Usa, Trump aumenta pressione sulla Fed: licenziata governatrice Lisa Cook

Donald Trump ha annunciato il licenziamento “immediato” della governatrice della Federal Reserve Lisa Cook, con l’accusa di frode per un prestito immobiliare personale, aumentando la pressione sulla Banca centrale americana, istituzione indipendente.

In una lettera della Casa Bianca firmata di proprio pugno e pubblicata sul suo social network Truth Social, il presidente americano ha scritto alla diretta interessata che era “destituita dal suo incarico nel Consiglio dei governatori, con effetto immediato”. “Ho stabilito che ci sono motivi sufficienti per licenziarla dal suo incarico”, ha insistito il presidente, in linea di principio vincolato giuridicamente in materia.

Il miliardario repubblicano ha fatto della Fed, e in particolare del suo presidente Jerome Powell, il suo nemico numero uno a causa della sua riluttanza ad abbassare i tassi.

Venerdì, Donald Trump aveva avvertito che era disposto a “licenziare” Lisa Cook se non si fosse dimessa, mentre è accusata da un collaboratore del presidente di aver falsificato dei documenti per ottenere un mutuo immobiliare. Aveva già esercitato pressioni perché la donna afroamericana, la prima a ricoprire la carica di governatrice della Fed, si dimettesse.

Nominata nel 2022 dall’allora presidente Joe Biden (2021-2025), ex collaboratrice di Barack Obama (2009-2017), Lisa Cook è sotto pressione da diversi giorni da parte della Casa Bianca. Il responsabile dell’Agenzia per il finanziamento degli alloggi (FHFA), Bill Pulte, nominato da Trump, l’ha accusata di aver “falsificato documenti bancari e registri di proprietà per ottenere condizioni di prestito favorevoli” per due mutui immobiliari, secondo l’agenzia Bloomberg.

Cook, accusata di aver dichiarato due residenze principali – una nel Michigan (nord) e l’altra in Georgia (sud) – aveva risposto la scorsa settimana in una dichiarazione all’AFP che il suo prestito era stato contratto prima che lei entrasse a far parte della Fed. “Non ho intenzione di lasciarmi intimidire e di dimettermi dal mio incarico”, aveva assicurato. Nella sua lettera, Trump accusa la Cook di aver tenuto “come minimo una condotta che denota grave negligenza nelle transazioni finanziarie, il che solleva interrogativi sulla sua competenza e affidabilità come regolatrice finanziaria”. È la prima volta nella storia della Federal Reserve che un presidente degli Stati Uniti licenzia un governatore, riferisce la CNN.

È probabile che la decisione di Donald Trump sarà rapidamente contestata in tribunale, il che consentirebbe a Lisa Cook di rimanere in carica per tutta la durata del procedimento.

Per la senatrice democratica Elizabeth Warren, si tratta di una “presa di potere autoritaria che viola palesemente la legislazione sulla Federal Reserve”. In un comunicato, ha chiesto che la decisione “sia annullata da un tribunale”. Il presidente repubblicano conservatore ha da settimane Jerome Powell nel mirino. Quest’ultimo si è tuttavia mostrato venerdì aperto a un prossimo taglio dei tassi, al fine di sostenere l’occupazione a causa di un possibile “rapido” deterioramento del mercato del lavoro. Il mandato della Fed è quello di fissare i tassi di interesse in modo tale da mantenere stabile il tasso di inflazione (intorno al 2%) e garantire la piena occupazione. Tuttavia, i dazi doganali introdotti da Donald Trump ad aprile stanno sconvolgendo l’economia. Il presidente americano ha soprannominato Powell “Troppo tardi” perché, secondo lui, avrebbe dovuto abbassare i tassi “un anno fa”, nonostante le pressioni inflazionistiche.

Powell da Jackson Hole apre al taglio dei tassi Usa ma avverte: “Effetti dei dazi già visibili”

Cautela “motivata dai dati”, soprattutto sull’occupazione e sull’inflazione, ma le “condizioni sono cambiate” rispetto ad un anno fa, nonostante “nuove sfide da affrontare”. Tuttavia, “le prospettive di base e il mutevole equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un adeguamento del nostro orientamento di politica monetaria”. Jerome Powell ha scelto il palco più prestigioso della finanza Usa per aprire ad un possibile taglio dei tassi di interesse. Proprio a Jackson Hole, tra i banchieri centrali, in quello che è stato il suo ultimo intervento da governatore della Fed prima della scadenza naturale del suo mandato (maggio 2026). Una delle parole più ricorrenti del suo attesissimo discorso è “incertezza”. Perchè “dazi doganali significativamente più elevati tra i nostri partner commerciali stanno rimodellando il sistema commerciale globale. Una politica migratoria più restrittiva ha portato a un brusco rallentamento della crescita della forza lavoro”. E nel lungo periodo, ha spiegato Powell, anche i cambiamenti nelle politiche fiscali, di spesa e di regolamentazione potrebbero avere “importanti implicazioni per la crescita economica e la produttività”. Insomma, “vi è notevole incertezza su dove tutte queste politiche si stabilizzeranno e sui loro effetti duraturi sull’economia”.

Ricordando che il rapporto sull’occupazione Usa di luglio ha mostrato che la crescita dei posti di lavoro retribuiti è rallentata a un ritmo medio di soli 35.000 al mese negli ultimi tre mesi, in calo rispetto ai 168.000 al mese del 2024, ma che comunque “il tasso di disoccupazione, pur essendo in leggero aumento, si attesta su un livello storicamente basso del 4,2% ed è rimasto sostanzialmente stabile nell’ultimo anno”, il presidente della Fed ha chiarito che i rischi sul mercato del lavoro sono orientati al ribasso. E se tali rischi si concretizzassero, possono farlo rapidamente “sotto forma di un netto aumento dei licenziamenti e della disoccupazione”. Allo stesso tempo, ha spiegato Powell, la crescita del Pil ha subito un notevole rallentamento nella prima metà di quest’anno, attestandosi a un ritmo dell’1,2%, circa la metà del 2,5% previsto per il 2024. Il calo della crescita “ha riflesso in gran parte un rallentamento della spesa dei consumatori”. E come per il mercato del lavoro, parte di questo rallentamento “riflette probabilmente una crescita più lenta dell’offerta o del prodotto potenziale”.

