L’idea della start-up: imballaggi in alghe commestibili invece della plastica

Come possiamo evitare di confezionare cibi e bevande in plastica e ridurre così l’inquinamento del suolo e degli oceani? A Londra, una start-up ha trovato una soluzione: imballaggi commestibili o naturalmente biodegradabili ricavati dalle alghe. L’idea è valsa a Notpla, questo il nome della start-up, un posto tra i quindici finalisti del premio Earthshot, creato dal Principe William per celebrare le innovazioni che fanno bene all’ambiente e alla lotta contro il cambiamento climatico.

L’avventura di Notpla è iniziata in una piccola cucina londinese. Il francese Pierre Paslier e lo spagnolo Rodrigo Garcia Gonzalez, entrambi studenti del Royal College of Art di Londra con una formazione in design di prodotti innovativi, volevano creare un imballaggio ecologico. “Come ingegnere del packaging presso L’Oréal, stavo sviluppando soluzioni di imballaggio in plastica, flaconi di shampoo, vasetti di crema, e mi sono subito reso conto che volevo lavorare su soluzioni piuttosto che creare più plastica che finisce nell’ambiente“, ha dichiarato il 35enne francese all’Afp. I due studenti stavano cercando di progettare imballaggi con materiali naturali e biodegradabili, in contrapposizione alle plastiche dell’industria petrolchimica. Dopo aver testato diverse piante, “abbiamo trovato estratti di alghe e ci siamo resi conto che potevamo creare soluzioni molto simili a quelle che si trovano in natura, e anche eventualmente commestibili“, ricorda Pierre Paslier.

Il video in cui presentano il loro concetto di imballaggio a bolle commestibili, chiamato Ooho, diventa virale su Internet, attirando l’interesse degli investitori. Nel 2014, i due studenti hanno fondato Notpla, che ora si sta espandendo rapidamente con oltre 60 dipendenti ed è in procinto di produrre i suoi prodotti su scala industriale. La loro ‘bolla’, grande come un grosso pomodoro ciliegino, creata con estratti di alghe marine grazie a un processo tenuto segreto, può incapsulare tutti i tipi di liquidi: acqua, cocktail da usare durante i festival o bevande energetiche. In bocca, la sua consistenza è simile a quella di una caramella gommosa.

E mentre producono le loro bolle, i ricercatori continuano a cercare di sviluppare nuovi prodotti, sempre a base di alghe. Ad esempio, il team ha progettato un rivestimento naturalmente biodegradabile per le scatole da asporto, utilizzato per proteggere le confezioni dal grasso o dai liquidi alimentari. Notpla fornisce il gigante del settore Just Eat nel Regno Unito e in altri cinque paesi europei. Il cibo venduto durante la finale della Coppa Europa di calcio femminile allo stadio di Wembley a Londra in luglio è stato confezionato da Notpla.

Una delle ultime innovazioni è l’imballaggio trasparente per prodotti secchi, come la pasta. Le alghe marine “presentano vantaggi incredibili“, spiega Pierre Paslier. “Crescono molto velocemente, alcune delle alghe che usiamo nei nostri laboratori crescono quasi un metro al giorno. (…) Inoltre, non è necessaria alcuna attività umana per farle crescere, non c’è bisogno di aggiungere acqua potabile o fertilizzanti“, aggiunge. E “le alghe esistono da miliardi di anni, quindi ovunque finiscano i nostri imballaggi, la natura sa bene come decostruire e riutilizzare questi materiali senza creare inquinamento“, spiega l’ingegnere.

Per il momento, i prodotti Notpla sono ancora più costosi di quelli in plastica, ma iniziando a produrre le scatole da asporto su larga scala, il costo aggiuntivo si è ridotto al 5-10%. L’azienda vuole essere un’alternativa tra le tante per ridurre il consumo di plastica in un momento in cui molti Paesi stanno inasprendo le loro normative.

Pesca eccessiva, inquinamento e traffico: il Bosforo sta perdendo i suoi pesci

Le canne da pesca sono in posizione verticale. Con le braccia conserte e le facce sconfitte, i pescatori guardano dalla riva mentre un peschereccio avvolge la sua enorme rete con un grosso argano scricchiolante. “Forza, via di qui“, gridano gli uomini, desiderosi di affondare i loro ami nelle acque del Bosforo. “Sono qui dalle 6 di questa mattina, ma questa barca ha gettato la rete davanti a noi e ci sta bloccando completamente“, si lamenta Mehmet Dogan, che è riuscito ad agganciare solo un pesce, un bonito di 40 cm. È l’alta stagione del ‘palamut’ – bonito, una varietà pregiata di tonno – nel Bosforo, dove migliaia di banchi viaggiano dal Mar Nero al Mar di Marmara e poi al Mediterraneo.

