Accordo alla Cop29: 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo

Dopo tre notti in bianco e interminabili negoziati, fra sabato e domenica il presidente della 29esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è riuscito a concludere un importante accordo sui finanziamenti per il clima in Azerbaigian. Ma troppo in fretta per alcuni. Nello stadio olimpico di Baku le scadenze continuavano a non essere rispettate, nella confusione dei negoziati coordinati dall’Azerbaigian. Ma all’improvviso, poco prima delle 3 di domenica mattina, il ministro dell’Ecologia del Paese, Moukhtar Babaïev, ha fatto passare rapidamente l’accordo, per consenso dei 195 membri dell’accordo di Parigi. Alcuni delegati si sono alzati per applaudire. Altri, in particolare dietro il leggio dell’Arabia Saudita, si sono accontentati di osservare educatamente. A quel punto sono iniziati i fuochi d’artificio. Mentre Cuba, India e Bolivia, persino la Svizzera e il Cile, hanno preso la parola per presentare le loro lamentele. La delegata indiana ha accusato pesantemente Babaïev di aver ignorato le sue obiezioni e di aver fatto adottare l’accordo per consenso nonostante la sua richiesta, una tattica che non è inedita in una Cop. L’importo approvato, 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo, è “irrisorio”, ha denunciato Chandni Raina. “Tutto è stato orchestrato e siamo estremamente, estremamente delusi da questo incidente”, ha detto, mentre gli attivisti in fondo alla sala battevano sui loro tavoli in segno di sostegno. Impassibile, il presidente della Cop29 ha risposto: “Grazie per la sua dichiarazione”. La 29esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha adottato una serie di decisioni, la principale delle quali prevede che i Paesi ricchi debbano finanziare 300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2035 per sostenere la transizione energetica e l’adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. Ecco i punti principali dell’accordo.

300 MILIARDI DI DOLLARI. Questo era il punto più atteso del vertice: quanto dovranno fornire ai Paesi in via di sviluppo i 23 Paesi sviluppati e l’Unione Europea, indicati nel 1992 come responsabili storici del cambiamento climatico? “Almeno 300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2035”, si legge nell’accordo di Baku, che stabilisce questo “nuovo obiettivo collettivo quantificato” in sostituzione del precedente di 100 miliardi all’anno. Si tratta della metà di quanto richiesto dai Paesi in via di sviluppo e di uno sforzo molto ridotto se si tiene conto dell’inflazione, hanno criticato le ONG. Secondo la formulazione del testo, “i Paesi sviluppati sono all’avanguardia” nel raggiungimento di questo importo, il che significa che altri possono partecipare. Il testo prevede che il contributo dei Paesi ricchi provenga dai loro fondi pubblici, integrati da investimenti privati da loro mobilitati o garantiti, o da “fonti alternative”, ossia da possibili tasse globali, ancora in fase di studio (sui grandi patrimoni, sull’aviazione o sui trasporti marittimi). Secondo l’accordo, questi 300 miliardi di dollari dovrebbero essere la leva necessaria per raggiungere un totale di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo. Questa cifra corrisponde al loro fabbisogno di finanziamenti esterni, secondo le stime degli esperti della commissione Onu Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern.

NESSUN OBBLIGO PER LA CINA. I Paesi occidentali chiedevano di ampliare l’elenco dei Paesi responsabili dei finanziamenti per il clima, sostenendo che nel frattempo Cina, Singapore e gli Stati del Golfo si erano arricchiti. Ma la Cina in particolare ha tracciato una linea rossa: questa lista non deve essere toccata. L’accordo di Baku “invita” i Paesi non sviluppati a fornire contributi finanziari, ma questi rimarranno “volontari”, come esplicitamente stabilito. L’accordo contiene tuttavia una novità: d’ora in poi, i finanziamenti per il clima dei Paesi non sviluppati concessi attraverso le banche multilaterali di sviluppo potranno essere conteggiati ai fini dell’obiettivo dei 300 miliardi. Gli europei hanno accolto con favore questa novità.

CONCESSIONI AI PAESI PIU’ VULNERABILI. Sabato hanno sbattuto brevemente la porta, lamentando di non essere stati ascoltati né consultati, ma i 45 Paesi meno sviluppati (LDC) e il gruppo dei circa 40 piccoli Stati insulari sono stati infine convinti a non bloccare l’accordo. Volevano che una parte degli aiuti finanziari fosse esplicitamente riservata a loro, contro il parere di altri Paesi africani e sudamericani. Alla fine, l’accordo anticipa al 2030 l’obiettivo di triplicare i finanziamenti, essenzialmente pubblici, che saranno incanalati attraverso fondi multilaterali dove hanno la priorità. Per la Cop30 di Bélem, in Brasile, nel novembre 2025, è prevista anche una roadmap che produrrà un rapporto su come incrementare i finanziamenti per il clima. Tra le altre cose, fornirà una nuova opportunità per ottenere più denaro sotto forma di sovvenzioni, mentre oggi il 69% dei finanziamenti per il clima consiste in prestiti.