Atteso era anche un riferimento all’impatto dei dazi Usa sull’inflazione americana. A tal riguardo, Powell ha confermato che gli “effetti sui prezzi al consumo sono ormai chiaramente visibili”: “Prevediamo che tali effetti si accumuleranno nei prossimi mesi, con elevata incertezza su tempi e importi. La questione fondamentale per la politica monetaria è se questi aumenti dei prezzi possano aumentare significativamente il rischio di un problema di inflazione persistente. Uno scenario di base ragionevole prevede che gli effetti saranno relativamente di breve durata: una variazione una tantum del livello dei prezzi. Naturalmente, una tantum non significa tutto in una volta. Ci vorrà ancora tempo prima che gli aumenti tariffari si diffondano lungo le catene di approvvigionamento e le reti di distribuzione. Inoltre, le aliquote tariffarie continuano a evolversi, prolungando potenzialmente il processo di aggiustamento”.

Proprio l’inflazione è uno dei due pilastri su cui si basano le mosse della Fed. Anche qui, Powell ha lanciato il proprio monito: l’aumento delle tariffe ha iniziato a far salire i prezzi in alcune categorie di beni. Le stime basate sugli ultimi dati disponibili indicano che i prezzi totali delle spese per consumi personali (Pce) sono aumentati del 2,6% annuale (a luglio). Escludendo le categorie volatili di cibo ed energia, l’indice core Pce è aumentato del 2,9%, al di sopra del livello di un anno fa. L’inflazione “è al di sopra del nostro obiettivo da oltre quattro anni” e “rimane una preoccupazione importante per famiglie e imprese”. Tuttavia, le aspettative a lungo termine sembrano rimanere ben ancorate e coerenti con il nostro obiettivo del 2%. Considerato tutto questo, Powell ha infine aperto alla possibilità di un futuro taglio dei tassi di interesse. Senza però indicare tempi ed entità, visto che prima della prossima riunione della Fed (16-17 settembre) usciranno gli ultimi dati sull’occupazione e sull’inflazione di agosto. Nel breve termine, ha spiegato il governatore della Fed, “i rischi per l’inflazione sono orientati al rialzo e i rischi per l’occupazione al ribasso: una situazione difficile. Quando i nostri obiettivi sono in tensione in questo modo, il nostro quadro di riferimento ci impone di bilanciare entrambi i lati del nostro doppio mandato. Il nostro tasso di riferimento è ora di 100 punti base più vicino alla neutralità rispetto a un anno fa, e la stabilità del tasso di disoccupazione e di altri indicatori del mercato del lavoro ci consente di procedere con cautela nel valutare modifiche al nostro orientamento di politica monetaria”. Tuttavia, “con la politica monetaria in territorio restrittivo, le prospettive di base e il mutevole equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un adeguamento del nostro orientamento di politica monetaria”.

Una risposta indiretta alle pressioni del presidente Usa, Donald Trump, che da mesi non usa mezzi termini e, anzi, non ha risparmiato insulti a Powell, ‘colpevole’ di non aver agito più rapidamente nel tagliare i tassi. Proprio mentre era in corso il discorso a Jackson Hole, il tycoon ha alzato il tiro contro Lisa Cook, membro del board dei governatori della Fed, accusata dal direttore della Federal Housing Finance Agency di aver “falsificato i documenti per ottenere condizioni di prestito più favorevoli per due immobili”: “Se Cook non si dimette la licenzierò io” ha dichiarato Trump davanti ai giornalisti, a Washington.

Nel frattempo Wall Street esulta. Alle 17:30 il Dow Jones saliva di oltre il 2%, il Nasdaq guadagnava l’1,96% e l’S&P 500 segnava un +1,6%.

Ucraina, vertice Putin-Zelensky in vista dopo l’incontro degli europei con Trump

Donald Trump “avvierà i preparativi” per un incontro tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin al termine di un “ottimo” colloquio con il presidente ucraino e diversi leader europei.

Il presidente russo ha acconsentito a questo futuro incontro, che dovrebbe avvenire nelle prossime due settimane, durante una conversazione telefonica con il suo omologo americano, ha reso noto il cancelliere tedesco Friedrich Merz. “Siamo pronti per un incontro bilaterale con Putin e dopo di ciò ci aspettiamo un incontro trilaterale“ con la partecipazione di Donald Trump, ha dichiarato alla stampa il capo di Stato ucraino. Le eventuali concessioni territoriali richieste dalla Russia all’Ucraina sono ”una questione che lasceremo tra me e Putin”, ha aggiunto. “È stata discussa l’idea che sarebbe necessario studiare la possibilità di portare a un livello più alto la rappresentanza dell’Ucraina e della Russia“, ha reso noto il consigliere diplomatico del presidente russo Yuri Ushakov, citato dall’agenzia Tass.

Donald Trump ha precisato sul suo social network Truth Social che l’incontro, in un luogo ancora da definire, sarà seguito da un incontro a tre con lui stesso, volto a porre fine a tre anni e mezzo di conflitto, scatenato dall’invasione russa. Lunedì, il presidente americano e i suoi ospiti hanno “discusso delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina, garanzie che sarebbero fornite da vari paesi europei, in coordinamento con gli Stati Uniti d’America”, secondo il presidente americano. “Le garanzie di sicurezza saranno probabilmente decise dai nostri partner e ci saranno sempre più dettagli, perché tutto sarà messo nero su bianco e ufficializzato entro una settimana o dieci giorni“, ha detto da parte sua Zelensky. Mosca rifiuta qualsiasi garanzia di sicurezza che passi attraverso la NATO e il suo meccanismo di difesa collettiva, il famoso articolo 5.

