Alluvione

Negli ultimi 50 anni 12mila disastri meteo con 2 milioni di vittime

Eventi meteorologici, climatici e idrici estremi hanno causato 11.778 disastri segnalati tra il 1970 e il 2021, con poco più di 2 milioni di morti e 4.300 miliardi di dollari di perdite economiche. E’ quanto afferma l’Organizzazione meteorologica mondiale, che fa parte dell’Onu, precisando che le perdite economiche sono aumentate, ma il miglioramento dei sistemi di allerta precoce e la gestione coordinata delle catastrofi hanno ridotto il numero di vittime umane nell’ultimo mezzo secolo. Oltre il 90% dei decessi segnalati a livello mondiale si è verificato nei Paesi in via di sviluppo. I soli Stati Uniti hanno subito danni per 1.700 miliardi di dollari, pari al 39% delle perdite economiche a livello mondiale nei 51 anni. Ma i Paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo hanno subito un costo sproporzionato rispetto alle dimensioni delle loro economie.

Oltre il 60% delle perdite economiche dovute a disastri legati al tempo, al clima e all’acqua sono state registrate nelle economie sviluppate. Tuttavia, in più di quattro quinti di questi disastri le perdite economiche sono state equivalenti a meno dello 0,1% del prodotto interno lordo (Pil) delle rispettive economie. Non sono stati segnalati disastri con perdite economiche superiori al 3,5% dei rispettivi Pil. Nei Paesi meno sviluppati, il 7% dei disastri per i quali sono state segnalate perdite economiche ha avuto un impatto equivalente a più del 5% dei rispettivi Pil, con diversi disastri che hanno causato perdite economiche fino a quasi il 30%. Nei Piccoli Stati insulari in via di sviluppo, il 20% dei disastri per i quali sono state segnalate perdite economiche ha avuto un impatto equivalente a più del 5% dei rispettivi Pil, con alcuni disastri che hanno causato perdite economiche superiori al 100%.

L’Omm ha pubblicato i nuovi risultati in vista del Congresso meteorologico mondiale quadriennale, che si aprirà il 22 maggio con un dialogo ad alto livello sull’accelerazione e l’intensificazione delle azioni per garantire che i servizi di allerta precoce raggiungano tutti gli abitanti della Terra entro la fine del 2027. L’iniziativa delle Nazioni Unite Early Warnings for All è una delle principali priorità strategiche che saranno approvate dal Congresso meteorologico mondiale, il massimo organo decisionale dell’Omm. La sessione di alto livello sarà aperta dal presidente svizzero Alain Berset e riunirà i massimi rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, delle banche di sviluppo, dei governi e dei servizi meteorologici e idrologici nazionali responsabili dell’emissione di allarmi precoci.

Le comunità più vulnerabili purtroppo sopportano il peso dei rischi legati al tempo, al clima e all’acqua“, ha dichiarato il segretario generale dell’Omm, Petteri Taalas. “La gravissima tempesta ciclonica Mocha ne è un esempio. Ha causato devastazioni diffuse in Myanmar e Bangladesh, colpendo i più poveri tra i poveri. In passato, sia il Myanmar che il Bangladesh hanno subito un bilancio di decine e persino centinaia di migliaia di morti. Grazie all’allerta precoce e alla gestione dei disastri, questi tassi di mortalità catastrofici sono ormai fortunatamente storia passata. Gli allarmi precoci salvano le vite”, ha aggiunto.

Riuso, riciclo e riorientamento: la strategia Onu per ridurre l’inquinamento da plastica

Secondo un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), l’inquinamento da plastica potrebbe ridursi dell’80% entro il 2040 se i Paesi e le aziende attuassero profondi cambiamenti nelle politiche e nei mercati utilizzando le tecnologie esistenti. Come farlo? Intanto eliminando la plastica problematica e non necessaria, e poi utilizzando la strategia del trittico ‘Riuso, riciclo e riorientamento’. Il rapporto è stato pubblicato in vista del secondo ciclo di negoziati a Parigi su un accordo globale per sconfiggere l’inquinamento da plastica e delinea la portata e la natura dei cambiamenti necessari per porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare. ‘Chiudere il rubinetto: come il mondo può porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare’ è un’analisi incentrata sulle soluzioni, sulle pratiche concrete, sui cambiamenti del mercato e sulle politiche che possono informare le riflessioni dei governi e le azioni delle imprese.

Il modo in cui produciamo, utilizziamo e smaltiamo la plastica inquina gli ecosistemi, crea rischi per la salute umana e destabilizza il clima“, ha dichiarato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep. “Il rapporto traccia una tabella di marcia per ridurre drasticamente questi rischi attraverso l’adozione di un approccio circolare che tenga la plastica lontana dagli ecosistemi, dai nostri corpi e dall’economia. Se seguiremo questa tabella di marcia, anche nei negoziati sull’accordo sull’inquinamento da plastica, potremo ottenere importanti risultati economici, sociali e ambientali”.

