Ursula von der Leyen

Ue, la settimana lampo delle nomine. Ora la parola passa al Parlamento

La settimana dei top jobs, cioè le figure apicali dell’Ue, si aperta e chiusa con gli stessi nomi: Ursula von der Leyen presidente alla Commissione europea, l’ex premier portoghese Antonio Costa come presidente del Consiglio europeo e la premier estone Kaja Kallas come Alta rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza. Una decisione lampo, con la maggioranza composta da popolari, socialisti e liberali che ha tenuto in sede di Vertice tra i 27 capi di Stato e di governo, nonostante i voti fuori dal coro di Italia e Ungheria.

Ora la palla passa al Parlamento europeo, dove Ursula von der Leyen dovrà guadagnarsi il 18 luglio la soglia di almeno 361 consensi (720 sono i deputati europei). La candidata al bis può contare sulla somma aritmetica di 399 seggi ai quali, però, secondo alcune fonti diplomatiche, andranno tolti franchi tiratori e oppositori che, nel segreto del voto, non avalleranno von der Leyen pur essendo parte della maggioranza centrista o della stessa famiglia politiche. Le stime parlano di una cinquantina di seggi in bilico. Per questo motivo, da qui al 18 luglio, von der Leyen cercherà di ampliare la sua maggioranza e, con i Popolari che pongono un veto all’allargamento ai Verdi e chiedono un dialogo con i conservatori, un’ipotesi è che si riproponga quanto avvenuto già 2019 quando, come ha ricordato il vice premier Antonio Tajani, “Angela Merkel chiese il consenso dei Conservatori, perché senza di loro von der Leyen non sarebbe stata eletta. Non tutti i Conservatori la votarono, ma i polacchi sì. Bisogna tenere conto di tanti variabili, quando si vota a scrutinio segreto”.

E proprio sulla possibilità che i 24 deputati di Fratelli d’Italia vengano richiesti per appoggiare Ursula von der Leyen in Aula si è espressa la premier Giorgia Meloni, nel punto stampa dopo il Consiglio europeo. “Il tema non è Ursula von der Leyen. Il tema è quali sono le politiche che Ursula von der Leyen intende portare avanti. E su questo, come accade anche per gli altri nomi che sono stati fatti, non abbiamo risposte”, ha dichiarato Meloni. Ma “la presidente della Commissione europea prima di andare in Parlamento dovrà dire che cosa vuole fare e, quindi, io penso che la valutazione vada fatta a valle e non vada fatta a monte”, ha precisato. Da qui l’astensione di Meloni sul nome di von der Leyen, oltre al fatto che è della stessa famiglia politica, il Ppe, di cui fa parte Forza Italia. Un voto di “rispetto” delle sensibilità della sua maggioranza, ricambiata dal suo vice Antonio Tajani che da giorni auspica l’apertura ai conservatori e che ieri, dopo il pre vertice, ha sottolineato come nei popolari tutti abbiano compreso bene “che non si può fare qualcosa senza tenere conto dell’Italia”.

Allo stesso modo dei popolari, anche i Verdi hanno posto una linea rossa: quella dell’allargamento a Ecr e a Id, proponendosi come forza europeista, pragmatica e credibile cui guardare per estendere la coperta della maggioranza Ursula. Un’offerta ancora in piedi, apparsa in filigrana anche nel punto stampa con i neo eletti di Sinistra Italia, Ilaria Salis e Mimmo Lucano, dove alla domanda se voteranno o meno la fiducia a von der Leyen è intervenuto il segretario Nicola Fratoianni spiegando che la decisione verrà presa nel gruppo della sinistra, ma che ci sarà anche con un confronto con i Verdi con cui sono in Alleanza.

Intanto, la prossima tappa certa è quella del programma che von der Leyen dovrà presentare ai deputati per convincerli. In conferenza stampa, la presidente ha ricordato che le servirà il via libera degli europarlamentari “dopo che presenterò le linee politiche al Parlamento europeo per il prossimo mandato”. Appuntamento confermato nella sessione a Strasburgo del 16-19 luglio, la cui agenda verrà definita l’11 luglio. Nella stessa sessione, i neoparlamentari saranno chiamati a votare anche il loro presidente. O la loro presidente. Anche in questo caso, infatti, il Ppe propone un bis: quello dell’uscente Roberta Metsola.

Top Jobs Ue, intesa su von der Leyen e Costa. Fitto chiede un ruolo di primo piano per l’Italia

I rumors che arrivano da Bruxelles, da quei palazzi di mattoni e vetro, sono forti e chiari. Anche se sono ancora rumors. Perché, a quanto si apprende, i sei negoziatori dell’Ue che stanno trattando i posti di vertice dell’Ue hanno trovato un accordo per sostenere Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, il portoghese Antonio Costa al Consiglio europeo e l’estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’Ue. Domande: sarà così? Andrà davvero così? Lo scopriremo a breve.

