Anche le plastiche biodegradabili sono dannose per i pesci

Le plastiche biodegradabili potrebbero non essere la soluzione all’inquinamento che molti speravano: uno studio dell’Università di Otago, infatti, ha dimostrato che sono comunque dannose per i pesci. È noto che le microplastiche derivate dal petrolio hanno un impatto sulla vita marina, ma si sa poco delle ripercussioni delle alternative biodegradabili. Lo studio, pubblicato su Science of the Total Environment e finanziato da un Research Grant dell’Università di Otago, è il primo a valutare l’impatto della plastica derivata dal petrolio e di quella biodegradabile sui pesci selvatici. L’autrice principale Ashleigh Hawke, che ha conseguito un Master of Science presso il Dipartimento di Scienze Marine di Otago, afferma che l’esposizione alla plastica derivata dal petrolio ha influenzato negativamente le prestazioni di fuga dei pesci, il nuoto di routine e il metabolismo aerobico. Al contrario, quelli esposti alle bioplastiche hanno subito solo un’influenza negativa sulla velocità massima di fuga.

Secondo la studiosa, la ricerca è significativa perché dimostra che sia le plastiche derivate dal petrolio sia quelle biodegradabili possono essere dannose per i pesci marini, qualora vi siano esposti. “Le plastiche biodegradabili potrebbero non essere la soluzione per l’inquinamento da plastica come crediamo. Anche se non sono così dannose, possono comunque causare effetti negativi agli animali che possono esservi esposti – nel caso di questo studio, le popolazioni diminuirebbero perché i loro comportamenti di fuga sono compromessi“.

La coautrice, la dottoressa Bridie Allan, sempre del Dipartimento di Scienze Marine, afferma che è necessario fare di più a livello politico per proteggere gli ambienti marini. “Lo sviluppo delle plastiche tradizionali è ormai consolidato da decenni e quindi la loro produzione non subisce grandi variazioni. Tuttavia, poiché le plastiche biodegradabili sono un settore relativamente nuovo, ci sono variazioni nel modo in cui vengono prodotte e nei materiali utilizzati. Questa ricerca dimostra che le materie prime utilizzate in questi prodotti sono importanti e che il loro uso dovrebbe essere maggiormente regolamentato e controllato“.

L’Onu avverte: Non basta riciclare la plastica, dobbiamo cambiare i consumi

Nonostante l’inquinamento che rappresenta per il pianeta, la produzione di plastica continua ad aumentare, una tendenza contro la quale il solo riciclo non sarà sufficiente. A lanciare l’allarme è Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. “Non usciremo da questo pasticcio con il riciclo”, ha spiegato, invitando ad agire su “tutta la catena”, ad esempio riprogettando i prodotti di consumo.

Due settimane fa è stata pubblicata la prima versione del futuro trattato internazionale contro l’inquinamento da plastica, che si spera possa essere finalizzato entro la fine del 2024. Il documento riflette l’ampia gamma di ambizioni dei 175 Paesi coinvolti e il divario tra coloro che sostengono una riduzione della produzione di polimeri di base e coloro che insistono sul riutilizzo e il riciclaggio.

“Ci sono diversi percorsi di soluzione. Ma credo che tutti riconoscano che lo status quo non è un’opzione”, ha dichiarato Andersen in un’intervista all’AFP a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, chiedendo che questo inquinamento su larga scala venga affrontato su tutti i fronti. In primo luogo, “eliminare il più possibile la plastica monouso” e “tutto ciò che non è necessario”, ha osservato, affermando che è “stupido” avvolgere nella pellicola arance o banane che sono già protette “dalla natura stessa”. Poi, “bisogna pensare al prodotto stesso: ciò che normalmente è liquido può essere in polvere, compattato o concentrato?”, ha detto, raccontando che quando entra in un supermercato va subito alla corsia dei saponi per vedere se ci sono versioni solide.

La produzione annuale di plastica è più che raddoppiata in 20 anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% viene riciclato. Rifiuti di tutte le dimensioni si trovano oggi sul fondo degli oceani, nello stomaco degli uccelli e sulle cime delle montagne. Le microplastiche sono state rilevate nel sangue, nel latte materno e nella placenta. “Se continuiamo a immettere tutti questi polimeri grezzi nell’economia, non c’è alcuna possibilità di fermare il flusso di plastica nell’oceano”, ha avvertito Inger Andersen.

