Allarme Onu: 95% Paesi ritardano consegna piani su obiettivi climatici

Quasi 200 paesi in tutto il mondo hanno avuto tempo fino ad oggi per presentare all’Onu la loro nuova tabella di marcia sul clima. Ma quasi tutti hanno saltato l’appuntamento, alimentando il timore di un ‘attendismo’ delle principali economie nella loro lotta contro il cambiamento climatico dopo il ritorno di Donald Trump. Secondo un database delle Nazioni Unite, solo 10 firmatari dell’accordo di Parigi hanno presentato le loro strategie aggiornate per ridurre i gas serra entro il 2035 entro la scadenza del 10 febbraio.

Di fatto, mentre il Regno Unito, la Svizzera e il Brasile (che ospiterà la COP30 a novembre) hanno presentato i loro piani, altri mancano all’appello, e non ultimi: Cina, India e Unione Europea, ad esempio. Quanto al piano presentato dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden, è probabile che resti lettera morta, vista la rielezione di Donald Trump, che ha annunciato un nuovo ritiro del suo Paese dall’accordo di Parigi. Questo ritiro è “chiaramente una battuta d’arresto” per la diplomazia climatica e potrebbe spiegare l’atteggiamento attendista di altri paesi, afferma Ebony Holland del think tank International Institute for Environment and Development (IIED). “Sono chiaramente in corso importanti cambiamenti geopolitici che si stanno rivelando complicati per la cooperazione internazionale, soprattutto su grandi questioni come il cambiamento climatico“, ha osservato.

L’accordo di Parigi impone ai firmatari di rivedere regolarmente i propri impegni di decarbonizzazione, denominati “contributi determinati a livello nazionale” (NDC nel gergo delle Nazioni Unite). Questi testi spiegano nel dettaglio, ad esempio, come un paese intende procedere per sviluppare energie rinnovabili o abbandonare il carbone. Tali strategie mirano a riflettere la quota che ciascun Paese sta assumendo per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Per raggiungere questo obiettivo, le emissioni globali, che non sono ancora in calo, devono essere dimezzate entro il 2030.

Tuttavia, secondo l’Onu, le precedenti tabelle di marcia stanno portando il mondo, già più caldo di 1,3°C, verso un riscaldamento catastrofico compreso tra 2,6°C e 2,8°C. A questo livello, le ondate di calore, la siccità e le precipitazioni estreme, già in aumento, diventeranno estreme, accompagnate da un aumento delle estinzioni delle specie e da un innalzamento irreversibile dei livelli del mare. Il ritardo nella presentazione degli Ndc, i cui obiettivi non sono giuridicamente vincolanti, non comporta alcuna sanzione. Anche l’ONU sui cambiamenti climatici ha riconosciuto queste scadenze: il suo segretario esecutivo Simon Stiell, che descrive gli NDC come “i documenti di politica pubblica più importanti del secolo“, ha ritenuto “ragionevole prendersi un po’ più di tempo per garantire che questi piani siano della massima qualità“.

Secondo un funzionario delle Nazioni Unite, più di 170 paesi hanno dichiarato che intendono presentare i loro piani quest’anno, la maggior parte dei quali prima della COP30. “Al più tardi, il team della segreteria avrebbe dovuto riceverli entro settembre“, ha aggiunto il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), durante un discorso pronunciato in Brasile. Alcuni paesi devono chiarire la loro visione, riconosce Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think tank europeo Strategic Perspectives. Ma “ciò che preoccupa è che se troppi paesi restano indietro, si potrebbe dare l’impressione che non abbiano la volontà di agire“, teme.

Oltre al ritorno di Donald Trump, i leader di molti Paesi sono alle prese con l’inflazione, il debito o l’avvicinarsi di elezioni importanti, come in Germania. Anche l’Unione Europea si trova ad affrontare l’ascesa di partiti di estrema destra ostili alle politiche sul clima. Tuttavia, il blocco dei 27 paesi intende presentare la propria tabella di marcia “ben prima” della COP30 e intende continuare a essere “una voce preminente per l’azione internazionale sul clima“, ha assicurato un portavoce. Per quanto riguarda la Cina, il più grande inquinatore al mondo e il più grande investitore nelle energie rinnovabili, si prevede che quest’anno presenterà il suo attesissimo piano. Finora, secondo Climate Action Tracker, che critica gli ultimi aggiornamenti provenienti da Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, poche strategie si sono rivelate all’altezza. Secondo questo gruppo di ricerca, solo il Regno Unito se la cava bene.