Penso che abbiamo avuto un’ottima conversazione con il presidente Trump, è stata davvero la migliore”, ha confessato il capo di Stato ucraino nel primo pomeriggio. Ha poi aggiunto che Kiev ha offerto di acquistare armi americane per 90 miliardi di dollari, mentre il Financial Times parla di un budget di 100 miliardi finanziato dagli europei. Prima di una riunione allargata con i leader europei, i due uomini hanno avuto un colloquio bilaterale nello Studio Ovale, dove hanno risposto ad alcune domande dei giornalisti in tono cordiale, in netto contrasto con l’umiliazione pubblica subita da Volodymyr Zelensky nello stesso luogo alla fine di febbraio. “Grazie per l’invito e grazie mille per i vostri sforzi, i vostri sforzi personali per porre fine alle uccisioni e fermare questa guerra”, ha detto il presidente ucraino, che era stato accusato di ingratitudine l’ultima volta. Volodymyr Zelensky e gli europei hanno fatto di tutto per mettere Donald Trump nelle migliori condizioni dopo il suo incontro poco conclusivo di venerdì con Vladimir Putin, durante il quale il presidente russo non ha fatto alcuna concessione pubblica sull’Ucraina.

Il presidente ucraino indossava una giacca e una camicia nere che gli sono valse i complimenti di Donald Trump, attento ai segni di rispetto protocollare. Volodymyr Zelensky era stato criticato dai sostenitori di Donald Trump a febbraio per il suo abbigliamento di ispirazione militare, giudicato troppo informale. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha da parte sua affermato che l’Ucraina non dovrebbe essere costretta a fare concessioni territoriali nell’ambito di un eventuale accordo di pace. “La richiesta russa che Kiev rinunci alle parti libere del Donbass corrisponde, per dirla francamente, a una proposta che gli Stati Uniti rinuncino alla Florida”, ha affermato. Il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto di “aumentare le sanzioni” contro la Russia se i futuri colloqui fallissero, precisando che la questione senza dubbio più difficile, quella di eventuali concessioni territoriali, non era stata affrontata lunedì. Donald Trump ha ribadito che, a suo avviso, non è necessario un cessate il fuoco prima di un accordo di pace definitivo, mentre continua il conflitto più sanguinoso in Europa dalla seconda guerra mondiale, con attacchi di droni e missili balistici russi.

Prima dell’inizio dei colloqui con gli europei, il presidente americano ha detto al suo omologo francese Emmanuel Macron, in uno scambio apparentemente captato a sua insaputa da un microfono, parlando di Vladimir Putin: “Penso che voglia concludere un accordo per me. Capisci? Per quanto folle possa sembrare”. Il segretario generale della NATO Mark Rutte, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il primo ministro britannico Keir Starmer, la prima ministra italiana Giorgia Meloni, il presidente finlandese Alexander Stubb, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron hanno fatto fronte comune intorno a Volodymyr Zelensky lunedì alla Casa Bianca, in una dimostrazione di solidarietà diplomatica senza precedenti.

Trump annuncia “enorme accordo” con Giappone: dazi al 15%

Il presidente americano Donald Trump ha annunciato la conclusione di un “enorme” accordo commerciale con il Giappone, con una significativa riduzione dei dazi sulle automobili nipponiche, mentre resta ancora incerto il compromesso con l’Ue, il Messico e il Canada entro la scadenza del 1° agosto. “Abbiamo appena concluso un accordo commerciale enorme con il Giappone”, ha dichiarato martedì Donald Trump sulla sua piattaforma Truth Social, definendolo “senza precedenti”. “Il Giappone pagherà dazi doganali reciproci del 15% agli Stati Uniti”, ha affermato, ben al di sotto del sovrapprezzo del 25% che l’arcipelago rischiava di subire dal 1° agosto.

Il Giappone, sebbene sia un alleato chiave degli Stati Uniti, è attualmente soggetto agli stessi dazi doganali di base statunitensi del 10% applicati alla maggior parte delle nazioni, oltre a sovrattasse del 25% sulle automobili e del 50% sull’acciaio e l’alluminio. L’accordo con Tokyo porterà alla creazione di “centinaia di migliaia di posti di lavoro”, ha aggiunto Trump, citando investimenti giapponesi per “550 miliardi di dollari” sul suolo americano, senza fornire dettagli se non che “il 90% dei profitti andrà agli Stati Uniti”. “Riteniamo che sia un grande successo aver ottenuto la maggiore riduzione (dei dazi) tra i paesi con un surplus commerciale con gli Stati Uniti”, si è congratulato il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba.

L’annuncio arriva mentre il negoziatore Ryosei Akazawa era in visita a Washington per l’ottava volta. “Missione compiuta”, ha esultato.

Secondo Trump, il Giappone ha accettato di aprire “il commercio di automobili e pick-up, riso e una serie di altri prodotti agricoli” provenienti dagli Stati Uniti. Per quanto riguarda le automobili, la posta in gioco era alta: lo scorso anno le automobili rappresentavano quasi il 30% delle esportazioni del Giappone verso gli Stati Uniti. Nell’arcipelago, l’industria automobilistica rappresenta l’8% dei posti di lavoro, ben oltre la Toyota, primo costruttore mondiale. Tuttavia, a seguito dei dazi supplementari del 25% imposti da aprile sulle automobili, le esportazioni di auto giapponesi verso gli Stati Uniti sono crollate di un quarto in un anno a maggio e giugno. Secondo Ishiba, l’accordo raggiunto prevede che tali sovrattasse siano dimezzate e aggiunte ai dazi doganali preesistenti del 2,5%, per arrivare a una tassazione finale del 15%. A seguito di queste informazioni, le azioni Toyota sono salite di oltre il 14% alla Borsa di Tokyo verso le 03:30 GMT.