I sei negoziatori sono il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il primo ministro polacco Donald Tusk (per il Partito popolare europeo), il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez e il cancelliere tedesco Olaf Scholz (per i socialisti), il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro olandese Mark Rutte. (per i liberali).

Il prossimo appuntamento è fissato per giovedì e venerdì a Bruxelles, al Consiglio europeo, dove i tre nomi saranno presentati ai Ventisette capi di Stato e di governo per la loro approvazione. In queste ore la situazione potrebbe cambiare ma non stravolgersi, anche se il ministro Raffaele Fitto ha ribadito qual è la posizione italiana. “Il prossimo vertice dei capi di Stato e di governo sarà un’occasione molto importante per discutere dei nuovi assetti istituzionali dell’Unione europea e l’Italia intende esercitare in questa discussione un ruolo di primo piano, adeguato al suo status di Paese fondatore”, ha detto il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, dopo aver partecipato, a Lussemburgo, al Consiglio Affari generali dell’Ue. “Abbiamo discusso soprattutto della preparazione del prossimo Consiglio europeo del 27 e 28 giugno”, ha spiegato. “Quello delle nomine non è l’unico tema rilevante dell’agenda del Consiglio europeo”, ha proseguito Fitto. “Per noi è molto importante che dal vertice esca un messaggio chiaro su temi cruciali come la competitività dell’economia europea, la difesa, la migrazione e l’Agenda strategica oltre, ovviamente, ai temi di politica estera come l’Ucraina ed il Medio Oriente sui quali si sono registrati molti progressi grazie al recente Vertice del G7 presieduto dal presidente Meloni”.

Più o meno è la stessa linea tenuta ieri da Antonio Tajani. Il vicepremier e ministro degli Esteri ha parlato “come minimo” per l’Italia della vicepresidenza della Commissione e un commissario “di peso”. Tajani ha infatti rivendicato un peso importante per il nostro Paese: “Credo che l’Italia non possa non avere un vice presidente della Commissione europea e non possa non avere un commissario con un portafoglio di peso. Credo che questo sia il minimo che possiamo chiedere e pretendere”. Anche perché, è il ragionamento, l’Italia “ha il diritto di avere un riconoscimento di alto livello”, visto che è “un Paese fondatore” e ha “una manifattura” al secondo posto in Europa. Una convinzione tale che ha portato Tajani a sbilanciarsi persino sul nome: Fitto. “Sarebbe un eccellente commissario, perché ha conoscenza, esperienza”, anche se “non c’è nessuna decisione. Sarà il presidente del Consiglio a dire l’ultima parola dopo aver ascoltato la maggioranza e dopo aver valutato con il governo il da farsi”.

Europee, Ppe si conferma primo partito. Von der Leyen vuole ampia maggioranza

In base all’ultima proiezione su dati reali del Parlamento europeo (alle 19.30 di lunedì 10 giugno), il Partito popolare europeo (Ppe) si conferma primo gruppo dell’Aula con 186 deputati. A seguire l’Alleanza progressista dei socialisti e democratici (S&d) con 135 seggi, i liberali di Renew Europe con 79, i riformisti e conservatori europei con 73, Identità e democrazia con 58, i Verdi con 53. Seguono poi gli eletti non affiliati ad alcun partito (55), i non iscritti 45 e la Sinistra con 36. L’Italia si conferma la presenza maggiore sia in Ecr, con 24 eletti, che nel gruppo S&d, dove i 21 deputati fanno del Pd il primo partito d’Europa.

Regge la maggioranza uscente composta da popolari, socialisti e liberali, che totalizzano 400 deputati, e che, fin da subito, si metteranno in contatto per iniziare un dialogo politico. La candidata popolare al bis alla Commissione, Ursula von der Leyen, vuole una maggioranza ampia. “Quello che i cittadini vogliono è un’Europa che produca risultati. A partire da domani inizierò a costruire un’ampia coalizione per un’Europa forte. Insieme ad altri costruiremo un bastione contro gli estremi di destra e di sinistra”, ha scritto su X.

Mentre socialisti, liberali e verdi sottolineano l’importanza della responsabilità e di una cooperazione tra le forze democratiche dell’Aula. “Desidero che formiamo una coalizione pro-europea il più consolidata possibile”, ha scandito la presidente del gruppo Renew Europe, Valerie Hayer. “La coalizione resterà così come l’abbiamo conosciuta nel mandato precedente, cioè composta da Ppe, S&d e RE? I Verdi vogliono unirsi a noi? Penso che vada innanzitutto considerato il programma per i prossimi anni, quale valore aggiunto vogliamo portare. Come presidente di RE ho a cuore le priorità del mondo liberale, centrista: l’Europa della difesa, un’Europa che sia più competitiva, lo stato di diritto, la preservazione delle ambizioni sul Patto verde che è stato la colonna vertebrale del nostro mandato. Dovremo trovarci su valori e priorità politiche fondamentali”, ha aggiunto.