POCO SULL’ELIMINAZIONE DEI COMBUSTIBILI FOSSILI. Qualsiasi riferimento esplicito alla “transizione” dai combustibili fossili, il principale risultato della Cop28 di Dubai, è scomparso nella finalizzazione dei testi principali, riflettendo una “battaglia del diavolo” con i Paesi produttori, secondo un negoziatore europeo. Appare solo implicitamente nei richiami all’esistenza dell’accordo adottato l’anno scorso. Ma il testo, che avrebbe dovuto rafforzarne l’attuazione, non è stato definitivamente adottato alla chiusura della Cop29, dopo una lunga battaglia che lo aveva già ampiamente svuotato della sua sostanza. Una delle priorità dell’Unione Europea, osteggiata dall’Arabia Saudita, era quella di ottenere un monitoraggio annuale degli sforzi per abbandonare petrolio, gas e carbone: senza successo.

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Jude Law in campo per il clima: “Big Oil paghi per danni climatici”

Jude Law, Mark Rylance, Aisling Bea, George MacKay, Michael Shannon e Lily Cole sono le ultime celebrità che si sono unite all’appello – lanciato da Global Witness – affinché le aziende produttrici di combustibili fossili siano costrette a pagare per il ruolo che hanno svolto nel causare il collasso climatico. “Petrolio, gas e carbone – dice Jude Law – stanno danneggiando il nostro pianeta, causando un’impennata di eventi meteorologici mortali. È ora che le aziende produttrici di combustibili fossili rispondano delle loro azioni”.

Secondo i dati dell’Ong Global Witness, solo nel 2022 l’industria del petrolio e del gas ha realizzato profitti al lordo delle imposte per 4.000 miliardi di dollari. Si tratta di dieci volte il costo annuale dei danni climatici nei Paesi in via di sviluppo, stimato in 400 miliardi di dollari all’anno. Il Fondo per le perdite e i danni dell’Unfccc, progettato per aiutare le nazioni più povere colpite dai disastri climatici, attualmente contiene meno dello 0,2% di questa cifra e a Baku, dove è in corso la Cop289, il tema della finanza climatica è il nodo cruciale.

La campagna, chiamata ‘Payback Time’, è sostenuta da numerose celebrità, attivisti e gruppi organizzati. Tra questi, l’ex presidente irlandese Mary Robinson, i registi Adam McKay e Joshua Oppenheimer, l’attrice di Star Wars Rosario Dawson, la star di Harry Potter Bonnie Wright, i musicisti Brian Eno e Jon Hopkins e alcuni importanti attivisti per il clima, tra cui Vanessa Nakate, Kumi Naidoo e Luisa Neubauer.

“La gente ha bisogno di soldi per ricostruire e adattarsi al nostro clima sempre più estremo. Ma in questo momento le compagnie petrolifere e del gas che alimentano il collasso climatico la fanno franca, realizzando immensi profitti grazie a prodotti che da decenni sanno essere dannosi per il pianeta. È ora di fargliela pagare”, spiega Mary Robinson. Per Kumi Naidoo “Decine di milioni di persone provenienti dai Paesi che hanno contribuito meno alla crisi climatica stanno già pagando il prezzo più brutale. Le aziende produttrici di combustibili fossili, i maggiori responsabili delle emissioni a livello mondiale, devono pagare”.

L’attore George MacKay è il protagonista di The End, un nuovo film post-apocalittico del regista Joshua Oppenheimer che affronta il ruolo dell’industria dei combustibili fossili nella crisi climatica e l’urgente necessità di responsabilizzare Big Oil. Il film sarà proiettato in anteprima negli Stati Uniti il mese prossimo. “Sono onorato e orgoglioso – dice l’artista – di far parte di questa azione e del film The End. Speriamo che possa dare il via a un nuovo inizio e alla continuazione della verità”.

Cop29 ai supplementari. Proposti 250 mld anno da Paesi ricchi. Africa: “Inaccettabile”

All’undicesimo giorno di lavori, alla Cop29 il Nord e il Sud globale continuano a darsi battaglia. La presidenza azera partorisce una bozza di compromesso sbilanciata a favore dei Paesi sviluppati, perché invita a raggiungere l’obiettivo di 1,3 trilioni di dollari entro il 2035, ma decide di stanziare una somma di 250 miliardi all’anno. Il testo comunque non è l’ultimo: dopo la bozza, pubblicata nel primo pomeriggio, iniziano le consultazioni tra facilitatori e delegazioni verso il testo finale.

Dopo il primo documento a opzioni, questo testo fa una sintesi, ma in sostanza riflette un’ambizione minima. Resta il macro goal di raggiungere, per il contrasto ai cambiamenti climatici dei Paesi in via di sviluppo, oltre mille miliardi in dieci anni, ma l’obbligo vincolante, che parla di finanza fornita (i fondi pubblici a fondo perduto) e mobilizzata (i fondi privati e prestiti di finanza bilaterale e multilaterale) è di 250 miliardi di dollari all’anno fino al 2035.

Poco, troppo poco per il gruppo africano. Di nuovo, la bozza risulta “totalmente inaccettabile e inadatta all’attuazione dell’accordo di Parigi”, commenta a caldo il negoziatore keniota, Ali Mohamed.