Il futuro trattato sull’inquinamento da plastica completerebbe quindi l’arsenale per proteggerlo, compreso il nuovo storico trattato per la protezione dell’alto mare firmato questa settimana da circa 70 Paesi. “Il fatto che ci stiamo muovendo per proteggere questa parte dell’oceano al di là delle giurisdizioni nazionali è incredibilmente importante”, ha commentato.

Il Cammino di Santiago diventa green: più fontane, meno bottiglie di plastica

(Photocredit: AFP)

Ventotto nuovi “micro-punti di rifornimento” – circa uno ogni sei chilometri – alimentati da pozzi e sorgenti naturali per consentire a chi ogni anno si incammina sulla via inglese del Cammino di Santiago di riempire le bottiglie d’acqua e ridurre quindi l’impatto dei rifiuti di plastica sull’ambiente.

Si chiama ‘Life Water Way’ il progetto co-finanziato dal programma europeo dedicato all’azione per il clima ‘Life’ da 761mila euro che copre 143 km dell’antico percorso di pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, nel nord-ovest della Spagna e fornisce acqua potabile gratuitamente da fontane tradizionali. Il cofinanziamento del progetto – che avrà durata di sei anni – da parte della Commissione europea è stato approvato a maggio 2017 e da lì ha iniziato a prendere vita attraverso la collaborazione di vari comuni della Spagna.

Le fontane utilizzano un sistema di purificazione appositamente progettato per garantire la fornitura di acqua ai pellegrini che percorrono il Cammino Inglese e secondo la Commissione europea il progetto finora ha contribuito a risparmiare più di un milione di bottiglie monouso da mezzo litro, evitando 12 tonnellate di residui di plastica e 841 tonnellate di CO2. Ogni anno, ricorda Bruxelles, un gran numero di pellegrini percorrono la famosa “Via Inglese”. Solo in Galizia ne percorrono circa 25.000, quindi non sorprende che uno dei risultati principali del progetto sia stata una notevole riduzione dell’uso di bottiglie usa e getta.

“Come sindaco di una comunità rurale, sono lieto di aver contribuito al recupero delle nostre risorse naturali, un tesoro senza il quale la Galizia non sarebbe come la conosciamo”, afferma José Antonio Santiso Miramontes, sindaco di Abegondo e presidente di la Riserva della Biosfera Mariñas Coruñesas e Terras do Mandeo. “La Via dell’Acqua Vita è un eccellente esempio di cooperazione tra diversi enti locali per offrire un ottimo servizio ai propri cittadini”, concorda Valentín González Formoso, Presidente del Consiglio Provinciale di La Coruña.

Ambiente, l’Europa vuole essere un esempio virtuoso per i Grandi Inquinatori

La plastica? Il nemico numero uno dell’ambiente. Plastiche e microplastiche, che deturpano il territori e contaminano il nostro cibo. Plastiche e microplastiche da tenere lontano, da evitare, sicuramente da raccogliere qua e là dove sono illegittimamente abbandonate. La giornata mondiale dell’ambiente è dedicata proprio a questo tema, la lotta alla plastica, crociata internazionale che non può diventare fine a se stessa perché, si dice, il Pianeta è nostro, non di altri. E va salvaguardato. Dalle plastiche, certamente, ma non solo.

La tutela dell’ambiente è diventato un must: non possiamo più ignorarla, non possiamo più farla scivolare in fondo alla lista delle cose importanti da fare. In fretta, non domani. Eppure c’è chi storce il naso, per i tempi e per i modi. Subito e bene non sempre vanno d’accordo, prova ne sia le polemiche che stanno nascendo in Europa per la brusca accelerazione data ad alcune tematiche di interesse comune dalla Commissione che ha sede a Bruxelles: auto elettriche e case green, imballaggi e condizionatori… Il rischio che ci sia una contrapposizione tra Europa dell’Est e dell’Ovest è alta, il vicepresidente olandese Frans Timmermans non è solito toccarla piano e, ormai, si porta addosso l’etichetta dell’ultra ambientalista. Timmermans non ha mezze misure, sicuramente, ma non è folle.