Dal canto loro, i socialisti, hanno ribadito attraverso il loro candidato Nicolas Schmit di essere “aperti a una forte cooperazione con tutte le forze democratiche di questo Parlamento” ma di non dare alcuna “possibilità alla cooperazione con quanti vogliano smantellare e indebolire quest’Europa costruita in molti decenni”. I Verdi, che 5 anni fa bocciarono von der Leyen, ora si dicono responsabili e aperti ad una possibile collaborazione, in base al programma che sarà delineato.

Quello che è certo è che la costituzione dei gruppi politici sta prendendo avvio in queste ore, mentre già lunedì prossimo i capi di Stato e di governo si incontreranno informalmente a cena, a Bruxelles, per provare a trovare la quadra sui nomi apicali della prossima legislatura Ue.

Europee, la gioia di von der Leyen: “Ppe garantisce ancora stabilità”

Il centro pro-europeista ha tenuto ed è con quel centro che dobbiamo andare avanti a lavorare”. Lo ha dichiarato la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, nel corso della notte elettorale all’Eurocamera a Bruxelles. Un concetto che, sottolineato anche dalla presidente della Commissione e candidata di punta al bis per il Partito popolare europeo (Ppe), Ursula von der Leyen, è stato il leitmotiv della serata, insieme al richiamo alla responsabilità e all’apertura dei Verdi ad intervenire per dare stabilità alla maggioranza.

La notte si è conclusa con le ultime proiezioni del Parlamento europeo, alle 3 del mattino, che davano il Ppe come primo partito dell’Aula con 184 seggi. La crescita del gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) e di Identità e democrazia (Id), invece, non è riuscita a portare una delle due formazioni alla terza posizione nella lista dei partiti più nutriti nell’aula, scansando via i liberali di Renew Europe e sparigliando le carte della maggioranza Ursula. Alla fine, popolari, socialisti e liberali tengono e mantengono la maggioranza numerica, con 403 deputati.

“Oggi è una buona giornata per il Ppe, abbiamo vinto le elezioni, siamo il partito più forte, siamo l’ancora della stabilità e il voto ha riconosciuto la nostra leadership nei passati 5 anni”, ha dichiarato von der Leyen poco prima di mezzanotte dal palco allestito nell’aula plenaria, usata come grande sala stampa. “Queste elezioni ci danno due messaggi: il primo è che la maggioranza rimane nel centro per una Europa forte e questo è cruciale per la stabilità. In altre parole, il centro tiene. Ma è anche vero che gli estremi a destra e a sinistra hanno ottenuto sostegno e perciò il risultato ottenuto comporta grandi responsabilità per i partiti al centro”, ha continuato. “Magari su singoli punti abbiamo divergenze, ma abbiamo tutti interesse nella stabilità e vogliamo una Europa forte ed efficace”, ha aggiunto von der Leyen. “Da domani contatteremo le grandi famiglie politiche della piattaforma, cioè S&d e Renew Europe, con cui abbiamo lavorato bene nei passati 5 anni. Ci basiamo su relazioni costruttive già avviate. Ho sempre detto di voler costruire una ampia maggioranza per una Europa forte e ho dimostrato nel primo mandato cosa può raggiungere un’Europa forte. Il mio obiettivo è continuare su questa strada con gli europeisti, a favore dell’Ucraina e dello stato di diritto. Da domani questo lavoro continua”, ha specificato von der Leyen. E rispetto alla sua corsa per il bis a Palazzo Berlaymont ha aggiunto: “So che c’è del duro lavoro davanti a me. Sono felice di affrontare questo lavoro, ma sono decisamente fiduciosa per quanto riguarda la mia corsa per il secondo mandato. Di sicuro si tratta di una scelta che è dei capi di Stato e di governo, ma sono fiduciosa di poter ottenere il sostegno al Consiglio europeo”, ha evidenziato. “Guardando al Parlamento, invece, per prima cosa contatteremo quelli con cui abbiamo lavorato bene, S&d e Re. E’ il primo passo, poi si parlerà dei successivi”, ha precisato a chi chiedeva se fosse disponibile a far entrare i Verdi nella maggioranza.