Profondamente delusa anche l’Alleanza dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo, i più vulnerabili tra i vulnerabili: “Il testo chiede alle parti ‘Quanto in basso potete andare in materia di ambizione climatic?‘. È inaccettabile”, tuona l’Aosis, ribadendo che il testo “non sarà adeguato a dare piena attuazione all’Accordo di Parigi e a guidare realmente l’azione per mantenere il limite di 1,5°C”.

La presidenza assicura un lavoro per un obiettivo più “giusto e ambizioso”: “Continueremo a discutere con le parti”, dice ai giornalisti il ​​capo negoziatore, Ialtchine Rafiev, promettendo di apportare “gli ultimi aggiustamenti”, mentre la conferenza delle Nazioni Unite è ufficialmente entrata nei tempi supplementari.

Quanto all’Italia, continua a spingere, insieme ai principali paesi europei, perché “venga una riforma per una finanza climatica migliore, più efficiente che coinvolga anche nuovi Paesi, settore privato, enti filantropici e banche multilaterali di sviluppo“, spiega il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, in una pausa dei lavori. L’approccio di Roma è “quello di perseguire la decarbonizzazione e la crescita dei più vulnerabili”, riferisce, alla base della strategia e dei progetti del Piano Mattei per l’Africa, attraverso collaborazioni pubblico-privato e “partenariati paritari e non predatori”.

Secondo la bozza, i fondi per il clima dovranno arrivare “da un’ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, comprese le fonti alternative”, con azioni “significative e ambiziose” di mitigazione e adattamento, e di “trasparenza nell’attuazione”, quindi con il monitoraggio degli obiettivi; riconoscendo l’intenzione volontaria delle Parti di “conteggiare tutti i flussi in uscita e i finanziamenti mobilitati dalle banche multilaterali di sviluppo” e invita i Paesi in via di sviluppo ad apportare altri contributi, anche attraverso la cooperazione cooperazione Sud-Sud, per raggiungere l’obiettivo. Si riflette quindi sull’espansione della base dei donatori e sulla richiesta cinese di riconoscerla ma su base volontaria.

Nel testo sulla mitigazione, l’abbassamento delle emissioni, si riprende il linguaggio di Parigi sulla necessità di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C come opzione prioritaria. Manca però un riferimento esplicito all’uscita dalle fonti fossili: si “riaffermano” gli esiti del Global Stocktake, senza però citarli.

I fondi per il clima andrebbero a finanziare i piani nazionali sotto l’Accordo di Parigi (gli Ndc); i Piani Nazionali di Adattamento e le Comunicazioni sull’Adattamento, “inter alia”, quindi oltre a una serie di azioni e piani non esplicitati.

La Cop prende poi “atto” del bisogno di finanza per il clima in forma di concessioni, prestiti altamente agevolati e in forma di finanza pubblica, specialmente a supporto di azioni di adattamento e per compensare perdite e danni e riconosce l’importanza di aumentare entro il 2030 la percentuale di finanza mobilitata da fonti pubbliche, ma senza imporre obiettivi specifici o scadenze.

Cop29, sulla finanza la bozza della discordia. A Baku si cerca il compromesso

Unacceptable”, semplicemente inaccettabile. E’ la parola più ripetuta di oggi nello stadio di Baku, che ospita il decimo giorno di lavori della Cop29: serpeggia tra gli analisti, tuona in plenaria. La prima bozza sulla finanza climatica viene respinta da tutti. Perché non offre nessuna idea di compromesso tra i Paesi sviluppati e i Paesi in via di sviluppo, si limita a fotografare la situazione attuale. Il documento non indica una cifra precisa da stanziare o mobilitare e offre due scenari, che riflettono le posizioni dei due gruppi di Paesi.

La prima opzione è vicina ai ‘developing’, i paesi in via di sviluppo. Prevede che il nuovo obiettivo di finanza climatica, da stabilire alla conferenza annuale delle Nazioni Unite, si basi esclusivamente sui fondi dei Paesi sviluppati, che sono obbligati a contribuire secondo i testi delle Nazioni Unite, in virtù delle proprie responsabilità storiche sull’inquinamento. Secondo questa prima opzione, almeno mille miliardi di dollari all’anno devono essere forniti da fondi pubblici dei Paesi ricchi – essenzialmente Europa, Stati Uniti e Giappone – e da fondi privati associati, “nel periodo 2025-2035”, essenzialmente sotto forma di sovvenzioni piuttosto che di prestiti. Si tratta di un importo dieci volte superiore ai 100 miliardi che i Paesi ricchi si erano impegnati a fornire nel periodo 2020-2025, in parte solo sotto forma di sovvenzioni.

La seconda opzione è quella che accontenta il blocco dei Paesi sviluppati. Qui l’obiettivo finanziario sarebbe “un aumento dei finanziamenti globali per l’azione a favore del clima” di almeno mille miliardi di dollari all’anno da raggiungere “entro il 2035” a partire da almeno ‘100 milioni+’, cioè una cifra sicuramente superiore ai 100 milioni ma non si sa di quanto. In più, questa opzione includerebbe “tutte le fonti di finanziamento”, compresi i fondi pubblici di ogni Paese del mondo, i fondi privati e le nuove tasse globali, come quelle sull’aviazione o sul trasporto marittimo. Questa opzione evita di indicare una cifra per l’impegno dei Paesi ricchi, che fin dall’inizio del vertice hanno dichiarato di voler stabilire le modalità di erogazione e di monitoraggio dei fondi, prima di proporre una cifra.