Così diventa fondamentale riutilizzare (con una riduzione del 30% di inquinamento da plastica entro il 2040), riciclare (-20% entro il 2040) e riorientare e diversificare, con la sostituzione di prodotti come involucri di plastica, bustine e articoli da asporto con prodotti realizzati con materiali alternativi che può consentire un’ulteriore riduzione del 17% dell’inquinamento da plastica.
Anche con le misure sopra descritte, entro il 2040 sarà ancora necessario gestire in sicurezza 100 milioni di tonnellate di plastica provenienti da prodotti monouso e a vita breve, oltre a un’eredità significativa di inquinamento da plastica esistente. Complessivamente, il passaggio a un’economia circolare comporterebbe un risparmio di 1,27 trilioni di dollari, considerando i costi e i ricavi del riciclo. Altri 3,25 trilioni di dollari verrebbero risparmiati grazie alle esternalità evitate, come la salute, il clima, l’inquinamento atmosferico, il degrado degli ecosistemi marini e i costi legati alle controversie. Questo cambiamento potrebbe anche portare a un aumento netto di 700.000 posti di lavoro entro il 2040, soprattutto nei Paesi a basso reddito, migliorando significativamente le condizioni di vita di milioni di lavoratori in contesti informali. I costi di investimento per il cambiamento sistemico raccomandato sono significativi, ma inferiori alla spesa senza questo cambiamento sistemico: 65 miliardi di dollari all’anno contro 113 miliardi di dollari all’anno.

Tuttavia, il tempo è fondamentale: un ritardo di cinque anni potrebbe portare a un aumento di 80 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica entro il 2040. I costi più elevati di un’economia circolare e usa e getta sono quelli operativi. Con una regolamentazione che garantisca che le materie plastiche siano progettate per essere circolari, gli schemi di responsabilità estesa del produttore (EPR) possono coprire questi costi operativi per garantire la circolarità del sistema, richiedendo ai produttori di finanziare la raccolta, il riciclaggio e lo smaltimento responsabile a fine vita dei prodotti in plastica.

Da Londra ok a legge contro azioni ambientalisti. Onu: “Restrizioni gravi e ingiustificate”

Se in Italia arriva la stretta contro i cosiddetti ‘eco-vandali’, gli altri Paesi non sono da meno. L’ultimo, in ordine di tempo, è la Gran Bretagna, con la nuova legge sull’ordine pubblico approvata dal Parlamento britannico mercoledì. Ma non tutti sono d’accordo. A scagliarsi contro la nuova legislazione varata, in particolare, per contrastare le azioni delle organizzazioni ambientaliste come Extinction Rebellion e Just Stop Oil, che spesso negli ultimi mesi hanno bloccato strade, ponti e infrastrutture, è l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo il quale la norma “impone restrizioni gravi e ingiustificate” ai diritti umani e per questo Londra dovrebbe fare un passo indietro. La legge estende i poteri della polizia di fermare e perquisire le persone, anche senza sospetti, e, secondo l’Alto Commissario Volker Türk definisce “alcuni nuovi reati in modo vago ed eccessivamente ampio, imponendo sanzioni penali inutili e sproporzionate per chi organizza o partecipa a manifestazioni pacifiche”.

La legge approvata dal Parlamento britannico è ben diversa dal ddl Beni culturali italiano, che prevede multe per chi distrugge, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici, ma non affronta, per esempio, il tema dei blocchi stradali. Quella inglese, secondo l’Alto Commissario, è “profondamente preoccupante” perché contraria agli obblighi internazionali del Regno Unito in materia di diritti alla libertà di espressione, di riunione pacifica e di associazione.

Türk è particolarmente critico nei confronti dei nuovi “ordini di prevenzione di gravi disordini” che, tra l’altro, consentiranno ai tribunali britannici di vietare alle persone di trovarsi in certi luoghi in determinati momenti e di limitare il loro uso di Internet. “I governi hanno l’obbligo di agevolare le manifestazioni pacifiche, proteggendo al contempo la popolazione da disagi gravi e duraturi. Ma il rischio serio è che tali ordini limitino preventivamente il legittimo esercizio dei diritti di un individuo“, afferma. Facendo preciso riferimento alle battaglie degli ambientalisti: “Poiché il mondo si trova ad affrontare la triplice crisi globale del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento, i governi dovrebbero proteggere e facilitare le proteste pacifiche su queste questioni esistenziali, non ostacolarle e bloccarle“.

scarsità acqua

L’Onu lancia l’allarme per una crisi idrica imminente. E’ colpa dell’uso “vampiresco” dell’acqua

