sede comitato olimpico

La strategia verde del Comitato Olimpico Internazionale

La sostenibilità (non solo ambientale, ma anche economica e sociale) è diventata uno degli obiettivi principali dell’azione del Comitato Olimpico Internazionale (Cio) nell’ultimo decennio. In particolare, proprio la sostenibilità è stata definita uno dei tre pilastri alla base dell’Agenda 2020, il documento approvato dal Cio nel dicembre 2014 per disegnare il futuro del movimento olimpico. Delle 40 raccomandazioni presenti, 6 sono legate in modo specifico all’organizzazione dei Giochi olimpici: sono queste le linee guida entrate pienamente a regime per Parigi 2024 e che riguardano anche l’edizione invernale di Milano-Cortina 2026.

In particolare, al tema della sostenibilità è legata la raccomandazione numero 4 che mira a “includere la sostenibilità in tutti gli aspetti delle Olimpiadi”. Nel dettaglio, il Cio fissa tre punti:

  • Sviluppare una strategia di sostenibilità per consentire ai potenziali e attuali organizzatori dei Giochi Olimpici di integrare e attuare misure di sostenibilità che comprendano le sfere economiche, sociali e ambientali in tutte le fasi del loro progetto.
  • Assistere i Comitati Organizzatori neoeletti a stabilire la migliore governance possibile per l’integrazione della sostenibilità in tutta l’organizzazione;
  • Garantire il monitoraggio post-Giochi dell’eredità lasciata con il supporto del Comitato Olimpico Nazione e di organizzazioni esterne come l’Unione mondiale delle città olimpiche.

Questi principi generali sono stati concretizzati nella ‘New norm’, insieme di 118 misure approvate dal Cio per rendere i Giochi più accessibili, vantaggiosi e sostenibili: disposizioni con cui hanno dovuto confrontarsi le candidature vincenti per Parigi 2024, Milano-Cortina 2026 e Los Angeles 2028. Il documento prende in esame una lunga serie di aspetti (processo di candidatura, dimensioni e distribuzione delle sedi di gara, trasporti, soluzioni tecnologiche, solo per citarne alcuni): l’applicazione di queste regole, secondo il Cio, comporta un risparmio di quasi un miliardo di dollari nell’organizzazione dei Giochi estivi e di oltre 500 milioni per quelli invernali.

Nella più recente Agenda Olimpica 2020+5, l’organismo con sede a Losanna ha poi ribadito, nella raccomandazione numero 2, la necessità di “promuovere Giochi Olimpici sostenibili”. Nel documento si afferma che “i Giochi Olimpici hanno il dovere di rimanere all’avanguardia della sostenibilità massimizzando gli impatti sociali, ambientali ed economici positivi per le comunità ospitanti” e che “è necessario esplorare continuamente soluzioni innovative per ridurre i costi e ottimizzare i ricavi”.

L’azione del Cio però non è limitata solo ai Giochi Olimpici. Il terzo Rapporto sulla sostenibilità del Cio afferma che l’organismo ha raggiunto 15 dei suoi 18 obiettivi di sostenibilità per il periodo 2017-2020, tra i quali il completamento della nuova sede Olympic House (certificata come uno degli edifici più sostenibili al mondo) e il raggiungimento della carbon neutrality grazie al programma globale di mitigazione del carbonio IOC-Dow. Losanna ha quindi deciso di rilanciare, fissando il target di riduzione delle emissioni di carbonio del 50% entro il 2030. C’è poi l’impegno a diventare climate positive (rimozione di più CO2 dall’aria di quella che viene emessa) entro la fine del 2024. Lo stesso traguardo è stato fissato per le edizioni dei Giochi a partire dal 2030: i Comitati organizzatori dovranno ridurre al minimo e compensare le proprie emissioni di carbonio, dirette e indirette e implementare soluzioni durevoli a zero emissioni che vadano anche oltre i Giochi. Tornando al Cio, è stata varata anche la creazione della Foresta Olimpica con la piantumazione di circa 355.000 alberi autoctoni in Mali e Senegal su una superficie di circa 2.120 ettari. Questo dovrebbe portare alla cattura di 200.000 tonnellate di CO2 equivalente, quantità superiore alle emissioni stimate dal Cio per il periodo 2021-2024.

smart building

Italia non è ancora Smart Building, lo dice un report del Poli Milano

Lo smart building viene spesso utilizzato come parola-simbolo dell’edilizia del futuro: più sostenibile in termini di consumi, più attenta all’uso delle rinnovabili, e capace di migliorare comfort e salute degli abitanti. Il tutto grazie all’attivazione di sistemi automatici di gestione. Ma nella reale applicazione, in Italia, siamo ancora indietro, ed è sempre più urgente mettere a terra questo potenziale. Soprattutto considerando l’impatto degli edifici sull’ambiente, che pesa – stime del Politecnico di Milano – il 40% dei consumi energetici complessivi.

LA MATURITA’ TECNOLOGICA DEGLI SMART BUILDING

L’Italia non è un paese per gli smart building (ma non lo è ancora nemmeno l’Europa). A fine 2021, un report Energy&Strategy della school of management del Politecnico di Milano ha stimato il livello di maturità tecnologica degli smart building nel nostro paese. Il risultato? In ambito residenziale l’85% degli edifici intelligenti è caratterizzato da un limitato numero di device e tecnologie, gestite fra l’altro da piattaforme diverse fra loro.

In uno smart building, gli impianti sono gestiti in maniera intelligente e automatizzata attraverso un’infrastruttura di supervisione e controllo capace di minimizzare il consumo energetico e garantire le migliori condizioni per gli occupanti, assicurandone poi l’integrazione con il sistema elettrico di cui l’edificio fa parte. “Uno smart building completo, però, è quello che riesce ad avere un layer di intelligenza comune che gestisce e automatizza tutti i componenti” spiega Federico Frattini, vicedirettore dell’Energy&Strategy. “Nel residenziale soltanto il 3% degli edifici risponde a queste caratteristiche, e il dato sale a circa il 20% nel terziario”. Continua Frattini: “Pesano ancora i costi infrastrutturali, che rendono necessari investimenti importanti. E, soprattutto, la mancanza di una vera standardizzazione dei componenti, specialmente digitali”.