Non c’è quindi un incontro a metà strada sulle due posizioni. Ecco perché le prime reazioni sono incandescenti. “Non intendo indorare la pillola. Il testo così com’è ora è chiaramente inaccettabile“, taglia corto il commissario europeo al Clima, Wopke Hoekstra. Lamenta innanzi tutto l’assenza dell’impegno a uscire dai fossili, che era stato preso a Dubai lo scorso anno: “Non possiamo accettare l’idea che, a quanto pare, per alcuni la precedente Cop non si è svolta”, afferma, ricordando che il programma dell’Ue non prevedeva solo di ribadire il consenso dell’unione, ma anche di rafforzarlo e renderlo operativo. E le nuove tasse che incrementerebbero il fondo clima, osserva, “vanno in realtà nella direzione opposta”. Sull’aspetto finanziario, per Hoekstra serve prima “un’infrastruttura migliore”, più chiarezza anche sui finanziamenti del settore pubblico per l’adattamento, sugli elementi da prendere in considerazione per arrivare a una cifra significativa. Quindi, insiste, “c’è molto lavoro da fare per la presidenza e per tutte le parti coinvolte”.

Anche il ministro italiano Gilberto Pichetto denuncia l’assenza di idee di compromesso nel primo documento: “Ci aspettiamo progressi“, scandisce, nella speranza di avere quanto prima una “proposta di mediazione”.

Il testo “non offre alcun progresso, nessun segnale sulle aspettative di piani nazionali ambiziosi, né uno spazio per discutere l’ambizione collettiva dei piani da presentare l’anno prossimo“, commenta Jennifer Morgan, inviata speciale della Germania per il clima, per cui questa “non può e non deve essere la nostra risposta alla sofferenza di milioni di persone nel mondo”. La Germania chiede messaggi chiari sui prossimi impegni climatici, riduzioni assolute delle emissioni a livello economico in linea con 1,5 gradi e il rinnovo dell’impegno a eliminare gradualmente tutti i sussidi ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o la transizione nel più breve tempo possibile. Il gruppo dei Paesi arabi fa sapere che rifiuterà qualsiasi testo che abbia come obiettivo i “combustibili fossili”. Lo mette in chiaro in plenaria il rappresentante, il saudita Albara Tawfiq, alla Conferenza ONU sul clima di Baku, nel penultimo giorno teorico della COP29. Sul piede di guerra i piccoli Paesi insulari, quelli più a rischio di scomparire con le conseguenze del cambiamento climatico. “Il tempo dei giochi politici è finito”, avverte il rappresentante, il samoano Cedric Schuster, a nome dell’alleanza Aosis, ribadendo che il mondo non può permettersi di andare in direzione opposta a quella dell’Accordo di Parigi.

Il rappresentante dei G77 (l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo in via di sviluppo) ripete come un mantra da giorni ai ministri e alle delegazioni di non lasciare Baku “senza stabilire una cifra chiara” sulla finanza climatica. Spiega che i Paesi in via di sviluppo chiedono ai Paesi ricchi “almeno” 500 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti per il clima entro il 2030, per raggiungere mille miliardi con fondi pubblici, senza perdere di vista l’obiettivo di 1,3 trillions.

Molti elementi non sono “né soddisfacenti né accettabili” anche per la Cina. Il rappresentante Xia Yingxian, ribadisce intanto in plenaria il rifiuto di qualsiasi testo che obblighi la Cina a contribuire agli aiuti finanziari internazionali per i Paesi in via di sviluppo (mentre l’Europa e gli altri Paesi ricchi vorrebbero includere ufficialmente il denaro già fornito dalla Cina nel totale). Pechino invita “tutte le parti a incontrarsi a metà strada”, ponendosi come una potenza equilibratrice tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Il delegato suggerisce che il contributo obbligatorio dei Paesi sviluppati “sia ben superiore a 100 miliardi di dollari all’anno”.

Su tutti, l’appello di Antonio Guterres al compromesso: “Il tempo stringe“, esorta. Confessa di percepire “una certa propensione all’accordo“, pur ammettendo l’esistenza di differenze importanti. Chiede una “grande spinta per portare le discussioni oltre il traguardo” per realizzare un “pacchetto ambizioso ed equilibrato” su tutte le questioni in sospeso, con al centro un nuovo obiettivo finanziario. “Il fallimento non è un’opzione“, avverte. Quello che serve è chiaro, per il segretario dell’Onu: “Un accordo su un nuovo ambizioso obiettivo di finanziamento del clima a Baku“, da cui ripartire l’anno prossimo a Belem, in Amazzonia.

Occhi puntati sulla nuova bozza, che dovrebbe contemplare una sola opzione, un compromesso tra le parti. La sfida sarà, per gli analisti, fare in modo che il documento finale non sia un ‘fantadocumento’, che non parli di qualcosa che non esiste e che non passi l’idea che la Conferenza delle Parti possa partorire della carta straccia.