Mi rallegro vivamente che sia stato compiuto questo importante passo avanti, che dissipa l’incertezza che preoccupava le imprese private”, ha commentato Tatsuo Yasunaga, presidente del Consiglio per il commercio estero che riunisce le aziende esportatrici giapponesi. Tuttavia, “sulla base delle informazioni disponibili, è difficile valutare chiaramente l’impatto. Auspichiamo che il quadro generale venga chiarito al più presto”, ha avvertito.

D’altra parte, aumentare le importazioni di riso era negli ultimi mesi un tabù per Tokyo, che assicurava di difendere gli interessi degli agricoltori locali. “Abbiamo proseguito i negoziati per raggiungere un accordo che rispondesse agli interessi nazionali del Giappone e degli Stati Uniti” e “nulla impone sacrifici ai nostri agricoltori”, ha affermato mercoledì Ishiba. Il Giappone importa attualmente fino a 770.000 tonnellate di riso esente da dazi doganali e potrebbe importare ulteriori cereali americani entro tale limite, a scapito di altre origini, ha spiegato. D’altra parte, i dazi americani del 50% sull’acciaio e l’alluminio non sono interessati dall’accordo, né lo sono le spese per la difesa del Giappone, che Trump chiede di aumentare, ha precisato Ryosei Akazawa. Washington intende imporre dal 1° agosto massicci dazi aggiuntivi cosiddetti “reciproci”, inizialmente previsti per il 1° aprile e poi sospesi, a numerosi suoi partner commerciali, a meno che questi ultimi non concludano entro tale data accordi con gli Stati Uniti. L’amministrazione Trump conta attualmente quattro accordi di questo tipo: oltre al Giappone, il presidente americano ha annunciato martedì di averne concluso uno con le Filippine. Gli Stati Uniti hanno inoltre già raggiunto un accordo con il Regno Unito e il Vietnam. Martedì Trump ha illustrato i termini di un accordo quadro concluso con Giacarta, aprendo la strada a un accordo definitivo ancora da definire. “Domani arriverà l’Europa e il giorno dopo ne arriveranno altri”, ha assicurato Donald Trump martedì davanti ai senatori repubblicani. Trump ha decretato dazi doganali del 30% su tutte le importazioni provenienti dall’Ue e dal Messico a partire dal 1° agosto. Il Canada dovrà pagare un dazio aggiuntivo del 35% e il Brasile del 50%. Gli Stati Uniti hanno inoltre concordato una distensione con la Cina, dopo un aumento delle tensioni commerciali tra le due prime potenze economiche mondiali.

Dazi, lettere Trump ad altri 6 Paesi: stangata del 50% sul rame e prodotti dal Brasile

Il Brasile e il rame sono i due nuovi obiettivi dell’offensiva doganale di Donald Trump, il primo in nome della difesa dell’ex presidente Jair Bolsonaro, sotto processo per tentato colpo di Stato, e il secondo per proteggere la “sicurezza nazionale”. “Annuncio un dazio aggiuntivo del 50% sul rame, che entrerà in vigore il 1° agosto 2025, dopo aver ricevuto una valutazione approfondita in materia di sicurezza nazionale”, spiega il presidente americano sul suo social network, senza dubbio in riferimento a un’indagine del Dipartimento del Commercio. “Il rame è il secondo materiale più utilizzato dal Ministero della Difesa!”, tuona, evocando le esigenze del Paese per la costruzione di semiconduttori, aerei, navi, munizioni, centri dati e sistemi di difesa antimissile, tra le altre cose.

In nome del riequilibrio delle relazioni commerciali a vantaggio degli Stati Uniti, Donald Trump ha imposto ad aprile un dazio minimo del 10% sulle importazioni, anche se non possono essere prodotte in loco, ma con alcune esenzioni, in particolare per oro, rame, petrolio e medicinali. Martedì è tornato sulle eccezioni, prevedendo ad esempio un dazio del 200% sui prodotti farmaceutici e del 50% sul rame, una minaccia che ha fatto salire il prezzo del metallo di quasi il 10% a New York martedì, superando il suo massimo storico. Se i dazi sul rame entreranno in vigore, i prezzi dei beni fabbricati con questo metallo (frigoriferi, automobili, ecc.) potrebbero aumentare, come per gli altri prodotti soggetti a sovrattassa all’importazione.

Mercoledì il presidente americano ha anche annunciato un dazio del 50% sui prodotti brasiliani, finora risparmiati, poiché gli Stati Uniti registrano un surplus commerciale nei loro scambi con il gigante sudamericano. In una lettera indirizzata al suo omologo Lula, Trump afferma che questi dazi doganali saranno imposti in risposta al procedimento giudiziario avviato contro Jair Bolsonaro, sotto processo nel suo Paese per tentato colpo di Stato. “Il modo in cui il Brasile ha trattato l’ex presidente Bolsonaro è una vergogna internazionale”, scrive Trump nella sua lettera, ritenendo che il procedimento contro l’ex leader brasiliano di estrema destra sia “una caccia alle streghe che deve cessare immediatamente”. “Qualsiasi misura unilaterale di aumento dei dazi doganali avrà una risposta alla luce della legge brasiliana sulla reciprocità economica”, risponde il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva in un comunicato.