L’umanità “vampiresca” sta esaurendo le risorse idriche del pianeta “goccia a goccia“. E’ l’avvertimento lanciato dall’Onu in vista dell’inizio di una conferenza per cercare di soddisfare le esigenze di miliardi di persone a rischio di una “imminente” crisi idrica globale. “Il consumo eccessivo e il sovrasviluppo vampiresco, lo sfruttamento insostenibile delle risorse idriche, l’inquinamento e il riscaldamento globale incontrollato stanno esaurendo, goccia a goccia, questa fonte di vita per l’umanità“, ha avvertito il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres nella prefazione di un rapporto pubblicato poche ore prima della conferenza Onu sull’acqua, la prima del suo genere in quasi mezzo secolo. “L’umanità ha intrapreso alla cieca un percorso pericoloso“, ha affermato. E “tutti noi ne stiamo subendo le conseguenze“.

Acqua insufficiente in alcuni luoghi, troppa in altri, dove si moltiplicano le inondazioni, o acqua contaminata: se le situazioni drammatiche sono numerose in molte parti del pianeta, il rapporto UN-Water e Unesco pubblicato martedì sottolinea il “rischio imminente di una crisi idrica globale“. “Quante persone saranno colpite da questa crisi idrica globale è una questione di scenario“, ha dichiarato all’AFP l’autore principale, Richard Connor. “Se non si interviene, tra il 40 e il 50% della popolazione continuerà a non avere accesso ai servizi igienico-sanitari e circa il 20-25% all’acqua potabile“, osserva. E anche se le percentuali non cambiano, la popolazione mondiale sta crescendo e così il numero di persone colpite.

Per cercare di invertire la tendenza e sperare di garantire a tutti l’accesso all’acqua potabile o ai servizi igienici entro il 2030, obiettivi fissati nel 2015, circa 6.500 partecipanti, tra cui un centinaio di ministri e una dozzina di capi di Stato e di governo, si riuniscono fino a venerdì a New York, chiamati a proporre impegni concreti. Ma alcuni osservatori sono già preoccupati per la portata di questi impegni e per la disponibilità dei fondi necessari ad attuarli. Tuttavia, “c’è molto da fare e il tempo non è dalla nostra parte“, afferma Gilbert Houngbo, presidente di UN-Water, la piattaforma che coordina il lavoro delle Nazioni Unite, che non ha un’agenzia dedicata a questo tema. È dal 1977 che non viene organizzata una conferenza di questa portata su questo tema vitale ma a lungo trascurato.

In un mondo in cui l’utilizzo di acqua dolce è aumentato di quasi l’1% all’anno negli ultimi 40 anni, il rapporto di UN-Water mette in evidenza la scarsità d’acqua che “tende a diventare più diffusa” e a peggiorare con l’impatto del riscaldamento globale, e che presto interesserà anche le regioni attualmente risparmiate dell’Asia orientale e del Sud America. Circa il 10% della popolazione mondiale vive in un Paese in cui lo stress idrico ha raggiunto un livello elevato o critico. E secondo il rapporto degli esperti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) pubblicato lunedì, “circa la metà della popolazione mondiale” sta sperimentando una “grave” carenza d’acqua per almeno una parte dell’anno. Una situazione che evidenzia anche le disuguaglianze. “Ovunque tu sia, se sei abbastanza ricco, avrai l’acqua“, osserva Richard Connor. “Più si è poveri, più si è vulnerabili a queste crisi“.

Il problema non è solo la mancanza d’acqua, ma la contaminazione di quella eventualmente disponibile, dovuta all’assenza o alle carenze dei sistemi igienico-sanitari. Almeno due miliardi di persone bevono acqua contaminata da feci, esponendosi a colera, dissenteria, tifo e poliomielite. Per non parlare dell’inquinamento da farmaci, sostanze chimiche, pesticidi, microplastiche e nanomateriali. Secondo UN-Water, per garantire a tutti l’accesso all’acqua potabile entro il 2030, gli attuali livelli di investimento dovrebbero essere moltiplicati per almeno tre. L’inquinamento minaccia anche la natura. Secondo il rapporto, gli ecosistemi d’acqua dolce che forniscono servizi inestimabili all’umanità, tra cui la lotta al riscaldamento globale e al suo impatto, sono “tra i più minacciati al mondo“.

Abbiamo rotto il ciclo dell’acqua“, ha dichiarato all’AFP Henk Ovink, inviato speciale per l’acqua dei Paesi Bassi, che ha co-organizzato la conferenza insieme al Tagikistan. “Dobbiamo agire subito perché l’insicurezza idrica compromette la sicurezza alimentare, la salute, la sicurezza energetica, lo sviluppo urbano e i problemi sociali“, ha aggiunto. “Ora o mai più, è l’opportunità di una generazione”.

