Accelera la corsa alla sovranità su metalli e terre rare: ora si punta sul riciclo

Rame, cobalto, nichel, litio: i metalli essenziali per la transizione energetica sono sempre più richiesti e, si spera, anche sempre più riciclati. Dal Perù alla Francia, passando per gli Stati Uniti, la sovranità sull’accesso a questi materiali sta scatenando il panico in tutto il mondo, a causa dell’egemonia della Cina sia sulle forniture sia sulla loro lavorazione. “Tra il 35% e il 70% della capacità di raffinazione è nelle mani della Cina”, scrive l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi nel suo recente rapporto sulla competitività, delineando possibili modi per ottenere una maggiore sovranità.

A metà maggio, l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha avvertito del rischio di tensioni sulle forniture, o addirittura di possibili carenze di rame o litio, essenziali per la diffusione di tecnologie a basse emissioni di carbonio come le auto elettriche e le turbine eoliche. Il motivo principale è che il calo dei prezzi di litio, nichel e cobalto potrebbe frenare gli investimenti minerari necessari.

Durante la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima (COP29), che si aprirà lunedì in Azerbaigian, l’International Council on Mining and Metals (ICMM) ha programmato non meno di sei diverse presentazioni sul rilancio dell’industria mineraria. Un settore che “sta affrontando un vero e proprio problema di finanziamento”, spiega Moez Ajmi, specialista di energia per l’Europa presso la società di consulenza EY. Il fabbisogno è enorme: in una miniera tradizionale si ottengono in media solo 3 grammi di rame per tonnellata di terra scavata nella Repubblica democratica del Congo, e 0,5 grammi per tonnellata in Cile, sottolinea Christian Mion, responsabile dell’estrazione mineraria di EY.

Eppure tutti i governi stanno incoraggiando l’attività estrattiva: gli Stati Uniti, con la loro legge Inflation Reduction Act, stanno cercando di assicurarsi le forniture di metalli critici, e anche l’Europa ha varato una legge ad hoc, che entrerà in vigore quest’anno. E anche il nostro Paese sta lavorando a un ‘censimento’ dei siti estrattivi per riaprire le miniere. L’Arabia Saudita ha stanziato 500 milioni di dollari per creare il suo catasto minerario.

Solo un anno fa, il gigante petrolifero ExxonMobil ha annunciato l’intenzione di diventare il principale produttore di litio degli Stati Uniti, utilizzando le sue tecniche di estrazione di petrolio e gas per sfruttare una vena sotterranea di salamoia di litio in Arkansas.
Ma a causa della notevole quantità di investimenti in attrezzature, stipendi e trasporti, e dei decenni necessari per portare a termine i progetti, si stanno valutando altre soluzioni. “Per me la soluzione più realistica è il riciclo”, afferma Ajmi.

Secondo Draghi, la circolarità dei metalli da sola potrebbe soddisfare il 50% della domanda globale. E per Ajmi, l’industria del riciclo potrebbe rappresentare il 10-15% del Pil dei Paesi sviluppati nei prossimi quindici anni, “a condizione che le banche e i governi sostengano i progetti”. Ma serve anche che si sviluppino ecosistemi che riuniscano piani di formazione, ricerca e investitori, come ha fatto la Francia negli anni ’60 nei settori del petrolio e del nucleare, quando ha creato l’istituto di ricerca IFP Energies nouvelles, ad esempio.

In un recente articolo intitolato ‘Batteries, the mineral loop’, il think-tank americano specializzato RMI stima addirittura che il picco dell’estrazione dei minerali strategici utilizzati nelle batterie dovrebbe verificarsi a metà degli anni 2030. Con il miglioramento delle tecniche di ricico e l’allungamento della vita delle batterie, la domanda di minerali vergini potrebbe essere pari a zero entro il 2040, sottolinea RMI. La cosiddetta miniera “urbana” del riciclaggio potrebbe allora essere sufficiente a soddisfare le esigenze del mercato delle batterie elettriche. Il mondo non avrebbe più bisogno di scavare.