La plastica, dicevamo. Poi il carbone e il petrolio, poi il gas. Fossili, ecco. Il mondo ideale sarebbe quello che viene mosso, riscaldato, raffreddato attraverso energia prodotta da fonti rinnovabili, con molto idrogeno verde e con un nucleare di quarta generazione che non sia tossico. Siano a metà del guardo, adesso. Siamo al vorrei ma non posso. L’Europa ci sta provando, lo sta facendo questa Commissione agli ultimi mesi di attività, forzando i tempi, mentre altri – India, Cina. Russia, anche gli Stati Uniti – sembrano ancora lontani da una percezione allarmistica. Europa che rappresenta l’8% della produzione mondiale, bruscolini rispetto ai Grandi inquinatori mondiali. Però l’Europa vuole essere di esempio – raccontano – come una locomotiva che possiede la forza per trascinare vagoni grandi e grossi.

Earth Hour. Earth Day.

Nella Giornata dell’ambiente l’allarme del Wwf: “Superato limite plastica, danni quasi irreversibili”

C’è un solo materiale prodotto dall’uomo che possiamo trovare ovunque nel mondo: nei suoli, nei fiumi, nell’aria, nel cibo. Se da un lato la plastica porta benefici all’umanità, dall’altro, il suo impatto su ogni essere vivente e habitat è sempre più devastante. I danni per specie e salute umana sono (quasi) irreversibili. In occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, il Wwf pubblica il nuovo report ‘Plastica: dalla natura alle persone. È ora di agire’ e chiede al governo di andare oltre il riciclo dei soli imballaggi e di estendere la raccolta differenziata a tutti i prodotti in plastica di largo consumo allo scopo di far crescere l’economia circolare come valore condiviso. Secondo l’associazione, la plastica deve essere gestita in maniera più efficace ed efficiente, coordinata e integrata, coinvolgendo tutti gli attori (dalle istituzioni, alle aziende, fino alle persone e alle città in cui vivono) e agendo in tutte le fasi – dalla sua produzione, al suo impiego e fino allo smaltimento. Il report conferma che l’Italia è tra i peggiori Paesi inquinatori che si affacciano sul Mediterraneo, contribuendo all’inquinamento soprattutto in qualità di secondo più grande produttore di rifiuti plastici in Europa. Per il Wwf non è più sostenibile attuare un piano di riciclo limitato agli imballaggi e chiede al governo di estendere la raccolta differenziata a tutti i prodotti in plastica di largo consumo affinché si trasformino in nuovi oggetti, facendo crescere l’economia circolare come valore condiviso.

I DANNI PROVOCATI DALLA PLASTICA. Sono innumerevoli e significativi i danni causati da ogni fase del ciclo di vita della plastica, dalla produzione all’utilizzo fino allo smaltimento A fronte di una produzione in costante crescita, infatti, lo smaltimento della plastica è oggi ancora altamente inefficiente e inefficace, con tassi di riciclo inferiori al 10% a livello globale. Il risultato è che fino a 22 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica entrano nell’ambiente marino e altrettanti nell’ambiente terrestre ogni anno, in gran parte plastica monouso. Inoltre, attualmente, la produzione di plastica è responsabile di circa il 3,7% delle emissioni globali di gas serra e si prevede che questa percentuale possa aumentare fino al 4,5% entro il 2060, se le tendenze attuali continueranno senza controllo. Una contaminazione globale, diffusa e persistente di ogni ambiente naturale (mari, fiumi, laghi, terra e aria), come afferma nel suo report il Wwf, tanto che l’inquinamento da plastica in Natura ha superato il “limite planetario” (Planetary boundary), oltre il quale non c’è più la sicurezza che gli ecosistemi garantiscano condizioni favorevoli alla vita.

