Piano Mattei, Urso in missione in Kenya: Ia, digitale e spazio sul tavolo

Spazio, digitale e intelligenza artificiale sul tavolo della missione di Adolfo Urso in Kenya. Prosegue la missione del ministro delle Imprese e del Made in Italy a Nairobi, per sviluppare il Piano Mattei per l’Africa.

Un programma in cui la transizione digitale riveste “grande rilevanza“, spiega Urso al presidente dell’Assemblea Nazionale, Moses Wetang’ula. Il Kenya potrà giocare nell’intera regione, assicura, “un ruolo da protagonista nello sviluppo di investimenti abilitanti l’intelligenza artificiale“, anche attraverso il progetto dell’AI Hub for Sustainable Development. Urso rilancia l’importanza del Gruppo di amicizia parlamentare tra Italia e Kenya e manifesta disponibilità a sviluppare una cooperazione, a partire dall’esperienza italiana, su come valorizzare il Made in Kenya.

Dopo Wetang’ula, il ministro incontra il ministro della Difesa keniota, Soipan Tuya, in vista della visita, prevista per domani, al Centro Spaziale ‘Luigi Broglio’ di Malindi, ricordando l’esperienza ormai più che sessantennale in materia, che “testimonia l’importanza di relazioni strategiche”, sottolinea. Con lui, in visita ufficiale, ci sono l’ambasciatore Roberto Natali, il presidente dell’Asi, Teodoro Valente, il consigliere militare del presidente del Consiglio e segretario del comitato interministeriale sullo Spazio, Franco Federici. Non manca una rappresentanza di grandi imprese italiane del settore aerospaziale (l’ad di Avio, Giulio Ranzo, il direttore del settore spazio di Leonardo, Massimo Claudio Comparini, l’ad di Telespazio, Gabriele Pieralli, e il delegato per l’Aerospazio di Confindustria, Giorgio Marsiaj).

Possibili forme di cooperazione sull’intelligenza artificiale e in campo digitale sono anche il focus del bilaterale con la ministra dell’Informazione, Margaret Ndung’u. “Il Kenya è il Paese che ha maggiormente risposto al programma pilota di accelerazione per startup africane ‘AI Hub for Africa‘”, ricorda Urso. Si tratta della prima applicazione pratica delle conclusioni della ministeriale G7 a Verona di marzo scorso: 117 candidature, da parte di altrettante startup keniane, per iniziative nel campo dell’Ia che comporteranno riflessi positivi sulle aree prioritarie del Piano Mattei per l’Africa, tra cui l’agricoltura sostenibile, l’istruzione e la formazione e l’azione per il clima. Il governo del Kenya è tra quelli invitati alla seconda ministeriale G7 Industria e Innovazione Tecnologica, in programma a Roma il prossimo 10 ottobre.

Tra gli incontri istituzionali del ministro, anche quello con il responsabile degli Investimenti, del Commercio e delle Industrie, Salim Mvurya. La comunità imprenditoriale italiana nel Paese africano “è vasta“, ricorda Urso, e “ben integrata nel tessuto economico-sociale keniano“. Nell’ambito del Piano Mattei, Roma valuta collaborazioni con Nairobi su nuovi settori, ulteriori a quello dello spazio per il quale quest’anno ricorrono i primi 60 anni di cooperazione tra i due Paesi, tra cui la produzione di biocarburanti o l’approvvigionamento delle materie prime critiche necessarie alla duplice transizione, ecologia e digitale.

Fine dei negoziati sull’inquinamento da plastica: in Kenya regna il disaccordo

I negoziati internazionali per ridurre la proliferazione dei rifiuti di plastica si sono conclusi domenica in Kenya, in un contesto di disaccordo sulla portata del trattato e di frustrazione delle Ong ambientaliste per la mancanza di progressi concreti. I negoziatori provenienti da 175 Paesi hanno trascorso una settimana presso la sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a Nairobi, cercando di trovare un terreno comune su una bozza di trattato volta a risolvere il crescente problema dell’inquinamento da plastica.

La posta in gioco in questi negoziati era alta, perché la plastica, un sottoprodotto dei prodotti petrolchimici, è ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Microplastiche sono state rilevate anche nel sangue e nel latte materno. Sebbene le varie parti siano d’accordo sulla necessità di un trattato, ci sono divergenze di opinione sulla sostanza, con le Ong che chiedono una riduzione del 75% della produzione entro il 2040 e i Paesi produttori di petrolio e le lobby dell’industria della plastica che sostengono maggiormente il riciclo.

