, regolabile, flessibile, sostenibile, rispettosa dell’ambiente e integra diverse funzioni nella stessa unità”. Costi e sicurezza della tecnologia sono alcune delle chiavi del progetto che “consentono durante lo sviluppo, di applicare nuove innovative soluzioni produttive e di semplificare le procedure durante le operazioni di lancio”. Quando si parla di costi è opportuno citare quelli di un lanciatore tradizionale che si aggirano intorno ai 30 milioni di euro, una cifra che varia in base al peso dei satelliti che porta in orbita. Ma come già ricordato, la comparazione è impropria, per quanto i costi di lancio siano stati ridotti grazie alla tecnologia modulare Smss (Small Spacecraft Mission Service), sviluppata per Vega, in grado di rilasciare decine di nano satelliti con un solo lancio.

Un altro aspetto che caratterizza l’operazione è quello ambientale: la prova di volo effettuata in Sardegna ha utilizzato una tecnologia propulsiva ibrida sviluppata dall’Azienda T4i in collaborazione con l’Università di Padova. Un aspetto su cui gli ingegneri non entrano volutamente nel merito: la miscela di componenti è top secret. Grazie anche a una piattaforma progettata con un layout composito unico nel suo genere, “il test ha raggiunto l’altitudine prevista, mostrando prestazioni perfettamente in linea con le aspettative”, racconta l’ingenera Lucia Paciucci, ed “è stato il risultato finale di oltre otto anni di ricerca e sviluppo con oltre 500 test missilistici eseguiti su scale diverse“. Il successo del progetto Aviolancio rappresenta un passo avanti notevole per lo sviluppo dei lanciatori commerciali. “L’Italia può annoverarsi oggi nel ristretto numero di paesi al mondo a disporre delle competenze e delle tecnologie per l’accesso autonomo allo spazio”, spiega il direttore del Cnr-Diitet Emilio Fortunato Campana. “Per far fronte alla sempre più elevata competizione internazionale è necessario procedere nei prossimi anni allo sviluppo e alla crescita delle competenze su sistemi di lancio e di propulsione innovativi – sostiene il direttore del dipartimento – in un’ottica di riduzione dei costi e per incrementare l’autonomia commerciale e operativa dei lanciatori nazionali”. Anche la politica dello spazio cerca così di rispondere alle esigenze dell’emergenza ambientale e dei rischi climatici, combinando soluzioni sostenibili con alte prestazioni e costi ridotti.

cambio ora

Abolire l’ora legale? L’Italia dice no. Si risparmiano oltre 190mln di euro

Risparmiare energia spostando l’orario di lavoro o di normale occupazione nelle ore in cui c’è più luce. È con questa logica che è nata l’ora legale, entrata ufficialmente in vigore in Italia con una legge del 1965. Inizialmente il periodo ‘legale’ era di quattro mesi, da maggio a settembre. Nei primi anni ’80 fu allungato a sei mesi e nel 1996, in accordo con gli altri Paesi europei, portato fino all’ultima domenica di ottobre. L’ora legale fu però introdotta per la prima volta nel 1916 in Gran Bretagna e venne poi adottata anche da altri Paesi.

COME FUNZIONA NEI PAESI EUROPEI

Finora tutti i Paesi europei hanno alternato la regola dell’orario solare e dell’orario legale, ma nel 2018 gli Stati del Nord (come Finlandia, Lituania, Svezia ed Estonia), quelli che meno beneficiano dello spostamento di un’ora, hanno deciso di abolire questo sistema. Il Parlamento europeo aveva approvato la risoluzione legislativa sull’abolizione dell’ora legale con 410 voti a favore, 192 contrari e 51 astensioni. Non si è raggiunta, però, una soluzione univoca che accontentasse tutti i Paesi. Tra il 4 e il 16 agosto 2018 la Commissione Europea ha svolto sul proprio sito una consultazione pubblica aperta sulle disposizioni relative all’ora legale. Agli utenti si chiedeva se, nel caso di abolizione del cambio orario, mantenere o meno sempre l’ora solare o quella legale. Le risposte furono 4,6 milioni, il numero più alto mai ricevuto da una consultazione pubblica. Ma al momento, in pratica, si è lasciata ad ogni Paese la libertà di mantenere o abolire l’ora legale.

L’ITALIA CONTINUA AD ADOTTARLA

L’Italia tornerà a spostare le lancette nella notte tra sabato 26 e domenica 27 marzo 2022 al contrario di tanti Stati europei che hanno abbandonato l’ora estiva lo scorso anno. Secondo Terna, la società che gestisce la rete di trasmissione nazionale, questo permetterà di risparmiare oltre 190 milioni di euro, grazie a un minor consumo di energia elettrica pari a circa 420 milioni di kilowattora. E consentirà, inoltre, di apportare un importante beneficio ambientale, quantificabile nella riduzione di circa 200mila tonnellate di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.

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