Contromossa della Cina dopo dazi su auto elettriche: “Inchiesta anti dumping su importazione di carne suina europea”

La Cina ha annunciato lunedì di aver avviato un’indagine antidumping sulle importazioni di carne suina e prodotti derivati dall’Unione Europea. Il ministero del Commercio “ha avviato un’indagine antidumping sulle importazioni di carne di maiale e prodotti derivati dall’Unione Europea”, ha dichiarato in un comunicato.

L’annuncio arriva nel contesto di crescenti tensioni commerciali tra Cina e Unione Europea. La scorsa settimana l’Ue ha dichiarato che avrebbe imposto ulteriori dazi doganali sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi a partire dal mese prossimo, a seguito di un’indagine antisovvenzioni avviata nel settembre 2023. I veicoli prodotti nelle fabbriche cinesi sono stati finora tassati nell’Ue con un’aliquota del 10%. Bruxelles prevede di aggiungere dazi compensativi del 17,4% per il produttore cinese BYD, del 20% per Geely e del 38,1% per SAIC, al termine di quasi nove mesi di indagine.

Pechino ha immediatamente denunciato il “comportamento puramente protezionistico” degli europei, avvertendo che avrebbe preso “tutte le misure per difendere fermamente i suoi diritti legittimi”. A gennaio aveva già aperto un’indagine antidumping sui brandy europei, compreso il cognac francese. Avviata in seguito a un reclamo dei professionisti cinesi del settore alcolico, questa procedura è vista dagli osservatori anche come una misura di ritorsione nei confronti dell’indagine europea sui sussidi alle auto elettriche prodotte in Cina, ampiamente sostenuta dalla Francia.

Contestualmente, il Paese asiatico ha reagito con forza alla dichiarazione finale del G7, definendola “piena di arroganza, pregiudizi e bugie”. I leader riuniti a Borgo Egnazia hanno espresso la loro “preoccupazione per le politiche e le pratiche non di mercato” che stanno portando a “conseguenze globali, distorsioni del mercato e dannose sovraccapacità in un numero crescente di settori”. Il G7 ha inoltre esortato Pechino ad “astenersi da misure di controllo delle esportazioni, in particolare sui minerali critici, che potrebbero generare interruzioni significative nella catena di approvvigionamento globale”, dal momento che il Paese impone restrizioni alle esportazioni di minerali cruciali per settori come i veicoli elettrici e le telecomunicazioni.

La carne sostenibile? Potrebbe arrivare dall’allevamento dei pitoni

L’aumento della popolazione mondiale e la necessità di trovare fonti alternative di cibo – in modo particolare di proteine – stanno spingendo la ricerca scientifica in questa direzione. Uno studio pubblicato su Scientific Reports ha indirizzato la propria ricerca verso l’allevamento dei pitoni, che potrebbe rappresentare un’alternativa più sostenibile al tradizionale bestiame. Lo studio si è concentrato su due allevamenti in Thailandia e in Vietnam e i risultati dimostrano che i pitoni reticolati e birmani sono cresciuti rapidamente nell’arco di 12 mesi, nonostante non abbiano bisogno di cibo con la stessa frequenza di altri animali da.

Le pressioni ambientali e demografiche stanno influenzando i sistemi agricoli convenzionali. Nella produzione zootecnica, gli animali a sangue freddo (ectotermi), come i pesci e gli insetti, sono molto più efficienti dal punto di vista energetico rispetto agli animali a sangue caldo (endotermi), come i bovini o il pollame. E il consumo di carne di serpente sta crescendo di popolarità in alcuni Paesi asiatici, ma l’industria rimane piccola.

Daniel Natusch e colleghi della Macquarie University di Sydney, in Australia, hanno studiato i tassi di crescita di 4.601 pitoni reticolati (Malayopython reticulatus) e birmani (Python bivittatus) in due allevamenti di pitoni situati nella provincia di Uttaradit in Thailandia e a Ho Chi Minh City in Vietnam. I rettili sono stati alimentati settimanalmente con una varietà di proteine di provenienza locale, tra cui roditori selvatici e farina di pesce, e sono stati misurati e pesati regolarmente per un periodo di 12 mesi prima di essere abbattuti. Gli autori hanno scoperto che entrambe le specie di pitone crescevano rapidamente – fino a 46 grammi al giorno – anche se le femmine avevano tassi di crescita più elevati dei maschi. Dopo la quantità di cibo consumato, il tasso di crescita di un serpente nei primi due mesi di vita è stato il miglior predittore delle sue dimensioni corporee in seguito.