Greenpeace bacchetta la Norvegia: “Conseguenze irreversibili con estrazione mineraria sottomarina”

Greenpeace ha messo in guardia la Norvegia dalle conseguenze “irreversibili” della prevista apertura dei fondali marini all’estrazione mineraria, che secondo l’organizzazione interesserà l’intero ecosistema marino. Nonostante le obiezioni di scienziati, Ong e altri governi, il Paese scandinavo prevede di assegnare le prime licenze di esplorazione nel 2025 e potrebbe diventare uno dei primi al mondo a sfruttare i fondali marini.

“I progetti norvegesi di estrazione in acque profonde nell’Artico causeranno danni irreversibili alla biodiversità”, ha contestato Greenpeace, pubblicando un rapporto intitolato ‘Underwater mining in the Arctic: living treasures at risk’. Per l’organizzazione, questa attività rappresenta un’ulteriore minaccia per un ecosistema poco conosciuto e già indebolito dal riscaldamento globale.

Tra i pericoli individuati nel rapporto vi sono la distruzione diretta degli habitat e degli organismi del fondale marino, l’inquinamento acustico e luminoso, il rischio di perdite chimiche dai macchinari e lo spostamento accidentale delle specie. “L’estrazione mineraria causerà danni permanenti a questi ecosistemi e sarà sempre impossibile valutare la piena portata di questi impatti, per non parlare del loro controllo”, ha dichiarato Kirsten Young, responsabile della ricerca di Greenpeace.
“I piani della Norvegia non solo minacciano direttamente le specie e gli habitat dei fondali marini, ma anche l’intero ecosistema marino, dal plancton più piccolo alle balene più grandi”, ha aggiunto l’autrice.

Le autorità norvegesi, da parte loro, sottolineano l’importanza di non dipendere da Paesi come la Cina per l’approvvigionamento di minerali essenziali per la transizione verde e assicurano che le prospezioni permetteranno di raccogliere le conoscenze che attualmente mancano. “La transizione globale verso una società a basse emissioni di carbonio richiederà enormi quantità di minerali e metalli”, ha dichiarato Astrid Bergmål, Segretario di Stato presso il Ministero dell’Energia norvegese, in un’e-mail all’AFP.

“Oggi l’estrazione dei minerali è in gran parte concentrata in un piccolo numero di Paesi o di aziende. Questo può contribuire a rendere vulnerabili le forniture, il che è particolarmente problematico nell’attuale contesto geopolitico”, ha aggiunto.
Alcuni di questi minerali sono utilizzati in batterie, turbine eoliche, computer e telefoni cellulari. La Norvegia afferma che qualsiasi sfruttamento sarà soggetto all’introduzione di metodi “responsabili e sostenibili” e che i primi progetti dovranno essere approvati dal governo e dal parlamento.
Oslo prevede di aprire all’esplorazione un’area di 281.000 km2 nei mari di Norvegia e Groenlandia, un’area grande la metà della Francia, con l’obiettivo di assegnare le prime licenze nella prima metà del 2025.

Urso torna dalla Libia con accordo su energia, materie prime e rinnovabili

Photo credit: Mimit

 

Italia e Libia coopereranno anche su transizione ecologica e digitale. Dalla sua missione a Tripoli il ministro delle Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, torna con la sigla sulla dichiarazione congiunta con il ministro dell’Industria e dei Minerali del Governo di Unità nazionale dello Stato della Libia, Ahmed Ali Abouhisa, per promuovere iniziative di collaborazione economica e industriale nei campi dell’energia, delle materie prime critiche e della tecnologia green. “I nostri Paesi hanno numerosi punti di complementarità sul piano economico e industriale“, commenta il responsabile del Mimit. Spiegando che proprio per questo motivo “una cooperazione sempre più stretta rappresenta un valore aggiunto sia per l’Unione europea sia per il continente africano, così come prevede il Piano Mattei“.