LA RIPRESA ATTESA DOPO IL COVID

La pandemia non ha aiutato la diffusione di edifici smart. Il trend degli investimenti relativi al 2020 (gli ultimi dati al momento elaborati dalla school of management) aveva infatti restituito un calo dell’11% rispetto ai dati pre-covid. Escludendo le superfici opache, tra residenziale e terziario, siamo fermi a 7,67 miliardi di euro investiti nell’ambito dell’edilizia intelligente.

Ancora presto per conoscerne l’evoluzione, “ma se facciamo un parallelo con l’andamento degli investimenti del settore industriale nell’ambito dell’efficienza energetica” spiega Federico Frattini, “possiamo immaginare per gli smart building uno scenario analogo, con una crescita sul 2020 vicina al 10%, senza però ancora arrivare ai livelli pre-pandemia”.

È comunque vero che il ruolo centrale della casa fra lockdown e smart working ha ridato attenzione alla qualità dell’abitare, tanto è vero che, a differenza di quanto accade per gli edifici, ha ripreso a correre il mercato della ‘smart home‘ (in questo caso i dati vengono dell’osservatorio Internet of Things del Politecnico), con un +29% nel 2021 guidato dall’acquisto di elettrodomestici connessi, smart speaker, soluzioni per la sicurezza, caldaie, termostati e condizionatori connessi per riscaldamento e climatizzazione. “In generale, anche nelle tecnologie per il building ci aspettiamo una crescita di alcune tecnologie con livelli di investimenti consistenti, come sistemi per il monitoraggio e l’ottimizzazione dell’aria, serrature intelligenti, o sistemi di videosorveglianza”, spiega Frattini, “ma va sempre considerato il freno dovuto all’oscillazione dei prezzi che ha colpito il settore dei microchip e dell’elettronica”.

IL VOLUME D’AFFARI NEGLI SMART BUILDING

La ricerca verso una gestione sempre più efficiente dell’energia guida gli investimenti negli smart building in Italia. Degli oltre 7 miliardi e mezzo investiti, il 63% viene dall’implementazione di ‘building device and solutions’, vale a dire tecnologie e impianti per la generazione di energia, per l’efficienza energetica, safety&security e comfort. Di tutta la categoria, oltre la metà del valore investito (circa 4,8 miliardi di euro) è relativa a tecnologie per la produzione di energia elettrica e produzione efficiente di energia termica.

Nel caso della generazione di energia termica, sono i sistemi di climatizzazione e le pompe di calore a rappresentare la maggioranza degli investimenti. Mentre “nell’ambito della generazione elettrica il fotovoltaico è la tecnologia più diffusa (94% del totale), spinta anche da costi sempre minori che la rendono sostenibile anche senza incentivi” spiega Federico Frattini. “Ma la crescita più interessante è nei sistemi di accumulo associati al fotovoltaico, anche nel residenziale. Accoppiare batterie a un impianto, infatti, permette di aumentare la quota di autoconsumo dal 30% fino al 70-80%. Un dato importante in un momento di aumento dei prezzi dell’energia”. Il restante 37% degli investimenti totali, invece, è riferito agli attuatori e alla sensoristica per la raccolta dati dagli impianti, oltre ai software che compongono la piattaforma di controllo e gestione e l’infrastruttura di rete.

UN CAMBIO DI PASSO

Ma su quali leve dovremmo intervenire per immaginare un buon livello di maturità tecnologica negli smart building italiani, e avvicinarci di conseguenza agli obiettivi europei di decarbonizzazione? “Gli stanziamenti del Pnrr sono un buon inizio ma non possono bastare per raggiungere gli obiettivi richiesti dal pacchetto Pniec e dal Fit for 55” dice Federico Frattini, “soprattutto perché il tasso di ristrutturazione è ancora troppo basso”. Gli edifici italiani registrano infatti un consumo di energia termica più alto della media europea. “Serve un passo diverso, insomma, e non solo nel residenziale” continua Frattini, “promuovendo interventi importanti anche negli edifici della pubblica amministrazione”.

Un aiuto in più potrebbe arrivare dall’Europa, con l’avvio dello ‘Smart readiness indicator’, l’indice comune dell’Unione europea introdotto per valutare la predisposizione degli edifici a utilizzare tecnologie intelligenti. “Molto dipenderà da come verrà implementato” conclude Frattini, “ma potrebbe dare un incentivo importante a predisporre edifici all’uso di tecnologie smart per migliorare la qualità complessiva della vita e del lavoro nelle strutture”. Con effetti sulla qualità della vita e sull’ambiente.

Edilizia, arriva Gbc Condomini: riqualificazione rispettando sostenibilità

Venerdì prossimo, 17 giugno, a partire dalle ore 10, presso Palazzo Visconti, a Milano, Green Building Council Italia presenterà Gbc Condomini, il nuovo protocollo per la riqualificazione, l’esercizio e la manutenzione degli edifici. Una data che vuole cambiare l’approccio di operatori delle filiere edili ed immobiliari, nei confronti di efficienza energetica, sicurezza e comfort abitativo, per il benessere della persona e dell’ambiente. Sarà un evento in modalità blended (in presenza e in remoto su piattaforma digitale), per il lancio di uno strumento fondamentale per tutti coloro che si occupano di edilizia e di sostenibilità, pensato per essere applicato non solo ad edifici residenziali esistenti, ma anche a supporto di processi di rendicontazione, a favore della trasparenza e della riduzione del rischio finanziario delle operazioni immobiliari. “Il protocollo energetico-ambientale Gbc Condomini è un sistema di certificazione (rating system) fortemente innovativo, che include anche l’attenzione ai processi di miglioramento sismico oltre ai classici aspetti di efficienza energetica e ambientale dopo oltre tre anni di test e grazie all’eccellente lavoro dei nostri Soci più qualificati, siamo orgogliosi di poter lanciare questa prima edizione“, spiega Marco Mari, presidente di Gbc Italia. “Un importante sistema di garanzia della corretta progettazione ed esecuzione dell’opera, anche nei processi di rendicontazione finanziati con bonus e superbonus edilizi“.