LA FINE DEI PRODOTTI NON RICICLABILI. Ma che fine fanno i prodotti in plastica che non possono essere riciclati perché non sono imballaggi, come previsto dalla normativa vigente? Sedie e arredamenti in plastica, penne e pennarelli, spazzolini, giocattoli, pettini, spugne e spugnette, bacinelle e ciotole, gonfiabili e palloni, utensili da cucina e guanti, scarpe e ciabatte… siamo circondati da prodotti che, una volta che smettiamo di utilizzare perché rotti o obsoleti, non possono essere riciclati perché la regolamentazione attuale non lo prevede e quindi finiscono in discarica o a recupero energetico. Per fare un esempio, in Italia ogni anno gettiamo 4mila tonnellate di plastica solo con il consumo degli spazzolini da denti. Un quantitativo importante di plastica che oggi non viene riciclato e non contribuisce a creare nuovi oggetti. Altri esempi: se potessimo riciclare una sedia da giardino potremmo ottenere fino a 2,8 kg di plastica riciclata, come riciclare 93 flaconi dello shampoo; con il riciclo di una bacinella per i panni potremmo ottenere fino ad 1 kg di plastica riciclata, come riciclare 500 tappi delle bottiglie dell’acqua; con un trasportino per gatti potremmo ottenere fino a 900 g di plastica riciclata, l’equivalente di riciclare 30 vaschette per le albicocche. È evidente che se aumentassimo il riciclo rendendolo più efficiente e riciclando più tipologie di prodotti oltre agli imballaggi, potremmo dare vita a molte più cose con la plastica riciclata, risparmiando molta più materia prima e molte più emissioni di CO2.

LE PROSPETTIVE. Senza un miglioramento nella gestione della plastica e dei suoi rifiuti, entro il 2050 la quantità totale di plastica prodotta si è calcolato che potrebbe triplicare, con conseguente aumento dell’immissione di rifiuti di plastica nell’ambiente: 12 miliardi di tonnellate di plastica potrebbero finire negli ambienti naturali. Se accadrà, tra 30 anni nel mare ci potrebbero essere più plastiche che pesci. “Per attuare un cambio di rotta, ormai indispensabile, la soluzione è l’economia circolare in cui le materie prime, come la plastica, di un oggetto non più funzionante restino in circolo, in un lungo e possibilmente infinito succedersi di produzione e riuso/riciclo, eliminando le fasi di estrazione di materie prime e smaltimento. L’efficienza nell’utilizzo delle risorse, promossa dall’economia circolare, deve diventare un fattore cruciale per orientare nuovi modelli di produzione e di consumo, e consentire una transizione verso stili di vita e dinamiche socioeconomiche più rispettose dell’ambiente – afferma Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del Wwf Italia -. Per questo vogliamo muovere alle istituzioni richieste più ambiziose. Non c’è più tempo da perdere“.

LE PROPOSTE DEL WWF. Per il Wwf serve agire sui primi tre livelli della scala gerarchica dei rifiuti: la prevenzione, il riuso e il riciclo. È necessario, infatti, ridurre la produzione e l’uso della plastica non necessaria e dannosa, incentivare il riutilizzo e la riparazione dei prodotti in plastica puntando sull’innovazione, ed è altrettanto importante estendere la raccolta differenziata a tutti i settori produttivi di largo consumo, oltre agli imballaggi, per incrementare le tipologie di oggetti che vanno al riciclo. Si tratta di adottare “un approccio multilivello e multiattore” che deve vedere coinvolti tutti gli stakeholder della filiera della plastica, dalla ricerca scientifica, al settore pubblico e privato, da chi progetta, a chi utilizza, a chi è responsabile della gestione dopo l’uso. In questo ambito le aziende hanno un ruolo chiave e sono chiamate ad applicare tre regole cardine: eliminare tutte le plastiche difficilmente riciclabili o non riciclabili affatto e non indispensabili; innovare, implementando modelli di business circolari per assicurare che tutti gli oggetti in plastica possano essere riutilizzati, riciclati o compostati; rendere circolari le plastiche, aumentando la quantità di materiale riciclato nei nuovi prodotti in plastica, che devono essere facilmente riciclabili e riportare indicazioni chiare per i consumatori su come devono essere smaltiti per favorire l’effettivo riciclo a fine utilizzo. In questo ambito il Wwf si impegna attivamente per contribuire alla trasformazione delle filiere delle aziende, come nel caso della partnership sviluppata con Bolton Group, impresa multinazionale familiare italiana che da oltre 70 anni produce e distribuisce un’ampia gamma di beni di largo consumo e che proprio oggi, in occasione della Giornata Mondiale dell’ambiente, pubblica il suo nuovo report di sostenibilità in cui si descrivono i risultati finora ottenuti e la collaborazione con Wwf Italia per aumentare la sostenibilità dei loro imballaggi attraverso attività di sostituzione, riduzione, innovazione e riutilizzo in linea con i principi di un’economia circolare. “L’obiettivo comune è porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040 e per raggiungerlo è urgente l’adozione da parte delle nazioni del mondo di un Trattato globale sulla plastica, in accordo con il mandato stabilito nella risoluzione del marzo 2022 dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unea) perché i danni all’ambiente causati dalla plastica e dalle sostanze chimiche ad essa associate sono di portata planetaria e trascendono i confini nazionali, avendo effetti sulla salute del pianeta e delle persone di tutto il mondo“, conclude Eva Alessi.