Da lunedì, una ventina di paesi hanno ricevuto una lettera che annuncia il sovrattassa che si applicherà a partire dal 1° agosto sui loro prodotti in entrata negli Stati Uniti.

Nel dettaglio, i prodotti algerini dovrebbero essere tassati al 30% (invariato rispetto all’annuncio iniziale di inizio aprile), così come quelli provenienti dalla Libia (-1 punto percentuale), dall’Iraq (-9pp) e dallo Sri Lanka (-14pp), quelli provenienti dalla Moldavia e dal Brunei saranno tassati al 25% (rispettivamente -6 pp e +1 pp). Per quanto riguarda i prodotti filippini, la sovrattassa sarà del 20% (+3 pp). Lunedì, quattordici capitali, principalmente asiatiche, hanno ricevuto una lettera con un sovrattassa che va dal 25% (Giappone, Corea del Sud, Tunisia in particolare) al 40% (Laos e Birmania) passando per il 36% (Cambogia e Thailandia). Martedì Donald Trump aveva fatto sapere che avrebbe inviato altre lettere questa settimana, in particolare all’Unione europea. Ieri, un portavoce della Commissione europea ha assicurato che l’Ue intende raggiungere un accordo con gli Stati Uniti “nei prossimi giorni”. L’obiettivo dell’Ue è quello di evitare qualsiasi sovrattassa (oltre la soglia minima del 10%), con esenzioni per settori chiave come l’aeronautica, i cosmetici e le bevande alcoliche. Inizialmente, i nuovi dazi avrebbero dovuto essere riscossi a partire dal 9 luglio, dopo un precedente rinvio, ma all’inizio della settimana Trump ha firmato un decreto per posticipare la data al primo agosto. Nelle sue lettere, Trump avverte che qualsiasi ritorsione sarà punita con un’ulteriore sovrattassa di pari entità. All’inizio di aprile, il presidente americano aveva annunciato dazi punitivi fino al 50% sui prodotti dei paesi con un surplus commerciale con gli Stati Uniti, prima di concedere, di fronte al panico dei mercati, una pausa di 90 giorni per negoziare accordi bilaterali. Per il momento ne sono stati annunciati solo due, con il Regno Unito e il Vietnam, mentre è stato raggiunto un compromesso con la Cina.

Tagli di Trump agli aiuti internazionali rischiano di causare oltre 14 mln morti nel mondo

Il crollo dei finanziamenti statunitensi destinati agli aiuti internazionali, deciso dall’amministrazione di Donald Trump, potrebbe causare oltre 14 milioni di morti in più entro il 2030 tra le persone più vulnerabili, di cui un terzo bambini, secondo una proiezione pubblicata su The Lancet.

Questi tagli rischiano di interrompere bruscamente, o addirittura di invertire, due decenni di progressi nella salute delle popolazioni vulnerabili. Per molti paesi a basso e medio reddito, lo shock che ne deriverebbe sarebbe di portata paragonabile a quella di una pandemia globale o di un conflitto armato su larga scala“, ha commentato Davide Rasella, coautore dello studio e ricercatore presso il Barcelona Institute for Global Health, citato in un comunicato.

La pubblicazione di questo studio sulla prestigiosa rivista medica coincide con una conferenza sul finanziamento dello sviluppo che riunisce in Spagna i leader di tutto il mondo, con gli Stati Uniti tra gli assenti. L’incontro si svolge in un contesto particolarmente cupo per gli aiuti allo sviluppo, duramente colpiti dai massicci tagli ai finanziamenti decisi da Donald Trump dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio.

Esaminando i dati di 133 paesi, il team internazionale di ricercatori ha stimato retrospettivamente che i programmi finanziati dall’USAID hanno evitato 91 milioni di morti nei paesi a basso e medio reddito tra il 2001 e il 2021. E, secondo i loro modelli, il taglio dell’83% dei finanziamenti statunitensi – cifra annunciata dal governo all’inizio del 2025 – potrebbe causare oltre 14 milioni di morti in più entro il 2030, di cui oltre 4,5 milioni di bambini sotto i cinque anni, ovvero circa 700.000 morti in più all’anno. Infatti, secondo i calcoli dei ricercatori, i programmi sostenuti dall’USAID hanno portato a una riduzione del 15% dei decessi per tutte le cause. Per i bambini sotto i cinque anni, il calo dei decessi è stato doppio (32%). L’impatto maggiore di questi aiuti è stato osservato per le malattie prevenibili. Secondo lo studio, la mortalità dovuta all’HIV/AIDS è stata ridotta del 74%, quella dovuta alla malaria del 53% e quella dovuta alle malattie tropicali trascurate del 51% nei paesi che hanno beneficiato del livello di aiuti più elevato rispetto a quelli con finanziamenti USAID scarsi o nulli.

Un’altra fonte di preoccupazione è che altri importanti donatori internazionali, principalmente europei, come Germania, Gran Bretagna e Francia, hanno annunciato tagli ai loro bilanci per gli aiuti esteri sulla scia degli Stati Uniti. Ciò rischia di “causare ancora più morti nei prossimi anni”, ha avvertito Caterina Monti, coautrice dello studio e ricercatrice presso l’ISGlobal. Circa 50 capi di Stato e di governo, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, partecipano alla conferenza sul finanziamento dello sviluppo a Siviglia per quattro giorni, insieme a 4.000 rappresentanti della società civile. “È il momento di aumentare, non di ridurre” gli aiuti, ha affermato Davide Rasella. Prima dei tagli al finanziamento, l’USAID rappresentava lo 0,3% della spesa federale statunitense. “I cittadini americani versano circa 17 centesimi al giorno all’USAID, ovvero circa 64 dollari all’anno. Penso che la maggior parte delle persone sarebbe favorevole al mantenimento dei finanziamenti all’USAID se sapesse quanto un contributo così piccolo possa essere efficace per salvare milioni di vite”, ha dichiarato James Macinko, coautore dello studio e professore presso l’Università della California (UCLA)

Usa, primo sì a riforma fiscale di Trump: tagliati sgravi al solare, titoli ko a Wall Street

La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, ha approvato con un solo voto di scarto (215 sì contro 214 no) la vasta proposta di legge del presidente Donald Trump su tasse e spesa pubblica, un pacchetto ambizioso che ora passa al Senato, dove è atteso un esame più approfondito e probabili modifiche.

