Posidonia oceanica

Posidonia oceanica, il polmone blu del Mediterraneo

Un vero e proprio polmone blu all’interno del mare, oltre che un alleato fondamentale per contrastare l’erosione delle spiagge. È la Posidonia oceanica, pianta fanerogama sottomarina endemica nel Mediterraneo che svolge un ruolo centrale nel preservare la biodiversità dell’ecosistema marino. Si stima che le praterie di posidonia oggi occupino circa 20.000 miglia quadrate di superficie (il 3% del Mediterraneo), a una profondità massima che arriva generalmente fino a 35 metri. Un mondo che oggi è messo fortemente in pericolo da diversi fattori quali la pesca a strascico e il raschiamento delle ancore delle imbarcazioni, l’inquinamento dovuto agli sversamenti di sostanze nocive in mare, la crescente cementificazione delle coste, i cambiamenti climatici che modificano le correnti marine. Nonostante la Posidonia sia tutelata dalla Comunità Europea fin dal 1992 con una direttiva relativa alla “conservazione degli habitat naturali e semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche” (recepita nell’ordinamento italiano nel 1997), Medsea stima che negli ultimi 50 anni quasi la metà delle praterie presenti nel Mediterraneo abbiano subito una riduzione di estensione.

RUOLO FONDAMENTALE

Tra le proprietà che rendono fondamentale la presenza della Posidonia oceanica c’è la capacità di produrre ossigeno: ogni metro quadro di superficie in buona salute può liberarne fino a 15 litri al giorno tramite il processo di fotosintesi. La stessa area riesce anche a catturare circa 65 grammi di carbonio l’anno, fornendo un contributo alla lotta contro l’effetto serra. Notevole è anche l’apporto in termini di biodiversità: circa un quinto delle specie del Mediterraneo hanno il loro habitat nei posidonieti. E un metro quadro di prateria può ospitare fino a 350 specie animali differenti.

Alla Posidonia sono legate anche le cosiddette banquettes, cioè gli accumuli sulle spiagge del materiale organico rilasciato in gran quantità dalle piante che vanno a formare vere e proprie dune alte anche diversi metri. Queste strutture vengono percepite come un fastidio dai bagnanti e dagli operatori turistici ma hanno una funzione chiave nel contrastare l’erosione dei litorali sabbiosi, visto che riescono a attenuare la forza del moto ondoso. Secondo quanto afferma Sea Forest Life, progetto comunitario per la conservazione delle praterie di Posidonia oceanica, ogni metro quadro di prateria che regredisce causa l’erosione di circa 15 metri di litorale sabbioso.

In generale, sempre Sea Forest Life ha calcolato che la scomparsa di un metro quadrato di posidonieto comporta una perdita economica che va da 39mila a 89mila euro l’anno, a causa della minor produzione di ossigeno e dell’erosione e ripascimento dei litorali.

RIFORESTAZIONE

Contrastare la scomparsa delle praterie di Posidonia oceanica è l’obiettivo di numerosi progetti di riforestazione marina avviati nell’ultimo periodo. Il già citato progetto europeo Sea Forest si propone di ripristinare gli habitat delle praterie di Posidonia nelle aree protette del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (provincia di Salerno), del Parco Nazionale dell’Asinara e del Parco Nazionale dell’arcipelago di La Maddalena (provincia di Sassari). Parallelamente il progetto Life SEPOSSO (Supporting Environmental governance for the POSidonia oceanica Sustainable transplanting Operations), realizzato con il contributo della Commissione Europea, mira a migliorare la governance italiana dei trapianti di Posidonia oceanica. Tra le iniziative messe in campo c’è anche una campagna di sensibilizzazione nelle scuole attraverso incontri, lezioni, giochi e la pubblicazione di un kit didattico realizzato ad hoc.

Di recente a Golfo Aranci, nel nordest della Sardegna, sono state messe a dimora 2.500 piante acquatiche ripristinando circa 100 metri quadri di fondale verde grazie a un’iniziativa del Comune realizzata attraverso la startup italo-guatemalteca ‘zeroCO’ e la onlus Worldrise. L’associazione ambientalista Marevivo ha invece lanciato la campagna nazionale Replant, mirata a mettere in pratica sperimentazioni di piantumazione della Cymodocea nodosa, un’altra pianta fanerogama che svolge un’azione decisiva nel mantenimento dell’ecosistema marino nel Mediterraneo.