Clima, allarme Onu: “La temperatura è in aumento, i piani dei governi sono insufficienti”

La temperatura sale ancora, con una media di 1,2°C. E presto, tra il 2030 e il 2035, il riscaldamento globale raggiungerà +1,5°C, rispetto all’era preindustriale. Questo decennio che verrà sarà dunque ‘cruciale’ per garantire un futuro vivibile al pianeta.
La pubblicazione del rapporto di sintesi (Syntesis Report) del Sesto Rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) dell’Onu rappresenta una revisione completa, per la quale centinaia di scienziati hanno lavorato otto anni, di tutto ciò che l’uomo sa rispetto alla crisi climatica in atto. La fotografia è chiara: siamo al punto di non ritorno, ma le soluzioni sono ancora possibili, a patto di intervenire ora. “Il ritmo e la dimensione di ciò che è stato fatto negli ultimi cinque anni e i piani attuali sono insufficienti per affrontare il cambiamento climatico“, bollano gli esperti. Di fatto, se nel 2018 l’Ipcc aveva lanciato l’allarme su cosa sarebbe accaduto se non si fosse riuscito a contenere il riscaldamento globale entro 1,5° C tagliando le emissioni globali di circa il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, cinque anni dopo la sfida è diventata ancora più grande a causa della continua crescita di emissioni di gas serra. “Ogni aumento della temperatura si trasforma rapidamente in una escalation di pericoli” aggiungono gli scienziati ricordando che “ondate di calore più intense, nubifragi e altri eccessi meteo aumentano i rischi per la salute umana e gli ecosistemi“. “L’insicurezza per cibo e acqua legata a fattori climatici è stimata in crescita con l’aumento di calore. E quando i rischi si combinano con altri eventi avversi, come pandemie o guerre, diventano più difficili da gestire“, avverte l’Ipcc. “Questo Rapporto di sintesi sottolinea l’urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e dimostra che, se agiamo ora, possiamo ancora garantire un futuro sostenibile e vivibile per tutti” ha dichiarato il presidente dell’Ipcc Hoesung Lee. “La bomba climatica scandisce i secondi, ma il rapporto Ipcc è una guida pratica per disinnescarla. Il limite di 1,5° C è realizzabile, ma ci vorrà un salto di qualità nell’azione per il Clima” ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.

La sintesi per i decisori politici è stata elaborata ad Interlaken, in Svizzera, la settimana scorsa nella 58/a sessione dell’Ipcc. Dopo una settimana di trattative, che hanno sforato andando oltre due giorni interi rispetto alla conclusione programmata venerdì e hanno comportato deliberazioni 24 ore su 24, i delegati hanno approvato il testo di 37 pagine che offre ai responsabili politici una panoramica dello stato delle conoscenze sulla scienza del cambiamento climatico. Nel rapporto infatti non ci sono di fatto novità di rilievo dal punto di vista scientifico, ma riunisce appunto le evidenze scientifiche in una forma più breve ed è diretto ai decisori politici, per indicare una strada da percorrere per limitare il riscaldamento globale. Inoltre, il documento è la base di partenza per gli accordi che si discuteranno a fine novembre a Dubai durante il prossimo vertice delle Nazioni Unite sul Clima, Cop28, quando verranno valutati i progressi compiuti dalle nazioni per ridurre le emissioni di gas serra in seguito all’accordo sul Clima di Parigi del 2015. “Esistono molte opzioni per ridurre i gas serra e frenare il cambiamento climatico provocato dall’uomo e sono già disponibili”, spiega l’Ipcc, secondo cui “le scelte dei prossimi anni saranno decisive per decidere il nostro futuro e quello delle future generazioni“. E anche l’attivista ambientalista Greta Thunberg avverte: “Il fatto che coloro che sono al potere vivano ancora nella negazione e vadano attivamente nella direzione sbagliata, alla fine sarà visto e ricordato come un tradimento senza precedenti”.

La questione delle “perdite e danni” causati dal riscaldamento globale e già subiti da alcuni Paesi, in particolare i più poveri, sarà uno dei temi di discussione della COP28. “La giustizia climatica è fondamentale perché coloro che hanno contribuito di meno al cambiamento climatico sono colpiti in modo sproporzionato”, ha affermato Aditi Mukherji, uno degli autori della sintesi. Per questo arriva l’appello di Guterres ai paesi ricchi, perché continuino nell’impegno di raggiungere la neutralità da carbonio entro il 2040, in modo che le economie emergenti possano arrivarci entro il 2050. “Ci sono sufficienti capitali per ridurre rapidamente i gas serra se vengono ridotte le barriere esistenti e la chiave per farlo sono i fondi pubblici dei governi e chiari segnali agli investitori. Finanza, tecnologia e cooperazione internazionale possono accelerare l’azione climatica. Investitori, banche centrali e regolatori finanziari possono fare la propria parte“. Cambiamenti nei settori alimentare, elettrico, dei trasporti, industriale, edile e nell’uso del suolo, aggiungono gli esperti di Clima dell’Onu, possono tagliare i gas serra e rendere più facile avere stili di vita a bassa impronta di carbonio che migliora salute e benessere. “Una migliore comprensione delle conseguenze del sovraconsumo può aiutare le persone a fare scelte più consapevoli”, aggiungono.