Al termine delle discussioni, l’Unep ha espresso soddisfazione per i progressi “sostanziali” compiuti grazie alla presenza di quasi 2.000 delegati. Durante questa settimana di negoziati, le delegazioni hanno messo sul tavolo “più idee, colmando le lacune (…) ora abbiamo un documento, una bozza di testo, che comprende molte più idee“, ha dichiarato all’AFP Stewart Harris, portavoce del Consiglio internazionale delle associazioni chimiche, un importante gruppo di pressione che difende gli interessi dell’industria della plastica. “Penso che sia stata una settimana utile“, ha dichiarato.

Diverse Ong ambientaliste hanno invece accusato alcuni Paesi, in particolare Iran, Arabia Saudita e Russia, di “ostruzionismo“. “Non sorprende che alcuni Paesi stiano bloccando i progressi, ricorrendo a manovre ostruzionistiche e procedurali”, ha dichiarato all’AFP Carroll Muffett, direttore del Center for International Environmental Law (CIEL). L’alleanza della società civile GAIA, da parte sua, ha accusato l’Unep di aver supervisionato “una riunione indisciplinata e tortuosa” che ha permesso a una minoranza di tenere “in ostaggio” i dibattiti. “Compromettere le esigenze di coloro che sono più colpiti per soddisfare i desideri di coloro che traggono profitto dal problema non è una strategia fattibile“, ha deplorato Graham Forbes di Greenpeace. Per le Ong, il tempo sta per scadere ed è necessario un trattato vincolante perché l’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in vent’anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% della plastica viene riciclata. La plastica ha anche un ruolo nel riscaldamento globale: nel 2019 è stata responsabile del 3,4% delle emissioni globali, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima dei colloqui, circa 60 Paesi – guidati da Ruanda, Norvegia e Unione Europea – hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Ma durante le sessioni pubbliche, diversi Paesi si sono mostrati riluttanti a sostenere una riduzione della produzione di plastica e sono emerse divisioni anche sulla questione se il trattato debba essere vincolante o volontario. “Non siamo qui per porre fine alla plastica, ma per porre fine all’inquinamento da plastica“, ha dichiarato domenica dopo la sua elezione Luis Vayas Valdivieso dell’Ecuador, nuovo presidente del Comitato internazionale di negoziazione (INC), deplorando lo “spaventoso impatto” della plastica sull’ambiente.

La riunione di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, per poi concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. I negoziati di Nairobi precedono di poche settimane l’inizio della conferenza sul clima Cop 28 negli Emirati Arabi Uniti, che mira a ridurre le emissioni di gas serra e ad aiutare i Paesi in via di sviluppo a far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, dopo un anno segnato da eventi meteorologici devastanti.

In Kenya riprendono i negoziati sulla lotta all’inquinamento da plastica

Verso la fine dell’inquinamento da plastica? I rappresentanti di 175 Paesi si riuniscono da oggi in Kenya per negoziare per la prima volta misure concrete da includere in un trattato globale vincolante per porre fine ai rifiuti di plastica. I Paesi hanno concordato lo scorso anno di finalizzare un primo trattato globale per combattere il flagello della plastica entro la fine del 2024. La posta in gioco è alta, perché le plastiche petrolchimiche sono ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Le microplastiche sono state rilevate nel sangue e nel latte materno. I negoziatori si sono già incontrati due volte, ma la riunione che si terrà dal 13 al 19 novembre a Nairobi, sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), è la prima occasione per discutere una bozza di trattato pubblicata a settembre che delinea i molti modi in cui il problema della plastica può essere risolto.

Esiste un ampio consenso sulla necessità di un trattato. Ma tra le politiche difese dai diversi Paesi, dagli ambientalisti e dall’industria della plastica, le posizioni divergono. “Questa è la grande battaglia a cui assisteremo“, spiega Eirik Lindebjerg dell’Ong Wwf, che sarà tra le migliaia di partecipanti ai negoziati. Diversi Paesi e Ong ambientaliste chiedono di vietare i prodotti di plastica monouso e di introdurre regole più severe, oltre ad altre misure “ambiziose“. Da parte loro, i produttori e i principali Paesi produttori si battono per il riciclaggio e una migliore gestione dei rifiuti.