PNRR

La mappatura delle praterie di Posidonia e degli habitat di interesse comunitario rientra poi tra gli obiettivi del protocollo d’intesa tra il ministero della Transizione ecologica e l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per l’attuazione dell’investimento M2C4-3.5 del Pnrr ‘Ripristino e tutela dei fondali e degli habitat marini’. Un progetto che vale circa 400 milioni di euro e che rientra nella Missione 2, ‘Rivoluzione verde e transizione ecologica’. Fondi che dovranno servire a tutelare i fondali e gli habitat marini del Mediterraneo sempre più esposti al degrado.

microplastiche

Migliaia di pellets di plastica sulle coste pugliesi: la denuncia di Greenpeace

Migliaia e migliaia di lenticchie sulle spiagge pugliesi. Osservando con più attenzione, però, è facile comprendere che delle lenticchie quegli oggetti hanno solo la forma. Sono chiamati pellets di plastica, o nurdles, più semplicemente in italiano ‘granuli’. È quello che emerge dal report ‘Inquinamento silenzioso’, diffuso oggi da Greenpeace Italia, nel quale vengono illustrati i risultati dei campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. A seguito dei risultati dell’indagine, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di questi granuli.

Ma cosa sono i pellets? È questa la forma in cui si presenta la plastica vergine, ovvero quella appena prodotta dagli stabilimenti petrolchimici dalla raffinazione di idrocarburi, qualunque sia il polimero in questione. Questi granuli vengono poi inviati alle industrie che producono i singoli, vari oggetti: che sia un paio di occhiali, un sacchetto, il cruscotto dell’automobile o una cannuccia si parte da quelle ‘lenticchie’. Sono microplastiche primarie, ovvero hanno misure comprese tra 0,3 e 5 mm sul lato più lungo e vengono prodotte in quelle dimensioni, ovvero il loro essere ‘micro’ non deriva dalla frammentazione di un oggetto più grande.

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Nei mesi scorsi abbiamo effettuato una serie di campionamenti– racconta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeaceseguendo una metodica già messa in atto da alcuni ricercatori a livello internazionale. L’obiettivo era quello di definire l’abbondanza di questi granuli lungo alcune spiagge delle coste pugliesi e soprattutto brindisine, a differenti distanze dal dall’impianto del petrolchimico, tra i più grandi in Italia per la produzione di materie plastiche. Abbiamo campionato spiagge in direzione nord e sud: a ridosso dell’impianto, a 12, 20, 25, 50 chilometri dal petrolchimico e anche un luogo a 100 di distanza. Il dato ci mostra chiaramente che c’è un gradiente di concentrazione variabile in base alla distanza dall’impianto industriale”.

Dei 7938 granuli raccolti nell’indagine, circa il 67% proviene dai tre siti di campionamento più vicini al petrolchimico. Al contrario, nelle aree più distanti i livelli di contaminazione sono risultati, quasi ovunque, nettamente inferiori. Dal rapporto emerge che gran parte dei granuli raccolti e analizzati nel corso dell’indagine, pari a circa il 70% del totale, è traslucido e trasparente: un’evidenza che la letteratura scientifica collega a rilasci recenti nell’ambiente, perché con il trascorre degli anni e dei decenni questi granuli diventano più scuri, giallognoli e quasi marroni. Inoltre, di tutti i nurdles raccolti, il 78 per cento è in polietilene (un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni), mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

microplastiche

I dati che diffondiamo oggi dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – dice Giuseppe Ungherese -. In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche. Chiediamo alla magistratura di intervenire e a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento”.

Ungherese spiega: “Esistono vari programmi volontari da parte dell’industria petrolchimica per azzerare questa contaminazione, come Operation Clean Sweep a cui aderiscono le due aziende in questione, ma non esiste un controllo esterno e indipendente, non c’è un monitoraggio sulle buone pratiche condivise. La sensazione, quindi, è che questi impegni lascino un po’ il tempo che trovano. Un rapporto di qualche anno fa, stilato per conto della Commissione europea, stima che solo nel nostro continente il rilasci di questi granuli nell’ambiente possa arrivare a superare le 167.000 tonnellate annue. Come tutte le microplastiche, anche queste entrano facilmente nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, come i predatori, tonni e pesce spada ad esempio”.