La ‘discarica’ Himalaya: 1,6 tonnellate di rifiuti di plastica

Montagne di lattine, tende, tubi e bottiglie in PVC: la plastica è ovunque, anche sulle vette più alte del mondo. Un esploratore francese e il suo team hanno appena trovato 1,6 tonnellate di rifiuti di plastica sull’Himalaya, proprio mentre si stanno avviando i negoziati per cercare di ridurre questo tipo inquinamento a livello mondiale. “È una vera e propria discarica. Dietro ogni roccia si trovano bombole di ossigeno, lattine, teli da tenda, scarpe, è davvero assurdo“, racconta Luc Boisnard dal Nepal, di ritorno dal suo primo tentativo di scalare il Makalu, a 8.485 metri, dove spera di tornare presto. L’obiettivo di questo 53enne direttore d’azienda e alpinista di lunga data è quello di ripulire le alte vette, molte delle quali “sono diventate anche gigantesche pattumiere“.

Himalayan Clean-Up è il nome dell’operazione e dell’associazione che ha creato intorno ad essa. La spedizione sul Makalu, partita a fine marzo, è la sua seconda dopo la scalata dell’Everest nel 2010. Contemporaneamente, un altro membro dell’associazione è appena tornato dall’Annapurna (8.091 m). Da queste due ascensioni, i due uomini, aiutati ciascuno da una decina di sherpa, hanno già riportato indietro 3,7 tonnellate di rifiuti, il 45% dei quali è plastica (1.100 kg sul Makalu e 550 kg sull’Annapurna). È l’ennesima dimostrazione dell’onnipresenza di questo materiale derivato dal petrolio, proprio mentre lunedì inizia a Parigi il secondo ciclo di negoziati per cercare di elaborare un trattato giuridicamente vincolante sotto l’egida delle Nazioni Unite per porre fine all’inquinamento da plastica entro la fine del 2024. Durante la sua prima spedizione sul tetto del mondo, Boisnard aveva già riportato indietro una tonnellata di rifiuti, tra cui 550 kg di plastica.

La maggior parte di questi rifiuti sono residui di spedizioni ad alta quota, accumulati a partire dal 1920, quando la regione fu aperta per la prima volta al turismo. Nel tentativo di alleggerire i loro zaini – e a volte con scarso rispetto per l’ambiente – alcuni alpinisti in erba lasciano deliberatamente alcuni dei loro effetti personali intorno ai campi base o addirittura sui sentieri che portano alle vette. Alcuni di essi “vengono anche gettati nei ghiacciai dell’Himalaya, dove non riemergeranno per altri 200 anni“, afferma Boisnard. Queste plastiche si disintegrano lentamente, inquinando a lungo termine non solo i paesaggi ma anche i fiumi. Già nel 2019, uno studio scientifico aveva dimostrato la presenza di microplastiche (fibre di poliestere, acrilico, nylon e polipropilene) al di sopra degli 8.000 metri, anche nella neve.