La “bozza zero” mette sul tavolo tutte le opzioni. A seconda della direzione che prenderanno i negoziati, il trattato potrebbe essere un patto per la natura o “un accordo di comodo con l’industria della plastica“, ha avvertito in ottobre l’inviato speciale delle Nazioni Unite per gli oceani, Peter Thomson. L’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in 20 anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% viene riciclato. La plastica svolge anche un ruolo nel riscaldamento globale, rappresentando il 3,4% delle emissioni globali nel 2019, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima delle discussioni a Nairobi, circa sessanta Paesi hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Graham Forbes, responsabile di Greenpeace, sostiene che il trattato avrà successo o fallirà “a seconda di come limiterà la produzione di plastica a monte”: “Non si può impedire che la vasca da bagno trabocchi finché non si chiude il rubinetto“, sostiene.

D’altra parte, molti Paesi – in particolare Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita e membri dell’Opec – sono riluttanti a prendere in considerazione un taglio della produzione. L’EPS Industry Alliance, un’associazione nordamericana che difende le aziende produttrici di polistirene espanso (spesso utilizzato negli Stati Uniti per i bicchieri da asporto), sostiene che non vi sia stata una sufficiente “revisione scientifica indipendente” del trattato, mettendo in guardia dalle “conseguenze indesiderate” di alcune proposte. “C’è un’enorme quantità di retorica intorno alla plastica che è infarcita dall’ideologia dell’emozione“, sostiene il direttore esecutivo dell’associazione, Betsy Bowers, che parteciperà ai negoziati in qualità di osservatore.

L’incontro di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, prima di concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. A ottobre, le Figi hanno esortato le nazioni ad agire per concludere il trattato, affermando che le piccole nazioni insulari hanno bisogno di un’azione più rapida. Durante gli ultimi negoziati a Parigi, a giugno, gli ambientalisti hanno accusato i principali Paesi produttori di plastica di trascinare i colloqui. Questa volta, le sessioni sono state prolungate di due giorni. Ma sarà sufficiente? “Se non riusciranno a fare progressi qui (a Nairobi, ndr), il 2024 sarà molto intenso se si vuole raggiungere un trattato significativo entro la fine dell’anno“, afferma Eirik Lindebjerg.

La ripresa del disboscamento divide il Kenya

L’industria del legno keniota aspettava questa misura da più di cinque anni: il divieto di abbattimento di alcune foreste è stato revocato a luglio dal presidente William Ruto, in nome del pragmatismo denunciato dalle organizzazioni di protezione ambientale. Il Governo ha insistito sul fatto che questa decisione riguarda solo gli alberi maturi delle foreste piantate e gestite dallo Stato – che rappresentano il 6% dei 2,49 milioni di ettari elencati – e non le foreste selvagge ricche di biodiversità e carbonio. Queste spiegazioni hanno convinto poco le organizzazioni ambientaliste, che hanno accusato il Capo di Stato, che si era presentato come un campione di difesa dell’ambiente durante la campagna presidenziale, di ipocrisia.

Eletto nell’agosto del 2022, William Ruto aveva fatto della piantumazione di 15 miliardi di alberi nei prossimi dieci anni una delle misure chiave del suo programma per combattere il cambiamento climatico. Il leader dell’opposizione Raila Odinga – che è stato sconfitto da Ruto alle elezioni – ha denunciato i doppi standard del presidente, proprio mentre la capitale Nairobi ospiterà una conferenza internazionale sul clima dal 4 al 6 settembre. “Il Kenya è stato un leader indiscusso nell’investire nella crescita verde e pulita e nell’aumentare la superficie forestale. Ora il Paese sta eliminando le sue foreste mentre ospita i negoziati sul cambiamento climatico“, ha affermato.

Vicepresidente quando il divieto è stato introdotto nel 2018, Ruto ha ritenuto “assurdo” non raccogliere gli alberi in decomposizione quando il settore è costretto a importare legname. La misura mira a rilanciare un settore che impiega direttamente 50.000 persone – e 300.000 indirettamente – in un momento in cui il Governo sta affrontando le proteste contro l’aumento del costo della vita da aprile. Bernard Gitau, proprietario di una segheria a Molo, a circa 200 chilometri a nord-ovest di Nairobi, afferma di essere sollevato dal fatto che il presidente sia “venuto in soccorso“. Negli ultimi cinque anni è stato costretto a licenziare e a ridurre la sua attività. La sua segheria è ancora operativa solo per metà, ma un team ridotto di 50 dipendenti è tornato al lavoro, in attesa che gli affari tornino alla normalità. “Alcune persone sono venute a pregare all’ingresso, ringraziando Dio che questa segheria sta tornando in vita“, spiega il signor Gitau, che è anche presidente dell’Associazione dei produttori di legname del Kenya. “L’economia di questa città migliorerà“, spera.