L’accordo, infatti, prevede la facilitazione degli investimenti diretti e delle iniziative congiunte tra le imprese di Italia e Libia, attraverso lo scambio di informazioni e conoscenze nel campo della ricerca, dell’innovazione applicata all’industria manifatturiera e la formazione di nuove competenze. “I nostri Paesi hanno una storica cooperazione nel settore energetico che intendiamo rafforzare, soprattutto nell’energia rinnovabile e al suo trasporto attraverso i cavi di interconnessione tra i Paesi – continua Urso -. L’attenzione alle fonti rinnovabili emerge anche alla luce del fatto che l’Italia diventerà presto il primo produttore europeo di pannelli fotovoltaici di nuova generazione con lo stabilimento di 3Sun di Catania“. Il ministro, poi, parlando come ospite d’onore alla Conferenza internazionale per l’industria e la tecnologia di Tripoli, ha allargato gli orizzonti: “Tra i nostri Paesi c’è un fondamentale partenariato strategico che si può rafforzare nel settore del gas e del petrolio, ma ancora di più nel settore minerario e dell’energia rinnovabile in questa fase storica dell’Italia e dell’Europa, della Libia e del Mediterraneo“.

Nell’accordo è prevista la cooperazione anche nel settore minerario, in particolare sull’approvvigionamento di materie prime critiche. Ragion per cui Roma è pronta “a mettere a disposizione il suo know-how ingegneristico e imprenditoriale per avviare sinergie che possano guardare ad accordi di collaborazione win-win, volti all’estrazione e alla lavorazione in Libia, a beneficio di entrambe le nazioni e in piena coerenza con la legge sulle materie prime critiche italiana che approderà tra poche settimane in Consiglio dei ministri“.

L’Italia, inoltre, sosterrà anche i progetti libici per la realizzazione delle interconnessioni con l’Europa per il trasporto di elettricità da fonti rinnovabili, di cui la nazione nordafricana ha necessità di sviluppare infrastrutture dedicate. Fattore che passa anche dallo sviluppo dell’economia digitale, e in questo senso “la Libia può essere anche un attore prioritario“. Inoltre, aggiunge Urso, “l’Italia nel suo ruolo di presidente di turno del G7 ha voluto dare particolare attenzione al continente africano. La trasformazione digitale è uno straordinario strumento per avvicinare l’Africa agli obiettivi di sviluppo sostenibile“.

Nel corso del colloquio bilaterale, Urso e Ali Abouhisa hanno toccato anche il tema della siderurgia, soffermandosi sui possibili investimenti delle imprese italiane in Libia e del trasferimento di competenze nella tecnologia digitale, anche attraverso l’AI Hub per lo sviluppo sostenibile in cooperazione con l’Undp, come indicato nella dichiarazione ministeriale del vertice G7 dei ministri dell’Industria, Tecnologia e Digitale del marzo scorso. Il responsabile del Mimit ricorda anche le prospettive italiane, perché il nostro Paese “sta diventando leader nella produzione mondiale di pannelli solari di ultima generazione“, grazie “alla fabbrica del gruppo Enel 3Sun Gigafactory in Sicilia, a Catania, che sarà la più grande fabbrica di pannelli solari d’Europa producendo pannelli fotovoltaici bifacciali ad altissima prestazione con una capacità produttiva di tre GW all’anno è una tecnologia d’avanguardia unica al mondo“.

costa rica - batterie -

Clima, l’Aie avverte: “Fare di più o rischio tensioni su forniture globali di materie prime”

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) teme “tensioni” sulle forniture globali di minerali e metalli critici, essenziali per la transizione energetica, e incoraggia un aumento degli investimenti minerari se si vuole che il pianeta riesca a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi entro la fine del secolo.

“Il calo dei prezzi di minerali critici come il rame, il litio e il nichel, utilizzati per condurre l’elettricità o nelle batterie per i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i pannelli solari, ‘maschera il rischio di future tensioni sull’offerta’” afferma l’Aie nel suo secondo rapporto annuale sui metalli, ‘Global Critical Minerals Outlook 2024’. L’Agenzia stima che saranno necessari “800 miliardi di dollari” in investimenti minerari in tutto il mondo da qui al 2040 se il pianeta vuole raggiungere l’obiettivo fissato dall’accordo internazionale sul clima firmato a Parigi nel 2015 di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale.