Il cambiamento climatico può aumentare anche del 200% le infezioni da dengue

Il cambiamento climatico potrebbe essere responsabile del 19% dell’attuale carico globale di infezioni da dengue. Una percentuale che, se non venissero adottate misure efficaci per limitare l’aumento delle temperature, potrebbe salire fino al 60% entro il 2050, arrivando in alcune aree al 200%. Lo rivela un nuovo studio condotto dalle Università di Stanford e Harvard. La dengue è una malattia infettiva trasmessa dalle zanzare, che può manifestarsi con sintomi di intensità variabile, che includono, nei casi più gravi, dolori articolari lancinanti, emorragie e shock. Non esistono, ad oggi, farmaci efficaci per il suo trattamento, e sebbene siano disponibili due vaccini autorizzati, alcuni esperti ritengono che non possano essere usati su larga scala. Solo nelle Americhe sono stati registrati, nel 2024, quasi 12 milioni di casi, rispetto ai 4,6 milioni del 2023, con infezioni segnalate anche in California e in Florida.

Il nuovo studio è stato ispirato da alcuni test di laboratorio che hanno evidenziato come la trasmissione del virus sia favorita dall’aumento delle temperature in un intervallo compreso tra 20°C e 29°C. “Abbiamo esaminato i dati sull’incidenza della dengue e le variazioni climatiche in 21 Paesi dell’Asia e delle Americhe e abbiamo scoperto che esiste una relazione chiara e diretta tra l’aumento delle temperature e l’aumento delle infezioni”, ha dichiarato Erin Mordecai, del Woods Institute for the Environment di Stanford. I ricercatori hanno quindi esaminato i dati relativi alle infezioni registrate in 21 Paesi in cui la dengue è endemica, tra cui Brasile, Perù, Messico, Colombia, Vietnam e Cambogia. Per valutare l’effettivo impatto della temperatura sui tassi d’infezione, il team ha preso in considerazione anche altri fattori che possono influenzarne l’incidenza, tra cui le precipitazioni, i cambiamenti stagionali, i tipi di virus, gli shock economici e la densità della popolazione. Dai risultati è emerso che le aree che stanno entrando ora nella fascia di temperatura ottimale per la diffusione del virus, come alcune regioni di Perù, Messico, Bolivia e Brasile, potrebbero subire, nei prossimi decenni, un aumento delle infezioni tra il 150% e il 200%.

Complessivamente, sarebbero almeno 257 milioni le persone che oggi vivono in luoghi in cui il riscaldamento globale potrebbe raddoppiare le infezioni di dengue nei prossimi 25 anni. Gli autori ritengono, tuttavia, che questa minaccia sia sottostimata nello studio, a causa della carenza di informazioni in alcune aree in cui la malattia è endemica, tra cui ampie zone dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale, e la difficoltà di prevedere i futuri impatti per le aree in cui la dengue ha da poco iniziato a diffondersi localmente, come le regioni meridionali degli Stati Uniti continentali.

“È la prova – spiegano gli esperti – che il cambiamento climatico è già diventato una minaccia significativa per la salute umana e, per la dengue in particolare, i nostri dati suggeriscono che l’impatto potrebbe peggiorare molto”. Contrastare il riscaldamento globale, aiuterebbe, di conseguenza, a contenere la diffusione della malattia.

Cop29, Ferri (Acea): Riutilizzo delle acque reflue il futuro in agricoltura

La Dichiarazione sull’Acqua per l’Azione Climatica è tra gli impegni della Cop29 di Baku, in Azerbaigian e l’Italia sul dossier gioca un ruolo importante. Nella giornata dedicata all’alimentazione, all’agricoltura e all’acqua, Fabrizio Ferri, presidente esecutivo Acea International, spiega a Gea qual è il ruolo del gruppo nella spinta verso lo sviluppo delle infrastrutture e cosa aspettarci dalle sperimentazioni in corso nel settore. “Acea è il principale operatore nel settore idrico in Italia e il secondo in Europa. Serviamo 10 milioni di abitanti in 6 diverse regioni italiane. Lo stesso numero di abitanti lo serviamo anche all’estero, in America Latina, attraverso le nostre società in Honduras, Perù, Repubblica Dominicana”, ricorda. Nel settore idrico, spiega Ferri, è “indispensabile un piano di ammodernamento delle infrastrutture, visto che in Italia il 60% della rete ha più di 30 anni”. Da qui, il ruolo di Acea, nella gestione e nello sviluppo: “Abbiamo un know how all’avanguardia nella realizzazione di progetti di ingegneria nell’idrico – rivendica -. A breve partirà una delle opere più importanti in Italia dei prossimi anni, la realizzazione del secondo tronco dell’acquedotto Peschiera, uno dei più complessi e importanti d’Europa, gestito da Acea”.

Qual è il futuro della gestione sostenibile dell’acqua in agricoltura?