Trump, intervenuto sulla sua piattaforma Truth Social, ha celebrato il voto ringraziando la leadership della Camera e invitando il Senato ad agire rapidamente per inviargli il testo da firmare, definendo la legge come “storica“.

Il pacchetto legislativo, lungo oltre 1.100 pagine, punta a estendere in modo permanente i tagli fiscali del 2017, ridurre la tassazione su mance e straordinari, aumentare la spesa per difesa e sicurezza delle frontiere e tagliare significativamente fondi destinati a programmi come Medicaid e buoni pasto. Inoltre, prevede l’eliminazione di diversi crediti d’imposta per l’energia pulita, tra cui quello per i veicoli elettrici introdotto dall’amministrazione Biden.

Le modifiche inserite nel testo finale includono l’introduzione anticipata di requisiti lavorativi per l’accesso a Medicaid, la fine di numerosi incentivi fiscali per le rinnovabili entro il 2028, la rimozione della tassa sui silenziatori per armi da fuoco, un tetto formale di 40.000 dollari sulla detrazione delle imposte statali e locali, e un fondo da 12 miliardi di dollari per il rimborso agli stati per le spese legate alla sicurezza dei confini. La legge include anche un aumento del tetto del debito federale di 4.000 miliardi di dollari. E questo ha mandato in fibrillazione i rendimenti dei titoli del Tesoro, col decennale che ha visto gli interessi salire sopra la soglia critica del 4,5%.

I critici della legge sostengono che la riforma aumenterebbe il debito pubblico federale di oltre 2.500 miliardi di dollari nel prossimo decennio, aggravando le disuguaglianze. Secondo il Congressional Budget Office, i tagli previsti al Medicaid potrebbero lasciare senza copertura sanitaria circa 7,6 milioni di americani entro il 2034.Se il Congresso non cambia rotta, questa legge sconvolgerà un boom economico in questo Paese che ha portato a una storica rinascita manifatturiera americana, bollette elettriche più basse, centinaia di migliaia di posti di lavoro ben retribuiti e decine di miliardi di dollari di investimenti principalmente negli Stati che hanno votato per il presidente Trump”, ha commentato Abigail Ross Hopper, presidente e Ceo della Solar Energy Industries Association (Seia). “Questa legislazione inattuabile ignora deliberatamente che l’implementazione dell’energia solare e dell’accumulo è l’unico modo in cui la rete elettrica statunitense può soddisfare la domanda dei consumatori, delle imprese e dell’innovazione americani. Se questa legge diventasse legge, l’America cederebbe di fatto la corsa all’intelligenza artificiale alla Cina e le comunità di tutto il paese andrebbero incontro a blackout”, ha aggiunto. “Ma non è tutto: le bollette elettriche degli americani saliranno alle stelle. Centinaia di fabbriche chiuderanno. Centinaia di miliardi di dollari di investimenti locali svaniranno. Centinaia di migliaia di persone perderanno il lavoro. Le famiglie perderanno la libertà di controllare i costi dell’energia. E la nostra rete elettrica sarà destabilizzata”, ha concluso la leader della lobby solare americana.

A Wall Street è stato dunque un bagno di sangue per le azioni del settore solare. Sunrun è crollato di oltre il 35%, poiché la legge elimina i crediti d’imposta per gli installatori come Sunrun che noleggiano le attrezzature ai clienti. Per gli analisti di Jefferies, citati da Cnbc, lo scenario è “peggiore di quanto temuto” per l’energia pulita, in quanto rappresenta un duro colpo per l’Inflation Reduction Act. Circa il 70% del settore dell’energia solare sui tetti ricorre ormai a contratti di leasing, rendendo la bolletta disastrosa per aziende come Sunrun, ha detto ai clienti l’analista del Guggenheim, Joseph Osha. Anche Enphase e SolarEdge sono crollati rispettivamente del 16% e del 24%, poiché le vendite dei loro inverter dovrebbero subire un colpo a causa della minore domanda di pannelli solari sui tetti. Il disegno di legge elimina anche i crediti per investimenti e produzione di energia elettrica per gli impianti di energia pulita la cui costruzione inizia 60 giorni dopo l’entrata in vigore della legge o che entrano in servizio dopo il 31 dicembre 2028. Forti vendite pure su Array (oltre -13%) e Nextracker (sopra il -6%) che producono dispositivi che consentono ai pannelli solari di tracciare la posizione del sole. Si salva, o quasi, invece First Solar – il più grande produttore di pannelli solari negli Stati Uniti – che cede il 3%. Questo perché il disegno di legge ha lasciato il credito d’imposta per la produzione pressoché intatto

Dazi, Cina: Siamo dalla parte giusta della storia nei confronti degli Usa

Pechino si trova “dalla parte giusta della storia” nella guerra commerciale lanciata da Washington, la Cina ne è convinta.

Dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi di almeno il 10% alla maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti e un’imposta aggiuntiva del 145% sulla maggior parte dei prodotti cinesi che entrano nel territorio americano. Pechino ha reagito introducendo a sua volta dazi del 125% sui prodotti americani.