Lo scorso anno, il crollo del 75% del prezzo del litio e il calo dal 30% al 45% dei prezzi di cobalto, nichel e grafite hanno portato a una diminuzione media del 14% dei prezzi delle batterie, ma anche al rischio di un rallentamento degli investimenti nel settore minerario rispetto agli anni precedenti. In termini di volume, i due metalli più a rischio di “tensione” dell’offerta sono il litio e il rame, che mostrano un “divario significativo” tra produzione e prospettive di consumo, secondo il rapporto. Questo perché la domanda è in crescita. Nel 2023, le vendite delle sole auto elettriche sono aumentate del 35% e la diffusione dei pannelli solari e dell’energia eolica è cresciuta del 75%. Gli elettrolizzatori che producono l’idrogeno verde necessario per decarbonizzare l’industria pesante e i trasporti richiedono metalli come il nichel, il platino e lo zircone. Eppure le loro installazioni stanno crescendo in modo esponenziale: +360% entro il 2023, secondo il rapporto.

L’Aie richiama inoltre l’attenzione sulla necessità di diversificare le forniture per contrastare l’egemonia della Cina, in particolare nella produzione di due componenti chiave per le batterie per auto: gli anodi (il 98% della produzione proviene dalla Cina) e i catodi (90%). “Più della metà del processo di produzione del litio e del cobalto avviene in Cina. E il Paese domina l’intera catena di produzione della grafite”, utilizzata sia nelle batterie che nell’industria nucleare, secondo il rapporto.

“Non sarei sorpreso di vedere un interesse sempre maggiore per l’estrazione del litio” tra le major petrolifere, ha sottolineato Tim Gould, capo economista dell’Aie. L’americana Exxon Mobil, la più grande compagnia petrolifera del mondo, ha già annunciato investimenti in questo settore. Tuttavia, lo sviluppo di queste miniere comporta molti rischi sociali e ambientali per le comunità locali vicine, come hanno avvertito le Ong pochi giorni fa in vista di una riunione dell’Ocse sul tema a Parigi. La corsa ai minerali critici sta infliggendo “gravi costi” alle popolazioni indigene e alle loro terre tradizionali, spiega Galina Angarova, della tribù Buryat in Siberia, a capo di una coalizione di associazioni che difendono i diritti delle popolazioni indigene.

“Se continuiamo di questo passo, corriamo il rischio di distruggere la natura, la biodiversità e i diritti umani” in un’economia a basse emissioni di carbonio che si è allontanata da petrolio, gas e carbone, dice. “Siamo sulla soglia della prossima rivoluzione industriale… e dobbiamo fare le cose per bene”, aggiunge Angarova. Adam Anthony, dell’Ong Publish what you pay, sottolinea che i minatori si stanno precipitando in Africa senza che il continente benefici del valore aggiunto dell’estrazione di minerali e metalli. “Quando parliamo di minerali critici, dobbiamo chiederci per chi sono critici”, dice. “Non riceviamo alcun beneficio da questa estrazione”.

La Tanzania, ad esempio, estrae manganese e grafite, ma non produce nessuna delle apparecchiature – auto elettriche o batterie – che li utilizzano.

Forti acquisti sulle materie prime industriali: il mercato punta su stimoli dalla Cina

Commodities industriali di fuoco. I prezzi salgono nella scommessa che la Cina, primo consumatore mondiale di materie prime, annunci nuovi stimoli dopo un dato deludente sulle esportazioni di marzo. Il petrolio torna sui massimi da 7 mesi, l’oro aggiorna i record storici, l’argento corre verso 30 dollari l’oncia, il rame si avvicina ai top da due anni. Ma salgono anche zinco e nichel, senza contare il rally delle materie prime agricole come caffè e cacao, iper comprate anche per motivi climatici.