All’evento, che sarà aperto proprio da Mari e da Massimiliano Mandarini, segretario Chapter Lombardia di Gbc Italia, prenderanno parte anche esponenti delle istituzioni, come l’europarlamentare e membro della commissione per l’Ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare del Parlamento Ue, Eleonora Evi, il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, l’assessore al Bilancio e Patrimonio immobiliare del Comune di Milano, Emmanuel Conte, il commissario straordinario del governo per la ricostruzione post Sisma del 2016, Giovanni Legnini, e l’assessore alla Casa e housing sociale della Regione Lombardia, Alessandro Mattinzoli. “Gbc Condomini è uno strumento imprescindibile nei casi di Riqualificazione, Conduzione e Manutenzione degli edifici esistenti adibiti a residenza multipla, assimilabili ai ‘condomini’, che amplia la famiglia dei protocolli energetico-ambientali Gbc – sottolinea ancora Mari -. Mediante una struttura particolarmente snella e operativa, Gbc Condomini permette di certificare e garantire il valore di mercato dell’immobile anche nei casi di miglioramento parziale delle prestazioni degli edifici“.

Il vero obiettivo “è vincere la sfida dell’edilizia moderna e sostenibile, attraverso la riqualificazione del patrimonio edilizio, anche nella fase gestionale degli edifici. Un protocollo che si rivolge a tecnici e operatori di settore, ma anche ai privati e agli enti o società pubbliche proprietarie di immobili, alle compagnie di assicurazione e alle banche per i loro patrimoni immobiliari, alle cooperative abitative e di social housing, nonché all’ente normatore e al mondo della finanza, che avranno a disposizione uno strumento col quale valutare le potenzialità di un intervento e a lavori ultimati avere una certificazione terza dei miglioramenti prestazionali attesi. Come di consueto, saranno presentati dei casi studio per dare immediato e concreto riscontro dell’applicazione Gbc Condomini“, conclude Mari.

Govone

Da Smart City a Smart Land, un futuro innovativo per le Langhe

Marco Andriano è il Sindaco di Roddino, piccolo Comune delle Langhe, ed è assessore dell’Unione di Comuni delle colline di Langa e del Barolo. Luoghi bellissimi e pieni di fascino, che hanno conosciuto la grande povertà e le sofferenze raccontate da scrittori come Cesare Pavese o Beppe Fenoglio nella prima metà del Novecento e lo straordinario successo, quindi il benessere, degli ultimi trenta anni con l’esplosione della passione per i grandi vini pimontesi, per il tartufo, le nocciole, le molte delizie del territorio e i paesaggi straordinari. Luoghi da sogno, in cui la qualità della vita è altissima. Si pensa. Ma qui inizia il nostro percorso di approfondimento. Andriano e alcuni dei suoi colleghi ci conducono in questo breve viaggio per comprendere le difficoltà di aree fortunate ma in cui il potenziale altissimo viene avvilito e ridotto dalla difficoltà ad accedere ai servizi. A qualunque servizio. Il futuro e il benessere stanno nell’innovazione e nella sostenibilità. Una visione strategica che è condivisa dall’Unione e anche da altri Comuni esterni ad essa, come Diano d’Alba, Albaretto Torre, Serralunga d’Alba, Montelupo Albese e Rodello.

Nei nostri comuni – spiega Andriano – oltre il 20 per cento della popolazione ha più di 70 anni, il turismo è in crescita esponenziale e registra un incremento continuo ma le giovani famiglie – che sarebbero la garanzia di un futuro florido – sono sempre meno: perché? È la domanda che abbiamo tenuto come riferimento nel pensare il nostro progetto per il bando Rigenerazione Urbana riservato ai piccoli Comuni: un progetto che vogliamo sia innovativo e ci permetta di disegnare un futuro sostenibile, sia socialmente che ambientalmente”.

La risposta a quella domanda è scritta nelle continue difficoltà in cui si incespica nello svolgersi della vita quotidiana: “Le giovani coppie sono sempre meno perché venire a vivere qui non è una scelta semplice. Il problema è la difficoltà nell’accedere a qualunque servizio, in particolare per le famiglie. Le scuole non ci sono in tutti i Paesi, non ci sono asili nido, l’ospedale è mediamente a 20-25 chilometri. Sarebbero tutte questioni non insormontabili, in teoria. Ma il trasporto pubblico è praticamente inesistente, gli scuolabus sono vecchi di oltre venti anni e inquinanti. E la connettività, la rete veloce, non c’è. E sarà così almeno fino al 2023. Se voi foste una giovane famiglia, giovani imprenditori o persone con un lavoro che è possibile svolgere da remoto come accade ormai a moltissimi, una famiglia attratta dalla possibilità di vivere tra le colline, in pace e tranquillità, potreste prendere in considerazione questi luoghi? La risposta è no, a queste condizioni”.

Prosegue il presidente dell’Unione Comuni delle colline di Langa e del Barolo, il sindaco di Novello, Roberto Passone: “Ci siamo dati allora alcuni obiettivi, molto pratici e non impossibili da raggiungere: trattenere e attrarre i giovani e le imprese creative; assicurare connettività stabile a imprese e cittadini; contrastare la desertificazione commerciale; promuovere il turismo e i produttori locali; attivare servizi di prossimità efficienti soprattutto per la presa in carico e il monitoraggio a domicilio delle persone fragili; attivare un servizio di consulenza specialistica diretta e in telemedicina di raccordo con i medici di base e i medici ospedalieri. E la recente crisi energetica ci sta portando ad un altro importante problema: il costo dell’energia e degli idrocarburi. Quindi abbiamo l’intenzione di realizzare infrastrutture e servizi di mobilità flessibile: mobilità scolastica; mobilità turistica che comprende lo spostamento meccanico, sentieristico e bike; mobilità sociale”.