Il rapporto analizza anche diverse soluzioni: la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili, la gestione sostenibile delle foreste e dell’agricoltura, la protezione delle foreste. “Spesso assistiamo ai dibattiti che prendono in considerazione, come alternative, le possibilità di assorbimento delle emissioni (tramite rimboschimenti o tecnologie CCS – Carbon Capture and Storage) o la loro riduzione – commenta Lucia Perugini ricercatrice  di CMCC-Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climaticioppure che creano una competizione tra una fonte di energia rinnovabile e l’altra. Ma scienza è chiara: dobbiamo sfruttare tutte le opzioni a disposizione e dobbiamo farlo ora”. Come sottolinea Elena Verdolini, senior scientist del Cmcc e autrice del rapporto Ipcc sulla mitigazionenon siamo in linea con gli obiettivi definiti dall’Accordo di Parigi, ma le evidenze scientifiche dimostrano che già oggi abbiamo a disposizione tecnologie e soluzioni per raggiungere quanto concordato nell’accordo di Parigi”. Tecnologie e innovazioni, però, da sole non bastano: “Sono invece necessari anche cambiamenti comportamentali”, oltre al fatto che “le politiche climatiche sono veramente efficaci solo se coordinate con quelle industriali, sanitarie, finanziarie, fiscali”.

L’Onu si prepara alla Conferenza sull’Acqua: linfa vitale del pianeta a lungo ignorata

Le Nazioni Unite inizieranno mercoledì ad affrontare la crisi globale dell’acqua, la “linfa vitale” del pianeta che è stata ignorata per troppo tempo nonostante i miliardi di persone a rischio a causa del suo inquinamento, della sua scarsità o, al contrario, del suo eccesso. “È la prima volta in 46 anni che il mondo si riunisce intorno alla questione dell’acqua. Ora o mai più, è l’occasione di una generazione“, ha dichiarato all’AFP Henk Ovink, inviato speciale per l’acqua dei Paesi Bassi, co-organizzatori insieme al Tagikistan di questa conferenza Onu sull’acqua che si terrà dal 22 al 24 marzo. L’ultima conferenza di questa portata, su un tema che non è coperto da alcun trattato globale e non è appannaggio di alcuna agenzia Onu dedicata, risale al 1997 a Mar del Plata, in Argentina.

Eppure l’evidenza è chiara. “Abbiamo rotto il ciclo dell’acqua“, lamenta Henk Ovik, dicendosi “mai così preoccupato come oggi“. “Stiamo prelevando troppa acqua dal suolo, stiamo inquinando l’acqua rimanente e ora c’è così tanta acqua nell’atmosfera che sta colpendo le nostre economie e le nostre persone a causa del cambiamento climatico”. Il risultato è che c’è troppa acqua da una parte e troppo poca dall’altra, con inondazioni e siccità che aumentano e si moltiplicano in tutto il mondo a causa del riscaldamento globale provocato dalle attività umane. Secondo le Nazioni Unite, 2,3 miliardi di persone vivono in Paesi sottoposti a stress idrico. Inoltre, nel 2020, 2 miliardi di persone non avevano accesso all’acqua potabile, 3,6 miliardi non disponevano di servizi igienici e 2,3 miliardi non potevano lavarsi le mani a casa. Situazioni che favoriscono le malattie. E tutto ciò è ben lontano dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile adottati dalle Nazioni Unite nel 2015, che prevedono di garantire a tutti l’accesso a servizi idrici e igienico-sanitari gestiti in modo sostenibile entro il 2030.

Dobbiamo sviluppare una nuova economia dell’acqua che ci aiuti a ridurre gli sprechi, a fare un uso più efficiente dell’acqua e a consentire una maggiore equità” nell’accesso a questa risorsa, ha commentato la direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio Ngozi Okonjo-Iweala, coautrice di un recente rapporto che descrive “una crisi sistemica derivante da decenni di cattiva gestione umana dell’acqua“. Per cercare di invertire la tendenza, i governi e altri attori pubblici e privati sono stati invitati a presentare impegni raggruppati in una ‘Agenda d’azione per l’acqua’ per la conferenza. “Il vertice sull’acqua deve portare a un ambizioso programma d’azione sull’acqua che dia a questa forza vitale del nostro mondo l’impegno che merita“, ha commentato il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

A New York sono attesi circa 6.500 partecipanti per gli oltre 500 eventi della conferenza, tra cui una ventina di capi di Stato e di governo – tra cui il re dei Paesi Bassi e il presidente del Tagikistan – decine di ministri e centinaia di rappresentanti della società civile e della comunità imprenditoriale. In vista della conferenza, sul sito web sono già stati registrati centinaia di progetti, dalla costruzione di servizi igienici a basso costo per milioni di persone in tutto il mondo, al miglioramento dell’irrigazione agricola in Australia, all’accesso all’acqua potabile nelle Fiji. Gli organizzatori sperano di ottenere altri impegni, grandi e piccoli, nel corso dei tre giorni.