Le esportazioni cinesi sono scese del 7,5% su base annua a 279,68 miliardi di dollari a marzo, invertendo nettamente la rotta rispetto al +5,6% del mese precedente. Un dato peggiore delle previsioni di mercato che vedevano un calo del 3%. Nei primi tre mesi dell’anno, le esportazioni sono cresciute invece dell’1,5% su base annua raggiungendo 807,5 miliardi di dollari. Tra i partner commerciali, le esportazioni cumulative per il primo trimestre sono state nettamente inferiori verso Unione Europea (-5,7%), Corea del Sud (-9,8%) e Australia (-8,9%) mentre si sono contratte in misura minore rispetto al Stati Uniti (-1,3%). Anche l’export è calato dell’1,9%, anche questa una percentuale sotto le stime.

Il mercato, di fronte a questi dati, scommette dunque su uno stimolo economico in Cina, che compenserebbe l’impatto di un dollaro forte visto che la Federal Reserve non è intenzionata a tagliare i tassi d’interesse dato che l’inflazione sale da 3 mesi consecutivi negli Usa. I futures del rame salgono di oltre il 2% a 4,34 dollari per libbra, testando livelli visti l’ultima volta quasi due anni prima anche a causa delle preoccupazioni sull’offerta. I prezzi dello zinco crescono di quasi il 3% a 2.840 dollari la tonnellata, segnando un rialzo superiore al 10% mensile e toccando il livello più alto in quasi un anno. E ancora forti acquisti su palladio e platino, legati all’automotive.

L’argento invece torna ai fasti d’epoca pandemica, appesantito da una forte domanda anche industriale e un’offerta che stenta a tenere il passo. L’oro fa invece un altro percorso, tocca i 2400 dollari l’oncia, per i forti acquisti delle banche centrali in attesa di un taglio dei tassi, che prima o poi dovrebbe arrivare secondo il mercato indebolendo il valore reale delle monete, e per le tensioni geopolitiche.

Oro bene rifugio, ma di questi tempi anche il petrolio è comprato complice l’aria di guerra e l’ancora forte domanda globale, I futures del Brent aumentano di quasi il 2% a oltre 91 dollari al barile con la prospettiva di un conflitto più ampio in Medio Oriente. Israele si starebbe preparando per un attacco diretto da parte dell’Iran nelle prossime 24-48 ore, poiché Teheran aveva precedentemente promesso di reagire contro un sospetto attacco israeliano alla sua ambasciata in Siria. Infine gli ultimi round di colloqui per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas non hanno prodotto risultati.

La ripresa delle materie prime potrebbe ora riaccendere l’inflazione e rovinare così i piani delle banche centrali, che ipotizzano tagli al costo del denaro da giugno in poi.

Quasi 10 milioni di dollari di materie prime ‘nascosti’ nei giocattoli inutilizzati

Ogni anno cavi inutilizzati, giocattoli elettronici, accessori con luci a led, utensili elettrici, dispositivi per il vaping e innumerevoli altri piccoli oggetti di consumo si trasformano in 9 miliardi di chilogrammi di rifiuti, un sesto di tutta la spazzatura elettronica nel mondo. Questa categoria ‘invisibile’ equivale al peso di quasi mezzo milione di camion da 40 tonnellate, sufficienti a formare una fila di mezzi pesanti di 5.640 km, la stessa distanza che separa Roma da Nairobi.

I rifiuti di questo genere sono al centro della sesta Giornata internazionale dei rifiuti elettronici che si celebra sabato 14 ottobre. Molti di questi dispositivi contengono litio, che rende la loro batteria ricaricabile ma causa anche seri rischi di incendio quando il dispositivo viene gettato. Inoltre, la Commissione europea considera il litio una “materia prima strategica” fondamentale per l’economia e la transizione energetica verde, ma le forniture sono a rischio. La maggior parte di questi materiali viene gettata nei cassonetti domestici e altrove. Il Forum sui Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE), che organizza la Giornata internazionale, ha commissionato all’Istituto delle Nazioni Unite per la Formazione e la Ricerca (Unitar) il calcolo delle quantità annuali di rifiuti elettronici ‘invisibili’ e i risultati sono sorprendenti.