Spiega Ezio Cardinale, sindaco di Diano d’Alba: “Se in molti comuni non c’è la scuola, il trasporto diventa un elemento chiave per garantire il diritto all’istruzione dei nostri giovani. Non parliamo di una questione di comodità. Ogni alunno paga oggi mediamente 280 euro l’anno solo per il trasporto, ma il costo reale del trasporto sfiora i 700 euro annui e la differenza la mettono le amministrazioni comunali. Questo costo comprende lo stipendio degli autisti, degli accompagnatori, del gasolio e delle manutenzioni: gli ultimi due punti inficiati dall’inefficienza dei mezzi che mediamente hanno almeno 20 anni di servizio. I nostri mezzi non sono né comodi e i costi tendono a salire. Potrebbero anche diventare insostenibili, sia per le famiglie che per i Comuni”.

In territori così vasti e comunità tanto diffuse, quello del trasporto è ‘il tema’ anche per altri aspetti della vita. Quello turistico, ad esempio.

Io scelgo le mie vacanze in base alla possibilità di avere un buon trasporto pubblico, a destinazione – racconta Marco Andriano -. Arrivo, poso l’auto e non voglio più utilizzarla. Negli anni ho quindi visto che in molti luoghi, sia in Italia che all’estero, questo è possibile, il sistema è sviluppato perfettamente. I turisti che vengono da noi, e in particolare gli stranieri, sarebbero disponibilissimi a utilizzarlo, se esistesse… Ma l’unico modo per raggiungere e vivere le Langhe è spostarsi in auto, il che comporta l’aumento del traffico, l’usura delle strade, aumento dell’inquinamento, problemi di sicurezza e anche un problema di costi”.

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Non solo: “Non esiste una mobilità ‘sociale’ volta a chi avrebbe bisogno di spostarsi per motivi sanitari o commerciali. E non sono soltanto gli anziani, ma pensiamo anche a giovani e giovanissimi e alla loro potenziale vita sociale”.

Conclude Andriano: “Da anni sentiamo parlare di ‘SMART CITY’ ma dobbiamo pensare allo ‘SMART LAND’. Vogliamo davvero dare vita a una rivoluzione per il nostro territorio. E passare al trasporto elettrico può essere una delle chiavi, una grande opportunità, perché possiamo agire su almeno tre leve: minor costo di manutenzione tipico dei mezzi elettrici, minor costo del carburante creando le infrastrutture rinnovabili sul territorio, ottimizzando le ore di impegno degli autisti che mediamente hanno tre ore settimanali per approvvigionamento gasolio e manutenzioni varie”. La progettazione legata a questa visione di futuro, però, non si ferma ai trasporti, ovviamente: “Pensiamo alla sicurezza sui percorsi, guida turistica online, mostre, abbattimento delle barriere architettoniche, percorsi culturali, spazi dedicati ai giovani per lo sport, socialità, autogestioni, ecc… un centro per l’infanzia e ovviamente la connessione veloce a internet: fondamentale”.

Questo grande disegno si scontra però, al momento, con la possibilità di accedere ai finanziamenti adeguati: “Il bando rigenerazione urbana non finanzia l’acquisto di mezzi e l’infrastrutturazione con le stazioni di ricarica. Nel bando si passa dal finanziare i sentieri alle reti della metropolitana: manca tutta la parte centrale, quella che aiuterebbe i territori come il nostro, tipici del nostro Paese, ad accelerare la svolta sostenibile. L’obiettivo, il disegno generale delle politiche nazionali è corretto ma poi mancano gli strumenti corretti: questa è l’impressione. Ma noi non ci arrendiamo di certo. Vogliamo diventare Smart Land, vogliamo un futuro sostenibile e connesso, vogliamo Langhe piene di giovani e bambini”.

‘Unraveled’ di Maxine Bédat in Italia: viaggio dentro il lato oscuro della moda

Viaggio nell’inferno degli stabilimenti nel Guandong, in Cina, e ritorno. Passando per la discarica di Kpone in Ghana.

Il 13 giugno esce anche in Italia Unraveled (Penguin 2021) di Maxine Bédat, con il titolo ‘Il lato oscuro della moda- Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion’.

L’imprenditrice, ricercatrice e attivista segue per il mondo intero la vita di un paio di jeans. Da una fattoria di cotone in Texas, alle fabbriche di tintura e tessitura in Cina, passando per la filatura in Bangladesh e Sri Lanka, torna negli Stati Uniti per i magazzini, finisce in Africa per lo smaltimento. Così rivela le ricadute del nostro guardaroba sull’ambiente. Un tour-de-force provocatorio nel fast fashion, che parla di economia globale e di come tutti noi possiamo orientarla.

Bédat osserva e descrive lavoratori costretti a “produrre capi con la stessa efficienza delle macchine” e a spedire gli articoli “con la stessa velocità dei robot pronti a sostituirli“.  Ma affronta anche il grande tema dei rifiuti, problema sul quale l’industria della moda sta riflettendo collettivamente, soprattutto aumentando la circolarità. Nel fast fashion i jeans finiscono in discarica o vengono spediti nei Paesi in via di sviluppo dove, scrive l’autrice, “sono venduti per pochi centesimi nei mercati di seconda mano o sepolti e bruciati in montagne di rifiuti“.

Il volume è stato tra i finalisti dei Book of the Year 2021 del Financial Times. Un libro denuncia di un modello che si rivela totalmente insostenibile non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale. Destinato ai consumatori che spesso preferiscono acquistare di più a un prezzo minore, senza pensare a cosa nasconde un certo tipo di consumismo.

In occasione dell’uscita del volume in Italia, Maxine Bédat sarà protagonista sabato 11 giugno al Festival della Green Economy di Parma, per discutere di nuovi modelli economici e produttivi sostenibili, dal punto di vista sia economico che sociale.

Levi’s: l’intramontabile guarda al futuro, il 501 diventa circolare

1985. Nick Kamen entra in una lavanderia a gettoni di una New York degli anni ’50, sfila t-shirt nera e jeans sulle note di ‘I Heard It Through the Grapevine’, infila tutto in lavatrice e resta in boxer, leggendo un quotidiano, in attesa di poterli re-indossare. ‘Levi’s 501 or nothing’, recitava lo slogan.

Se il jeans è il capo “circolare” per eccellenza – indossato fino al cedimento, accorciato, trasformato in borse, toppe, accessori d’ogni tipo -, il 501 è probabilmente il modello più conosciuto della storia. Intramontabile, fedele a se stesso per 149 anni (tanti ne ha compiuti a maggio) eppure capace di stare al passo con i tempi.