Il riutilizzo delle acque reflue trattate per applicazioni agricole è una soluzione importante per ridurre il consumo di risorse naturali e per contribuire all’apporto di nutrienti alle colture, in linea con i principi dell’economia circolare. Consideriamo che l’agricoltura rappresenta quasi il 60% del consumo totale di acqua in Italia. Acea ha già sviluppato diversi progetti per il riutilizzo delle acque reflue trattate e la gestione delle risorse idriche non convenzionali (NCW), puntando sull’innovazione tecnologica. In un momento in cui la disponibilità della risorsa sta diminuendo è necessario fare in modo che l’acqua venga riutilizzata più possibile, alleggerendo la pressione sulle fonti.

Quanto è importante il “lavoro di squadra”, le collaborazioni con altre realtà, come banche, fondi, centri di ricerca?

Il lavoro di squadra è imprescindibile. Molti territori non dispongono delle risorse finanziarie per investire in tecnologie avanzate come gli impianti di trattamento delle acque reflue. Spesso mancano anche le competenze tecniche necessarie. La collaborazione è necessaria per garantire che si sviluppino queste conoscenze specifiche che servono per mantenere con efficacia questi sistemi. Dall’altra parte, gli accordi con banche e fondi possono facilitare gli investimenti nel settore. Su questo ad esempio Acea e Intesa Sanpaolo hanno siglato un’intesa che metterà a disposizione 20 miliardi di Euro per supportare iniziative sulla gestione sostenibile dell’acqua.

Quanto è urgente adeguare le normative in materia, in Italia e in Europa?

È fondamentale un’evoluzione del quadro normativo, adottando un approccio più flessibile al riutilizzo delle acque reflue in agricoltura. Questo soprattutto perché l’incertezza normativa rappresenta una barriera per gli investimenti. Per massimizzare la quantità d’acqua che si può riutilizzare sarebbe opportuno anche pensare a processi di trattamento non standard, in modo da abbinare le qualità dell’acqua alle esigenze delle colture circostanti.

Acea siede nella cabina di regia del Piano Mattei come water expert. Quali dei tanti progetti per la gestione dell’acqua è indispensabile esportare in Africa?

Acea partecipa attivamente all’attuazione del Piano Mattei nel continente africano, un programma del Governo italiano che mira a favorire la cooperazione in 5 diversi pilastri, uno dei quali è l’acqua. L’obiettivo è quello di creare sinergie che consentano un approccio globale alla gestione sostenibile dell’acqua, agendo su progetti specifici, politiche locali, infrastrutture verdi ed educazione alla gestione dell’acqua.

Cop29, Pichetto: “Dal G20 nessun input, in questo momento evitiamo di parlare di cifre”

Al via a Baku, in Azerbaigian, la seconda giornata di lavori della seconda settimana della Cop29. Oggi il focus è sui temi cibo, agricoltura e acqua. La conferenza stampa della presidenza è attesa per le 13.15 locali (le 10.15 italiane).

Occhi puntati sul G20 di Rio, in Brasile, dove però i leader non hanno fatto progressi per sbloccare i negoziati sul clima di Baku, come aveva chiesto ieri la conferenza della parti. Gli sherpa non hanno nemmeno incluso nel loro comunicato l’impegno per “una giusta, ordinata ed equa transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici”, che era stato ottenuto nell’ultima COP a Dubai lo scorso anno.

Non è arrivato nessun input politico preciso dal G20 nell’aumentare i fondi per i paesi vulnerabili, anzi in questo momento noi evitiamo di parlare di cifre”, commenta il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, arrivato a Baku ieri sera. Si intrattiene con i giornalisti a margine dell’evento ‘Le tecnologie di Leonardo per supportare le transizioni climatiche e proteggere territori e comunità‘, nel padiglione italiano. “Abbiamo appena finito la riunione e l’impegno che abbiamo assunto è quello di non parlare di numeri, anche perché vogliamo legare i numeri alle misurazioni e alle mitigazioni”, fa sapere.

La situazione dei negoziati, ammette, è “ancora abbastanza difficoltosa”, riferisce. Il ministro fa riferimento al dossier Cina, che non vorrebbe rientrare direttamente tra i Paesi contributori, al nodo della mitigazione, cioè l’abbassamento delle emissioni, che molti Paesi, in particolare i Paesi via di sviluppo, non vogliono tenere in considerazione. E ancora, “sembrava a buon punto la trattativa che riguardava l’articolo 6 dell’accordo di Parigi con le misurazioni, ma questa notte nelle trattative tecniche c’è stata ancora qualche difficoltà“, informa.

Per allargare la platea dei donatori, la ricetta italiana è quella di coinvolgere i fondi multilaterali.Portando dentro i fondi multilaterali naturalmente si va ad allargare la base perché sono certamente per più della metà, per circa un 60% dei paesi del G7, ma per il 40% è molto più allargato, perché riguarda anche paesi che possono essere a questo punto contributori e fruitori“, ricorda Pichetto. Sarebbe un modo per far contribuire anche la Cina, presente in modo massiccio nei fondi asiatici: “La Cina rimarrebbe in una condizione di contributore ma anche di fruitore, questo è uno degli elementi“.

Un altro modo per dare più respiro al piano di finanza climatica è per il ministro italiano quello di considerarlo decennale e non attivare meccanismi vincolanti annuali. Però, mette in guardia, “siamo al primo giorno delle ministeriali, i nostri negoziatori cominciano adesso, vedremo“.