Sì perché l’altro punto da sottolineare della notte elettorale è l’apertura dei Verdi alla cooperazione con von der Leyen. “Come Verdi siamo amareggiati per i numeri, soprattutto per le perdite in Francia e Germania. Ma siamo felici che ci siano stati diversi risultati e che ci saranno nuovi ingressi”, ha dichiarato dal palco uno dei due candidati dei Verdi alla guida della Commissione, Bas Eickhout. “I Verdi avranno un ruolo costruttivo e responsabile. Le sfide europee sono troppo grandi per fare giochetti politici. Se guardate alle sfide, il futuro delle politiche climatiche, della sicurezza e della democrazia europea, è molto chiaro che abbiamo bisogno di una maggioranza stabile in questa aula per dare risposte ai cittadini e noi Verdi siamo pronti ad assumerci questa responsabilità. Ovviamente sulla base del programma potenziale, ma siamo pronti”, ha sottolineato. Poco prima di lui, il capo gruppo dei Verdi, Philippe Lamberts, era stato anche più preciso precisato: “Se vogliamo che la terra continui ad essere abitabile per gli umani, il Green deal deve potenziarsi e se vogliamo che la società sia più sicura per tutti le forze democratiche devono unirsi come mai prima. Per noi è importante il programma, non la persona. Per noi è fondamentale l’approfondimento del Green deal e il rafforzamento della democrazia europea. E spero che ciò sia al centro di quanto von der Leyen intenderà raggiungere, se il Consiglio la presenterà per il secondo mandato. E abbiamo bisogno di vedere l’impegno per sostenerla”.

Infine, i socialisti che, con il candidato di punta Nicolas Schmit, si confermano pronti alla maggioranza con Ppe, ma senza Ecr o Id. “Siamo aperti a una forte cooperazione con tutte le forze democratiche di questo Parlamento. Come secondo gruppo che mantiene più o meno il numero dei suoi membri in questo Parlamento, siamo pronti a negoziare un accordo per i prossimi anni per rendere l’Europa più forte, più democratica, più sociale, più forte economicamente e più sicura. Sono molto contento di vedere che le forze democratiche sembrano trovare il loro modo per unirsi e lavorare insieme. Quindi non c’è possibilità per noi socialdemocratici di cooperare con quanti vogliano smantellare e indebolire quest’Europa costruita in molti decenni”, ha sottolineato Schmit.

Green Deal tra (belle) promesse elettorali e (brusca) realtà

Ce l’hanno tutti con ‘questo’ green deal, pur ammettendo che la decarbonizzazione è un passaggio ineludibile per il futuro. E per il presente. Ce l’hanno tutti con le politiche verdi “ideologiche e antindustriali” portate avanti dall’Europa negli ultimi anni – alcune però votate dagli europarlamentari italiani in scadenza di mandato: conviene ricordarlo, non sia mai… – dagli inquilini di Bruxelles e Strasburgo. Ce l’hanno così tutti che tutti, ma proprio tutti, pubblicizzano (sotto elezioni) la necessità di un cambiamento nel segno del buonsenso e della fattibilità. Ecco, i candidati alle elezioni dell’8e 9 giugno in questo sembrano davvero compatti, allineati e abbastanza coperti. A destra e a sinistra, come al centro. Bisogna fare qualcosa per il clima, giusto, però non come è stato fatto fino adesso.

E allora la domanda che sorge spontanea è questa: come, allora? Perché se è facile e anche giusto mettere in evidenza cosa non ha funzionato nel Green Deal pensato da Ursula von der Leyen e da Frans Timmermans (ei fu), è più difficile ma indispensabile indicare quali sono le altre vie per raggiungere quei target considerati obbligatori dagli esperti. E qui, però, la situazione si fa più complicata, dal momento che alle intenzioni vanno poi applicate le azioni. E, insomma, la messa a terra di cosa viene promesso appare abbastanza nebulosa. Ad esempio, il claim di trasformare il Green Deal in un Good Deal è a presa rapida come la colla, ma in concreto cosa significa? Spesso ci siamo sentiti raccontare che non è questione di norme ma di tempi nell’applicazione delle stesse. Sintetizzando, l’idea è buona o quasi però la fretta rende tutto irrealizzabile. Lo stop ai motori endotermici? Non dal 2035 ma più avanti. Le case green? Non a emissioni zero dal 2030 o dal 2033 (a seconda delle classi di appartenenza) ma con più calma. E gli imballaggi? E la nuova Pac? E il Nutriscore?

Riflessioni che si accompagnano, anzi si dilatano con il megafono degli industriali, preoccupati che la Nuova Europa non attui politiche adeguate di sostegno per le imprese e che in tema di Green Deal non venga creato un fondo per la transizione, anche digitale. Il riferimento è sempre a due colossi, gli Stati Uniti e la Cina, che dispongono di risorse enormi, sicuramente superiori a quelle della Ue e che poco alla volta stanno esercitando una pressione che nel medio termine rischia di diventare insostenibile. Anche perché certe sensibilità né Usa né Cina le hanno, in considerazione che l’Europa produce l’8 per cento del gas serra mondiale.

Quindi, è semplicissimo: più soldi, tanti più soldi, più tempo, molto più tempo. Questo almeno in campagna elettorale…

Tra luci e ombre l’ultimo atto del Parlamento Ue è sul Green Deal

Il Parlamento europeo il 25 aprile saluta baracca e burattini dopo cinque anni di lavoro non proprio facili. Al netto degli errori che sono stati commessi, va dato atto a Ursula von der Leyen a Roberta Metsola (e prima di lei al compianto David Sassoli) e a Charles Michel di essere incappati nel periodo peggiore degli ultimi decenni: una pandemia, due guerre e mezza non sono poca roba da gestire e, soprattutto, sono ostacoli lungo la via di una ricostruzione dell’Europa.