Circa 3,2 miliardi di kg, il 35% dei 9 miliardi di kg di rifiuti elettronici invisibili, rientrano nella categoria degli e-toy: set di auto da corsa, trenini elettrici, giocattoli musicali, bambole parlanti e altri robot, droni. Si tratta di circa 7,3 miliardi di singoli oggetti scartati ogni anno, una media di un e-toy per ogni uomo, donna e bambino sulla Terra. Nel frattempo, gli 844 milioni di dispositivi per il vaping stimati ogni anno rappresentano una montagna di rifiuti elettronici pari a tre volte il peso del ponte di Brooklyn di New York o di sei torri Eiffel. Lo studio ha anche rilevato che l’anno scorso sono stati scartati 950 milioni di kg di cavi contenenti rame prezioso e facilmente riciclabile: una quantità sufficiente a fare il giro della Terra 107 volte. Molti sono conservati nelle case, magari messi da parte per un potenziale uso futuro. E tanti non sanno che possono essere riciclati: un’enorme risorsa inutilizzata in un momento in cui si prevede che la domanda di rame aumenterà di 6 volte entro il 2030 nella sola Europa per soddisfare le esigenze di settori strategici come le energie rinnovabili, la mobilità elettrica, l’industria, le comunicazioni, l’aerospazio e la difesa.

Il valore delle materie prime presenti nei rifiuti elettronici generati a livello globale nel 2019 è stato stimato in 57 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali attribuiti a componenti in ferro, rame e oro. Del totale complessivo, 1/6, ovvero 9,5 miliardi di dollari di valore dei materiali ogni anno, rientra nella categoria dei rifiuti elettronici ‘invisibili’. Altri esempi di rifiuti elettronici invisibili comuni nelle famiglie sono spazzolini da denti, rasoi, unità esterne e accessori, cuffie e auricolari, telecomandi, altoparlanti, luci a Led, utensili elettrici, apparecchiature mediche domestiche, rilevatori di calore e di fumo e molti altri. In Europa, grazie a 20 anni di legislazione sulla responsabilità estesa del produttore (EPR), il 55% dei rifiuti elettronici generati viene ora ufficialmente raccolto e segnalato. Tuttavia, secondo il monitoraggio delle Nazioni Unite, in altre parti del mondo i tassi di crescita della raccolta sono molto più lenti e, a livello globale, la media è di poco superiore al 17%.

Meloni: “Sostenibilità, ma senza smantellare l’economia”. In arrivo il Piano Transizione 5.0

Transizione ecologica sì, ma “con criterio“. All’assemblea generale di Assolombarda, la premier Giorgia Meloni tranquillizza gli industriali e ribadisce che la strategia del governo è quella di puntare a una sostenibilità ambientale che cammini di pari passo con quella sociale ed economica: “Vogliamo difendere la natura, ma con l’uomo dentro – spiega -. Non si può ritenere che per avviare la transizione ecologica si possano smantellare la nostra economica e le nostre imprese”.

Il governo a Bruxelles è impegnato sul nuovo fronte della governance, la riforma del Patto di stabilità e crescita: “La sfida è sugli investimenti. Se l’Europa fa delle scelte strategiche, come transizione verde, digitale ma anche difesa, poi non si possono punire le nazioni che investono su questi temi con regole che non riconoscano il valore aggiunto di quegli investimenti“, afferma la premier. In altre parole, si tratta di scomputare le spese per gli investimenti dal calcolo del rapporto deficit/Pil.

Quanto ai soldi del Pnrr, “li metteremo a terra, costi quel che costi. Faremo tutto ciò che va fatto e metteremo tutti ai remi”, garantisce.

Mi è piaciuto sentire dalle parole del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: una narrazione diversa nei confronti dell’industria“, plaude il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Approva una visione di investimenti “con l’uomo al centro, che è quindi l’industria 5.0“.