Il divieto è stato decretato nel febbraio 2018, in un momento in cui le foreste del Kenya venivano disboscate al ritmo di 5.000 ettari all’anno, minacciando in particolare le risorse idriche di questo Paese soggetto a episodi di siccità. Le foreste hanno iniziato a riprendersi, ma l’annuncio della revoca del divieto solleva delle domande. “Un giorno si parla di piantare, il giorno dopo si parla di tagliare. I conti non tornano“, afferma Godfrey Kamau, presidente della Thogoto Forest Family, un’associazione che lavora per proteggere questa foresta indigena di 53 ettari alla periferia di Nairobi. Gli oppositori della misura hanno ottenuto una tregua, con un tribunale che ha sospeso la sua applicazione in attesa di esaminare un appello il 14 agosto.

Il Servizio Forestale del Kenya (KFS), l’agenzia responsabile della supervisione della misura e dell’emissione dei permessi di taglio, ha assicurato che il processo sarà trasparente e che le aree cancellate saranno ripiantate. Ma i critici della misura sono cauti, ricordando che il KFS è stato accusato nel 2018 di “corruzione dilagante“, “distruzione selvaggia” e “saccheggio” delle foreste da parte di un comitato governativo, senza, a loro dire, riformarsi adeguatamente da allora. Per Bernard Gitau, le preoccupazioni sullo sfruttamento delle foreste indigene sono infondate. L’industria del legno è interessata solo ai legni duri a crescita rapida introdotti durante la colonizzazione britannica, come il pino e l’eucalipto, e non alle specie autoctone che crescono nelle foreste protette, sostiene. “Conosciamo la legge“, afferma: “È vietato“.

Tuttavia, il ministro dell’Ambiente Soipan Tuya ha dichiarato che nella vicina Foresta di Mau – una delle più grandi dell’Africa orientale – sono stati abbattuti illegalmente degli alberi pochi giorni dopo la revoca del divieto. Ha ordinato il dispiegamento di guardie forestali aggiuntive nella foresta di Mau e in altri punti caldi. Con i suoi messaggi contraddittori, il Governo sta minando gli sforzi per scoraggiare il disboscamento, secondo Godfrey Kamau, che teme che la popolazione non distingua tra le specie che dovrebbero o non dovrebbero essere abbattute. “Il Presidente ha detto che il disboscamento è consentito. I comuni wananchi (cittadini) adesso si diranno che è ora di iniziare a tagliare gli alberi“, sottolinea: “Alla fine, è come se non fosse stato fatto nulla“.

Mattarella in Kenya: “Affrontare cambiamenti climatici, non c’è un secondo tempo”

Clima e siccità. Sono due dei temi al centro della visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in Kenya. E il capo dello Stato lo sottolinea nella conferenza stampa congiunta a Nairobi con l’omologo William Ruto. Secondo Mattarella “la siccità in questa regione è l’allarmante sintomo delle gravi conseguenze del cambiamento climatico che si avverte ovunque”, anche in Europa. Con ricadute pesantissime anche su altri fronti: “La siccità crea una crisi alimentare che spinge ulteriormente i fenomeni migratori. Vi sono zone in cui non è più possibile la sopravvivenza alimentare a causa della siccità. E questo spinge ulteriormente comprensibilmente i flussi migratori. E’ un tema centrale quello del mutamento climatico”.

Per questo il capo dello Stato esorta “la comunità internazionale a procedere con comportamenti che attenuino e contrastino con efficacia il cambiamento climatico, è la base per lo sviluppo e il benessere per le future generazioni“, con la speranza che la Cop28 a Dubaiabbia a vedere un impegno concreto e crescente per realizzare condizione di comune impegno contro il cambiamento climatico“.

E, se “l’Italia avverte da tempo l’esigenza di un impegno serio, concreto e efficace di contrasto all’inquinamento atmosferico” e ha preso una posizione chiara, visto che “nel Pnrr vi sono a questo riguardo strumenti che saranno utili, e questo è nel programma del governo di impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico”, ha però anche di che dispiacersi. “Ci duole – chiosa Mattarella – che alcuni Paesi non si rendano conto che non si può rinviare questo tema a un secondo tempo che non c’è, bisogna affrontarlo adesso con molta determinazione“.