Si poteva fare meglio? Sì. Si poteva fare peggio? Anche. L’accusa che viene rivolta con maggiore insistenza a Commissione e Parlamento è di aver radicalizzato la lotta al cambiamento climatico e il contrasto al riscaldamento del pianeta. Il Green Deal, partito da presupposti nobilissimi, è andato in crisi quando è diventato la summa di provvedimenti estremi, poco in linea con la realtà di un’economia in crisi. Fatto salvo il concetto che la transizione ecologica è ineludibile, accettata la conseguenza che abbia costi molto alti da sostenere, il tutto si è inceppato quando da Frans Timmermans in giù è diventata una questione ideologica. E si è acceso lo scontro con governi e aziende: l’auto elettrica, le case green, il packaging, fino alla nuova Pac sono diventati motivi di scontro e non più di confronto. La marcia dei trattori su Bruxelles è un po’ il simbolo di un disagio latente, che ha finito per coinvolgere la pancia del popolo.

Uno studio di Copernicus racconta che l’Europa si è ‘inquinata’ più degli altri continenti. Persino più di Cina e India, che non sono proprio sensibilissime sull’argomento: e le varie Cop di questi anni ne sono la prova provata. Sarà per questo che gli ultimi atti dell’attuale Parlamento Ue saranno dedicati alla votazioni di quattro provvedimenti legati al Green Deal, per fare in modo che chi subentrerà ( o continuerà) dopo le elezioni dell’8-9 giugno abbia una base dalla quale partire. Si tratta del regolamento Ecodesign (Espr) e delle direttive Corporate social due diligence (Csddd), Ambient air quality and cleaner air for Europe e Packaging and packaging waste. Vedremo cosa ne uscirà, nella speranza che a vincere sia sempre il buonsenso.

Gli estremismi del green deal e la mancanza di coraggio degli industriali europei

Ho più volte sostenuto su queste pagine che per riportare l’industria al centro delle politiche europee occorre un profondo cambiamento culturale che deve coinvolgere tutti.

Se non si comprende che il declino europeo è figlio di una visione sbagliata, di vere e proprie distorsioni cognitive, che ci hanno fatto presuntuosamente credere che il nostro primato nei diritti, nella democrazia, nel welfare possa essere eterno a prescindere dall’economia e dalla ricchezza creata, non si riuscirà a uscire dalla spirale involutiva in cui ci troviamo.

Come sempre quando le cose vanno male le responsabilità sono collettive. Le classi dirigenti europee al gran completo non sono state all’altezza della sfida. La politica non è stata capace di visione e di guida e, opportunisticamente, ha pensato di seguire e/o cavalcare l’onda di un ambientalismo populista e estremista che vede nelle imprese il problema invece che la soluzione.

Non riconoscere che dietro quest’onda verde si nascondevano, in molti casi, gli sconfitti della storia e gli epigoni di un pensiero anticapitalista e antioccidentale è stato un grave errore.

Questo atteggiamento non è stato solo delle forze politiche di sinistra ma, in molti casi, anche i moderati (vedi Von der Leyen sul green deal) e i conservatori non sono stati capaci di contrastare con argomenti razionali e scientifici l’estremismo ambientalista e la demagogia della “decrescita felice”.

Ma poiché le responsabilità sono collettive, in questo appannamento della ragione ci sono anche grandi responsabilità di vasti settori degli industriali europei e delle loro organizzazioni, che sono stati miopi o, troppe volte, deboli e senza voce in omaggio alla consuetudine del politically correct che impone di non alzare mai i toni con la Commissione Europea. In questo modo si sono accodati al pensiero dominante e, senza alcun coraggio, non hanno reagito né lottato per difendere la sopravvivenza dell’industria europea.

Molti sono gli esempi che, purtroppo, testimoniano di questa debolezza.

Era del tutto evidente, ad esempio, che non sostenere il principio della “neutralità tecnologica” come strada maestra per la decarbonizzazione dell’economia e dell’industria, ma puntare tutto sull’elettrico, sarebbe stato un grave errore concettuale e metodologico destinato ad avere gravissime conseguenze.

Gli industriali europei dell’automotive, soprattutto i tedeschi leader di questo settore, in preda ad una sorte di “sindrome di Stoccolma” e con la coscienza sporca per il dieselgate hanno rinunciato ad ogni battaglia per la difesa dei motori endotermici sui quali l’Europa aveva ed ha un primato tecnologico e industriale mondiale, optando per l’elettrico e accettando che dal 2035 non si vendano più auto alimentate con idrocarburi.