Era necessario, perché l’industria dei jeans è tra le più insostenibili del mondo della moda.

Per crearne un paio tradizionali occorrono circa 7.500 litri di acqua, tra la produzione del cotone e le lavorazioni di finissaggio. Il ‘mea culpa’ pubblico di Levi’s è una delle operazioni di comunicazione aziendale più riuscite: “Lo confessiamo – ammette l’azienda – Non siamo sempre andati nella direzione giusta. Essere un marchio di abbigliamento estremamente sostenibile è un obiettivo che ci sta a cuore, e ci stiamo ancora lavorando. Abbiamo fatto passi da gigante in diversi ambiti e ci sforziamo di migliorare in altri, ma la strada è ancora lunga”.

Nasce così, quest’anno, il 501 Designed for Circularity, un modello realizzato con cotone organico riciclato al 100%. Nei processi di lavorazione del capo vengono eliminati tutti gli elementi inquinanti, per evitare di interrompere il processo di riciclo del cotone.

Anche lo slogan ora sposta il focus dalla creazione del mito alla consapevolezza del cliente: ‘Buy better, wear longer’ (‘Compra meglio, indossa più a lungo’).

L’azienda fa ricerca su innovazioni che allunghino la vita dei prodotti: canapa cotonizzata, Levi’s WellThread, Water<Less, con cui si riducono il consumo di acqua e gli sprechi in generale. “La nostra concezione di durevolezza va ben oltre il semplice uso quotidiano. I prodotti sono concepiti per essere vissuti e per diventare ancora più belli con gli anni”, spiegano.

Dall’introduzione del progetto Water<Less, lanciato nel 2011, il risparmio di acqua è stato di oltre 4,2 miliardi di litri. Sono stati riutilizzati e riciclati 9,6 miliardi di litri d’acqua. Il 75% del cotone usato al momento proviene da fonti più sostenibili (l’obiettivo del 100% è stato fissato per il 2025, anno in cui si prevede di alimentare con il 100% di energia rinnovabile gli impianti di proprietà), e circa l’80% dei prodotti è confezionato in stabilimenti che applicano programmi Worker Well-Being, a tutela dei lavoratori. La strada da fare è ancora lunga, ma il sentiero è quello giusto.

Slow fashion

Cavagnero: “La moda, il ‘green nudging’ e la parentela col food”

In principio furono la diffusione della BSE per la carne bovina, seguite da una serie di altri scandali, tra cui le frodi equine e le mozzarelle blu tedesche. Stiamo parlando degli anni ‘70, e proprio da allora si è cominciato a discutere di sicurezza alimentare – intesa come sicurezza igienico sanitaria ma anche sicurezza informativa – in ambito food. Così, alcuni ingredienti hanno cominciato a essere rimossi e sono nate numerose nuove norme, tra cui la regolamentazione delle produzioni biologiche e l’etichettatura obbligatoria, nonché certificazioni di prodotto, che hanno permesso ai consumatori di essere informati su cosa si trovavano nel piatto.

Sostenibilità e food, come dicevamo, vanno di pari passo da quasi 50 anni: si pensi che la prima certificazione in ambito alimentare è del 1978 ed è una vera pietra miliare, a ricordarci quanto siamo attenti a ciò che ingeriamo. “Per quanto riguarda invece il comparto moda“, racconta a GEA Sara Cavagnero, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e dottoranda di ricerca in moda sostenibile e proprietà intellettuale, “non c’è stata la stessa attenzione“. Ma se andiamo a vedere gli sviluppi in questo secondo ambito, “ritroviamo pattern similari a quelli del food: anche in questo caso si parla di elementi che entrano a contatto con il corpo, di sostanze chimiche utilizzate, di coloranti, di modalità di produzione, di tracciabilità della filiera, di interazione sociale e dinamiche culturali. E, come per il mondo food, anche in questo caso abbiamo alcuni “ingredienti” che entrano in gioco“. E che fanno la differenza. Non solo: anche le risorse – ambientali e umane – utilizzate nei due sistemi, a ben guardare, sono le stesse. “Quando parliamo di fibre naturali, quali il cotone o la viscosa (che costituiscono circa il 27% delle fibre presenti sul mercato), facciamo riferimento a materie prime che hanno un’origine agricola e che richiedono lunghe ore di lavoro nei campi. Per l’agricoltura, come per la moda, servono ingenti risorse idriche, legate ai processi di produzione e lavorazione. Ancora, come per le ricette di prodotti alimentari, anche nella moda le tecniche di lavorazione, rammendo e manutenzione variano da luogo a luogo e vengono trasmesse di generazione in generazione“. Pure nel mondo della moda è sorta, molto più recentemente, l’esigenza di ottenere informazioni sui capi e sulle relative modalità di produzione, molto spesso fornite tramite certificazioni nate proprio nel settore alimentare. “Anche i vocaboli utilizzati nel marketing ricordano quelli propri del settore food: ‘moda naturale’, ‘moda vegana’, ‘moda bio’ ricalcano gli stessi termini utilizzati per il settore alimentare“.

ANNO 2008, SVOLTA SOSTENIBILE NEL MONDO FASHION

Nell’ambito fashion, l’anno da tenere presente è il 2008: in quel momento, grazie a Kate Fletcher – professoressa di Sostenibilità, Design e Moda presso il Centre for Sustainable Fashion della University of the Arts di Londra – si è cominciato a parlare di fashion sostenibile con varie accezioni – moda slow, moda etica, moda green o eco.

DA SLOW FOOD A SLOW FASHION

Proprio le molteplici correlazioni con il mondo alimentare hanno portato la Professoressa Fletcher all’elaborazione, ispirata dal concetto di “slow food” coniato e fondato da Carlo Petrini, al termine “slow fashion”, che stabilisce nuovi principi per un approccio più consapevole e responsabile al mondo della moda. Lo slow fashion si basa su alcuni principi fondamentali: la qualità dei materiali (di prima scelta, riciclati, naturali o ecologici), l’estetica (i capi devono essere belli e durare ben oltre una sola stagione), la filiera (dove ogni figura deve poter essere rintracciabile ed eticamente ineccepibile). “Una teoria completamente in antitesi rispetto al fast fashion, dove ormai le collezioni non sono 4, come le stagioni, ma 52, ovvero una per settimana“, ha spiegato, “oppure addirittura 365, per i brand di ultra-fast fashion: escono nuovi prodotti ogni giorno“.