“La Cina resterà al fianco della stragrande maggioranza dei paesi del mondo, dalla parte giusta della storia e del progresso umano”, spiega in conferenza stampa Zhao Chenxin, vicedirettore dell’agenzia cinese di pianificazione economica. Lui e diversi alti funzionari dei ministeri hanno promesso che il governo adotterà ulteriori misure per rilanciare l’economia, i consumi interni e attenuare gli effetti della guerra commerciale con gli Stati Uniti.

“Siamo convinti che opporsi al mondo e alla verità porterebbe solo all’isolamento. Solo avanzando mano nella mano con la comunità mondiale e difendendo la moralità e la giustizia potremo costruire il futuro”, sottolinea Zhao Chenxin, vicedirettore della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (NDRC). Gli Stati Uniti “si abbandonano all’intimidazione e all’egemonismo, venendo costantemente meno ai propri impegni”, denuncia.

Il ministro delle Finanze americano Scott Bessent difende la politica doganale di Donald Trump, che sta sconvolgendo l’economia mondiale, vedendovi un mezzo per creare “incertezza strategica” al fine di avvantaggiare gli Stati Uniti. Pechino promette regolarmente di portare avanti la guerra commerciale “fino alla fine” se Washington continuerà con le sue misure doganali. La Cina ha tuttavia riconosciuto che la tempesta commerciale scatenata da Donald Trump ha ripercussioni sulla sua economia, che rimane fortemente dipendente dalle esportazioni. “Sebbene l’economia nazionale continui la sua ripresa, le basi per un miglioramento sostenibile richiedono un ulteriore rafforzamento di fronte alle crescenti pressioni esterne”, ammette Yu Jiadong, viceministro delle Risorse umane. “Le successive imposizioni di dazi doganali esorbitanti da parte degli Stati Uniti – osserva – hanno creato difficoltà di produzione e di esercizio per alcune imprese esportatrici e hanno inciso sull’occupazione di alcuni lavoratori”.

Dazi, Trump non cede: “Presto anche su farmaci e semiconduttori”. Missione di Xi in Vietnam

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Incoraggiati dall’annuncio di Washington di esenzioni per i prodotti ad alta tecnologia, i mercati finanziari hanno registrato andamenti positivi, nonostante Donald Trump abbia continuato a esercitare pressioni sui partner commerciali degli Stati Uniti, primo fra tutti la Cina. Il presidente americano ha avvertito che nessun Paese è “fuori pericolo” di fronte alla sua offensiva doganale, “soprattutto non la Cina che, di gran lunga, ci tratta peggio”, ha tuonato sul suo social network Truth. L’avvertimento arriva all’indomani dell’esenzione dai dazi – fino al 145% per la Cina – concessa dalle autorità statunitensi su prodotti high-tech, in primis smartphone e computer, e sui semiconduttori. Il leader americano dichiara però che annuncerà “entro la settimana” nuove sovrattasse sui semiconduttori che entrano negli Stati Uniti, che “saranno in vigore in un futuro non troppo lontano”. Stesso discorso per i prodotti farmaceutici: “Andremo a produrre i nostri farmaci e le nostre industrie farmaceutiche dovranno battere posti come la Cina”. Per questo “io ho una timeline, in un futuro non troppo distante”, ha confermato parlando ai giornalisti durante un bilaterale alla Casa Bianca con l’omologo di El Salvador, Nayib Bukele.  Per quanto riguarda gli smartphone e gli altri dispositivi elettronici, “saranno annunciati molto presto, ne discuteremo, ma parleremo anche con le aziende”, ha aggiunto il leader, senza entrare nei dettagli, a bordo dell’Air Force One. “Sai, bisogna mostrare una certa flessibilità” per “certi prodotti”, ha aggiunto. In precedenza, il suo segretario al Commercio, Howard Lutnick, aveva accennato alle imminenti tariffe settoriali sui semiconduttori, “probabilmente tra un mese o due”, nonché sui prodotti farmaceutici. “Non possiamo contare sulla Cina per i beni fondamentali di cui abbiamo bisogno. I nostri medicinali e semiconduttori devono essere prodotti in America”, ha dichiarato Lutnick in un’intervista ad ABC. Annunci americani in contrasto con quanto richiesto dalla Cina, in un momento in cui il conflitto commerciale innescato dagli Stati Uniti sta facendo impazzire i mercati finanziari, con azioni che vanno su e giù come montagne russe, prezzi dell’oro ai massimi e il mercato del debito americano sotto pressione. Se il Ministero del Commercio cinese ha riconosciuto il “piccolo passo” fatto da Washington con la sua posizione ammorbidita sui prodotti high-tech, “esortiamo gli Stati Uniti a fare un grande passo per correggere i loro errori, annullare completamente la cattiva pratica dei dazi reciproci e tornare sulla retta via del rispetto reciproco”, ha dichiarato domenica un portavoce in un comunicato. Il protezionismo “non porta da nessuna parte”, ripete il presidente cinese Xi Jinping, in un discorso riportato lunedì dall’agenzia ufficiale China News. “I nostri due Paesi devono salvaguardare fermamente il sistema commerciale multilaterale, la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali e un ambiente internazionale di apertura e cooperazione”, ha sottolineato il leader, che lunedì ha iniziato una visita in Vietnam, prima di dirigersi in Malesia e Cambogia, per rafforzare le relazioni commerciali del suo Paese. Durante un colloquio con il leader vietnamita To Lam il presidente cinese ha invitato il Vietnam ad unirsi alla Cina per “opporsi congiuntamente alle prepotenze”. “Dobbiamo rafforzare le nostre relazioni strategiche, opporci congiuntamente alle intimidazioni e mantenere la stabilità del sistema globale di libero scambio, nonché delle catene industriali e di approvvigionamento”, ha detto Xi . In questo contesto di tensione, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) ha leggermente rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita della domanda di petrolio per il 2025, citando in particolare i dazi doganali statunitensi, secondo il suo rapporto mensile pubblicato lunedì. Pur continuando a colpire la Cina nel corso della settimana, il miliardario newyorkese sembra aver concesso un po’ di tregua agli altri partner commerciali degli Stati Uniti, esentandoli mercoledì per 90 giorni dalle tasse doganali annunciate poco prima e aggiungendo loro solo il 10% di dazi doganali. In una prima critica all’offensiva doganale di Donald Trump, il giorno prima, Pechino si era posta a difesa dei paesi poveri rendendo pubblico un appello con il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) Ngozi Okonjo-Iweala, durante il quale la Cina aveva messo in guardia contro “i gravi danni” che questi dazi avrebbero causato ai paesi in via di sviluppo, “in particolare a quelli meno sviluppati”. Secondo il ministro del Commercio cinese Wang Wentao, “potrebbero persino scatenare una crisi umanitaria”. Nonostante queste forti tensioni commerciali tra le due principali potenze economiche mondiali, venerdì Trump ha dichiarato di essere “ottimista” su un accordo commerciale con Pechino. Secondo i dati di Pechino, gli Stati Uniti assorbono il 16,4% delle esportazioni cinesi totali, per un totale di scambi di 500 miliardi di dollari, con un ampio deficit per gli Stati Uniti.