Gli autori hanno sperimentato diverse combinazioni di fonti proteiche (tra cui pollo, prodotti di scarto del maiale, roditori e farina di pesce) su un sottogruppo di 58 pitoni birmani dell’allevamento di Ho Chi Minh e hanno scoperto che per ogni 4,1 grammi di cibo consumato si poteva raccogliere 1 grammo di carne di pitone. Questo rapporto di conversione del cibo non variava significativamente tra le diete dei pitoni e, in termini di conversione delle proteine, è più efficiente di altri animali studiati finora. Inoltre, il 61% di questi pitoni birmani ha digiunato per periodi compresi tra 20 e 127 giorni, perdendo però pochissima massa corporea durante questo periodo.
Secondo gli autori, questi risultati indicano che l’allevamento commerciale dei pitoni potrebbe essere un’opzione di produzione alimentare fattibile e sostenibile che potrebbe integrare i sistemi di allevamento esistenti.

La polpetta (avvelenata) del ‘meat sounding’ altra grana europea

Se davvero di polpetta si tratta è sicuramente avvelenata. Perché intorno al ‘meat sounding’ si sta scatenando una battaglia tra Roma e Bruxelles. Qual è il nodo di questa vicenda che può sollevare qualche sorriso ma che in realtà cela una grana grande e grossa? Sintetizzando: si tratta di quei prodotti a base vegetale che vengono venduti con nomi che richiamano o citano espressamente prodotti a base di carne. Alzi la mano chi di noi non ha mai sentito parlare dell’hamburger vegetale, o della bistecca di soia, o delle polpette vegane, o – esagerando – della bresaola di grano? Ecco, tutti questi nomi che solleticano (in teoria) le papille gustative sono fuorilegge nel nostro Paese dall’anno scorso, in concomitanza con il ‘no’ alle carni sintetiche. Qui nasce il ‘meat sounding’, vietato peggio dei rave party, perché – lamentano – ti illudi di mangiare una chianina e invece ti trovi a ingurgitare soia.

Se da un lato il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e il senatore leghista Gianmarco Centinaio sono scesi in campo per contrastare questo presunto ‘tarocco’ alimentare a tutela dei consumatori, dall’altro le aziende che producono alimenti vegetariani sono sul piede di guerra e hanno scritto una lettera alla Ue per modificare la legge italiana e lasciare così alla polpetta la possibilità di esistere sia sotto forma di carne sia di proteine vegetali. La tanto vituperata Bruxelles, questa volta viene invocata per sanare un contrasto interno. Che succederà? In teoria dovrebbe essere l’etichettatura a fare da spartiacque tra i due prodotti anche per quelle persone che sono più svagate e magari tendono a confondersi.

E’ chiaro che di fronte alla guerra tra Israele e Hamas, alla crisi del Mar Rosso e al conflitto tra Russia e Ucraina, la vexata quaestio del ‘meat sounding’ è una briciola (il pane non rientra nella contesa…) ma i numeri fanno riflettere. Solo in Italia sono 22 milioni le persone che consumano abitualmente prodotti di natura vegetale, mentre quel 25% di italiani che ancora non ha testato le prelibatezze vegetariane/vegane ha confessato di essere intenzionata a farlo. Insomma, non proprio riscontri trascurabili. “Speriamo che usino un po’ di fantasia”, l’auspicio rivolto da centinaio a Unionfood. Una battuta che non ha fatto ridere i produttori ma che rischia di sollevare un ulteriore polverone. Nemmeno un ‘buon appetito’ ci sta bene in mezzo a tanta tensione. Insomma, a questo giro deve apparecchiare tavola Bruxelles

In Usa via libera al pollo in provetta. In Italia no di Coldiretti e governo

Upside Foods, produttore di carne ‘coltivata’ con sede in California, ha ricevuto l’approvazione della Fda (la massima autorità sanitaria americana) per il suo pollo a base di cellule, diventando la prima azienda negli Stati Uniti ad avere i suoi prodotti designati come sicuri da mangiare. L’annuncio storico arriva dopo anni di attesa poiché le aziende di carne coltivata, tra cui appunto Upside, hanno raccolto più di 2 miliardi negli ultimi due anni. “Questo è un momento di svolta nella storia del cibo“, ha commentato Uma Valeti, ceo e fondatrice di Upside Foods, secondo quanto riporta il sito Greequenn.com.