Tra le prime misure che verranno finanziate con i fondi europei, per almeno 4 miliardi di euro, c’è proprio il Piano Transizione 5.0, per “avere un credito fiscale significativo, come quello che si aveva fino al 31 dicembre dello scorso anno per investimenti in green e digitale delle imprese. Fondamentale per incentivare le imprese a investire“, fa sapere il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.

E’ reduce da un trilaterale importante a Berlino con i ministri di Francia e Germania, Bruno Le Maire e Robert Habeck, sulle materie prime critiche: “Stiamo agendo in sede europea per la politica industriale“, afferma. Lo definisce l’inizio di un nuovo format, in cui Roma, Parigi e Berlino, “le tre grandi economie europee“, decideranno insieme sulle grandi sfide della politica economica e industriale del Continente e sui dossier all’esame delle istituzioni europee, sia per il settore dell’Automotive sia sugli altri dossier che hanno un impatto sul sistema industriale.
Il ministro delle Imprese porterà in Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, nei primi giorni di agosto, anche il ddl sulla microelettronica, che “definirà il Piano Nazionale italiano in similitudine al chips act europeo per fare dell’Italia il paese ideale in cui investire sull’economia digitale e la tecnologia green“.

La politica sui semiconduttori “si inserisce in un piano più ampio che volto a rendere l’Italia competitiva in settori ad alto contenuto tecnologico“, conferma Meloni, che fa sapere di voler dare all’Hi-tech “particolare attenzione“, per attrarre nuove imprese dall’estero ed evitare fughe di quelle che operano in Italia.

L’inizio di agosto sarà anche il momento in cui Urso darà l’avvio ad altri due dossier fondamentali per la politica industriale italiana: il piano nazionale siderurgico per le principali acciaierie italiane (Terni, Piombino, Taranto in testa) e l’accordo con Stellantis sulla transizione per l’automotive. “Penso che nelle prossime settimane sia doveroso e possibile invertire la tendenza. Nello scorso anno in Italia si sono prodotte solo 473mila autovetture, quando 10 o 20 anni fa c’erano ben altri numeri – ricorda il ministro -. Il delta sul mercato interno è di un terzo di produzione nazionale e due terzi realizzate e importate dall’estero. In Francia siamo ai 2/3 di produzione interna, la Germania produce internamente il 119% delle auto. Questo delta italiano va assolutamente ridotto“. E nell’accordo con l’unica casa produttrice di auto in Italia, è convinto, lo spazio per “invertire la tendenza c’è“.

agricoltura

Dal 2021 agricoltura in crisi. Continua la ‘tempesta perfetta’

La stragrande maggioranza delle aziende agricole e agroalimentari italiane intervistate ad aprile da Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) nel primo trimestre 2022 ha incontrato serie difficoltà nella gestione d’impresa, a causa dei forti rincari dovuti all’aumento del costo dell’energia e delle materie prime (soprattutto fertilizzanti). Il dato emerge dal rapporto diffuso dall’istituto che ha per titolo ‘I costi correnti di produzione dell’agricoltura. Dinamiche di breve e lungo termine, effetti degli aumenti dei costi e prospettive per le imprese della filiera’ e che contiene anche un sondaggio su 795 aziende per il settore agricolo e 586 imprese dell’industria alimentare.

Ma il problema viene da lontano. “Il 2021 – spiega Ismea – rappresenta un punto di rottura. Quella che i media definiscono la ‘tempesta perfetta’, ovvero l’allinearsi in senso sfavorevole di una molteplicità di fattori di tipo strutturale e congiunturale, endogeni ed esogeni al settore, ha obbligato ad acquisire tale consapevolezza con una specificità: una crisi talmente ad ampio raggio da interessare, concentrandoci sul settore agroalimentare, tutte le filiere e, nell’ambito delle stesse filiere, tutti gli anelli di cui sono composte; dalla produzione dei mezzi tecnici al consumatore finale, cui peraltro una quota importante del proprio reddito è stata ‘distratta’ verso il pagamento degli incrementi notevoli di spese prioritarie come le bollette e il pieno dell’auto, proprio mentre l’inflazione è andata a interessare gran parte dei beni alimentari“.