L’Italia conferma gli impegni sui fondi definiti finora: “Abbiamo ribadito quindi la disponibilità sul fondo clima, l’impegno sul loss and damage nel momento in cui verranno definite anche le modalità“, afferma Pichetto, ribadendo di avere la piena volontà di discutere un nuovo quadro finanziario, ma “che sia essere legato a un sistema di misurazione delle ricadute”.

Oggi il ministro interviene al dialogo ministeriale di Alto Livello sull’urgente necessità di aumentare gradualmente i finanziamenti per l’adattamento, poi, al Padiglione ucraino, partecipa all’evento di Alto Livello dedicato al punto ‘Sicurezza Ambientale’ della ‘Formula di Pace’ Ucraina. Alle 17.30 (14.30 italiane) il ministro è atteso al Padiglione Italiano per il Side Event organizzato dalla Fondazione Patto per la Decarbonizzazione del Trasporto Aereo (PACTA) sulle sfide del settore per la decarbonizzazione. Conclude la giornata l’evento di lancio del progetto ‘Giubileo e Ambiente’ sostenuto dal MASE in collaborazione in ISPRA e promosso da Earth Day Italia (Padiglione Mediterraneo, ore 18.30 – le 15.30 in Italia).

In programma per oggi un incontro bilaterale con Ugochi Daniels, vicedirettrice generale per le Operazioni dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Salta invece il bilaterale con Idit Silman, ministra della protezione ambientale d’Israele, che non ha potuto raggiungere Baku a causa dello spazio aereo che Ankara ha chiuso a Israele. Domani, mercoledì 20, il ministro tiene il bilaterale con Habib Abid, ministro dell’Ambiente della Tunisia, con Seyoum Mekonen, vice ministro di Stato per la Pianificazione e lo Sviluppo della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia e con Svetlana Grinchuk, ministra della Protezione Ambientale e delle Risorse Naturali dell’Ucraina,

India, nuovo picco di inquinamento atmosferico: scuole chiuse a Nuova Delhi

L’inquinamento atmosferico ha raggiunto lunedì un nuovo picco, a livelli 60 volte superiori agli standard internazionali, nella capitale indiana Nuova Delhi, dove la maggior parte delle scuole è rimasta chiusa e il traffico è stato limitato. Ogni inverno la megalopoli di 30 milioni di persone affronta picchi di inquinamento causati dal fumo delle fabbriche, dal traffico stradale e dalle combustioni agricole stagionali. Al mattino, le concentrazioni nell’aria di microparticelle tossiche PM 2,5 hanno raggiunto livelli fino a 60 volte superiori alle soglie raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo le letture effettuate da IQAir. In alcune zone della città, uniformemente avvolta da una nebbia opaca, il livello di queste particelle – le più tossiche perché si diffondono nel sangue – ha raggiunto i 907 microgrammi per metro cubo d’aria, secondo IQAir. “I miei occhi bruciano da diversi giorni. C’è più fumo nell’aria, è ovvio”, ha dichiarato all’AFP Subodh Kumar, 30 anni, che guida un taxi a pedali (risciò). “Non so cosa stia facendo il governo”, ha aggiunto, “ma io devo essere in strada, che altro posso fare?“. Le autorità locali hanno attivato il livello 4 del loro piano di allerta domenica sera “per prevenire un ulteriore deterioramento della qualità dell’aria”.

Le lezioni frontali saranno sospese per tutti gli alunni ad eccezione dei livelli 10 e 12” della scuola secondaria, ha ordinato l’amministratore delegato locale Atishi. Le scuole primarie sono chiuse dalla scorsa settimana e gli alunni vengono istruiti a distanza. Inoltre, tutti i lavori di costruzione sono stati sospesi e la circolazione dei mezzi pesanti e dei veicoli più inquinanti è stata fortemente limitata.

Il governo locale ha anche invitato i bambini, gli anziani e chiunque soffra di malattie polmonari o cardiache a “rimanere in casa il più possibile”. Molti residenti della capitale indiana non possono permettersi i depuratori d’aria e vivono in case poco isolate dal mondo esterno. “Chi può permettersi un purificatore d’aria quando sta lottando per pagare le bollette?”, ha dichiarato all’AFP Rinku Kumar, 45 anni, autista di tuk-tuk, taxi a tre ruote motorizzati. “I ministri ricchi e gli alti funzionari possono permettersi di stare a casa, non la gente comune come noi”, ha aggiunto.

Le temperature più basse e i venti invernali più deboli (da metà ottobre a gennaio) intensificano l’inquinamento intrappolando le particelle pericolose. Secondo l’OMS, l’inquinamento atmosferico può causare malattie cardiovascolari e respiratorie, nonché il cancro ai polmoni. Uno studio pubblicato sulla rivista medica Lancet ha attribuito alla scarsa qualità dell’aria la responsabilità della morte di 1,67 milioni di indiani nel 2019. Il mese scorso, la Corte Suprema, il più alto organo giudiziario del Paese, ha aggiunto l’aria pulita all’elenco dei diritti umani fondamentali e ha ordinato al governo di agire di conseguenza. Lunedì scorso, il ministro capo di Nuova Delhi ha messo in discussione l’agricoltura incendiaria praticata negli Stati confinanti con la capitale davanti alla stampa. “Il governo nazionale non sta facendo nulla. Oggi l’intera India settentrionale si trova in un’emergenza sanitaria”, ha lamentato. “Per tutta la notte ho ricevuto telefonate da persone che hanno dovuto ricoverare anziani in ospedale”. Le iniziative prese dalle autorità locali hanno avuto finora scarso effetto.