Le reti dei professionisti, lunghe più di 1.000 metri, si estendono per tutto lo stretto e non lasciano scampo ai dilettanti come Mehmet, appostati continuamente lungo i 30 km di costa. E ancor meno alle loro prede. “Questa è la via d’accesso per i pesci. Non avranno nemmeno il tempo di deporre le uova“, dice Murat Ayhanoglu, di stanza nella baia di Kireçburnu dove si è appostato il Görenler II, un peschereccio di 35 metri il cui equipaggio si sente ansimare mentre tira su la pesante rete. “Quando ci sono, non c’è possibilità di pescare“, dice il cinquantenne, che elenca le specie che si stanno riducendo: sugarelli, acciughe, picarelli, boniti e tassergal. “Lo Stato deve trovare una soluzione“, conclude.

Secondo il dottor Saadet Karakulak, professore presso la Facoltà di Scienze Acquatiche di Istanbul, la pesca nel Bosforo è scesa da circa 500-600.000 tonnellate all’anno a 328.000 tonnellate in pochi anni, “a riprova del fatto che gli stock stanno diminuendo“. Ma le autorità hanno avuto un’idea strana quando all’inizio del mese hanno proposto di chiudere il Bosforo al traffico per mezza giornata per lasciare libero sfogo a pescherecci industriali e a strascico. Il ministero dei Trasporti ha poi fatto marcia indietro di fronte alle proteste di scienziati e Ong che hanno denunciato “una corsa alla pesca eccessiva in un corridoio biologico” di primaria importanza. “Il 6 novembre è stata data una licenza di uccidere“, afferma il dottor Bayram Öztürk, direttore del Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Istanbul e della Tudav Marine Research Foundation. “Non possiamo farlo al giorno d’oggi. Gli stock sono in pericolo, a volte abbiamo raggiunto la soglia critica come nel caso della sogliola, dello storione o del pesce spada. Dobbiamo pensare alla sostenibilità”. Per alcune specie è giunto il momento di imporre delle quote, secondo lui. Quest’anno l’acciuga è minacciata perché il bonito, che è abbondante, se ne sta cibando. E se il bonito è al suo meglio, è perché ha potuto riprendersi grazie al Covid, quando i pescatori erano confinati. Ma il dottor Öztürk cita anche la plastica e l’inquinamento urbano come minacce, oltre al traffico marittimo pesante.

Il Bosforo è uno degli stretti più trafficati al mondo, con oltre 200 navi che lo attraversano ogni giorno: portacontainer, petroliere del Caspio e portarinfuse, come quelle che trasportano grano dall’Ucraina. “E lo Stretto è largo solo 760 metri nel suo punto più stretto“, osserva Öztürk.

Il deserto di Atacama coperto dai rifiuti: minaccia a ecosistema

Una discarica nel deserto. Il deserto di Atacama, nel nord del Cile, è diventato il ricettacolo di tonnellate di vestiti usati, ma anche di auto e pneumatici fuori uso provenienti da tutto il mondo e abbandonati, in quella che è diventata una vera minaccia per il suo ecosistema. Migliaia di vestiti ricoprono le aride colline che circondano il comune di Alto Hospicio, nella regione di Tarapaca, circa 1.800 km a nord di Santiago. Nella vicina città di Iquique si accumulano altre migliaia di auto smantellate provenienti da Stati Uniti, Giappone o Corea, mentre in altre zone del deserto, che si estende per oltre 100.000 km2, il paesaggio è deturpato da centinaia di pneumatici.

Il Cile è specializzato da più di quarant’anni nel commercio di abiti usati, tra vestiti buttati dai consumatori, destoccaggio e opere di beneficenza da tutto il mondo. Secondo la dogane cilena, nel 2021 sono entrate nel Paese circa 46.285 tonnellate di indumenti usati. I vestiti, come le macchine, entrano dalla zona franca del porto di Iquique e dono destinati al mercato dell’usato cileno o a quello di altri paesi dell’America latina. La maggior parte delle auto viene riesportata in Perù, Bolivia o Paraguay. Tuttavia, molti finiscono nelle strade di Iquique o sui fianchi delle colline circostanti.
Più della metà dei vestiti e delle scarpe prodotti, a basso costo e in catena, soprattutto in Asia, finiscono sparpagliati nel deserto a causa della congestione del circuito di riciclo. Regolarmente, queste ‘discariche selvagge’ vengono date alle fiamme per ridurre i fastidi, provocando però dense nuvole di fumo tossico. “Questi incendi sono molto tossici, perché ciò i fumi sono creati da plastica bruciata“, ha detto Paulín Silva, avvocato che a marzo ha presentato una denuncia contro lo Stato cileno presso un tribunale dedicato alle questioni ambientali. Originario di Iquique, Silva denuncia in particolare la passività del governo di fronte a queste discariche che, assicura, costituiscono “un rischio ambientale” e “un pericolo per la salute umana”. “Sono le persone senza scrupoli di tutto il mondo che vengono a scaricare qui i loro rifiuti“, ha incalzato Patricio Ferreira, il sindaco di Alto Hospicio, una delle città più povere del Cile. “Abbiamo ripulito una zona e ci stanno inquinando in un’altra area”, si è lamentato sentendosi impotente di fronte al problema. “Ci sentiamo abbandonati. Sentiamo che la nostra terra viene sacrificata”.