I rifiuti elettronici diventano protesi bioniche: l’innovazione di due cugini in Kenya

I rifiuti elettronici possono avere una nuova vita e innescare un circolo virtuoso? Pare di sì, almeno per innovatori kenioti autodidatti che hanno sviluppato un braccio bionico proprio a partire da scarti elettronici. I cugini Moses Kiuna, 29 anni, e David Gathu, 30 anni, hanno costruito il loro primo braccio protesico nel 2012, dopo che il loro vicino di casa aveva perso un arto in un incidente sul lavoro. Il dispositivo utilizza una cuffia per captare i segnali del cervello e convertirli in corrente elettrica, che viene poi inviata a un trasmettitore che trasmette i comandi al braccio in modalità wireless. Il tutto in meno di due secondi.

“Abbiamo notato che il Kenya importa protesi costose”, dice Moses Kiuna. “Così ci siamo chiesti: ‘Come possiamo risolvere i nostri problemi?”. E la risposta è arrivata da un luogo insolito: la discarica. Fin dalle scuole superiori, i cugini hanno setacciato le discariche della capitale keniota alla ricerca di rifiuti elettronici da riutilizzare. I due hanno imparato da soli: David Gathu ha abbandonato la scuola a 17 anni, mentre Moses Kiuna ha lasciato presto i banchi dell’università. Gli scaffali polverosi del laboratorio di fortuna accanto alla casa della nonna sono pieni di libri scientifici, mentre le pareti di latta sono ricoperte di grafici che illustrano l’anatomia umana. “Abbiamo studiato neurofisiologia leggendo libri e sedendoci con i medici per spiegare i concetti”, ricorda David Gathu.

E questa è solo una delle tante invenzioni che i due cugini hanno realizzato. Durante la pandemia di Covid-19, hanno costruito un dispositivo per sterilizzare le banconote utilizzando la tecnologia a infrarossi. I cugini hanno anche sviluppato un generatore di energia verde, che converte l’ossigeno in elettricità, con l’obiettivo di combattere il cambiamento climatico.
“Sono la prova che gli africani possono dare un contributo significativo alla tecnologia e alla scienza come le conosciamo”, afferma Mukuria Mwangi, fondatore della Jasiri Mugumo School di Nairobi. Mwangi, che invita regolarmente i due cugini a fare da mentori ai bambini della sua scuola, di età compresa tra i 2 e i 10 anni, critica il sistema educativo keniota perché non fa abbastanza per incoraggiare l’innovazione. “L’innovazione non è una disciplina che viene sfruttata nelle nostre scuole, anche se è il motore del futuro”, afferma.

 

(Photo credit: AFP)

Il Kenya cimitero del fast fashion occidentale

Dei quasi 900 milioni di vestiti usati spediti in Kenya nel 2021, un terzo contiene plastica e la sua qualità è così scadente che “viene immediatamente buttata via o bruciata“, generando inquinamento ambientale e rischi per la salute, avverte un rapporto della Changing Foundation. E questo, nonostante la Convenzione di Basilea vieti l’esportazione di rifiuti verso Paesi che non hanno adeguate capacità di ritrattamento, ricorda l’ong spiegando che di questi 900 milioni, 150 provengono dall’Unione Europea e dal Regno Unito, per lo più sotto forma di donazioni.

L’indagine dell’ong si basa in particolare sui dati doganali e di import-export, nonché sul lavoro sul campo svolto dall’organizzazione no-profit Wildlight e dall’associazione Clean Up Kenya, che hanno raccolto più di 80 interviste a commercianti kenioti e viaggiato nei siti chiave. “Questo diluvio di indumenti usati rappresenta una media di 17capi all’anno per keniano, di cui 8 inutilizzabili” perché danneggiati, sporchi o non adattati al clima o alla cultura locale, illustra l’indagine denominata ‘Trashion’, neologismo formato da ‘spazzatura’ e ‘moda’. “Gli impatti dell’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria sono notevoli“, secondo l’ong.

Le foto e i video allegati al rapporto mostrano la discarica a cielo aperto di Dandora, alla periferia di Nairobi, dove ogni giorno vengono scaricate “4.000 tonnellate” di rifiuti, tra cui “una percentuale significativa” di tessili da esportazione, secondo la Changing Markets Foundation. Ma anche le sponde del fiume Nairobi inquinate da rifiuti tessili, e le testimonianze di keniani che lavorano nel commercio dell’usato, raccontando i loro salari miseri e il rischio per la loro salute, in particolare l’inalazione dei fumi dei vestiti sintetici che bruciano. “I paesi occidentali stanno usando il commercio dell’usato come una valvola di sicurezza per far fronte all’enorme problema dei rifiuti del fast fashion“, ipotizza l’ong.