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Greenpeace ha registrato anche una lunga serie di interviste con gli abitanti dei luoghi in cui sono stati effettuati i campionamenti: raccontano tutti come la presenza di questi granuli sia una costante nel tempo, come queste graziose perline fossero oggetti di gioco durante l’infanzia. Nessuno pensava fossero palline di plastica, ma qualcuno di quei meravigliosi capolavori che l’usura delle onde e del vento su sassolini, conchiglie e sabbia ci lascia spesso ritrovare sulle spiagge.

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Il Mediterraneo scotta, Bonino (Feversea Esa): “Caldo anomalo, ecosistemi a rischio”

Il Mediterraneo sta vivendo un’ondata di calore marino molto violenta, raggiungendo nel Golfo di Taranto i 5 gradi di sforamento rispetto alla media dei trent’anni precedenti. Un’ondata di calore marino si verifica quando le temperature superano una soglia estrema per più di cinque giorni consecutivi: nel mar Ligure a maggio questa ondata è durata tre settimane, per poi riprendere da metà giugno. Partita da Ovest a metà primavera, l’ondata si è diffusa e spostata verso est raggiungendo un’intensità ancora maggiore tra Ionio e Adriatico. È quanto emerge osservando i dati satellitari forniti dal Copernicus Marine Service. Il CMCC, Centro Euro Mediterraneo sul Cambiamento Climatico, è l’istituzione scientifica italiana che gestisce il Mediterranean Forecasting System per la produzione di previsioni per i successivi dieci giorni e la ricostruzione del passato recente. Ma in chiave strategica è molto rilevante il lavoro che, sempre al CMCC, viene fatto sul progetto Feversea Esa coordinato dalla ricercatrice Giulia Bonino. Il progetto, che si concluderà nel 2023, ha l’obiettivo di arrivare a produrre previsioni a breve e medio termine per consentire di elaborare strategie di adattamento più efficaci e attutire le conseguenze pesantissime di questi fenomeni legati al cambiamento climatico.

Perché il Mediterraneo ha un ruolo fondamentale per l’economia e il benessere dei molti e popolosi Paesi che vi si affacciano, a partire dal nostro. Pur avendo una superficie inferiore all’1 per cento rispetto all’intera superficie oceanica terrestre, il Mediterraneo conta sull’8 per cento della biodiversità marina globale. Queste ondate di calore possono avere conseguenze molto pesanti sulla biodiversità, con ricadute ecologiche, economiche e sociali importanti: pensiamo ad esempio alla pesca e all’acquacoltura, agli allevamenti di molluschi ecc… oltre alla potenziale enorme perdita dei servizi ecosistemici che il mare ci fornisce costantemente.

Giulia Bonino ci racconta il lavoro in corso, frutto del finanziamento di una borsa di ricerca da parte dell’Agenzia Spaziale Europea: “Partiamo dai dati satellitari per capire al meglio le ondate di calore oceaniche. Si tratta, quindi, soprattutto di temperatura della superficie del mare. La prima fase è quella di studiare e documentare questi eventi estremi. Abbiamo quindi analizzato i dati che vanno dal 1981 fino al 2016, documentando questi eventi. L’obiettivo successivo è quello di caratterizzare quali siano i precursori di questi eventi, le cause insomma. Cosa ha portato alle ondate di calore? Infine, ed è questa la fase del progetto in cui stiamo entrando in questo momento, creare uno strumento che possa permetterci di prevedere gli eventi e permettere almeno di programmare e applicare qualche strategia di adattamento”. Perché una cosa è sapere cosa accadrà con dieci giorni di anticipo, altra cosa è poter eventualmente prevedere con mesi di anticipo. Prosegue la ricercatrice del CMCC: “Partiamo dalla creazione di un database sugli eventi di questo tipo in un periodo di oltre 30 anni, ne studiamo le cause e quindi cerchiamo di elaborare un metodo per predire le ondate di calore. Per adesso ci siamo concentrati soprattutto sul Mar Mediterraneo, il Mar Nero e il mar Caspio, ma gli obiettivi vorrebbero essere globali”.