Caldo record

Clima, Copernicus conferma: il 2024 sarà l’anno più caldo di sempre

Ancora più caldo del record stabilito nel 2023: è ormai certo che il 2024 sarà il primo anno al di sopra della soglia di 1,5°C di riscaldamento rispetto al periodo preindustriale, il limite a lungo termine fissato dall’Accordo di Parigi. Dopo il secondo novembre più caldo mai registrato, “è di fatto certo che il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato e supererà il livello pre-industriale di oltre 1,5°C”, ha annunciato il Climate Change Service (C3S) dell’osservatorio europeo Copernicus.
Il mese di novembre, segnato da una serie di devastanti tifoni in Asia e dal perdurare di storiche siccità nell’Africa meridionale e in Amazzonia, è stato più caldo di 1,62°C rispetto al periodo in cui l’umanità non bruciava petrolio, gas o carbone su scala industriale.

Novembre scorso è il 16° degli ultimi 17 mesi a registrare un’anomalia di 1,5°C rispetto al periodo 1850-1900, secondo il database Copernicus ERA5. Questo sbarramento simbolico corrisponde al limite più ambizioso dell’Accordo di Parigi del 2015, che mira a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C. Tuttavia, questo accordo si riferisce alle tendenze a lungo termine: il riscaldamento medio di 1,5°C dovrà essere osservato per almeno 20 anni perché il limite possa essere considerato superato.

In base a questo criterio, attualmente il clima si sta riscaldando di circa 1,3°C; l’IPCC stima che il limite di 1,5°C sarà probabilmente raggiunto tra il 2030 e il 2035. E questo indipendentemente dall’andamento delle emissioni umane di gas serra, che sono vicine al loro picco ma non ancora in declino.

Secondo gli ultimi calcoli delle Nazioni Unite, il mondo non è affatto sulla buona strada per ridurre l’inquinamento da carbonio, al fine di evitare un forte peggioramento delle siccità, delle ondate di calore e delle piogge torrenziali già osservate, che hanno un costo in termini di vite umane e di impatto economico. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente spiega che il mondo si sta dirigendo verso un riscaldamento globale “catastrofico” di 3,1°C in questo secolo, o addirittura di 2,6°C se le promesse di fare meglio saranno mantenute. I Paesi hanno tempo fino a febbraio per presentare alle Nazioni Unite i loro obiettivi climatici rivisti per il 2035, noti come “contributi nazionali determinati” (NDC).

Ma l’accordo minimo raggiunto alla COP29 alla fine di novembre potrebbe essere usato per giustificare le basse ambizioni. Ai Paesi in via di sviluppo le nazioni ricche hanno promesso 300 miliardi di dollari di aiuti annuali da qui al 2035, meno della metà di quanto chiedono per finanziare la loro transizione energetica e l’adattamento ai danni climatici. Il vertice di Baku si è inoltre concluso senza alcun impegno esplicito ad accelerare la “transizione” dai combustibili fossili, approvata alla COP28 di Dubai.
Secondo le stime di Swiss Re, il gruppo svizzero che funge da assicuratore per gli assicuratori, nel 2024 i disastri naturali causati dal riscaldamento globale causeranno perdite economiche per 310 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Cop28, ‘perdite e danni’, global stocktake, Accordo di Parigi: le parole chiave della conferenza

La Cop28, cioè la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si è aperta il 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, ha riportato all’attenzione del mondo una serie di parole e concetti chiave legati al cambiamento climatico.

FONDO ‘PERDITE E DANNI’. Nel corso della prima giornata, le parti hanno concordato di rendere operativo il cosiddetto ‘Fondo perdite e danni (Loss and damage)’, a favore dei paesi particolarmente vulnerabili ai disastri climatici e storicamente meno responsabili delle emissioni di gas effetto serra. Si tratta di uno dei punti chiave di questa Cop. Durante quella dello scorso anno, che si è tenuta a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, era stato creato il fondo destinato a compensare le ‘perdite e i danni’, ma la sua attuazione si è rivelata molto complessa. All’inizio di novembre era stato trovato un fragile compromesso sul suo funzionamento e Sultan Al Jaber aveva espresso il desiderio che potesse essere approvato dalle parti proprio all’inizio della Conferenza. E così è stato. Resta da vedere, ora, quanto denaro verrà messo nel fondo, che sarà provvisoriamente ospitato dalla Banca Mondiale. Le prime promesse sono iniziate: 100 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti, altrettanti da Italia e Germania, 10 milioni dal Giappone, 17,5 milioni dagli Stati Uniti, fino a 40 milioni di sterline (circa 50 milioni di dollari) dal Regno Unito. La Commissione europea contribuirà con 270 milioni di euro. Questi importi, però, sono ancora molto lontani dalle decine di miliardi necessarie per finanziare i danni climatici nei paesi vulnerabili, che spingono verso l’obiettivo di 100 miliardi di dollari.