Quest’ultimo raccomanda in particolare l’uso di materiali non tossici e sostenibili e la creazione di settori con responsabilità estesa del produttore – che già esistono in Francia. Circa il 30% dei vestiti donati dai Paesi occidentali finisce nelle discariche o negli inceneritori dei Paesi del sud, secondo l’Hot or Cool Institute.

Photo credit AFP

Da San Francisco a Miami in bici per dare sostegno a Plastic Free

Sensibilizzare sull’impatto ambientale dell’inquinamento da plastica e sostenere le attività di Plastic Free, percorrendo seimila km in bicicletta. Questa la doppia impresa dei ciclo viaggiatori Emiliano Fava e Pietro Franzese, che il 16 gennaio 2023 partiranno da Milano alla volta di San Francisco, da dove inizierà la loro avventura “2Italians Across the US” con destinazione Miami.

Emiliano Fava nasce a Brescia nel 1998, a undici anni si trasferisce a Taranto, dove inizia ad appassionarsi al mondo della fotografia e a iniziare a lavorare come videomaker. Annoiato dalla monotonia di fotografare matrimoni, intraprende un viaggio in bicicletta partendo da Santa Maria di Leuca, il punto più a Sud della sua regione, per arrivare a Capo Nord.
Capo Nord è anche la destinazione ultima di un viaggio in bicicletta – iniziato da Milano – del ventisettenne Pietro Franzese, di professione YouTuber, che collabora con diversi organizzatori di eventi ed enti regionali. Emiliano conosce Pietro proprio attraverso il suo canale Youtube, resta colpito dal fatto che entrambi abbiano viaggiato in bicicletta sino al Circolo Polare Artico e lo contatta. Da qui, il desiderio di condividere l’esperienza di gennaio che raccontano a GEA.

Come si articolerà il vostro viaggio?
“Partiremo da Milano per raggiungere San Francisco. Ci attendono seimila km da percorrere su strade non molto battute dai ciclisti ma immerse nella natura, quindi molto affascinanti. Penso, ad esempio, al parco naturale Joshua Tree. Considerato che percorreremo anche il deserto di Sonora, questo è l’unico periodo dell’anno congeniale al nostro viaggio. Quell’attraversamento durerà 9 giorni, sono 887 chilometri e noi intendiamo percorrere cento chilometri al giorno, per un totale di circa due mesi di viaggio in bicicletta. Il nostro biglietto aereo del ritorno è, infatti, per il 20 marzo. Viaggeremo attrezzati ed equipaggiati, con un peso massimo di 20 chili a testa. Abbiamo con noi tenda e fornello da campeggio, oltre a una bottiglia d’acqua da due litri di plastica, che intendiamo utilizzare per tutta la durata del viaggio dimostrando che la plastica si può riutilizzare diverse volte. Vestiremo la maglietta e la maglia termica con il logo Plastic Free, sperando di incuriosire le persone che incontreremo per raccontare loro del progetto”.

Qual è la quintessenza di questa esperienza?
“Vogliamo lanciare il messaggio che la bicicletta è un mezzo di trasporto ecologico e sostenibile, non di fatica. Abbiamo inoltre deciso di abbinare il nostro viaggio a un ente senza scopo di lucro. La scelta è ricaduta su Plastic free perché apprezziamo le sue campagne e attività, oltre all’approccio nei confronti della plastica: materiale da non demonizzare, ma da utilizzare e smaltire in maniera corretta. Abbiamo stabilito di percorrere la Route 66, consapevoli che ci troviamo nelle zone in cui si registra il maggior utilizzo pro capite di plastica, specie monouso; anche l’Italia contribuisce però negativamente all’inquinamento da plastica: è infatti il secondo Paese consumatore in Europa e gli italiani sono i più grandi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia”.

Chi vorrà, dove potrà seguire l’andamento di questo viaggio?
“Documenteremo con foto e video che posteremo sui nostri canali, dove è attivo anche un live tracking, con l’ambizione di poter poi realizzare un documentario. Sulla piattaforma GoFundMe sarà invece possibile partecipare al crowfunding per sostenere il progetto Plastic Free legato alla salvaguardia della riserva naturale del Mida Creek in Kenya grazie alla collaborazione con l’associazione Sasa Rafiki, che prevede la raccolta della plastica dagli abitanti del luogo e il trasporto in centri appositi per un corretto smaltimento, evitando così che venga bruciata o seppellita. Con il supporto derivato dalle donazioni, sarà possibile continuare la raccolta dei rifiuti e dotare la popolazione locale di ceste per la raccolta della plastica, rafforzando la missione di sensibilizzazione. L’obiettivo è di raggiungere almeno 4 mila euro“.