La cosa risulta assolutamente insensata se si considera che le tecnologie di decarbonizzazione messe a punto per i motori endotermici (Euro 6) o l’uso di combustibili sintetici o biologici consente di raggiungere livelli di inquinamento atmosferico e di emissioni di CO2 prossimi a quelli dei motori elettrici.

E così si è preferito fare giganteschi investimenti solo sui modelli elettrici senza valutare: da un lato i drammatici effetti industriali e occupazionali di questa scelta sulla filiera dell’automotive (un motore elettrico ha da 10 a 12 volte meno componenti di un motore endotermico); dall’altro gli enormi problemi ambientali e di dipendenza strategica connessi alla scelta dell’elettrico, come produzione del litio per le batterie, monopolio cinese o quasi nella produzione di tutte le tecnologie rinnovabili e dominio cinese nella produzione di auto elettriche .

Anche in questo caso ci è mancato tanto Sergio Marchionne, che sull’elettrico è sempre stato prudente, per non dire scettico, e che oggi sorriderebbe con un po’ di ironia vedendo tante case automobilistiche, a partire dalla giapponese Toyota, rallentare considerevolmente i loro programmi sull’elettrico.

O ancora, c’è stata una debolezza estrema degli industriali europei e delle loro organizzazioni sulla così detta “tassonomia” delle tecnologie eleggibili, cioè finanziabili con fondi pubblici, per la transizione. Da una parte vi è stata un’accettazione acritica della tecnologia dell’idrogeno per ora assai complicata e economicamente squilibrata perché basata su due risorse scarse e preziose (energie rinnovabili e acqua) e costosissima. Dall’altro si è deciso, per ragioni puramente ideologiche, di rifiutare l’inserimento nella tassonomia delle tecnologie di “carbon capture” applicate alla generazione elettrica da turbogas.

Quali sono le ragioni per le quali la generazione elettrica con il gas naturale deve essere contrasta anche se carbon neutral? Perché contrastare il gas naturale che sarà l’unica vera fonte energetica della transizione a basso costo e a basso inquinamento per quella parte di domanda che non potrà essere coperta dalle rinnovabili?

Non sono venute risposte a questi interrogativi.

Così come non vi sono state proteste significative (al riguardo gli agricoltori e gli allevatori sono stati molto più bravi degli industriali e dei lavoratori dell’industria) per tutte le misure adottate senza considerare gli effetti sui settori industriali di base (acciaio, chimica, carta, vetro, ceramica ecc.) che dal 2030-2032 non avranno più quote gratuite di CO2 e che per questo saranno costretti a chiudere o a delocalizzare creando gravi problemi alle filiere industriali sottostanti e nuove dipendenze strategiche.

Solo in un caso, quello delle norme sul packaging, si è vista una battaglia vincente degli industriali che si opponevano a norme assurde. Guarda caso la battaglia è stata condotta con successo dagli italiani che hanno raccolto intorno alla loro impostazione molti Paesi dell’Unione dimostrando che è possibile contrastare decisioni sbagliate della Commissione Europea.

In generale al di là di questo caso di successo, gli industriali europei e le loro organizzazioni devono recitare il mea culpa per la loro incapacità di difendere l’industria europea dagli eccessi del green deal e dalla caduta di competitività che ne discende.

Solo oggi, molto lentamente, si fa strada la consapevolezza che così non si può andare avanti e che gli eccessi dell’estremismo ambientalista e del mercatismo globalista rischiano di ammazzare l’industria europea. Ma la strada è ancora lunga e in salita.

Ripenso con tristezza e rabbia ai tanti interventi che ho svolto negli ultimi anni in Consiglio Generale di Confindustria su questi temi, interventi spesso accolti da alcuni autorevoli colleghi con fastidio come divisivi o addirittura antieuropei. Purtroppo non ha voluto davvero bene all’Europa proprio chi non ha saputo vedere cosa stava accadendo, e per conformismo ha preferito assecondare il mainstream, e per mancanza di coraggio non ha saputo o voluto contrastare un’ideologia che, nei fatti, vuole cancellare l’industria europea.

Forse qualcosa oggi sta cambiando ma tutto è diventato maledettamente più difficile.

Von der Leyen candidata Ppe alle elezioni europee: “Noi per un Green Deal pragmatico”

La strada verso la rielezione ora è ufficiale. Ursula von der Leyen, l’attuale presidente della Commissione Europea, è in corsa per succedere a se stessa per altri 5 anni anni alla guida dell’esecutivo dell’Unione, dopo la nomina arrivata al Congresso di Bucarest della sua famiglia politica europea – il Partito Popolare Europeo (Ppe) – come candidata comune alle elezioni di giugno. E la partita si gioca non solo sul piano delle alleanze post-elettorali a Bruxelles, ma anche sulla nuova visione di uno dei pilastri fondanti della Commissione da lei stessa guidata dal 2019 a oggi: il Green Deal europeo.