Nonostante sia considerato uno dei deserti più aridi del mondo – con precipitazioni che in alcune zone non raggiungono i 20 millimetri all’anno – l’Atacama ospita un ecosistema unico. Nella sua parte più arida, vicino alla città costiera di Antofagasta, gli scienziati, tra cui la biologa cilena Cristina Dorador, hanno scoperto forme di vita estreme: microrganismi capaci di vivere quasi senza acqua o sostanze nutritive nonostante la radiazione solare. Questi microrganismi potrebbero detenere i segreti dell’evoluzione e della sopravvivenza sulla terra, ma anche su altri pianeti, secondo loro.
In alcune zone vicino alla costa, la nebbia permette lo sviluppo di vegetazione e animali vertebrati, ha continuato Pablo Guerrero, professore di botanica all’Università di Concepcion e ricercatore presso l’Istituto di Ecologia e Biodiversità (IEB). “L’esistenza della vita in questi luoghi è, in un certo senso, un evento fortuito”, ha indicato considerando che si tratta di una regione dove l’ecosistema è “molto fragile“. “Qualsiasi cambiamento o diminuzione del regime delle precipitazioni e della foschia ha immediatamente conseguenze per le specie che vi abitano”.
Dozzine di specie di fiori a predominanza viola fioriscono quando le precipitazioni sono superiori alla media. I loro semi, sepolti sotto la sabbia, possono sopravvivere per decenni in attesa che un minimo di acqua germogli e poi fiorisca. A causa dei cambiamenti climatici, ma anche dell’inquinamento e dell’avanzata delle città, alcune specie di cactus sono però scomparse.
Ci sono specie di cactus che sono considerate estinte. Sfortunatamente, questo è un fenomeno che vediamo su larga scala e con un deterioramento sistematico negli ultimi anni“, ha continuato Guerrero.

Rifiuti, blitz di Legambiente alla Torre del Lebbroso ad Aosta

Lattine di birra e bibite gassate, cartacce, cartoni ‘accoglievano’, fino a qualche giorno fa, turisti e passanti che si soffermavano ad ammirare la Torre del Lebbroso, ad Aosta. Alcuni cittadini, indignati alla vista di rifiuti a cielo aperto e del degrado della costruzione, hanno dunque interpellato il Comune di Aosta che, per competenza, ha chiesto che fosse interpellata la Soprintendenza ai Beni culturali.
“Le settimane sono però trascorse – ha raccontato Denis Buttol, presidente del circolo Legambiente Valle d’Aosta – senza che nulla accadesse; riconosciamo che la Soprintendenza ai beni culturali opera con scrupolo per la valorizzazione e conservazione delle bellezze della nostra regione e che sia possibile che ogni tanto perda dei pezzi, però occorreva agire“.

Così, durante lo scorso fine settimana alcuni volontari del circolo ambientalistico hanno ripulito gli scalini della Torre. “Quest’ultima azione intende essere uno stimolo a ricercare sempre la bellezza nei luoghi in cui viviamo e di cui, per fortuna, siamo ricchi. Osserviamo – sottolinea Buttol – altri luoghi oggetto di disattenzione: ad esempio, sempre ad Aosta, la Tour du Pailleron, visibile tra l’altro da tutti i turisti che arrivano dalle stazioni ferroviaria e dei pullman: gli accessi sono chiusi da pannelli di compensato e circondati da reti di plastica arancione da cantiere, con cartelli che recitano edificio pericolante. Non il modo migliore, forse, di valorizzare un importante monumento”.

 

 

Ogni anno 60mila tonnellate di oli esausti nelle fognature

Olio di frittura, avanzi dei barattoli di sottoli, scarti alimentari unti rappresentano un rifiuto da gestire in modo differenziato, ma ancora troppi vengono scorrettamente gettati nel lavandino, inquinando le acque. È quanto emerge dalla ricerca promossa da RenOils, consorzio per il riciclo degli oli alimentari esausti, e realizzata da CNR-IRSA in collaborazione con Utilitalia.
Ad oggi sono oltre 80.000 le tonnellate di oli alimentari esausti raccolti ogni anno in Italia dai Consorzi come RenOils. Ma secondo la ricerca, che ha analizzato la presenza di oli negli impianti di depurazione delle acque un quantitativo quasi equivalente (tra le 60.000 e le 70.000 tonnellate) viene smaltito in modo scorretto nel lavandino. A livello medio è come se ogni cittadino italiano usasse un litro di olio l’anno e la metà la gettasse via con l’acqua sporca – molto meno di quello che si stimava, ma comunque tanto.

La ricerca – spiega Ennio Fano, Presidente di RenOils – conferma che è fondamentale potenziare la raccolta differenziata di oli esausti presso le utenze domestiche, in modo da favorire una pratica semplice ma estremamente virtuosa. Il nostro consorzio è già attivo in modo capillare su tutto il territorio nazionale e il comparto della ristorazione è servito in modo efficiente. Lavoreremo con enti locali e aziende di igiene urbana per gestire anche l’olio esausto prodotto dalle famiglie italiane”.