Oltre alla questione dei rifiuti, il primo obiettivo del futuro trattato sulla plastica sarà quello di “ridurre l’uso e la produzione di plastica”. In 20 anni la produzione di plastica è più che raddoppiata, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate all’anno, e potrebbe triplicare ancora entro il 2060 se non si interviene. Due terzi vengono gettati via dopo uno o pochi utilizzi e meno del 10% dei rifiuti di plastica viene riciclato. Oltre che sulle montagne, la plastica di tutte le dimensioni si trova in massa anche sul fondo degli oceani, nei ghiacci, nello stomaco degli uccelli… e talvolta nel sangue umano, nel latte materno o nella placenta.

Riuso, riciclo e riorientamento: la strategia Onu per ridurre l’inquinamento da plastica

Secondo un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), l’inquinamento da plastica potrebbe ridursi dell’80% entro il 2040 se i Paesi e le aziende attuassero profondi cambiamenti nelle politiche e nei mercati utilizzando le tecnologie esistenti. Come farlo? Intanto eliminando la plastica problematica e non necessaria, e poi utilizzando la strategia del trittico ‘Riuso, riciclo e riorientamento’. Il rapporto è stato pubblicato in vista del secondo ciclo di negoziati a Parigi su un accordo globale per sconfiggere l’inquinamento da plastica e delinea la portata e la natura dei cambiamenti necessari per porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare. ‘Chiudere il rubinetto: come il mondo può porre fine all’inquinamento da plastica e creare un’economia circolare’ è un’analisi incentrata sulle soluzioni, sulle pratiche concrete, sui cambiamenti del mercato e sulle politiche che possono informare le riflessioni dei governi e le azioni delle imprese.

Il modo in cui produciamo, utilizziamo e smaltiamo la plastica inquina gli ecosistemi, crea rischi per la salute umana e destabilizza il clima“, ha dichiarato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep. “Il rapporto traccia una tabella di marcia per ridurre drasticamente questi rischi attraverso l’adozione di un approccio circolare che tenga la plastica lontana dagli ecosistemi, dai nostri corpi e dall’economia. Se seguiremo questa tabella di marcia, anche nei negoziati sull’accordo sull’inquinamento da plastica, potremo ottenere importanti risultati economici, sociali e ambientali”.

Così diventa fondamentale riutilizzare (con una riduzione del 30% di inquinamento da plastica entro il 2040), riciclare (-20% entro il 2040) e riorientare e diversificare, con la sostituzione di prodotti come involucri di plastica, bustine e articoli da asporto con prodotti realizzati con materiali alternativi che può consentire un’ulteriore riduzione del 17% dell’inquinamento da plastica.
Anche con le misure sopra descritte, entro il 2040 sarà ancora necessario gestire in sicurezza 100 milioni di tonnellate di plastica provenienti da prodotti monouso e a vita breve, oltre a un’eredità significativa di inquinamento da plastica esistente. Complessivamente, il passaggio a un’economia circolare comporterebbe un risparmio di 1,27 trilioni di dollari, considerando i costi e i ricavi del riciclo. Altri 3,25 trilioni di dollari verrebbero risparmiati grazie alle esternalità evitate, come la salute, il clima, l’inquinamento atmosferico, il degrado degli ecosistemi marini e i costi legati alle controversie. Questo cambiamento potrebbe anche portare a un aumento netto di 700.000 posti di lavoro entro il 2040, soprattutto nei Paesi a basso reddito, migliorando significativamente le condizioni di vita di milioni di lavoratori in contesti informali. I costi di investimento per il cambiamento sistemico raccomandato sono significativi, ma inferiori alla spesa senza questo cambiamento sistemico: 65 miliardi di dollari all’anno contro 113 miliardi di dollari all’anno.

Tuttavia, il tempo è fondamentale: un ritardo di cinque anni potrebbe portare a un aumento di 80 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica entro il 2040. I costi più elevati di un’economia circolare e usa e getta sono quelli operativi. Con una regolamentazione che garantisca che le materie plastiche siano progettate per essere circolari, gli schemi di responsabilità estesa del produttore (EPR) possono coprire questi costi operativi per garantire la circolarità del sistema, richiedendo ai produttori di finanziare la raccolta, il riciclaggio e lo smaltimento responsabile a fine vita dei prodotti in plastica.

plastica

Dal Mase ok a 75 progetti faro per impianti di riciclo della plastica

Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica finanzia con 115 milioni di euro 75 nuovi progetti per realizzare impianti di riciclo dei rifiuti plastici, compresi quelli recuperati in mare.