Goccia dopo goccia, diventerà un oceano“, ha commentato l’inviato speciale per l’acqua del Tagikistan, Sulton Rahimzoda, durante una conferenza stampa, affermando che “ogni impegno è importante“, che si tratti di “una casa, una scuola, un villaggio o una città“. “Non possiamo accontentarci di progressi incrementali, ma dobbiamo pianificare una profonda trasformazione della nostra gestione idrica in una nuova realtà climatica“, ha lanciato la sfida Ani Dasgupta, responsabile del think tank World Resources Institute, assicurando che “le soluzioni esistono“, e che sono “a basso costo“. “Assicurare l’acqua alle nostre società entro il 2030 costerebbe poco più dell’1% del PIL globale“, ha dichiarato. “E il ritorno di questi investimenti sarebbe immenso, dalla crescita delle economie all’aumento della produzione agricola, fino al miglioramento della vita delle comunità povere e vulnerabili“.

grano

Grano, Mosca: Estensione dell’accordo si complica. A Ginevra incontro con l’Onu

Il rinnovo dell’accordo sul grano si complica. Sergei Lavrov inizia a preparare il terreno per un nuovo braccio di ferro con la comunità internazionale a pochi giorni dalla scadenza del patto che ha permesso la ripresa delle esportazioni di cereali dai porti ucraini, nonostante l’offensiva di Mosca.
Se l’accordo è attuato a metà, allora la questione della sua estensione diventa piuttosto complicata“, è l’affondo del ministro degli Esteri russo, secondo il quale le clausole destinate a favorire la Federazione non sarebbero state attuate “affatto“.

La ‘Black Sea Grain Initiative’, il nome ufficiale dell’accordo, deriva da un patto siglato il 22 luglio che ha contribuito ad alleviare la crisi alimentare globale causata dall’attacco russo all’Ucraina. Vitale per le forniture alimentari globali, l’accordo è stato rinnovato a metà novembre per i quattro mesi invernali e scade il 18 marzo.

Il prossimo 13 marzo a Ginevra si tengono nuove consultazioni sull’accordo, al quale parteciperà anche la delegazione interdipartimentale russa, con i rappresentanti delle Nazioni Unite. Ieri il segretario generale, Antonio Guterres, ha lanciato un nuovo monito da Kiev: estendere l’accordo è “cruciale“, ha ricordato, invitando a “creare le condizioni per utilizzare al meglio l’infrastruttura di esportazione“. L’intesa ha permesso di sbloccare 23 milioni di tonnellate di grano dai porti ucraini. L’accordo “ha contribuito ad abbassare il costo globale del cibo e ha fornito un’assistenza cruciale alle persone che stanno pagando un prezzo pesante per questa guerra, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo“, ha precisato il capo delle Nazioni Unite.Il grano e i fertilizzanti ucraini e russi sono “essenziali per la sicurezza alimentare globale e per i prezzi dei prodotti alimentari“, in un contesto di inflazione diffusa in molti Paesi del mondo.

Martedì l’Ucraina ha invocato l’impegno della comunità internazionale per mantenere aperte le rotte marittime del Mar Nero e, al vertice del G20 di inizio marzo, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha cercato la mediazione con la Russia nel tentativo di far andare avanti i negoziati. Mosca, da parte sua, sostiene che la parte dell’accordo che avrebbe dovuto consentirle di esportare fertilizzanti senza le sanzioni occidentali non viene pienamente rispettata. “I nostri colleghi occidentali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, dicono pateticamente che non ci sono sanzioni su cibo e fertilizzanti, ma questa non è una posizione onesta“, scandisce Lavrov. Di fatto, spiega, “le sanzioni vietano alle navi russe che trasportano Grano e fertilizzanti di entrare nei porti appropriati e vietano alle navi straniere di entrare nei porti russi per prendere questi carichi”. “Il prezzo dell’assicurazione per le navi – fa sapere – è quadruplicato a causa delle sanzioni“.

Accordo storico all’Onu: approvato Trattato per protezione Alto Mare

Gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo, nella notte italiana fra sabato e domenica, sul primo Trattato internazionale per la protezione dell’Alto Mare, volto a contrastare le minacce agli ecosistemi vitali per l’umanità. “La nave ha raggiunto la riva“, ha annunciato la presidente della conferenza Rena Lee presso la sede delle Nazioni Unite a New York, tra gli applausi prolungati dei delegati. Dopo oltre 15 anni di discussioni, compresi quattro anni di negoziati formali, la terza sessione finale di New York è stata finalmente quella giusta, o quasi.