La ricerca ha preso in esame 40 impianti di depurazione in 6 diverse regioni e ha ripetuto i campionamenti per 3 volte tra agosto 2019 e luglio 2020. Ovunque si sono trovate tracce di grassi vegetali e animali nelle acque trattate, nell’ordine di 5-10 mg/litro, comunque un valore inferiore rispetto ai dati dalla letteratura scientifica che si riferiscono unicamente alla situazione degli USA. “Sappiamo che i dati della nostra ricerca – sottolinea Giuseppe Mininni, il ricercatore che ha coordinato la ricerca – si riferisce principalmente ai rifiuti generati dalle utenze domestiche perché il settore della ristorazione è quasi interamente collegato al servizio di raccolta degli oli esausti. Il 98% dell’olio che abbiamo trovato nei nostri campioni è di origine animale o vegetale e in grandissima parte viene dalle cucine delle famiglie italiane”.

Il Consorzio RenOils nel corso del 2021 ha raccolto 49.075 tonnellate di oli e grassi vegetali e alimentari esausti (+32% rispetto al 2020) nei 52.421 punti di ritiro, rappresentati da utenze commerciali, industriali e domestiche. In quattro anni (dal 2018 al 2021) sono state raccolte 162.702 tonnellate di questa tipologia di rifiuto. RenOils può far affidamento su una capillare rete di partner operativi costituita da 15 aziende di raccolta e trasporto e 27 impianti di trattamento e recupero, rispettivamente operative con 19 e 37 unità locali.

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Cresce la raccolta differenziata in Italia, ora è al 63%. Ma pesano i costi elevati

Migliora la situazione rifiuti in Italia. Cresce la raccolta differenziata e aumenta l’energia prodotta dalla spazzatura. Restano, tuttavia, criticità, lamentate dalle famiglie sulle modalità della raccolta e sui costi. Questo, in sintesi, è quello che emerge dal rapporto Istat e da un’analisi di Utilitalia.

Nel 2020 diminuisce la produzione di rifiuti urbani rispetto al 2019 (-3,6% con 487 kg di rifiuti urbani prodotti per abitante), mentre raggiunge il 63% la quota di raccolta differenziata che nel 2019 era pari al 61,3%, fa sapere l’istituto di statistica. Sono più del 90% le famiglie che dichiarano di aver sempre effettuato la raccolta differenziata nel 2021 (91,8% per la carta, 90,8% per la plastica e 91,1% per il vetro). In crescita anche la differenziazione dell’umido/organico (86,7% dall’83,9% del 2018), quella dell’alluminio (81,3% dal 71,3%), la raccolta costante di farmaci (84,8% dal 48,2%) e di batterie (52,8% dal 45,6%).

A TRENTO RECORD RACCOLTA DIFFERENZIATA. La quota di raccolta differenziata dei rifiuti urbani aumenta in tutte le regioni, fatta eccezione per la provincia autonoma di Trento (-0,9 punti percentuali rispetto al 2019) e la Val D’Aosta (-0,6 punti percentuali). Nonostante il lieve calo, qui si ha la quota più alta di raccolta differenziata (76,7%) e una produzione di rifiuti urbani pro capite inferiore alla media nazionale (486,4 kg per abitante). A seguire il Veneto (76,1% di raccolta differenziata e 476,1 kg per abitante di rifiuti urbani), la Sardegna (74,5% di raccolta differenziata e 444,4 kg per abitante di rifiuti urbani prodotti) e la Lombardia (73,3 e 467,8). A livello di città, 56 capoluoghi hanno superato il target del 65% (51 nel 2019 e 17 nel 2015). Tra questi svettano Treviso, Ferrara e Pordenone con oltre l’87%. In 37 capoluoghi si registra una quota di raccolta differenziata inferiore rispetto all’anno precedente; il calo più consistente si rileva a Catania, che passa da 14,5% a quota 9,7% di raccolta differenziata. In sei capoluoghi si registra invece un incremento di oltre 10 punti percentuali: ad esempio a Siracusa e Messina.

AL NORD LE FAMIGLIE PIU’ VIRTUOSE. Nel dettaglio, le famiglie che dichiarano di differenziare sempre i contenitori in plastica passano dall’87,1% del 2018 al 90,8% del 2021. Invece quelle che differenziano sempre i contenitori in vetro sono il 91,1% nel 2021 dall’85,9% del 2018, una quota da sempre più alta rispetto agli altri tipi di rifiuti e in costante crescita. Per la carta l’andamento è simile a quello del vetro: 91,8% nel 2021 da 86,6% nel 2018. In decisa crescita nel tempo anche la raccolta di batterie esauste (dal 45,6% nel 2018 al 52,8% nel 2021) e di farmaci scaduti (dal 48,2% al 54,6%). Ma la crescita più sostenuta nei tre anni considerati si registra per la raccolta dei contenitori in alluminio (dal 71,3% all’81,3%). Sul territorio la quota di famiglie che differenzia costantemente i rifiuti è più alta al Nord ma la distanza con le altre zone del Paese si è ridotta nel tempo grazie alla progressiva diffusione di buone prassi, come il servizio di raccolta porta a porta attivato in molti comuni italiani. Infatti è salita a poco più del 73% la percentuale delle famiglie che dichiara di essere servita dal servizio di raccolta porta a porta: nel 2018 era al 66%.