SOSTENIBILE SI’, MA NON PER OGNI ASPETTO

Sviluppo sostenibile è un concetto complesso, che racchiude tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica.
Sebbene oggi i brand tendano a richiamare soprattutto la componente ambientale e molto meno quella sociale, per dichiararsi sostenibile, occorrerebbe soddisfare le tre aree: non basta quindi utilizzare tessuti e tecniche produttive considerate meno impattanti sull’ambiente. “A prescindere da un utilizzo dei tessuti rispettoso, bisogna considerare anche tutto il resto“, puntualizza Cavagnero. “Come la questione della giustizia, dell’etica, del rispetto dei lavoratori, della giusta paga… Ma queste sono questioni decisamente meno esplorate“. Come anche la diversità dei corpi che vengono mostrati – e che oggi porta verso un concetto di “inclusivity“, ma nel 2008 erano temi ancora impopolari. Come il concetto della moda legata alla disabilità, di cui è cominciato a parlare solo recentemente, e che finalmente inizia a coinvolgere sfere di popolazione che erano state, finora, “dimenticate”.

IL GREEN MARKETING

Se si leggono i report delle aziende, la parte ambientale risulta sempre enfatizzata, mentre la parte sociale viene spesso ‘tralasciata’. Anche i colori utilizzati nei marketing sono sempre gli stessi: il verde, associato alla natura, il blu al mare. La comunicazione è usata a scopo pubblicitario ma la componente sociale, con il suo poco appeal, non è mai sviluppata“. Dagli anni ‘80 si è, infatti, diffuso un filone definito “green marketing”, che ha esplorato l’impatto sul consumatore di colori associati alla natura e parole come bio, eco, etc. Il risultato: “Sono stati osservati effetti positivi sul consumatore, che portavano a una maggiore propensione all’acquisto“. Il termine associato a queste strategie di marketing è “nudging” (in particolare “green nudging”), che si traduce come “spingere dolcemente”, ovvero far compiere azioni senza imporle ma creando al contrario le condizioni adatte per influenzare le persone.

LA TRACCIABILITÀ

Il discorso sulla tracciabilità nel mondo della moda “è molto complesso, soprattutto per grandi brand che hanno produzioni dislocate in ogni angolo del Pianeta“, spiega Cavagnero. “Pensiamo a quanto è lunga la filiera di una t-shirt di cotone, che parte dal campo, generalmente in Eurasia, poi porta la fase del trattamento e trasformazione in filato in Cina, che ha il know-how e i macchinari per farlo, per poi passare alla realizzazione del capo che avviene nel sud est asiatico, Bangladesh e India, fino alla vendita, in Europa o negli Stati Uniti… E abbiamo già fatto il giro del mondo!”.
Diverse ricerche hanno dimostrato “che la visibilità della filiera si riduce al primo tassello, ovvero il fornitore diretto. Spesso il fornitore di primo livello, scelto per ragioni di convenienza economica, è l’unico elemento noto, mentre si ignora tutto ciò che sta dietro“, e queste logiche erano le uniche a guidare il settore fino a poco tempo fa.
Oggi siamo agli albori di un cambiamento, ma la scelta di un fornitore rispetto a un altro solo perché sostenibile è pura utopia: “spesso gli Audit sono falsificati, oppure solo “aggiustati”, come dimostra una ricerca della Columbia University“. Da un po’ di anni, però, “le cose stanno cambiando: all’interno delle Nazioni Unite dal 2018 è nato un gruppo di lavoro che si occupa della tracciabilità nella filiera moda e calzature, a cui partecipo come esperta. Essendo un progetto intergovernativo e sovranazionale, si pone come strumento neutrale di ricerca e valutazione“. Ma non basterà se non sarà adeguato sulle diverse tipologie di aziende, anche sulle micro e medio-piccole, vera spina dorsale della filiera.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Ma come sarà lo scenario nei prossimi 10 anni? “Per capire il futuro del settore moda si può guardare quello che è successo al food“, spiega Cavagnero, “ci sarà una maggiore attenzione a tutto ciò che è local, alla produzione più vicina, a una maggior sinergia tra designer e acquirente. Non avverrà dall’oggi al domani, ma sarà un cambiamento lento. Anche se, ammetto, sarebbe meglio che fosse velocissimo“.

Gruppi di acquisto solidale per una spesa sostenibile e a Km0

Da diversi anni ormai hanno preso piede in tutta in Italia i Gas, gruppi di acquisto solidale, una fitta rete di cittadini che si unisce per acquistare prodotti (per lo più alimentari) in maniera etica ed economica. La filosofia che sta alla base di queste iniziative è, infatti, la cultura etica, il rispetto dell’ambiente, la produzione senza pesticidi e la tutela della dignità dei lavoratori.

UNA CULTURA ‘SOLIDALE’ CHE PARTE DAI PRIMI ANNI ’90

Secondo E-circles i Gas in Italia sono quasi 600, per migliaia di affiliati. I gruppi più numerosi sono al Nord: 153 nel Nord Ovest, 101 nel Nord Est e 161 tra Emilia e Toscana. Sebbene forme di azione simili ai Gas fossero presenti già prima degli anni Novanta, si fa risalire la nascita di questi gruppi a un incontro dal titolo ‘Quando l’economia uccide…bisogna cambiare’, tenutosi all’Arena di Verona nel 1993. Poco dopo, nel 1994, nasce il primo gruppo: alcune famiglie di Fidenza (Parma) decidono di impiegare il loro tempo libero per conoscere sul campo i produttori di cibi sani e biologici, per poi acquistarli e distribuirli all’interno del gruppo. L’idea diventa esemplare: il passaparola porta alla nascita di esperienze simili, una a Reggio Emilia e una a Piacenza. La pratica si diffonde molto velocemente, ogni gruppo nascente prende spunto da quelli pre-esistenti, ma ognuno è diverso dall’altro per la propria storia. Un boom di ‘nascite’ si registra nel 2001, anno in cui si verifica un forte incremento delle persone interessate a queste iniziative, e prosegue in maniera significativa per tutto il decennio successivo, forse anche grazie alla rapida diffusione di internet.