I delegati hanno messo a punto il testo, che ora è congelato nella sostanza, ma sarà formalmente adottato in un secondo momento, dopo essere stato controllato dai servizi legali e tradotto nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite. Il contenuto esatto del testo non è stato reso noto immediatamente, ma gli attivisti lo hanno salutato come un momento di svolta per la protezione della biodiversità. L’accordo prevede infatti di collocare il 30% dei mari in aree protette entro il 2030 in modo da salvaguardare migliaia di specie e aiutare gli ecosistemi. “È una giornata storica per la conservazione e un segno che in un mondo diviso la protezione della natura e delle persone può trionfare sulla geopolitica“, ha dichiarato Laura Meller di Greenpeace.

Dopo due settimane di intense discussioni, compresa una maratona di venerdì sera, i delegati hanno finalizzato un testo che non può più essere modificato in modo significativo. “Non ci saranno riaperture o discussioni sostanziali” su questo tema, ha detto Lee ai negoziatori. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si è congratulato con i delegati, salutando una “vittoria del multilateralismo e degli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che minacciano la salute degli oceani, ora e per le generazioni a venire“.

Anche l’Unione Europea ha accolto con favore questo “passo cruciale per preservare la vita marina e la biodiversità che sono essenziali per noi e per le generazioni future”, attraverso il Commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevicius, che si è detto “molto orgoglioso” del risultato.

L’alto mare inizia dove finiscono le zone economiche esclusive (ZEE) degli Stati, a un massimo di 200 miglia nautiche (370 km) dalla costa e non è quindi sotto la giurisdizione di nessuno Stato. Pur rappresentando oltre il 60% degli oceani e quasi la metà del pianeta, l’alto mare è stato a lungo ignorato nella battaglia ambientale, a favore delle aree costiere e di alcune specie emblematiche. Con il progredire della scienza, è stata dimostrata l’importanza di proteggere gli oceani nel loro complesso, che pullulano di biodiversità spesso microscopica, forniscono metà dell’ossigeno che respiriamo e limitano il riscaldamento globale assorbendo gran parte della CO2 emessa dalle attività umane. Ma gli oceani si stanno indebolendo, vittime di queste emissioni (riscaldamento, acidificazione delle acque, ecc.), dell’inquinamento di ogni tipo e della pesca eccessiva. Per questo il nuovo trattato, quando entrerà in vigore dopo essere stato formalmente adottato, firmato e ratificato da un numero sufficiente di Paesi, consentirà la creazione di aree marine protette in queste acque internazionali.

E’ stato un capitolo molto delicato a cristallizzare le tensioni fino all’ultimo minuto: il principio della condivisione dei benefici per le risorse genetiche marine raccolte in alto mare. I Paesi in via di sviluppo, che non hanno i mezzi per finanziare spedizioni e ricerche molto costose, si sono battuti affinché non fossero esclusi dall’accesso alle risorse genetiche marine e dalla condivisione dei benefici previsti dalla commercializzazione di queste risorse – che non appartengono a nessuno – da cui le aziende farmaceutiche o cosmetiche sperano di ottenere molecole miracolose. Come in altri forum internazionali, in particolare i negoziati sul clima, il dibattito ha finito per essere una questione di equità Nord-Sud, secondo gli osservatori.

Alluvione

Allarme degli scienziati: “Il mondo non è preparato per i disastri climatici”

Il mondo non è abbastanza preparato ad affrontare le catastrofi e i governi troppo spesso reagiscono solo a posteriori. E’ quanto emerge da un rapporto del Consiglio scientifico internazionale, che comprende decine di organizzazioni scientifiche, che invita a ripensare la gestione del rischio. Nel 2015, la comunità internazionale ha adottato gli obiettivi di Sendai per ridurre le vittime e i danni entro il 2030 investendo nella valutazione del rischio, nella riduzione del rischio e nella preparazione alle catastrofi, che si tratti di terremoti o di disastri legati al clima e aggravati dal riscaldamento globale. Ma “è altamente improbabile” che gli obiettivi vengano raggiunti, afferma il rapporto.

Dal 1990, più di 10.700 disastri (terremoti, eruzioni vulcaniche, siccità, inondazioni, temperature estreme, tempeste, ecc.) hanno colpito più di 6 miliardi di persone in tutto il mondo, secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri. In cima alla lista ci sono le inondazioni e le tempeste, moltiplicate dai cambiamenti climatici, che rappresentano il 42% del totale. Queste catastrofi a cascata “minano i progressi faticosamente ottenuti in termini di sviluppo in molte parti del mondo“, si legge nel rapporto. Ma “mentre la comunità internazionale si mobilita rapidamente dopo disastri come i terremoti in Turchia e in Siria, troppo poca attenzione e pochi investimenti sono diretti alla pianificazione e alla prevenzione a lungo termine, che si tratti di rafforzare le norme edilizie o di istituire sistemi di allarme“, commentato Peter Gluckman, presidente del Consiglio, in un comunicato.