Il Dipartimento Sviluppo Sostenibile del Ministero approva il decreto di concessione dei contributi ai progetti ‘faro’ di Economia Circolare per il riciclo della plastica, specifica linea di intervento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

L’investimento del Pnrr ci dà la possibilità di far crescere nel Paese una filiera dell’innovazione sul dirimente problema della gestione dei rifiuti plastici“, spiega il ministro Gilberto Pichetto.

Solo il 16 aprile scorso, a Sapporo, in Giappone, i ministri dell’ambiente e del clima del G7 hanno annunciato di voler porre fine al nuovo inquinamento da plastica nei loro paesi entro il 2040. Un obiettivo che potrà essere raggiunto grazie all‘economia circolare e alla riduzione o all’abbandono delle plastiche usa e getta e non riciclabili.

L’impegno preso è stato molto chiaro – precisa il titolare del Mase – e l’Italia vuole essere ancora una volta, come in altri settori del riciclo, riferimento virtuoso per l’affermazione dell’economia circolare”.

Il provvedimento, trasmesso alla Corte dei Conti per la registrazione, estende la platea dei beneficiari già individuati dal precedente decreto grazie alla rimodulazione delle risorse non utilizzate per altre linee.

L’investimento per i progetti faro mira a realizzare progetti altamente innovativi per il trattamento e il riciclo dei rifiuti provenienti dalle filiere strategiche individuate nel Piano d’Azione per l’Economia Circolare varato dall’Ue: Raee (inclusi pannelli fotovoltaici e pale eoliche), carta e cartone, plastiche, tessili. Per i rifiuti plastici, il finanziamento ai beneficiari consentirà la realizzazione di nuovi impianti di riciclo meccanico, chimico e i ‘plastic hubs’, anche per recuperare il cosiddetto ‘marine litter’.

Dal G7 l’impegno per accelerare l’uscita dai combustibili fossili

I Paesi industrializzati del G7 si sono impegnati domenica ad “accelerare” la loro “uscita” dai combustibili fossili in tutti i settori, senza però fissare una nuova scadenza, e hanno deciso di puntare congiuntamente all’azzeramento dell’inquinamento da plastica entro il 2040. L’impegno ad abbandonare i combustibili fossili (petrolio, gas, carbone) non si applica però a quelli con impianti di cattura e stoccaggio della CO2, secondo il comunicato congiunto dei ministri del clima, dell’energia e dell’ambiente del G7, riuniti da sabato a Sapporo (Giappone settentrionale). Invece di un calendario preciso, i principali Paesi industrializzati (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Canada) hanno vagamente incluso questo obiettivo nei loro sforzi per raggiungere la neutralità energetica del carbonio entro il 2050 “al più tardi“. L’anno scorso si erano già impegnati a decarbonizzare la maggior parte dei loro settori elettrici entro il 2035, obiettivo riconfermato domenica.

A dimostrazione della difficoltà dei negoziati, i Paesi non si sono impegnati a fissare una data per la graduale eliminazione del carbone nel settore elettrico, anche se il Regno Unito, sostenuto dalla Francia, aveva proposto il 2030. Sul fronte ambientale, i Paesi del G7 si sono impegnati a ridurre a zero l’inquinamento aggiuntivo da plastica entro il 2040, in particolare attraverso l’economia circolare, riducendo o abbandonando la plastica monouso e non riciclabile. Germania, Francia, Ue, Regno Unito e Canada fanno già parte di una coalizione internazionale che ha assunto lo stesso impegno lo scorso anno. Ma è la prima volta che Stati Uniti, Giappone e Italia si uniscono a loro. La questione è cruciale: la quantità di rifiuti di plastica è raddoppiata a livello mondiale in vent’anni e solo il 9% di essi viene effettivamente riciclato, secondo l’OCSE. E le Nazioni Unite stimano che la quantità di plastica scaricata negli oceani sarà quasi triplicata entro il 2040.