Per presentare l’iniziativa e congedarsi da amici e parenti, Emiliano Fava e Pietro Franzese hanno organizzato un momento di clean up (è possibile iscriversi sul sito di Plastic Free) in bicicletta, che si svolgerà a Milano il 14 gennaio: una pedalata di circa 50 km dalla Darsena, nel centro di Milano, all’Aeroporto di Malpensa lungo la ciclabile del Naviglio Grande, raccogliendo i rifiuti che si incontreranno sul percorso.

Strage di animali selvatici in Kenya, sterminati dalla siccità

“Prima dovevo indossare una maschera per sopportare l’odore degli animali in decomposizione, ma ora ci sono abituato”. In Kenya, una siccità di intensità senza precedenti negli ultimi 40 anni sta decimando elefanti, bufali e zebre nei parchi nazionali. Ad Amboseli, nel sud del Paese, vicino al confine con la Tanzania, la terra è secca e scricchiola sotto i piedi. Non c’è un’erba alta all’orizzonte, le foglie degli alberi spogli sono ingiallite. Lungo la strada giacciono carcasse di animali. “L’ultima pioggia abbondante che abbiamo avuto qui è stata nel dicembre 2021”, lamenta Josphat Wangigi Kagai, 37 anni, ranger del Nature Conservation Service (Kws) che lavora nel parco dal 2016. È stato appena chiamato da Kelembu Ole Nkuren, un mandriano Masai che ha scoperto un elefante morto da quasi un mese mentre pascolava la sua mandria. Il pachiderma, sventrato da rapaci e altri predatori, giace nella vasta pianura dominata dalle cime innevate del Kilimangiaro. Un odore sgradevole avvolge i resti dell’animale, che ha solo sette anni quando l’aspettativa di vita degli elefanti è di circa 60 anni. “Questo elefante è morto a causa della siccità”, dice Josphat Wangigi Kagai. Con un’ascia, procede poi a rimuovere le zanne dell’animale per evitare che vengano recuperate dai bracconieri. “Nelle ultime settimane lo abbiamo fatto quasi ogni giorno, questa è la prima volta che lo vedo, mi rende particolarmente triste”, sospira.

Il Corno d’Africa soffre di precipitazioni insufficienti dalla fine del 2020. In Kenya, la siccità, conseguenza del cambiamento climatico, ha lasciato alla fame almeno 4 milioni di persone (su una popolazione di oltre 50 milioni), ma anche la sua eccezionale fauna selvatica, che lo rende una popolare destinazione turistica. Secondo il ministro del Turismo, Peninah Malonza, tra febbraio e ottobre sono morti a causa della siccità 205 elefanti, 512 gnu, 381 zebre e 12 giraffe. Ad Amboseli, uno dei due parchi simbolo del Paese insieme al Masai Mara, i pozzi si stanno prosciugando, i pascoli si stanno trasformando in polvere. “Qualche tempo fa ho visto un elefante che era allo stremo delle forze, gli ho dato da bere ma era già troppo tardi. Poco dopo è crollato”, afferma Josphat Wangigi Kagai, sostenendo che le zebre e le antilopi sono le più colpite.

“Questa siccità è terribile perché sta scomparendo tutto: zebre, gnu, giraffe ed elefanti. Non ho mai visto così tanti animali selvatici morti”, dice Kelembu Ole Nkuren, il pastore Maasai che ha trascorso 35 anni della sua vita ad Amboseli. “Prima della siccità, si potevano vedere branchi di elefanti aggirarsi in questa parte del parco, ora non si trovano più”, dice. In una zona remota del parco, corpi in decomposizione di zebre, bufali e antilopi giacciono sul terreno asciutto. Si formano sciami di mosche. “La pozza d’acqua più vicina è a circa 30 km di distanza, era troppo lontana per loro”, dice Josphat Wangigi Kagai.