A differenza di altri, noi siamo per soluzioni pragmatiche e non ideologiche sul Green Deal“, ha rivendicato la ‘Spitzenkadidatin’ (candidata comune) del Ppe nel suo intervento di investitura. Nessuna sorpresa sulla nomina con 400 voti a favore e 89 contrari – considerato il fatto che von der Leyen era l’unica candidata in lizza e supportata dalla pressoché totalità dei leader dei partiti nazionali – ma ciò che ha più colpito a Bucarest è stata la veemenza e il vigore con cui la politica tedesca ha elencato le priorità della campagna elettorale del Ppe verso l’appuntamento alle urne di giugno.

Se da una parte von der Leyen si è implicitamente rifatta a una retorica ormai rodata dalla destra europea contro il suo stesso ex-braccio destro responsabile per l’Azione per il clima – il vicepresidente socialista della Commissione Ue fino ad agosto 2023, Frans Timmermans – dall’altra ha voluto rilanciare l’obiettivo dei popolari europei per la prossima legislatura: “Noi del Ppe sappiamo che non c’è economia competitiva senza protezione del clima e non c’è protezione del clima senza economia competitiva“, e allo stesso tempo “siamo stati i primi a progettare il Green Deal in modo sociale, industriale ed economico“.

Ad appoggiarla anche il vicepresidente del Ppe e vicepremier italiano, Antonio Tajani: “Dobbiamo proteggere le industrie e l’agricoltura, perché senza non abbiamo lavori per le giovani generazioni. Questo è il nostro impegno contro il cambiamento climatico“. Tajani si è definito “pragmatico” e “non un seguace della religione di Greta Thunberg e del commissario Timmermans“, calcando la mano sul fatto che “è possibile tracciare la strada per un futuro migliore e supportare allo stesso tempo industrie e agricoltura“. Parole simili a quelle scelte dal presidente dei popolari europei, Manfred Weber: “Come Ppe mostreremo che potremo portare insieme successo economico e responsabilità ambientale, siamo il partito dei protettori del clima“.

A proposito di economia e ambiente, inevitabile dopo l’ondata di proteste degli agricoltori che ha travolto i Paesi membri e l’Unione nel suo insieme il forte focus di von der Leyen sull’agricoltura europea: “Voglio essere molto chiara, il Ppe sarà sempre dalla parte dei nostri agricoltori“. Proprio i rappresentanti della categoria produttiva nel corso dell’ultimo mese “mi stanno spiegando le enormi sfide che stanno affrontando“, ha continuato la candidata dei popolari europei: “Si svegliano presto la mattina, lavorano duro per il cibo di qualità che noi mangiamo“, ma “i costi si alzano, i prezzi che ottengono per latte, carne e grano sono volatili e spesso imposti da altri nella catena alimentare” e “a volte sono costretti a venderli sotto i costi di produzione“. Tutto questo “è totalmente inaccettabile“, ha messo in chiaro con forza la presidente della Commissione Ue: “La nostra sicurezza alimentare dipende dalla sicurezza delle condizioni di vita dei nostri agricoltori, per questo dobbiamo riportare sostenibilità” al sistema alimentare. Da qui parte una campagna elettorale lunga 90 giorni, in vista delle europee del 6-9 giugno.

Sul Green Deal autogol dell’Europa che però non può essere abbandonata

In questi mesi che precedono le elezioni, il sentire (abbastanza) comune è criticare l’Europa. Non in assoluto, no, ma quella messa in piedi da Frans Timmermans e Ursula von der Leyen, l’Europa del Green Deal tanto ‘nobile’ nelle intenzioni quanto spropositato nell’applicazione. Al punto da ripiegarsi su se stesso e da venire sconfessato pezzetto dopo pezzetto. L’ultimo dietrofront è stato sui pesticidi, con la colonna sonora assordante dei trattori che hanno invaso (con danni) Bruxelles. I motivi di questo flop sono ormai una cantilena e diventa facile sintetizzarli: va bene decarbonizzare, ci mancherebbe, ma farlo in questa maniera esasperata, ponendo obiettivi irraggiungibili ed economicamente insostenibili, significa generare un movimento di rifiuto che poco alla volta produce effetti contrari.