Le conseguenze più importanti sono quelle per gli ecosistemi. Spiega ancora Giulia Bonino: “Nel mese di maggio sono state rilevate importanti ondate di calore nel mar Ligure, ricchissimo di biodiversità, e successivamente nel Golfo di Taranto, area in cui c’è un’intensa attività di mitilicoltura. È evidente che questi eventi hanno un potenziale impatto anche sociale molto forte. In questo momento stiamo raggiungendo i 5 gradi di sforamento rispetto alla media trentennale di temperatura della superficie dello stesso mare: un dato enorme. Gli eventi di questo tipo, le ondate di calore, sono in crescendo e questo è dovuto al cambiamento climatico. Quello che sta accadendo quest’anno ci permette di fare similitudini con l’ondata di calore del 2003: anche nel 2003 era iniziato a maggio, prosegue nello stesso mese di giugno. Allora, dopo una prima caduta, il fenomeno si estese anche a luglio e agosto con gli eventi più gravi, duraturi ed ecologicamente devastanti mai registrati. Dobbiamo aspettarci che l’evento estremo in corso si prolunghi anche nei prossimi due mesi”.

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Rafforzato legame Italia-Israele, Draghi: “Ora sblocchiamo grano”

Mario Draghi chiude la missione in Israele e porta a casa l’impegno del primo ministro Naftali Bennett ad aiutare l’Italia e l’Europa con il gas dei suoi giacimenti, per supplire in parte alla dipendenza russa.

Israele è diventato produttore ed esportatore di gas solo di recente, dopo la scoperta di diversi giacimenti al largo delle sue coste nel Mediterraneo: il ‘Tamar’ (300 miliardi di metri cubi) e il ‘Leviathan’, al largo di Haifa (620 miliardi di metri cubi). Ma non ha un oleodotto che colleghi le sue piattaforme di trivellazione nel Mediterraneo ai mercati dell’Europa meridionale ed è in disputa con il Libano sulla delimitazione di parte della zona con diritti esclusivi. “Guardo avanti al giorno in cui anche Beirut deciderà che è disposto ad avere il beneficio del gas naturale che si trova nelle sue acque territoriali economiche“, puntualizza il primo ministro israeliano, che lamenta troppe polemiche da parte del Paese dei Cedri: “È un gran peccato che la leadership del Libano invece di produrre il gas e fare il bene dei cittadini si occupi di contese interne ed esterne del tutto inutili”.

L’impegno di Roma è a che si giunga quanto prima a un cessate il fuoco “nei termini che l’Ucraina riterrà accettabili“, continuando anche a sostenere il desiderio di Kiev di far parte dell’Unione europea ripete l’ex capo della Bce. Sullo sfondo, ma sempre più concreto, c’è il rischio di una catastrofe alimentare da scongiurare. “Dobbiamo operare con la massima urgenza dei corridoi sicuri per il trasporto del grano. Abbiamo pochissimo tempo, perché tra poche settimane il nuovo raccolto sarà pronto e potrebbe essere impossibile conservarlo“, spiega Draghi.

I rapporti con Gerusalemme sono stretti e si sono rafforzati negli ultimi anni, in ambito sanitario, economico, commerciale: “Vogliamo che questa collaborazione in campo medico e scientifico prosegua e si estenda anche a molti altri campi“, sottolinea il premier, riferendosi ai settori più innovativi, come la robotica, la mobilità sostenibile, l’aerospazio e la tecnologia applicata all’agricoltura.

Tappa anche nei territori palestinesi, dove il premier Draghi firma sei accordi di sviluppo, per 17 milioni di euro. Un’intesa su settori cruciali come la chirurgia pediatrica, l’agricoltura, l’occupazione giovanile e la tutela del patrimonio culturale: “Questi fondi rafforzano gli attuali contributi dell’Italia per gli aiuti allo sviluppo alla Palestina, che coprono diversi settori“, fa sapere dopo l’incontro con il premier palestinese Mohammed Shtayyeh. “L’Italia collabora con le istituzioni palestinesi per offrire nuove prospettive di formazione e di crescita ai giovani, attraverso borse di studio e partnership tra università. Condividiamo questi sforzi con il resto dell’Unione Europea“, garantisce. Sono molte le aziende italiane attive nei Territori, soprattutto nel settore delle energie rinnovabili e nell’industria meccanica e high-tech.