Le molteplici sfide degli ultimi tre anni hanno evidenziato la necessità fondamentale di una migliore preparazione per i disastri futuri“, dichiara Mami Mizutori, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio. “Dobbiamo rafforzare le infrastrutture, le comunità e gli ecosistemi ora, piuttosto che ricostruirli in seguito“. Il rapporto richiama quindi l’attenzione su un problema di allocazione delle risorse. Ad esempio, solo il 5,2% degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo per la risposta alle catastrofi tra il 2011 e il 2022 è stato dedicato alla riduzione del rischio, mentre il resto è stato destinato ai soccorsi e alla ricostruzione dopo l’evento. Il Consiglio chiede inoltre di diffondere l’uso di sistemi di allerta precoce, osservando che un preavviso di 24 ore di una tempesta potrebbe ridurre i danni del 30%.

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Trattato protezione dell’alto mare: al via negoziati all’Onu

Gli Stati membri delle Nazioni Unite si riuniranno lunedì a New York con la speranza di raggiungere finalmente un trattato per la protezione dell’alto mare, un passo cruciale verso l’obiettivo di difendere il 30% del pianeta entro il 2030. Dopo oltre 15 anni di discussioni informali e poi formali, questa è la terza volta in meno di un anno che i negoziatori si incontrano per quella che dovrebbe essere l’ultima sessione. Ma questa volta, con l’avvicinarsi di altre due settimane di colloqui, un cauto ottimismo sembra d’obbligo.
Dopo il fallimento della scorsa estate, “tra le delegazioni si sono svolte molte discussioni, per cercare di trovare un compromesso sugli spinosi problemi che non si sono potuti risolvere ad agosto, a un livello mai visto“, assicura Liz Karan, dell’Ong Fondi di beneficenza Pew. “Quindi questo mi dà molta speranza che (…) questo incontro sarà l’ultimo ultimo.” Una speranza rafforzata dall’adesione a gennaio degli Stati Uniti alla coalizione per la “grande ambizione” del trattato, guidata dall’Unione Europea. Una coalizione di 51 Paesi che condivide “l’obiettivo di proteggere urgentemente gli oceani“, ha poi sottolineato il commissario europeo all’Ambiente Virginijus Sinkevičius, giudicando “cruciale” questa nuova sessione.

L’alto mare inizia dove finiscono le Zone Economiche Esclusive (ZEE) degli Stati, a un massimo di 200 miglia nautiche (370 km) dalle coste, e quindi non è sotto la giurisdizione di alcun Paese. Anche se rappresenta più del 60% degli oceani e quasi la metà del pianeta, è stata una zona a lungo ignorata, a favore di quelle costiere e di poche specie emblematiche. Eppure “c’è un solo oceano, e un oceano sano significa un pianeta sano“, ha detto Nathalie Rey, della High Seas Alliance, che riunisce una quarantina di ong. Gli ecosistemi oceanici, minacciati dall’inquinamento di ogni tipo o dalla pesca eccessiva, producono in particolare la metà dell’ossigeno che respiriamo e limitano il riscaldamento globale assorbendo una parte significativa della CO2 emessa dalle attività umane. Quindi “non possiamo garantire la buona salute dell’oceano ignorandone i due terzi“, osserva Rey, ritenendo che sarebbe un “disastro assoluto” non riuscire a far nascere finalmente questo testo. Tanto più che il futuro trattato “sarà un passo fondamentale per garantire l’obiettivo del 30% (di protezione del pianeta) entro il 2030“, prosegue.

In uno storico accordo di dicembre, tutti i paesi del mondo si sono impegnati a proteggere il 30% di tutte le terre emerse e degli oceani entro il 2030. Una sfida quasi insormontabile senza includere l’alto mare, di cui oggi solo l’1% circa è protetto. Uno dei pilastri del futuro trattato sulla “conservazione e uso sostenibile della biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale” è consentire la creazione di aree marine protette in acque internazionali.
Questo principio è incluso nel mandato negoziale votato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2017, ma le delegazioni sono ancora divise sul processo di creazione di questi ‘santuari’, nonché sulle modalità di applicazione dell’obbligo di valutare l’impatto ambientale delle attività proposte in alto mare.
Altra questione controversa è la distribuzione dei possibili profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche d’alto mare, dove le industrie farmaceutiche, chimiche e cosmetiche sperano di scoprire molecole miracolose. Senza essere in grado di condurre questa costosa ricerca, i paesi in via di sviluppo temono di perdere potenziali benefici. E durante la sessione di agosto, gli osservatori hanno accusato i paesi ricchi, in particolare l’UE, di aspettare fino all’ultimo minuto per fare una mossa.