La Fda ha affermato nel suo annuncio che il pollo, composto da cellule di un animale vivo che vengono poi coltivate in bioreattori per produrre carne, ha ottenuto lo stato Gras dell’agenzia (generalmente riconosciuto come sicuro). Il prodotto deve ora soddisfare i requisiti Usda prima di poter essere approvato per la vendita.

Diffusa la notizia, esulta la Peta, People for the Ethical Treatment of Animals. Alzano le barricate invece Coldiretti, Filiera Italia e il governo italiano. Contro un’apertura ai cibi in provetta è così partita la grande mobilitazione, con il via alla raccolta di firme su tutto il territorio nazionaleper fermare una pericolosa deriva che mette a rischio il futuro della cultura alimentare nazionale, delle campagne e dei pascoli e dell’intera filiera del cibo Made in Italy”.

Siamo pronti a dare battaglia poiché quello del cibo Frankenstein è un futuro da cui non ci faremo mangiare”, attacca Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. Sulla stessa posizione Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, in risposta a una interrogazione della Lega: “Il governo è contrario al cibo artificiale“, considerandolo un “pericolo gravissimo“. Garantendo: “Finché saremo al governo, sulle tavole degli italiani non arriveranno cibi creati in laboratorio“.

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Allevamenti ad alte emissioni. Quanto inquina la produzione di carne e latte?

Nella strategia Farm to fork, incentrata sull’intera filiera alimentare che va dal campo al piatto dei consumatori, l’Unione europea affronta il problema di come rendere più sostenibili le attività agricole, che in Europa sono la terza fonte di emissione di Gas a effetto serra (Ghg). Tra queste, l’allevamento è quella più impattante, responsabile dei quattro quinti delle emissioni agricole. La situazione non è però omogenea a livello mondiale. Vale quindi la pena di approfondire il tema per capire quanto in effetti inquini la produzione di carne, latte e altri alimenti di origine animale. Partiamo dal contesto globale, confrontando alcuni studi sull’impatto dell’attività zootecnica per comprendere l’entità delle emissioni climalteranti prodotte da questo comparto e valutarne il peso effettivo rispetto ad altre attività antropiche.

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Al livello globale, secondo la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), tra il metano sprigionato dalla fermentazione enterica dei ruminanti e dalla gestione delle deiezioni animali che produce anche ossido di azoto, nel 2019 l’impatto degli allevamenti è stato di 3,7 Gigaton (Gt) di Co2 equivalente, unità di misura che prende in considerazione gli effetti delle diverse sostanze climalteranti rapportandoli a quelli dell’anidride carbonica, standardizzandone così la misurazione. Si tratta dei dati più recenti disponibili, pubblicati nel rapporto ‘FaoStat Analytical Brief 2021’ e riferiti al 2019, dai quali emerge che la zootecnia è responsabile del 51,4% delle emissioni derivanti dall’attività agricola, al netto di quelle prodotte dal cambio di destinazione d’uso del suolo. Rispetto al totale delle emissioni antropiche a livello globale, indicate nello studio ‘Emission gap report 2020’ dell’Unep (Programma delle Nazioni unite per l’ambiente) in 59,1 Gt di Co2 equivalente nel 2019, l’agricoltura nel complesso risulta responsabile del 12,2 per cento delle emissioni, mentre agli allevamenti in particolare è imputabile il 6,3 per cento del totale dei gas serra prodotti dall’uomo.

Per avere un’idea più chiara del peso della produzione di cibo sul riscaldamento globale, può essere utile un confronto con le altre attività produttive. Il riferimento è sempre il rapporto Unep 2020, che attribuisce il 24% delle emissioni totali prodotte nel 2019 alla sola produzione di elettricità e riscaldamento. Il settore dei trasporti, altro comparto critico per l’aumento delle temperature globali, è invece responsabile del 14% delle emissioni totali, prodotte principalmente dal trasporto su gomma. Nel settore dell’industria, il solo utilizzo di energia produce l’11 per cento dei Ghg globali, e un ulteriore 9 per cento è prodotto dai processi industriali.