ACCORDO DI PARIGI. Siglato nel 2015 durante la Cop21, l’Accordo di Parigi ha mobilitato l’azione collettiva globale per proseguire gli sforzi volti a limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo chiede ai Paesi di rivedere gli impegni ogni cinque anni, di fornire finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo per mitigare i cambiamenti climatici, di rafforzare la resilienza e migliorare le capacità di adattamento agli impatti del clima. Ma perché è importante mantenere la temperatura sotto 1,5°C? La frequenza e l’intensità degli eventi meteorologici estremi e gli effetti irreversibili e permanenti, così come l’innalzamento del livello del mare, aumenteranno in modo significativo a meno che non si intervenga in modo sostanziale per contenere le temperature globali. Gli scienziati hanno raggiunto un consenso globale: dobbiamo limitare l’aumento della temperatura media mondiale a 1,5°C (equivalente a 2,7°F) rispetto ai livelli preindustriali per garantire il nostro futuro. Questa soglia è fondamentale per prevenire un ulteriore degrado ed evitare conseguenze potenzialmente irreversibili.

GLOBAL STOCKTAKE. Un’altra delle parole chiave di questa Cop28, è Global Stocktake. Ma che cos’è? E’ una valutazione dei progressi compiuti per mitigare il riscaldamento globale dall’Accordo di Parigi del 2015. Si tratta, insomma, di capire cosa è stato fatto da allora e cosa resta da fare. E’ un processo biennale previsto ogni cinque anni: il primo è iniziato nel 2022 e si concluderà proprio durante la Cop28. Il prossimo avverrà nel 2028 e poi di nuovo nel 2033. L’obiettivo è quello di coordinare gli sforzi sull’azione per il clima, comprese le misure per colmare le lacune nei progressi. Il Global Stocktake è previsto dall’articolo 14 dell’Accordo di Parigi. Questa valutazione comporta una revisione completa di tutti gli aspetti relativi all’azione e al sostegno globale per il clima, consentendo di identificare le carenze e di sviluppare in modo collaborativo le soluzioni, sia per il futuro immediato sia per il periodo successivo al 2030. Alla Cop28 la speranza è che il bilancio sia positivo.

Pichetto alla Pre-Cop28: “Politiche climatiche e scelte energetiche sono facce della stessa medaglia”

La parola d’ordine è realismo. Alla pre-Cop28 di Abu Dhabi il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto, porta la posizione italiana. Ribadendo che è un “dovere di tutti noi contribuire all’attuazione dell’Accordo di Parigi con la massima ambizione possibile, agendo con risolutezza entro il 2030 per ridurre le emissioni globali e procedere verso una traiettoria chiara di neutralità climatica”. Ma, allo stesso tempo, “un’azione ambiziosa per il clima è una azione equa, poiché riduce i rischi associati al riscaldamento globale, proteggendo i più vulnerabili dagli impatti peggiori”. Dunque, portare avanti la sostenibilità ambientale, ma anche quella economica e sociale. Sebbene, puntualizza Pichetto, “Tutti dobbiamo contribuire, e certamente in particolare quelli che attualmente emettono quote elevate di emissioni globali”.

Il responsabile del Mase esorta a sfruttare le occasioni che la scienza mette a disposizione dei governi e degli Stati, fornendo “soluzioni realizzabili per affrontare questa sfida globale”, anche se “la finestra di opportunità per agire per limitare gli effetti del cambiamento climatico – avverte – è molto stretta e non possiamo perdere altro tempo”.

Serve pragmatismo nelle scelte, quindi una delle basi di discussioni da cui l’Italia suggerisce di partire è quella di considerare politiche climatiche e scelte energetiche sul medesimo binario: “Sono facce di una stessa medaglia, non si può parlare delle prime senza affrontare il tema della riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili e al contempo assicurare la sicurezza energetica”, sottolinea Pichetto. Che poi aggiunge: “In questo contesto, riteniamo che la Cop28, attraverso il Global stocktake, possa e debba dare indicazioni chiare verso percorsi realistici che portino ad obbiettivi tangibili”.