In fondo, le ‘trattorate’ di queste ore sono l’ultimo meccanismo di espulsione da una politica verde che ha generato malumori in grandi ei e piccole aziende, nei cittadini ‘comuni’. Perché, riavvolgendo il nastro del tempo, non è possibile sorvolare sui guasti della direttiva sulle auto elettriche, sulle case green, sui gas serra, sugli imballaggi. Battaglie che l’Europa di Timmermans e Vdl ha perso, specialmente da quando l’ultra-ambientalista olandese ha lasciato i suoi incarichi a Bruxelles. Giugno è domani e con questo andazzo sarà complicato portare i cittadini alle urne, almeno in Italia. Nel 2019 la percentuale di votanti è stata di poco superiore al 50%, pressoché in linea con il resto d’Europa a eccezione di Belgio, Lussemburgo e Malta. Questo per dire che un’elezione ‘sentita poco’ rischia di essere addirittura ignorata in una situazione di massimo disagio quando, al contrario, diventa importantissimo votare per scegliere chi governerà tra Strasburgo e Bruxelles, incidendo poi sulle politiche dei vari Paesi. Per l’Europa presa in mezzo tra Putin e Netanyahu, smaniosa di sapere che strada prenderanno gli Stati Uniti, è fondamentale uscire fortificata dalle urne. Tocca alla politica farlo capire a chi non possiede una sensibilità europea e considera le decisioni di palazzo Berlaymont una sorta di implacabile mannaia. Che sia Europa o Stati Uniti d’Europa non è dirimente, basta che sia.

Quattro mesi non sano tanti ma neppure pochissimi, conviene che la tessitura della tela cominci subito e non sia schiava della campagna elettorale che, spesso, porta a una visione miope del futuro. Proprio sul tema ambientale, ad esempio, l’Europa si gioca molto: deve continuare a essere un esempio per il mondo senza dimenticare che la sua produzione di gas serra corrisponde più o meno all’8% di quella planetaria. Cina, India, Stati Uniti ‘valgono’ infinitamente di più e sono Paesi che per adesso hanno sempre anteposto i propri interessi economici a quelli della collettività. La condivisione di due esigenze contrapposte è una sfida, la vera sfida. Senza estremismi deleteri, usando persino l’attaccatutto per tenere unito il Vecchio Continente.

Von der leyen

Von der Leyen lancerà il 25 gennaio il dialogo strategico sull’agricoltura

Il dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura nell’Ue con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, partirà formalmente il 25 gennaio, alla presenza di una trentina di organizzazioni della filiera. Il dialogo strategico per rimettere gli agricoltori al centro della transizione era stato annunciato a settembre da von der Leyen in occasione del Discorso sullo stato dell’Unione e confermato a dicembre dalla leader tedesca, che ha indicato il mese di gennaio per l’avvio.

A guidare il confronto, spiegano a GEA fonti della Commissione, sarà Peter Strohschneider, indicato per la “lunga e riconosciuta esperienza professionale“, in particolare come presidente della ‘commissione per il futuro dell’agricoltura’ (Zukunftskommission Landwirtschaft, ZKL) del governo federale tedesco. L’iniziativa, a cui parteciperanno diverse organizzazioni degli agricoltori tra cui COPA e COGECA e IFOAM Organics Europe, punterà nei prossimi mesi a promuovere la creazione di nuove soluzioni e a realizzare una “visione comune” entro l’estate del 2024. Dopo la riunione di avvio saranno organizzati diversi incontri tematici, che si svolgeranno nella prima metà dell’anno.

Il confronto tra agricoltori, cooperative, imprese agricole e organizzazioni non governative e i rappresentanti della società civile, servirà a mettere a fuoco sfide e opportunità per la filiera, come un tenore di vita equo per gli agricoltori e le comunità rurali, il sostegno all’agricoltura entro i confini del nostro pianeta e dei suoi ecosistemi, lo sfruttamento delle enormi opportunità offerte dalla conoscenza e dall’innovazione tecnologica e la promozione di un futuro prospero per il sistema alimentare dell’Ue in un mondo competitivo.

L’intero sistema alimentare deve anche affrontare diverse sfide serie, come il cambiamento climatico e un mercato globale molto competitivo, con un enorme impatto sull’intero settore, in particolare sugli agricoltori e sulle comunità rurali”, ricordano fonti della Commissione. Il dialogo dovrebbe servire a trovare il giusto equilibrio tra gli obiettivi di sicurezza alimentare e il reddito degli agricoltori, non perdendo di vista gli obiettivi della transizione verde che devono coinvolgere anche il comparto (dal momento che da lì arriva oltre il 10 per cento delle emissioni).

Dallo scorso autunno la Commissione europea ha lanciato una nuova fase del Green Deal, più attenta alla realtà industriale e agli agricoltori che negli ultimi mesi hanno manifestato il loro disappunto su alcuni dei pilastri chiave della strategia per la crescita verde dell’Europa. E la loro insoddisfazione è presto diventata bandiera politica del Partito popolare europeo (Ppe) – famiglia politica della stessa von der Leyen – in vista delle prossime elezioni di giugno. Il gruppo e in generale il centrodestra europeo ha preso di mira prima la proposta di Legge sul ripristino della natura, accusata di minacciare la produzione agricola e dunque la sicurezza alimentare in un momento delicato, come quello attuale, della guerra di Russia in Ucraina. E poi, ha contribuito ad affossare la proposta di riduzione dell’uso dei pesticidi, che ormai slitterà direttamente alla prossima legislatura.