I RIFIUTI COME RISORSA DI ECONOMIA CIRCOLARE. Grazie a questi sforzi sono aumentati i benefici, legati a uno sfruttamento dell’economia circolare. Tra i risultati ottenuti – emerge dallo studio “Utilities protagoniste della transizione ecologica: le sfide dell’economia circolare”, realizzato dalla Fondazione Utilitatis in collaborazione con AGICI e presentato oggi a Rimini alla Fiera Ecomondo – spiccano i 160 milioni di metri cubi di biogas prodotti, un tasso di recupero dei fanghi di depurazione pari all’87% e un tasso di rifiuti avviati a riciclo superiore al 90%. A livello europeo il rapporto tra uso di materia proveniente da processi circolari e uso complessivo di materia si attesta al 12,8%, in Italia questo valore è pari al 21,6%, secondo solamente a quello della Francia (22,2%) e di quasi dieci punti percentuali superiore a quello della Germania (13,4%).

COSTI E MODALITA’ DI RACCOLTA RESTANO CRITICI. Restano tuttavia criticità. Nel 2021 il 58,6% delle famiglie reputa elevato il costo dei rifiuti (in diminuzione dal 2018 quando erano il 68,2%), il 37,2% lo definisce adeguato e solo lo 0,9% lo giudica basso. In Sicilia e in Umbria supera il 70% la quota di famiglie critiche sul costo della raccolta dei rifiuti, definito adeguato da circa il 49% delle famiglie sia della Provincia Autonoma di Trento che della Lombardia; seguono Molise (47,6%) e Friuli Venezia-Giulia (42,4%). Tranne il Molise, le regioni del Sud mostrano la percentuale più bassa di famiglie che ritengono adeguato il costo del servizio di raccolta rifiuti toccando il minimo del 23,2% in Sicilia (33,2% la media nazionale).
Inoltre le famiglie servite dal servizio di raccolta rifiuti porta a porta si dichiarano insoddisfatte soprattutto per la frequenza della raccolta dei rifiuti (57,3%). Nell’ordine seguono problemi legati agli odori dei rifiuti organici non raccolti (40,3%), agli orari (32,3%) e alla gestione dei sacchetti/contenitori destinati alla raccolta (28,0%). Quasi tre famiglie su 10 non sono convinte che i rifiuti vengano separati adeguatamente una volta raccolti e una quota del 17,2% non è soddisfatta delle informazioni ricevute. Per i cittadini, infine, la presenza di detrazioni o agevolazioni fiscali migliorerebbe in termini sia quantitativi che qualitativi la partecipazione alla raccolta differenziata (lo dichiara l’88,8% delle famiglie). Sarebbero poi utili maggiori garanzie di un effettivo riciclo (per il 69,9%) e la presenza di sanzioni /multe per chi non differenzia i rifiuti secondo il 61,7% degli intervistati da Istat.

inquinamento plastica

Italia rimandata all’esame Ue sull’attuazione delle norme ambientali

Due passi avanti e tre indietro. L’Italia viene rimandata all’esame dell’attuazione delle norme ambientali negli Stati membri presentato dalla Commissione europea, che ha definito le tendenze comuni sulla base delle 27 relazioni nazionali, con incluse le informazioni sulla protezione della qualità dell’aria e dell’acqua, la gestione dei rifiuti e la protezione della natura da parte dei 27 governi dell’Unione.

Come evidenziato dal rapporto specifico sull’Italia, il Paese mostra ancora gravi carenze su diversi dossier, come inquinamento, gestione dei rifiuti e siti naturali, mentre passi in avanti sono stati evidenziati sulla gestione idrica e sull’economia circolare. “Il riesame dell’attuazione ambientale di quest’anno è un invito all’azione“, ha spiegato il commissario europeo per l’Ambiente, gli Oceani e la Pesca, Virginijus Sinkevičius: “Se da un lato mostra i progressi compiuti in alcune aree rispetto al precedente riesame, dall’altro mi preoccupa il fatto che in altri settori il divario di attuazione si stia ancora ampliando, rendendoci tutti più vulnerabili all’inquinamento ambientale e ai rischi correlati“.

La bocciatura più grossa per l’Italia è quella sui rifiuti, per cui il Paese “continua a pagare multe per non-conformità alla normativa europea sulle acque reflue urbane, per le discariche irregolari e per la gestione dei rifiuti nella regione Campania“, sottolinea il rapporto, ma anche i nitrati nell’Italia settentrionale e l’acqua potabile nel Lazio rappresentano “importanti” problemi ambientali. Per quanto riguarda l’inquinamento, si registrano “sostanziali” superamenti dei valori-limite degli inquinanti atmosferici per il particolato fine e il biossido di azoto, soprattutto nella pianura Padana. L’esecutivo comunitario stima che nel 2019 siano stati causati circa 50 mila e oltre 10.500 decessi prematuri attribuibili rispettivamente al particolato fine e al biossido di azoto. Infine, per le aree marine devono ancora essere designati i siti Natura 2000 ed “è necessario migliorare” lo stato di conservazione di habitat e specie, la cui qualità di misurazione è “spesso insufficiente“.