IL CASO DI ‘LO-LA’ UNO DEI PIU ANTICHI GAS DI MILANO

Anche a Milano si contano decine di Gas per centinaia di ‘affiliati’. Uno dei più ‘antichi’ è il Lola, nato nel settembre 2008 per iniziativa di un nucleo di abitanti dei quartieri di zona 3 di Milano, Loreto e Lambrate (da qui l’acronimo LoLa); il coordinatore è Maurizio Lauro. “Attualmente – racconta a GEA – il nostro Gas è composto da 72 iscritti, di quasi tutte le fasce d’età. Nei giorni scorsi abbiamo distribuito un questionario per conoscere esattamente ‘chi siamo’ e stasera faremo una riunione. Abbiamo notato che manca nel nostro gruppo la fascia di età che va dai 18 ai 30 anni. Per questo stiamo pensando di farci conoscere anche nelle università, visto che gravitiamo intorno al quartiere di Città Studi“.

In generale LoLa è costituito da persone appartenenti a un ampio arco di età – da famiglie con figli in età scolare a pensionati – e di professioni, residenti anche in zone limitrofe. Il gruppo, facendo proprie le pratiche della solidarietà sociale dei gruppi di acquisto solidale, persegue diverse finalità come il consumo critico e sostenibile, la diffusione di prodotti biologici, naturali, eco-compatibili e del commercio equo e solidale, per valorizzazione la natura e l’ambiente. Un altro obiettivo è poi il sostegno ai piccoli produttori, possibilmente biologici, e alle cooperative sociali di produzione (costituite ad esempio da detenuti o da soggetti diversamente abili), per stabilire con loro rapporti diretti che garantiscano una equa remunerazione. Il gas punta poi alla promozione della cultura agro-alimentare dei prodotti genuini e tradizionali, rispettosa dell’uomo, dell’ambiente e della biodiversità e si impegna a cercare produttori in un’area geografica vicina a Milano proprio per perseguire i principi di eco-sostenibilità della ‘filiera corta e dei prodotti a km zero.

IL RISPARMIO ECONOMICO

“Acquistiamo tutti i tipi di alimenti – prosegue Lauro – frutta, verdura, olio, vino, marmellate, ma anche carta da cucina e carta igienica. In ogni caso ci informiamo sempre sui nostri produttori e sul loro impegno nel rispetto dell’ambiente”. Oltre all’aspetto etico c’è anche quello economico. “Saltando l’intermediazione della grande distribuzione – spiega Lauro – si riesce a risparmiare. Inoltre, se con gli ordini superiamo un determinato importo, a volte non ci fanno pagare le spese di trasporto degli alimenti nella nostra sede“. Attenzione poi viene prestata anche a realtà che si distinguono per il proprio impegno per la bio diversità. “Ad esempio – dice – ci riforniamo da aziende che si sono impegnate a recuperare varietà di riso che si ritenevano perdute“.

ORDINI VIA MAIL E RITIRO IN SEDE

Ma come funziona, in concreto, il Gas? “Esistono referenti per ogni prodotto – prosegue Lauro -. Ad esempio io mi occupo del riso, ma ci sono quelli dell’olio, del vino, del pane. Ad ogni ‘gasista’ viene poi mandato via mail un foglio excel su quel prodotto sul quale l’associato deve segnare la quantità richiesta. Il responsabile poi chiude l’ordine e lo invia al produttore. Quando i prodotti sono pronti, le aziende ci portano gli alimenti in sede e noi comunichiamo gli orari in cui i ‘gasisti’ possono venirli a ritirare e a pagare. Sul tavolo vengono fatti ‘mucchietti’ di prodotti con il nome dell’associato e poi questo passa a ritirarli. Prima del Covid la sede, nei giorni di ritiro, si trasformava in un vero e proprio mercato, con chiacchiere e grandi saluti. Adesso purtroppo, per ragioni legati alle prescrizioni anti contagio, siamo più scrupolosi e anche i pagamenti avvengono solo attraverso Satispay o sistemi elettronici“.

Daddi (Scuola Superiore S.Anna): Il progetto Tackle per un calcio green

Il calcio inquina. E se ne stanno accorgendo anche i protagonisti. Dalle società alle istituzioni – sempre più coinvolte in iniziative dedicate alla sostenibilità – fino ai tifosi. Uno dei progetti europei più interessanti degli ultimi anni in Italia è stato ‘Tackle‘, coordinato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e cofinanziato dal programma ‘Life’ dell’Unione europea: tra il 2018 e il 2021 ha raccolto le migliori pratiche sulla gestione ambientale nel mondo del calcio con l’obiettivo di migliorarne quella delle partite, innalzando il livello generale di consapevolezza e attenzione sul tema. Il progetto è stato finalizzato lo scorso marzo, in una conferenza intitolata ‘Environmental Sustainability through Professional Football’, presso uno degli stadi coinvolti nel progetto, l’Olimpico di Roma, alla quale hanno partecipato anche rappresentanti dell’Uefa e di diverse società italiane ed europee. Sono stati illustrati i risultati raggiunti nel corso di questi quattro anni, nei quali sono state redatte linee guida poi applicate in una serie di prove pilota nei 12 stadi europei coinvolti nel progetto: dalla mobilità dei tifosi alla gestione dell’energia, dell’acqua e dei rifiuti, fino ai criteri ecologici per la selezione di alimenti, bevande e merci e alla governance. Lo scopo ultimo è stato fornire a istituzioni e società più strumenti possibile per produrre benefici ambientali con le loro azioni. Il professor Tiberio Daddi – project manager del progetto e docente della Scuola Superiore Sant’Anna – ha parlato a GEA di Tackle e dei margini di crescita del calcio in ambito sostenibilità.