Secondo Norah Njiraini, membro dal 1985 dell’Amboseli Trust for Elephants, un’organizzazione che studia i pachidermi del parco, da giugno sono morti più di 100 elefanti – su un totale di 2.000 – nel parco Amboseli. Il periodo attuale gli ricorda un altro episodio di siccità, nel 2009, particolarmente letale per gli elefanti. A causa di una mancata previsione, quell’episodio è stato “peggiore di oggi” per gli animali, ha detto. “Nel 2009 abbiamo perso le femmine adulte, quest’anno è diverso perché stiamo perdendo i più giovani”, ha detto. Ad Amboseli, i ranger portano il fieno agli animali a giorni alterni. Nel Parco Nazionale dello Tsavo Est, a circa 140 km a nord, il Kws ha scavato dei pozzi per portare l’acqua in superficie e permettere agli animali di abbeverarsi. Cinquantaquattro elefanti sono morti ancora lì tra febbraio e ottobre. “Secondo le previsioni meteorologiche, le precipitazioni per questa stagione delle piogge (da ottobre a dicembre) non dovrebbero essere sufficienti”, afferma Kenneth Ochieng, direttore del parco, nonostante alcune piogge recenti.

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In Kenya si alza il livello del Lago Turkana: isolata un’antica tribù

Alle prime luci dell’alba, i bambini della tribù El-Molo, una delle più piccole e isolate del Kenya, indossano i loro giubbotti di salvataggio arancioni. La strada per la scuola inizia attraversando il lago Turkana su una barca di legno. Fino a poco tempo fa coprivano la distanza a piedi. Una strada collegava il loro piccolo villaggio al resto del mondo, un’ancora di salvezza per questa antica comunità di pescatori e artigiani che vive sulle rive del lago desertico più grande del mondo.

Ma tre anni fa le acque color smeraldo hanno cominciato a lambire le capanne circolari, per poi salire, raggiungendo livelli mai visti a memoria d’uomo. L’area del Lago Turkana, considerata una delle culle dell’umanità, si estende per oltre 250 km di lunghezza e 60 di larghezza nel nord del Kenya. Tuttavia, secondo uno studio governativo pubblicato lo scorso anno, è aumentata del 10% tra il 2010 e il 2020 e quasi 800 km2 di terreno sono stati inghiottiti. Diversi fattori spiegano questo fenomeno: precipitazioni estreme sui bacini idrografici, legate al riscaldamento globale, aumento del deflusso dal suolo legato alla deforestazione e all’agricoltura, ma anche movimenti tettonici. L’innalzamento dell’acqua ha fatto scomparire anche l’unica fornitura di acqua dolce.

Prima non c’era mai acqua qui. Ci si poteva guidare una jeep“, dice Julius Akolong, mentre attraversa l’ampio canale che ora separa la sua comunità dal resto del Kenya settentrionale. Intrappolata dalle acque del lago, a volte chiamato il “mare di giada“, la comunità di El-Molo è ora pesantemente minacciata. Secondo l’ultimo censimento del 2019, gli abitanti erano 1100, una goccia d’acqua tra i 50 milioni di abitanti e gli oltre 40 gruppi etnici del Paese.

Conosciuti come ‘coloro che mangiano pesce’ dalle tribù di pastori del Kenya settentrionale, gli El-Molo sono migrati un millennio fa dall’Etiopia al Turkana. Oggi pochissimi parlano la loro antica lingua. Nel corso delle generazioni e con i matrimoni con le tribù vicine, le usanze si sono evolute o sono scomparse. L’inaspettata ascesa del lago sta facendo il resto.

Alcuni degli abitanti hanno eretto un accampamento improvvisato sulla sponda opposta del lago: baracche incastonate in una radura arida e battuta dal vento. La scuola è sicuramente più vicina, ma chi ha scelto di vivere lì è più distante dalla comunità. Per coloro che sono rimasti, la vita sull’isola si è trasformata in una battaglia. Reti da pesca e cesti usati da millenni, intrecciati a mano con canne e fibre di palma, sono diventati meno efficaci in acque più profonde, rendendo la cattura più limitata. Non potendo più accedere all’acqua dolce, gli El-Molo sono costretti a bere l’acqua del Turkana, il lago più salato dell’Africa, con tutti i conseguenti disturbi.

I bambini sono i più penalizzati. La maggior parte di loro è bloccata in in casa, privata ​​della scuola perché i loro genitori non possono pagare il trasporto sul peschereccio. Il governo locale e la Ong World Vision stanno aiutando questa popolazione, ma le risorse sono scarse e le esigenze sono molte in questa regione gravemente colpita dalla siccità. La recinzione della scuola e i servizi igienici sono sott’acqua, i coccodrilli hanno invaso parte del parco giochi.

Ma il vero danno per El-Molo è quello identitario. Si stanno perdendo i riti di iniziazione, le cerimonie battesimali e i funerali che rafforzano l’identità e la comunità tribale. Le tombe degli avi sono state inghiottite dall’acqua e il lago minaccia anche i santuari delle divinità tribali.

(Photo credits: SIMON MAINA / AFP)