I punti positivi riguardano invece l’adozione dei Piani di gestione dei bacini idrografici di terza generazione e i Piani di gestione del rischio di alluvioni di seconda generazione. Ma soprattutto “l’ambizioso Piano nazionale di recupero e resilienza” (Pnrr), che prevede “riforme-chiave in settori quali l’economia circolare, la gestione dei rifiuti con importanti investimenti nel riciclaggio e la governance dell’acqua“, ha messo nero su bianco la Commissione Ue.

Fw alle porte, in Italia smaltimento rifiuti tessili in Ecomafie

Riparte la stagione delle Fashion Week. Il 9 settembre è iniziata una delle più attese, la settimana di New York, poi arriveranno Londra, Milano e Parigi.

Intanto, in Italia, per la prima volta il Parlamento si occupa di smaltimento dei rifiuti del settore, che è uno dei più inquinanti al mondo.

Il tessile, con i suoi 2,1 miliardi di tonnellate annuali di CO2, rappresenta il 4% delle emissioni globali di gas serra. A causa del lavaggio dei vestiti, vengono rilasciate ogni anno nei mari mezzo milione di tonnellate di microfibre.

Analogo discorso può essere mosso per la tintura dei tessuti, al secondo posto fra le maggiori cause di inquinamento delle acque sul pianeta. L’industria della moda produce circa il 20% delle acque reflue globali e circa il 10% delle emissioni globali di carbonio.

A livello globale, l’85% degli abiti dismessi, circa 21 miliardi di tonnellate all’anno, finisce in discarica. Ad aggravare il problema è l’attuale modello di consumo dell’abbigliamento, ormai da tempo dominato dal cosiddetto fast fashion (il ‘pronto moda’): una proposta di mercato che rasenta l’’usa e getta’ e che è basata su una rapidissima obsolescenza dei prodotti. Il numero di volte che un indumento viene indossato è diminuito del 36% in 15 anni. Un consumatore medio acquista il 60% di capi in più rispetto a 15 anni fa ma li conserva per un minor tempo. Oggi, nel mondo, si acquistano in media 5 chili di vestiti all’anno pro capite. In Europa e negli Stati Uniti il consumo è tre volte più elevato, arrivando a circa 16 chili a testa. Se il trend attuale rimanesse immutato il consumo di abbigliamento continuerebbe a crescere, passando da 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030. Di conseguenza, a meno che non intervengano con forza dei fattori tendenziali di segno inverso, l’inquinamento e gli impatti ambientali sono destinati ad aumentare.

In Italia, però, le discariche sono quasi tutte irregolari. Le garanzie finanziarie dovrebbero essere uno strumento a tutela delle regioni da eventuali inadempienze dei gestori, ma vengono trascurate.

Ogni discarica autorizzata deve, per legge, avere due tipologie di garanzie da presentare entro la messa in esercizio dell’impianto: una per la fase operativa e l’altra per la post gestione, e questo quasi mai avviene.

La Commissione Ecomafie fa il quadro dello stato delle discariche presenti sul territorio: “E’ stato un lavoro faticoso perché le Regioni stesse avevano un quadro spesso frammentario e superficiale”, spiega il presidente, Stefano Vignaroli. Il sistema bancario e quello assicurativo, per loro stessa ammissione, non avevano mai compiuto un’analisi specifica sulle fideiussioni delle discariche.

Un’occasione per il Sistema Moda Italia (SMI) e per tutto il mondo tessile per cambiare il modo di gestire gli abiti usati e il modo di produrre gli abiti.

Da Imola parte Artica: La vela solare che limita la spazzatura in orbita

L’innovazione Made in Italy va in orbita. E oltre a testare le nuove tecnologie aerospaziali, si preoccupa di limitare la ‘spazzatura’ nell’universo. Una nuova vela solare (Artica) è stata aperta in orbita ed è imbarcata sul cubesat Alpha, nanosatellite a forma di cubo lanciato il 13 luglio scorso dalla base di Kourou (Guyana Francese) in occasione del primo volo del vettore italo-europeo Vega C. Realizzato dalla divisione spazio Spacemind della società NPC di Imola (Bologna), il sistema Artica consentirà ai piccoli satelliti in orbita bassa di effettuare il de-orbiting al termine della loro missione, ovvero ridurre la quota e bruciare a contatto con gli strati più alti dell’atmosfera. “Ad oggi, secondo i dati dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), in orbita terrestre vi sono circa 130 milioni di oggetti di varie dimensioni, compresi 20mila satelliti– ha spiegato Nicolò Benini, marketing manager di Npc Spacemind – e così limitare la ‘spazzatura spaziale’ sta diventando dunque una vera emergenza per la sicurezza delle future missioni. Siamo perciò entusiasti che, con la corretta apertura della sua vela solare, ‘Artica’ abbia dimostrato di poter offrire una soluzione semplice, economica e sostenibile al problema degli ‘space debris’ in orbita bassa”.