Tra questi cita “triplicare la capacità di energia rinnovabile globale e raddoppiare il tasso di efficienza energetica attuale, ridurre drasticamente le emissioni di metano, eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili e adottare misure di mitigazione ambiziose in tutti i settori economici”. Obiettivi che definisce “tutti alla nostra portata”. Per questo “è evidente che il successo della Cop28 sarà misurato anche se saremo in grado di definire e contestualizzare l’obbiettivo globale per l’adattamento”.

Ma Pichetto avvisa i partner internazionali anche su altri fattori da tenere bene a mente: “Il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine dell’Accordo di Parigi richiede una trasformazione fondamentale di tutte le economie e un grande cambiamento nella struttura dell’economia globale, dei mercati finanziari e degli investimenti”. Ragion per cui, ammonisce, “dobbiamo lavorare insieme per rimuovere le barriere che ostacolano l’accessibilità e la sostenibilità dei Paesi vulnerabili e indebitati nell’attrarre finanziamenti per la transizione energetica e rafforzare la resilienza”.

Infine, altra parola d’ordine è sostenibilità. “La mitigazione e l’adattamento devono essere integrati in ogni decisione economica e finanziaria a livello nazionale e globale, oltre che nei bilanci nazionali”, ribadisce ancora Pichetto. Che conclude: “Solo in questo modo possiamo realmente coniugare la lotta al cambiamento climatico con le esigenze di sviluppo che i nostri cittadini ci richiedono”.

 

Photo credit: Mase

Al via la Cop15. L’Onu: “Le crisi del clima e della biodiversità sono collegate, è urgente agire”

Archiviata la Cop27, da oggi si alza il sipario della Cop15 sulla biodiversità, che si svolgerà a Montréal sino a lunedì 19 dicembre. Dopo l’arresto forzato causato dalla pandemia, quasi duecento Paesi si ritrovano per cercare di elaborare un nuovo quadro globale per la protezione della natura. Tuttavia, dopo tre anni di negoziati minuziosi, ci sono ancora molti punti in sospeso. Nonostante questo, Elizabeth Maruma Mrema, responsabile della Convenzione Onu sulla Diversità Biologica (Cbd), in un’intervista all’Afp spiega che resta “ottimista” e che confida in un “momento Parigi” per la natura, riferendosi allo storico accordo del 2015 per limitare il riscaldamento globale e al fatto che le crisi del clima e della biodiversità siano inestricabilmente legate, per cui è “urgente agire”.

“La biodiversità deve avere successo, perché è da qui che nascono le soluzioni per l’attuazione dell’Accordo di Parigi. La natura è importante quanto il clima” e le due questioni devono essere affrontate “insieme”, sottolinea Elizabeth Maruma Mrema. Siamo vicini al “punto di svolta”, ma “non è troppo tardi” prima che non rimanga “nulla per i nostri figli”. Insistendo sul drammatico punto di partenza, ricorda che il declino della biodiversità sta raggiungendo “un livello senza precedenti nella storia: stimiamo che il 90% degli ecosistemi sia stato colpito finora e che più di un milione di specie sia a rischio di estinzione”.
Nel corso di questa Cop, “l’importante è che venga adottato un quadro di riferimento, e tutti noi avremo interesse a garantirne l’attuazione per evitare di tornare al punto di partenza”, aggiunge la tanzaniana, rallegrandosi del fatto che dal 2010 si sia imparato qualcosa. In quell’anno, infatti, i 196 Paesi firmatari della Convenzione sulla diversità biologica (Cbd) si sono impegnati ad attuare misure, note come Obiettivi di Aichi, per arrestare il declino della biodiversità entro il 2020. Ma quasi nessuno degli obiettivi è stato raggiunto. Questa volta, però, secondo Elizabeth Maruma Mrema c’è l’impegno di tutte le parti interessate e il rinvio di due anni ha permesso ampie consultazioni: “Il quadro – specifica –  dovrebbe essere adottato contemporaneamente a un meccanismo di monitoraggio” e poi “tutti gli obiettivi saranno accompagnati da traguardi quantificati”. Come non è invece stato per l’ultimo accordo.