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Draghi: “Lavoriamo con Israele su risorse gas Mediterraneo orientale”

Innovazione, sostenibilità, agricoltura ma soprattutto energia. Questi i temi principali toccati dal presidente del Consiglio Mario Draghi durante l’incontro a Tel Aviv con il primo ministro israeliano, Naftali Bennett. La collaborazione Italia-Israele, negli ultimi anni, si sta rafforzando sempre di più e l’unione tra i due Paesi è ancora più forte in questo momento di profonda crisi energetica. “Stiamo lavorando insieme nell’utilizzo delle risorse di gas del Mediterraneo orientale e per lo sviluppo di energia rinnovabile“, dichiara il premier in un punto stampa congiunto. Anche perché l’obiettivo primario è quello di “ridurre la nostra dipendenza dal gas russo e accelerare la transizione energetica verso gli obiettivi climatici che ci siamo dati“.

Ringraziando il Governo israeliano per il suo sforzo di mediazione in questa emergenza, Draghi sottolinea che “con il primo ministro Bennett si è discusso anche delle crisi internazionali in corso e in particolare della guerra in Ucraina”, aggiungendo poi che, in ogni caso, “l’Italia continuerà a sostenere in maniera convinta l’Ucraina e il suo desiderio di far parte dell’Unione europea”.

Tra le crisi provocate dal conflitto, anche quella relativa al blocco del grano nei porti del Mar Nero che rischia di far scoppiare una vera e propria catastrofe alimentare. Il premier non ha dubbi sul da farsi: “Dobbiamo operare con la massima urgenza dei corridoi sicuri per il trasporto del grano. Abbiamo pochissimo tempo, perché tra poche settimane il nuovo raccolto sarà pronto e potrebbe essere impossibile conservarlo“.

Come possono arrivare le risorse di gas del grande ‘Leviatano’ israeliano

Israele è diventato un Paese produttore ed esportatore di gas solo da una decina di anni, dopo la scoperta di diversi giacimenti al largo delle sue coste nel Mediterraneo: il giacimento ‘Tamar‘ (300 miliardi di metri cubi) e il ‘Leviathan‘, al largo di Haifa (620 miliardi di metri cubi). Ma non ha un oleodotto che colleghi le sue piattaforme di trivellazione nel Mediterraneo ai mercati dell’Europa meridionale ed è in disputa con il Libano sulla delimitazione di parte della zona con diritti esclusivi.

Per l’esportazione, gli israeliani hanno a disposizione tre opzioni principali.

La prima è utilizzare il ‘gasdotto della pace’ , che collega Ashkelon (in Israele, poco sopra la striscia di Gaza) con Al-Arish (in Egitto, sulla costa del Sinai). A dicembre del 2021, l’italiana Snam ha acquistato il 25% del gasdotto dall’azienda energetica thailandese Ptt Energy Resources. È un collegamento sottomarino lungo circa 90 chilometri. La capacità massima di trasporto giornaliera è di circa 12 milioni di metri cubi ed è prevista in espansione. Realizzato nel 2008 per trasportare in Israele gas di provenienza egiziana, dall’inizio del 2020 è diventato, invece, una delle fonti di approvvigionamento energetico dell’Egitto, ricevendo il gas dai due giacimenti offshore israeliani. Ad Al-Arish si potrebbero usare gli impianti esistenti per liquefare il gas e trasportarlo sotto forma di Gnl via nave verso i porti italiani ed europei.

La seconda è l’EastMed, progettato per sfruttare le risorse del Mediterraneo (stimate nel complesso per 3,5 mila miliardi di metri cubi di gas) tramite Poseidon (consorzio costituito in forma paritaria dall’italiana Edison e dalla greca Depa). Quando sarà completato (non prima del 2027) si estenderà per 1.900 chilometri, di cui un terzo su terraferma e il resto in mare, con l’obiettivo di importare in Europa 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dai depositi di Cipro e Israele. Un’operazione il cui costo viene stimato attorno ai 6 miliardi di euro e che sarà gestito da Eni, Total, Chevron e da altre note aziende a livello internazionale.

La terza opzione, geopoliticamente più complessa, è quella di costruire un gasdotto di allaccio da Israele alla turca Tanap, già agganciata alla Tap al confine con la Grecia per attraversare l’Albania, il mare Adriatico e approdare sulle coste salentine di San Foca, in Puglia.

infografica

foca monaca

Sea Shepherd alla difesa della foca monaca del Mediterraneo

L’Ong Sea Shepherd ha lanciato all’inizio di giugno una campagna per difendere la foca monaca mediterranea nel parco marino protetto di Alonissos, in Grecia, dove questo mammifero marino a rischio di estinzione vive in comunità. La MV Emanuel Bronner, una delle sette navi della flotta di Sea Shepherd, ha iniziato i suoi giri giorno e notte per monitorare l’area di 3.000 chilometri quadrati e prevenire “qualsiasi minaccia, specialmente durante l’alta stagione estiva“, per la foca mediterranea Monachus monachus, secondo una dichiarazione dell’Ong inviata a Afp.