RIFIUTI NELLO SPAZIO PROFONDO

Il problema della ‘spazzatura spaziale’ è in effetti aumentato considerevolmente nei decenni, ovvero in maniera proporzionale alla ricerca aerospaziale e ai lanci delle varie Agenzie nazionali. La Nasa conferma che le minacce derivanti dagli ‘space debris’, ovvero detriti spaziali, sono in aumento a causa del lancio di diverse installazioni multisatellitari, in particolare nell’orbita terrestre bassa. Il requisito di vita per qualsiasi veicolo spaziale nell’orbita terrestre bassa è di 25 anni dopo la missione o 30 anni dopo il lancio, se non può essere immagazzinato in un’orbita cimitero (una delle più estreme orbite intorno alla Terra destinata ad accogliere, appunto, satelliti in disuso o apparecchiature che hanno terminato il loro ciclo di funzionalità). Il tasso di decadimento di questi veicoli spaziali, spiega la Nasa, dipende da diversi fattori, e in particolare, dall’assegnazione dell’orbita e dal coefficiente balistico.

Le stime dell’accumulo di detriti orbitali suggeriscono che più di 900mila detriti con un diametro compreso tra 1 e 10 cm e oltre 34mila con diametri superiori ai 10 cm siano in orbita tra l’equatoriale geostazionaria e le quote dell’orbita terrestre bassa. Degli 11.370 satelliti lanciati, il 60% è ancora in orbita ma solo il 35% è ancora operativo. Ad aprile 2021, la Nasa stima che tutti i detriti spaziali in orbita abbiano una massa collettiva di 9.300 tonnellate.

IL PROGETTO ARTICA

Ebbene, il progetto Artica (Aerodynamic Reentry Technology In Cubesat Application) mira a limitare la presenza di rimasugli nello spazio. Avviato nel 2012 da NPC Spacemind, ha già visto il lancio di un primo dimostratore tecnologico a bordo del cubesat Ursa Maior, nel giugno 2017. La versione perfezionata è invece entrata in orbita nel luglio scorso a bordo di Alpha, realizzato da un gruppo di start-up innovative italiane guidato dalla società romana ARCA Dynamics. Il nanosatellite ha la forma di un cubo, con 10 centimetri di lato e un peso di 1,2 chilogrammi, mentre la vela ha una superficie di 2,1 metri quadrati ed è realizzata in mylar alluminizzato. In orbita bassa la vela funziona come un aerofreno e riduce la quota del satellite fino a bruciare nell’atmosfera terrestre, mentre nelle orbite più alte la vela sfrutta la pressione della radiazione solare per modificare l’orbita del satellite. Il sistema europeo di sorveglianza spaziale EUSST ha confermato che Alpha sta volando a 6mila chilometri di altezza ed è visibile da terra proprio grazie agli effetti della vela sulla sua luminosità e sulla traiettoria. A bordo del cubesat, sono anche presenti altri esperimenti scientifici e tecnologici realizzati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, ARCA Dynamics, H4 Research e Apogeo Space.

MISSIONI FUTURE

La missione di Alpha sarà seguita a breve da ben quattro cubesat, tutti realizzati in Italia da NPC Spacemind e dotati della vela per il loro de-orbiting a fine missione. Il primo, denominato ‘DanteSat’, sarà trasportato a bordo della Stazione Spaziale Internazionale nel prossimo mese di ottobre e da lì rilasciato nello spazio. Gli altri tre nanosatelliti (Futura 1, 2 e 3), saranno invece lanciati a dicembre da un vettore Space X. Benini spiega che “il lancio dei tre ‘Futura’, oltre a validare nello spazio alcuni sottosistemi elettronici miniaturizzati, avrà anche lo scopo di sperimentare il nostro SM Pod, un nuovo deployer per cubesat ad alte prestazioni, che consentirà di ridurre sensibilmente tempi e costi del rilascio in orbita. Grazie ai nostri cubesat, al deployer e alla vela per il de-orbiting, il nostro Paese potrà offrire così servizi innovativi al mercato mondiale dei nano e microsatelliti che è in grande espansione”.

(Photo credits: www.npcspacemind.com)

Gualtieri

Più differenziata e meno discarica: il Piano gestione rifiuti di Roma

Un Piano per la gestione integrata dei rifiuti e la pulizia di Roma Capitale per risolvere una situazione che il sindaco Roberto Gualtieri definisce “senza eguali in Europa per inefficienza, impatto ambientale negativo e costo esagerato”. La proposta è stata presentata dal primo cittadino e ha come obiettivi la riduzione della produzione di rifiuti, l’aumento della differenziata, del riciclo e del recupero energetico, la realizzazione di un sistema impiantistico integrato per rendere autosufficiente il territorio, la drastica riduzione del conferimento in discarica, l’abbattimento delle emissioni di gas serra, il miglioramento dell’intero sistema della raccolta.