Come ha trovato il mondo del calcio rispetto al tema della sostenibilità? Sono stati compiuti dei passi avanti?
“Quattro anni fa il calcio era più indietro rispetto ad altri settori. In questo ambito la questione della sostenibilità ambientale è stata declinata più in ottica sociale, assorbita da una prospettiva che comprendeva anche altre tematiche quali razzismo, solidarietà, inclusione, che spesso si ritrovavano nei bilanci di sostenibilità delle società, lasciando in secondo piano il focus sull’ambiente. Ora è invece altrettanto evidente che il calcio sta correndo velocemente, come dimostrano le numerose iniziative, la comunicazione adottata e i documenti programmatici di società e istituzioni, che includono terminologia e rimandi che prima mancavano. Un esempio è la strategia sulla sostenibilità adottata dalla Uefa recentemente. Insomma, il calcio sta recuperando terreno”.

Qual è stato il ruolo di Tackle in questa crescita?
“Non voglio attribuirmi troppi meriti, sono stati tanti gli attori protagonisti. Tackle ha giocato di sponda con numerosi club e istituzioni, che hanno trovato in noi un interlocutore preparato con cui discutere e fare networking. Questo è stato possibile grazie alla collaborazione con i nostri partner (tra cui Uefa, Figc e diverse federazioni calcistiche europee, ndr). Anche molte società che all’inizio non erano parte del progetto si sono interessate a noi, avevano le risorse e hanno voluto collaborare. Tackle ha dato loro strumenti e linee guida e ha avuto la sua importanza. Siamo stati citati, ad esempio, nel recente “Climate Report” pubblicato da Juventus. Abbiamo lavorato con il Porto sul calcolo del carbon footprint e anche la Uefa ha fatto riferimento alle nostre linee guida affinché venissero replicate all’interno degli stadi”.

L’impegno della Scuola Superiore Sant’Anna non si esaurisce con Tackle: ci sono nuovi progetti in cantiere?
“Sì e interesseranno anche altri sport. Siamo partner di “Green Coach”, progetto che si concentra sulla sostenibilità nel calcio amatoriale e vede la partecipazione di diverse federazioni europee. C’è poi “Goals”, di cui siamo capofila, il cui obiettivo è migliorare la governance ambientale nelle organizzazioni calcistiche, con particolare focus sul calcolo dell’impatto ambientale di una partita di calcio. Nell’ambito di Goals stiamo lavorando al lancio di un tool intuitivo per supportare i club, che potranno calcolare la loro impronta ambientale, così da stabilire le priorità e poterle calibrare. Consentirà loro di costruire una strategia e un piano di azione. Presto sarà disponibile e inviteremo le società a testarlo per calcolare la loro footprint”.

Come funzionerà nel dettaglio questo tool?
“Si baserà su un metodo di valutazione di Life Cycle Assessment (Lca), raccomandato nel dicembre 2021 dalla Commissione europea. Al momento è considerato il più efficace per valutare le prestazioni ambientali di un’organizzazione, ma anche di un prodotto o di un servizio: vengono valutate 16 diverse categorie, tra cui la carbon footprint e la water footprint. Per essere applicato ha bisogno di competenze e strumenti adeguati. Per questo nel progetto “Goals” abbiamo calcolato l’impronta ambientale di un match di una società partner, il Real Betis, che ci ha fornito i dati. Sulla base di tale attività, stiamo costruendo una piattaforma online che faciliterà i club nel calcolo. Ci saranno delle interfacce grafiche che permetteranno l’inserimento di dati ambientali: poi sarà la piattaforma stessa a calcolare automaticamente la footprint”.

Parlava anche di altri progetti non legati al calcio.

“Uno è “Games”, un’estensione delle nostre attività ad altri sport. In questo caso biathlon, atletica e floorball – una versione indoor dell’hockey su ghiaccio, ndr – che si praticano in contesti diversi: il primo è invernale, il secondo necessita di grandi spazi e il terzo si gioca in palazzetto. Anche a loro applicheremo un approccio sostenibile, con particolare attenzione al tema della decarbonizzazione. Infine, “Access”, una sinergia tra calcio e rugby che vuole studiare l’impatto delle grandi manifestazioni sportive sulle città, nonché le interazioni che si vengono a creare tra organizzatori di eventi, istituzioni e utenti, per facilitarne la cooperazione”.

Trasporti, Giovannini: “Progettare sistemi di mobilità sostenibili”

Durante il Consiglio dell’Ocse, tenutosi oggi a Parigi, Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (Mims), ha presentato la strategia del Mims in linea con gli impegni che l’Italia ha assunto a livello internazionale ed europeo sulla giusta transizione ecologica e digitale e sull’urgente necessità di ridurre le disuguaglianze, anche territoriali. L’obiettivo è quello di creare migliori connessioni ferroviarie e stradali tra i territori riducendo il gap infrastrutturale tra il Nord e il Sud del Paese e con le aree interne, riqualificare l’edilizia pubblica, rinnovare i sistemi di mobilità urbana in senso ecologico con l’acquisto di mezzi non inquinanti, migliorare le connessioni ferroviarie con porti e aeroporti, accelerare e incentivare la decarbonizzazione dei trasporti.

L’Unione europea indica la strada e mai come ora è importante perseguire i programmi di decarbonizzazione, puntando a una maggiore diversificazione energetica e a una rapida transizione orientata alle fonti rinnovabili”, ha affermato il Ministro sottolineando l’importanza di impiegare tutte le energie per sfruttare al meglio le risorse disponibili. Il Ministro ha però chiarito che per riuscire in questa missione è necessario “programmare gli investimenti seguendo una logica sinergica e integrata”.

La transizione verde – ha proseguito Giovannini – è un’opportunità per ripensare il modo di realizzare le infrastrutture e di progettare sistemi di mobilità sostenibili”. Infatti, grazie ai nuovi criteri sviluppati dal ministero lo scorso anno, gli investimenti futuri saranno basati su nuove regole che puntano a migliorare “ la qualità della vita delle persone, il benessere sociale e la qualità dell’ambiente” perché, ora più che mai, “lo sviluppo sostenibile è l’unico modello perseguibile“, così Giovannini ha concluso il suo intervento.