Nel luglio 2021, una di queste foche simbolo dell’isola greca di Alonissos è stata uccisa da un colpo di arpione, suscitando l’indignazione dei residenti e degli ambientalisti. Quest’estate, Sea Shepherd-Grecia e Sea Shepherd-Italia “uniranno le forze per la prima volta” in questa campagna per proteggere la foca monaca, una specie che è stata recentemente classificata come “in pericolo critico“. Quasi la metà della popolazione mondiale di questi mammiferi marini risiede nelle acque greche, in particolare sulle spiagge di Alonissos e delle sue isolette nel Mar Egeo. Nel 2015 si stimava che fossero circa 600 in tutto il mondo.

In collaborazione con il ministero dell’Ambiente greco, la Guardia Costiera greca e le autorità del Parco Nazionale di Alonissos, Sea Shepherd afferma che prenderà di mira la pesca illegale in queste acque protette, il trasporto marittimo dove è vietato a causa dei rischi per l’ecosistema e il degrado delle piante acquatiche di Posidonia, che favoriscono la vita acquatica e sono protette nel Mediterraneo. Tutte queste pratiche sono le maggiori minacce per la foca monaca, ma anche per le altre specie protette di Alonissos.

(Photo credits: James Watt / NOAA / AFP)

FESTA DELLA MARINA AL QUIRINALE

Mattarella: “La Marina è essenziale per la salvaguardia dell’ambiente”

La sicurezza del Mediterraneo è essenziale per l’Italia, per i Paesi che vi si affacciano e per l’intera area Euro-Africana. In occasione della Giornata della Marina Militare, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato un messaggio che non lascia spazio a fraintendimenti, rivolto in particolare al capo di stato maggiore, l’ammiraglio di squadra Giuseppe Enrico Credendino: “Alle unità della Marina, componente qualificata del Sistema Interforze della Difesa nazionale, è affidata la sicurezza delle nostre coste. I nostri marinai e le nostre navi sono un importante patrimonio di valori e di capacità”.

Insieme alle Forze alleate della comunità internazionale, la Marina si occupa di tutelare la libertà di navigazione, la salvaguardia della vita umana in mare, contrastando la pirateria, il terrorismo e i traffici illeciti. Andando oltre, “i grandi snodi della globalizzazione, l’economia, l’energia, dipendono dalla efficacia di queste azioni”, ha affermato il capo dello Stato, confermando il fatto che la Marina è indispensabile per la sicurezza della Repubblica. Oggi le crisi determinano instabilità e hanno un impatto importante sulla sicurezza e sul libero scambio: “Lo confermano proprio le conseguenze del conflitto in Ucraina, determinato dall’ingiustificabile aggressione da parte della Federazione Russa”, ha spiegato il Presidente. Infatti, il blocco dei traffici marittimi da e per il Mar Nero ha comportato una repentina mancanza di approvvigionamenti alimentari ed energetici con il conseguente innalzamento dei prezzi delle materie prime con gravissime ripercussioni in tutto il mondo.

In merito alla situazione attuale nel Mediterraneo, l’ammiraglio di squadra Credendino ha raccontato come ormai sia diventato un crocevia di navi e sottomarini di molti Paesi. “Non si tratta più solo di un mare tra Europa e Africa, ma è sfruttato di traffici da Ovest a Est e viceversa, del passaggio delle navi mercantili dagli stretti“. L’ammiraglio ha poi detto che la Marina è in attesa di scortare i cargo dall’Ucraina: “Siamo in attesa, ma siamo anche pronti a intervenire, che siano scorte oppure operazioni di sminamento delle coste ucraine“.

Tornando a Mattarella, importante è stata la sottolineatura ambientale: “Significativa è anche l’attività di monitoraggio e indagine scientifica sviluppata ai fini della conoscenza e della salvaguardia dell’ambiente”, ha ricordato. Proprio quest’anno ricorre il 150° anniversario dell’Istituto Idrografico della Marina che, accanto alla preziosa documentazione nautica prodotta, ha aggiunto la partecipazione a programmi di ricerca nella regione artica.

Anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha voluto esprimere la sua riconoscenza a tutte le donne e gli uomini della Marina Militare. “La dedizione, il coraggio, la professionalità con cui portate avanti il vostro impegno sono essenziali per garantire la sicurezza e il soccorso nei mari italiani e nel mondo”, le parole del premier.

FESTA DELLA MARINA AL QUIRINALE

di maio

Crisi alimentare nel Mediterraneo. Di Maio: “Scarsità cibo è emergenza mondiale”

Individuare misure concrete per affrontare l’impatto sulla sicurezza alimentare nel bacino del Mediterraneo generato dall’invasione russa dell’Ucraina. Questo l’obiettivo del dialogo in corso alla Farnesina dove il ministro degli Esteri e della cooperazione internazionale, Luigi Di Maio, ha aperto l’incontro spiegando l’intento principale: “Siamo pronti ad ascoltare i bisogni dei Paesi più colpiti dalla crisi alimentare e a garantire che ogni azione internazionale che verrà intrapresa sia coerente con le loro richieste”. La situazione è di vera e propria emergenza, ha lasciato intendere il ministro: “La fame e la sicurezza alimentare sono sempre state in cima all’agenda internazionale, ma mai come ora la scarsità di cibo ha avuto un così grande impatto mondiale”.

Spreco e perdita di cibo, nella regione mediterranea, “sono problemi seri, che riguardano dal 16% al 20% della produzione alimentare”, ha spiegato Di Maio, ricordando che il nostro Paese ospita importanti centri di studio e può contribuire significativamente allo sviluppo e all’attuazione di strategie nazionali per ridurre le perdite e gli sprechi agricoli. “Vogliamo continuare a collaborare attivamente a tutti gli sforzi internazionali per trovare una soluzione a uno dei principali ostacoli causati dal conflitto, quello relativo alle milioni di tonnellate di grano e scorte di cibo attualmente bloccate nei silos nei porti ucraini”, ha poi puntualizzato.

La lotta alla fame richiede un approccio multilaterale e integrato“, ha continuato il titolare della Farnesina. Proprio come ha affermato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “abbiamo scelto il multilateralismo e siamo consapevoli che i destini dei popoli sono interdipendenti nel mutuo rispetto per garantire universalmente la pace, lo sviluppo e la promozione dei diritti umani”, la sottolineatura del ministro.

Di Maio ha anche annunciato che “l’Italia intende convocare a dicembre una seconda edizione del Dialogo ministeriale del Mediterraneo durante la Conferenza sui Dialoghi Med 2022 a Roma per fare il punto sulla collaborazione regionale sulle aree chiave individuate” in maniera che non siano sempre e solo buoni propositi ma si scenda anche sul piano indispensabile della concretezza.

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Giornata degli Oceani, respiriamo grazie al mare: ecco perché dobbiamo rispettarlo

Un paio di anni fa, nell’ambito di un incontro pubblico su alcuni eventi riguardanti l’Ocean Literacy (tradotto propriamente in italiano significa ‘conoscere il mare’, ovvero, ad esempio, comprendere che respiriamo grazie ad esso), un importante esponente politico di un’amministrazione regionale italiana disse testualmente: “Vabbè, ma a noi l’oceano non interessa, noi abbiamo il Mediterraneo e dobbiamo occuparci di quello”. Quell’episodio sintetizza alla perfezione le ragioni che rendono necessario celebrare la Giornata Mondiale degli Oceani – tutti gli anni l’8 giugno – e favorire ogni giorno la diffusione dell’Ocean Literacy. Lo slogan di quest’anno è ‘Revitalization. Collective Action for the Ocean-Rivitalizzazione. Azione collettiva per l’oceano‘.

Per molti di noi la distinzione tra oceani e mare come fossero cose diverse può apparire sensata. Il primo dei sette semplicissimi principi dell’Ocean Literacy, però, ci aiuta. Recita: ‘La Terra ha un unico grande oceano con diverse caratteristiche’. Lo sappiamo tutti, in realtà, perché dopo avere letto questa frase e riflettendoci un attimo ricordiamo certamente che su un mappamondo o un planisfero il mare è interamente collegato. È uno solo, appunto, globalmente si chiama oceano e in Italia lo chiamiamo mare perché ci affacciamo sul Mediterraneo. Questo grande oceano ha nomi diversi, infatti, per identificare con precisione le singole aree. Ma perché è importante quello che apparentemente può sembrarci un dettaglio irrilevante? Perché se l’organismo è unico, significa che distruggendone una parte, lo feriamo tutto. Un esempio per capirci: se ci rompiamo una gamba, non abbiamo un problema solo alla gamba, ma tutta la nostra persona subirà varie conseguenze.