Gualtieri prevede l’approvazione del Piano il 15 ottobre. La roadmap vede il 12 agosto l’avvio la procedura di valutazione ambientale strategica. Il 30 settembre si concluderà la consultazione finalizzata alla raccolta delle osservazioni nell’ambito della procedura di Vas. Entro la fine del mese di ottobre sarà definito il piano industriale di Ama che rappresenta il riferimento fondamentale per l’attuazione del Piano Rifiuti.

termovalorizzatore

GLI OBIETTIVI DEL PIANO

Tra i primi obiettivi del Piano Rifiuti commissariale c’è l’incremento del tasso di raccolta differenziata, dal 45,2% attuale al 65% nel 2030 e al 70% nel 2035. Un processo che passa attraverso l’ottimizzazione della logistica e la razionalizzazione del servizio di raccolta. Per quanto riguarda la riduzione nella produzione di rifiuti il Piano punta ad un abbattimento dell’8,3% in otto anni, da 1,69 mln di tonnellate l’anno a 1,55 mln nel 2030 e 1,52 nel 2035, attraverso accordi con i settori produttivi, campagne di comunicazione, centri del riuso. Il Piano consentirà una sensibile riduzione dei rifiuti che non è possibile avviare al riciclaggio di circa un terzo, passando da 1 milione di tonnellate l’anno del 2019 a oltre 700mila tonnellate nel 2030 che si potrà ridurre ulteriormente a circa 660mila nel 2035. Strategici gli obiettivi legati ad un rendimento elevato del recupero di materia da raccolta differenziata (65% al 2035), basato su una qualità migliore dei conferimenti, a partire dal recupero del servizio destinato alle Unità non domestiche (attività commerciali), oltre che al ricorso a nuovi impianti. Altrettanto importante sarà il recupero dalle frazioni organiche avviate ai nuovi impianti di digestione anaerobica (compost e metano), e la gestione efficiente degli scarti degli impianti di selezione di frazioni secche. Questo contribuirà ad una netta riduzione del conferimento di rifiuti in discariche, che saranno così destinate al solo smaltimento degli scarti non destinabili a recupero energetico, passando da 500mila tonnellate a 23mila nel 2030, fino a circa 24mila nel 2035. Tali risultati consentiranno di andare ben oltre gli obiettivi fissati dall’Unione Europea, che individuano una percentuale massima del 10% di ricorso alla discarica entro il 2030; Roma Capitale, partendo dal 30% attuale, raggiungerà il 4,8% nel 2030 e il 3,2% nel 2035. Lo scenario descritto dal Piano porterà ad una riduzione del 90% circa delle emissioni di CO2, rispetto allo ‘scenario 0’ (raccolta differenziata al 65% ma con la situazione impiantistica immutata) e ancora di più rispetto a quello attuale con la differenziata al 45%. Il contributo al percorso di Roma verso la neutralità climatica arriverà grazie al recupero di energia da rifiuti residui, alla diminuzione sostanziale di emissioni di gas climalteranti, alla chiusura delle discariche. Fondamentale anche l’ottimizzazione dei trasporti, grazie all’eliminazione delle lunghe percorrenze per il conferimento ad impianti collocati fuori regione e all’estero.

COMPLETAMENTO DELLA RETE IMPIANTISTICA

Il Piano prevede la realizzazione di impianti basati sulle migliori tecnologie di settore disponibili. Da quelli di selezione di carta e plastica da raccolta differenziata ai biodigestori anaerobici. Le attività di progettazione per la realizzazione di questi impianti sono affidate ad Ama che ha partecipato ai bandi PNRR per il loro finanziamento. Verranno realizzati nelle aree di Rocca Cencia e Ponte Malnome due impianti di selezione delle frazioni secche da raccolta differenziata da 200mila tonnellate complessive (carta, cartone e plastica) con un investimento totale di 43 mln di euro. A Cesano e a Casal Selce di 2 impianti per la digestione anaerobica della frazione organica (produzione biometano per trasporti e di compost per agricoltura), da 200mila tonnellate complessive, per un investimento di 59 milioni di euro ciascuno.

TERMOVALORIZZATORE

Il nostro obiettivo – ha spiegato Gualtieri – è di avviare l’operatività del termovalorizzatore entro la fine 2025 e di avere una piena operatività nel 2026”. Per quanto riguarda il terreno sul quale sorgerà, “stiamo completando le procedure di individuazione e selezione”, ha aggiunto. L’impianto tratterà i rifiuti indifferenziati residui e gli scarti non riciclabili derivanti dagli impianti di selezione e trattamento. Avrà una capacità di trattamento di 600mila tonnellate annue e sarà realizzato adottando la tecnologia di combustione più consolidata e ad alta efficienza per il recupero energetico con i sistemi più avanzati per la riduzione delle emissioni in atmosfera; allo stesso tempo saranno gestite ceneri da combustione e si avvierà la sperimentazione per la cattura di anidride carbonica. L’investimento complessivo sarà di circa 700 milioni di euro ai quali si aggiungeranno ulteriori 150 milioni circa per la tecnologia di trattamento e riciclo degli scarti di lavorazione.