I membri del G7 hanno dovuto dimostrare unità e determinazione dopo l’ultimo allarmante rapporto di sintesi del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), pubblicato a marzo. Secondo l’IPCC, il riscaldamento globale causato dall’attività umana raggiungerà 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali entro il 2030-2035. Ciò mette ulteriormente a rischio l’obiettivo dell’Accordo di Parigi del 2015 di limitare l’aumento della temperatura a questo livello, o almeno ben al di sotto dei 2°C.

Domenica il G7 ha anche riaffermato il suo impegno a lavorare con altri Paesi sviluppati per raccogliere 100 miliardi di dollari all’anno per i Paesi emergenti per combattere il riscaldamento globale, un impegno che risale al 2009 e che originariamente doveva essere raggiunto entro il 2020. Un vertice per migliorare l’accesso ai finanziamenti per il clima per i Paesi in via di sviluppo, una questione delicata e cruciale, è previsto per la fine di giugno a Parigi.

Dato il contesto geopolitico globale molto teso, con la guerra in Ucraina dall’anno scorso e le proposte conservatrici del Giappone sul gas naturale, le ONG ambientaliste temevano che la riunione di Sapporo si sarebbe risolta in una regressione. Il G7 ha convenuto, come l’anno scorso, che gli investimenti nel gas naturale “possono essere appropriati” per aiutare alcuni Paesi a superare l’attuale crisi energetica. Ma allo stesso tempo è stato sottolineato il primato di una transizione energetica “pulita” e la necessità di ridurre la domanda di gas. Anche l’altra proposta giapponese di far riconoscere l’ammoniaca e l’idrogeno come co-combustibili “puliti” per le centrali termoelettriche è stata circondata da garanzie. Il G7 ha insistito sul fatto che queste tecnologie devono essere sviluppate da fonti “a basse emissioni di carbonio e rinnovabili“.

Le ONG ambientaliste, tuttavia, sono rimaste deluse. “Ci sono alcune buone notizie” negli annunci del G7 “ma manca ancora l’ambizione” di affrontare le sfide, ha detto Daniel Read di Greenpeace.

A Bali la prima volta di una barca ‘mangia plastica’ per ripulire il mare

SeaCleaner, una Ong fondata dal velista Yvan Bourgnon, ha iniziato questa settimana a Bali una campagna contro l’inquinamento da plastica in mare con la Mobula 8, una nuova barca per la pulizia. Il velista franco-svizzero racconta di aver scoperto la portata dell’inquinamento da plastica in mare quando è passato al largo dell’isola turistica indonesiana durante una circumnavigazione nel 2014. “Quando sono tornato in Europa, ho deciso di fondare la Ong The SeaCleaners“, ha spiegato martedì in un’intervista. “L’obiettivo era quello di fornire questo tipo di imbarcazione per essere sicuri di poter raccogliere la plastica in mare“.

La Mobula 8 è un’imbarcazione appositamente progettata che può raccogliere fino a 1.000 tonnellate di plastica all’anno. È il primo modello di Mobula, un’imbarcazione per la pulizia costruita da Efinor a Paimpol (Côtes d’Armor), a essere impiegato nel mondo. L’imbarcazione, che misura quasi 9 metri per 4, è dotata di uno strumento di aspirazione per attirare i rifiuti di plastica, le microplastiche e anche alcuni inquinanti liquidi. A Bali, l’imbarcazione sarà impiegata principalmente negli estuari, nei fiumi, nei porti e nelle mangrovie, per raccogliere i rifiuti di plastica prima che vengano trasportati in mare.

Oltre l’80% dell’inquinamento da plastica in mare proviene dalla terraferma attraverso i fiumi e il fenomeno è particolarmente preoccupante nel Sud-est asiatico, a causa della mancanza di un’adeguata raccolta e trattamento dei rifiuti. L’associazione balinese per la raccolta dei rifiuti Sungai Watch stima che circa 33.000 tonnellate di plastica passino ogni anno attraverso i fiumi di Bali, ovvero 90 tonnellate al giorno. SeaCleaner ha in programma di dispiegare diverse imbarcazioni di questo tipo in Indonesia e in altri Paesi asiatici.