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, circa il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 chilometri da una costa. E allora: perché la salute dell’Oceano deve interessare tutti? Molto semplicemente perché l’intera vita sulla Terra dipende totalmente da questo.

E proprio i sette princìpi dell’Ocean Literacy – non a caso al centro delle politiche di programmazione e sviluppo in ogni parte del mondo da alcuni anni a questa parte – ci aiutano a comprendere questo legame fortissimo. La vita umana è inestricabilmente interconnessa al mare, ogni istante e in ogni attività.

Detto del Principio 1, scorriamo gli altri.

Principio 2. Il mare e la vita nel mare determinano fortemente le dinamiche della Terra. Il mare modella costantemente la costa e depositi di conchiglie e scheletri, i sedimenti dei fondali, il materiale roccioso che fuoriesce nei fondali marini favoriscono la formazione di nuove rocce che diventeranno terre emerse: ne sono testimonianza anche le nostre Alpi (che furono fondali marini) o le scogliere di Dover o qualunque area costiera che risente costantemente dell’azione di erosione e deposito del mare…

Principio 3. Il mare influenza fortemente il clima. Il mare è il grande ‘termostato’ del nostro Pianeta: da lui dipendono pioggia e temperature, quindi coltivazioni, sicurezza e salute. L’oceano ricopre oltre il 70% della superficie terrestre ed è profondo mediamente 4000 metri: pensiamo a quale potenza termica possa avere.

Principio 4. Il mare permette che la terra sia abitabile. Metà dell’ossigeno che respiriamo, un respiro su due, lo dobbiamo direttamente al mare. È prodotto da miliardi di microalghe (oltre ad alghe e piante marine, ma in quantità minore) che con la fotosintesi ci donano ossigeno. Ma anche l’altra metà di ossigeno la dobbiamo in qualche modo al mare: viene prodotta dalle piante a terra che però crescono grazie alle piogge che sono frutto dell’evaporazione del mare. Questo, non solo ci permette di respirare ma anche di bere e di mangiare (frutta e verdura, ma anche gli animali hanno bisogno dell’acqua dolce).

Principio 5. Il mare supporta un’immensa diversità di ecosistemi e di specie viventi. Queste sono parte essenziale dei cicli, a partire da quello biologico. Molte di queste specie sono anche essenziali per la cura della nostra salute: sia per gli elementi che ne traiamo per produrre medicine, sia per lo studio di meccanismi biologici, chimici, fisici che ispirano l’elaborazione di nuove modalità di cura.

Principio 6. Il mare e l’umanità sono fortemente interconnessi. Il mare è da sempre fonte di ispirazione, svago e benessere per l’essere umano: pensiamo alla letteratura, alla musica e alle arti in generale, alle scienze e al nostro relax. Ma il mare è anche un elemento essenziale per le comunicazioni (il trasporto merci avviene ancora in gran parte via nave, ma anche i cavi delle telecomunicazioni passano sui fondali oceanici) e per il reperimento di materie prime.

Principio 7. Il mare è ancora largamente inesplorato. Conosciamo meglio la superficie di Marte che i fondali del nostro mare. Questo perché studiare i fondali marini è estremamente complicato, costoso, richiede tempi lunghi e la strettissima collaborazione tra i Governi. Vista la maggiore consapevolezza acquisita, il dato sta migliorando abbastanza rapidamente. Ma la Giornata Mondiale degli Oceani ci ricorda che è necessario investire sulla ricerca e sulla conoscenza, non a scapito di quella spaziale ma in aggiunta. Perché da queste conoscenze dipende la qualità della nostra vita.

Nell’avvicinamento alla Giornata Mondiale degli Oceani, la leggendaria biologa marina Sylvia Earle ha detto: “Siamo nel momento in cui stiamo da un lato continuando con il comportamento di prendere, prendere e prendere dalla natura e dall’altro realizzando che la cosa più importante che prendiamo dalla natura è la nostra esistenza”. Se lo terremo presente, avremo un futuro migliore.

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(*giornalista e divulgatore ambientale)