DAL CALO DEI PREZZI IN PIENA PANDEMIA, ALL’IMPENNATA DEL 2022

Se nel 2020, spiega Ismea nel suo report, come conseguenza della pandemia e del rallentamento delle attività produttive del blocco dei flussi turistici e dei viaggi aerei, si registrò un forte calo dei prezzi del petrolio e delle materie prime energetiche in generale (-32% la riduzione dell’indice rispetto all’anno precedente), che ha trascinato al ribasso anche l’indice dei prezzi dei fertilizzanti, diminuito del 10%, “nel 2021 si è assistito all’impennata dei prezzi di tutte le commodity, non solo gli energetici (+82% nel consuntivo 2021 rispetto al 2020), che hanno spinto un incremento analogo dei fertilizzanti (+81% rispetto all’anno precedente), ma anche i minerali e metalli e i metalli preziosi, con questi ultimi che avevano già registrato un aumento nel 2020 nel contesto di incertezza legato alla pandemia“. In particolare, nel 2021, il prezzo del petrolio è cresciuto del 67% rispetto al 2020, portandosi a 69 dollari al barile, ancora ben lontano dal massimo del periodo 2008-2021 di 105 dollari, raggiunto nel 2012; ma soprattutto si è registrata una vera e propria esplosione del prezzo del gas naturale quotato in Europa, con una crescita del 397%.

I FORTI RINCARI DEL PREZZO DEL GAS NATURALE

La crescita dell’indice internazionale del prezzo del gas naturale ha impattato a sua volta fortemente sul prezzo dei fertilizzanti, essendone il gas una componente produttiva; in particolare, il prezzo dell’urea è più che raddoppiato in un anno, con una quotazione di 483 dollari per tonnellata in media nel 2021, che si avvicina al valore massimo del periodo di 515 dollari, raggiunto nel 2008. Forte la crescita anche per fosfato diammonico e del triplo superfosfato o superfosfato concentrato, ma per questi due prodotti le quotazioni nel 2021 sono rimaste comunque lontane dai livelli massimi del 2008. Lo scenario per il 2022 si è poi drammaticamente aggravato con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La messa fuori uso dei porti sul Mar Nero, le tensioni politiche e le sanzioni comminate alla Russia hanno ulteriormente destabilizzato il mercato delle commodity agricole e degli input produttivi come petrolio, gas e fertilizzanti, nonché fenomeni speculativi che in tutte queste incertezze hanno trovato un florido terreno di coltura“, conclude Ismea nella sua analisi.

GLI AUMENTI NON SARANNO FATTI RICADERE SUI CONSUMATORI

La soluzione per contenere i rincari sarà quindi aumentare i prezzi dei prodotti finiti e far così ricadere gli aumenti sul consumatore finale? La maggior parte delle aziende intervistate non la pensa così. Il 38% delle imprese agroalimentari italiane ritiene infatti che nei mesi a venire sarà difficile aumentare i listini dei propri prodotti per recuperare gli incrementi dei costi correnti (47% per l’industria delle paste alimentari e 55% per il settore vitivinicolo). Tuttavia, il 28% delle imprese appartenenti all’industria della trasformazione dei prodotti ortofrutticoli dichiara che nei prossimi mesi i prezzi di vendita dei propri prodotti aumenteranno tra il 3-6% del valore (contro il 19% del campione). Infine, le imprese esportatrici (che rappresentano circa la metà delle imprese dell’industria alimentare intervistate), intervistate sulla maggiore o minore possibilità di riversare sui prezzi gli aumenti dei costi per i prodotti venduti all’estero, hanno dichiarato in maggioranza (55% delle esportatrici) che le vendite all’estero non hanno consentito di assorbire più facilmente l’incremento dei costi, dato che i mercati esteri sono maggiormente sensibili all’aumento dei listini, ma circa il 30% invece ha avuto maggiori possibilità di recuperare gli aumenti attraverso le vendite all’estero.