Trump: “Per pace nel mondo, Groenlandia deve andare agli Usa”. Vance sull’isola

Donald Trump non arretra sulla Groenlandia e rilancia: “E’ molto importante, per la sicurezza internazionale. Ne sbbiamo bisogno non per la pace per gli Stati Uniti, ma per la pace nel mondo”. Intanto il suo vice JD Vance è atterrato sull’isola per visitare l’unica base militare americana nel territorio, a Pituffik, un viaggio vissuto come una provocazione in Danimarca. “Il presidente è davvero interessato alla sicurezza dell’Artico, come tutti sapete, e questo argomento diventerà sempre più importante nei prossimi decenni”, commenta al suo arrivo.

Di fronte alla persistente bramosia degli americani, danesi e groenlandesi, sostenuti dall’Unione Europea, inaspriscono i toni. La prima ministra danese Mette Frederiksen denuncia “l’inaccettabile pressione” esercitata dagli Stati Uniti dopo l’annuncio, all’inizio della settimana, dell’arrivo senza invito di una delegazione statunitense che alla fine ha rivisto i suoi piani. “Venire in visita quando non c’è un governo in carica non è considerato un segno di rispetto verso un alleato”, afferma il primo ministro della Groenlandia Jens Frederik Nielsen. Nielsen presenta anche il nuovo governo di coalizione della Groenlandia, costituito per “far fronte alle forti pressioni esterne”. All’inizio di febbraio, il Segretario di Stato americano per l’America del Nord, John F. Kelly, aveva dichiarato che “la Danimarca non sta facendo il suo lavoro in Groenlandia e non è un buon alleato”. La signora Frederiksen ha prontamente replicato che la Danimarca è da tempo un fedele alleato degli Stati Uniti, combattendo al loro fianco “da molti decenni”, anche in Iraq e in Afghanistan.

La base americana di Pituffik costituisce un avamposto della difesa missilistica americana, in particolare contro la Russia, poiché la traiettoria più breve dei missili provenienti dalla Russia verso gli Stati Uniti passa attraverso la Groenlandia. Pituffik, che fino al 2023 si chiamava Thule Air Base, è servita da postazione di allerta contro eventuali attacchi dell’URSS durante il periodo della guerra fredda e rimane un anello essenziale dello scudo antimissile americano. È anche un luogo strategico per la sorveglianza dell’emisfero settentrionale e la difesa dell’immensa isola artica, che, secondo l’amministrazione americana, i danesi hanno trascurato. In questo contesto, il presidente russo Vladimir Putin ha giudicato “serio” il progetto di Donald Trump di assumere il controllo della Groenlandia e ha affermato di essere preoccupato che l’Artico si trasformi in “un trampolino di lancio per eventuali conflitti”. Secondo Marc Jacobsen, docente presso il Royal Danish Defence College, JD Vance “ha ragione nel dire che (la Danimarca) non ha risposto ai desideri americani di una maggiore presenza, ma abbiamo adottato misure per soddisfare questo desiderio”. A gennaio, Copenaghen ha annunciato che avrebbe stanziato quasi due miliardi di euro per rafforzare la sua presenza nell’Artico e nel Nord Atlantico. La brama di Trump per il territorio di ghiaccio, che affascina per le sue ipotetiche risorse minerarie e fossili e la sua importanza geostrategica, è vista come un deterrente per i suoi abitanti e la sua classe politica, così come per la potenza tutelare danese. Gli Stati Uniti “sanno che la Groenlandia non è in vendita. Sanno che la Groenlandia non vuole far parte degli Stati Uniti. Questo è stato loro comunicato in modo inequivocabile, sia direttamente che pubblicamente”, ha ribadito mercoledì Mette Frederiksen. Venerdì, re Frederik X di Danimarca ha rilasciato una dichiarazione rara, ricordando il suo attaccamento al territorio. “Non ci devono essere dubbi sul mio amore per la Groenlandia, e il mio legame con il popolo groenlandese è intatto“, ha detto a TV2.

Se i principali partiti groenlandesi sono favorevoli all’indipendenza del territorio a più o meno lungo termine, nessuno sostiene l’idea di un’annessione agli Stati Uniti. Secondo un sondaggio pubblicato alla fine di gennaio, anche la popolazione, in maggioranza Inuit, rifiuta ogni prospettiva di diventare americana. Il governo uscente ha ricordato di non aver “inviato alcun invito per visite, sia private che ufficiali”. Il viaggio lampo del figlio del presidente americano, Donald Trump Jr, il 7 gennaio, era già stato vissuto come una provocazione.