Ma l’approvazione di obiettivi ambiziosi e quantificati sarà subordinata a impegni finanziari da parte del Nord verso il Sud, uno dei “punti complicati” dei negoziati, riconosce Elizabeth Maruma Mrema. Come per i colloqui sul clima, alcuni Paesi vogliono avere “la garanzia che saranno disponibili risorse finanziarie sufficienti per attuare le misure”. Tra i circa venti obiettivi in discussione, l’ambizione principale, denominata 30×30, mira a porre almeno il 30% della terra e del mare del mondo sotto una protezione legale minima entro il 2030, rispetto al 17% e al 10% del precedente accordo del 2010. Per Elizabeth Maruma Mrema, tuttavia, questo è solo “uno dei 22 obiettivi” e sarà essenziale guardare all’accordo “nel suo complesso. Se vogliamo invertire la perdita di biodiversità entro il 2030. Allora significa che tutti gli obiettivi devono essere implementati, non solo uno”, conclude.

gas

Ecco come vengono calcolate le emissioni di Co2

Gli inventari nazionali dei gas serra sono utilizzati nell’ambito dell’Accordo di Parigi per garantire il rispetto degli impegni assunti dai firmatari. Ma come si misurano queste emissioni?

I gas serra sono gas che assorbono la radiazione infrarossa (parte dei raggi solari) emessa dalla superficie terrestre. Contribuiscono quindi all’effetto serra, che mantiene ragionevole la temperatura della superficie terrestre. Per gli inventari nazionali vengono prese in considerazione le cosiddette emissioni antropogeniche, derivanti dalle attività umane. Le sostanze in questione stanno aumentando nell’atmosfera e sono responsabili del riscaldamento globale.

Gli inventari nazionali delle emissioni di gas serra si basano su stime, utilizzando una semplice formula matematica. Le emissioni sono calcolate moltiplicando la quantità di attività per un “fattore di emissione” per la sostanza in esame. Per i Paesi che non sono in grado di determinare i valori nazionali per i loro fattori di emissione, gli esperti climatici delle Nazioni Unite propongono dati predefiniti.

Il fattore di emissione viene utilizzato per convertire i livelli di consumo delle diverse energie in quantità di gas serra. I Paesi seguono le linee guida dell’IPCC nella preparazione dei loro rapporti. Questi includono raccomandazioni sui metodi di raccolta dei dati, sui settori da monitorare e sul potere di riscaldamento globale di ciascun gas. Si tratta di un indice che permette di confrontare l’impatto relativo dei gas serra sul cambiamento climatico, convertendo le emissioni dirette in “CO2 equivalente” (eqCO2). Si tratta del “potere di riscaldamento globale (GWP) che rappresenta l’impatto di un gas serra sul clima“.

Non tutti i Paesi hanno le stesse responsabilità nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). I cosiddetti Paesi dell’Allegato 1, che comprendono tutti i membri dell’OCSE e la Russia, si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni e a fornire un rapporto di inventario disponibile due anni dopo l’anno osservato. Per il resto del mondo, che “oggi emette il 70% delle emissioni di gas serra del pianeta, non c’è altro obbligo che cercare di fare comunicazioni nazionali a intervalli regolari, che sono meno precise e per nulla in un formato armonizzato“, spiega Philippe Ciais, direttore di ricerca presso il Laboratorio di Scienze Climatiche e Ambientali (LSCE) e autore dell’IPCC.

La Cina, il maggior emettitore di gas serra, e gli Stati del Golfo rientrano in questa categoria. I principali settori che vengono esaminati sono:

  • Energia, con tutte le attività di combustione di combustibili nell’industria, nei trasporti e nell’edilizia;
  • Processi industriali, ad esempio la produzione di cemento o vetro, l’industria chimica, elettronica e metallurgica, ma anche l’uso di prodotti in sostituzione delle sostanze che riducono lo strato di ozono;
  • Agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo;
  • Trattamento dei rifiuti.

 

I principali gas serra identificati dall’IPCC sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC) utilizzati in particolare nei propellenti spray, i perfluorocarburi (PFC) presenti nei condizionatori d’aria, l’esafluoruro di zolfo (SF6) utilizzato come isolante termico e il trifluoruro di azoto (NF3) utilizzato nella microelettronica. Gli inventari nazionali comunicati all’UNFCCC includono anche le emissioni di quattro gas serra indiretti: monossido di carbonio (CO), composti organici volatili non metanici (COVNM), ossidi di azoto (NOx) e ossidi di zolfo (SOx).