Dopo aver incoraggiato gli automobilisti a spegnere i motori ai semafori rossi, Nuova Delhi ha recentemente presentato un drone progettato per spruzzare acqua sulle aree più inquinate. Le ONG ambientaliste hanno condannato questa “misura a metà”, chiedendo che le emissioni vengano “fermate alla fonte”.

Unhcr: “La crisi climatica peggiora la situazione di 120 milioni di rifugiati”

Il cambiamento climatico sta costringendo milioni di persone in tutto il mondo a fuggire dalle loro case e non fa che aumentare le condizioni già “infernali” che questi sfollati devono affrontare, ha avvertito martedì l’Onu. L’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Rifugiati sta usando la conferenza Cop29 a Baku per ricordare quanto l’aumento delle temperature e l’incremento dei fenomeni meteorologici estremi stiano influenzando la vita dei rifugiati e degli sfollati. L’agenzia chiede investimenti maggiori e più efficaci per mitigare gli effetti e i rischi.

Secondo un nuovo rapporto dell’UNHCR, i cambiamenti climatici e i conflitti si combinano per mettere le persone già a rischio in situazioni ancora peggiori, come in Sudan, Somalia e Birmania. “Nel nostro mondo che si sta riscaldando, siccità, inondazioni, caldo mortale e altri eventi meteorologici estremi stanno creando situazioni di emergenza con una frequenza allarmante”, insiste il suo capo, Filippo Grandi, nella prefazione del rapporto. “Le persone costrette a fuggire dalle proprie case sono in prima linea in questa crisi”, aggiunge Grandi, sottolineando che il 75% degli sfollati vive in Paesi altamente o estremamente esposti ai rischi legati al clima. “Con l’accelerazione della velocità e della portata dei cambiamenti climatici, questa cifra continuerà ad aumentare”, ha previsto.

Secondo i dati dell’UNHCR di giugno, 120 milioni di persone sono attualmente sfollate in tutto il mondo a causa di guerre, persecuzioni o violenze, la maggior parte delle quali nel proprio Paese. “A livello globale, il numero di persone sfollate a causa di conflitti è raddoppiato negli ultimi dieci anni”, ha dichiarato Andrew Harper, consigliere speciale dell’UNHCR per l’azione per il clima, in un’intervista all’AFP. Allo stesso tempo, dati recenti del Centro di monitoraggio degli sfollati interni indicano che i disastri legati alle condizioni meteorologiche hanno costretto circa 220 milioni di persone a fuggire dai loro Paesi nell’ultimo decennio. Harper deplora la palese mancanza di fondi per sostenere coloro che fuggono e le comunità che li accolgono: “Quello che vediamo è che, nel complesso, una situazione già infernale sta diventando ancora più difficile”. La maggior parte dei luoghi in cui i rifugiati si insediano è in Paesi a basso reddito, spesso “nel deserto, in aree soggette a inondazioni, in luoghi privi delle infrastrutture necessarie per far fronte ai crescenti impatti del cambiamento climatico”, spiega il funzionario. E la situazione è destinata a peggiorare. Secondo l’UNHCR, entro il 2040 il numero di Paesi del mondo esposti a rischi climatici estremi passerà da tre a 65, sottolineando che la maggior parte di questi Paesi ospita popolazioni sfollate.

Entro il 2050, la maggior parte dei campi profughi e degli insediamenti sarà probabilmente soggetta a un numero doppio di giorni di temperature pericolose rispetto a oggi, avverte il rapporto. Un pericolo immediato per la salute e la vita dei rifugiati, ma anche per i raccolti e il bestiame, avverte Harper.

Stiamo assistendo a una crescente perdita di terreni coltivabili in luoghi esposti a condizioni climatiche estreme, come Niger, Burkina Faso, Sudan e Afghanistan, ma allo stesso tempo stiamo assistendo a un massiccio aumento della popolazione”, sottolinea. L’UNHCR esorta i decisori politici riuniti a Baku a garantire che maggiori finanziamenti internazionali per il clima raggiungano i rifugiati e le comunità ospitanti che ne hanno maggiormente bisogno. Attualmente, sottolinea l’UNHCR, gli Stati estremamente fragili ricevono solo circa 2 dollari a persona in finanziamenti annuali per l’adattamento ai cambiamenti climatici, rispetto ai 161 dollari a persona negli Stati meno esposti. “Se non investiamo nella pace, se non investiamo nell’adattamento al cambiamento climatico in queste regioni, allora le persone si sposteranno”, avverte Harper. “È illogico aspettarsi che facciano altrimenti”.

Clima, allarme dell’Onu: “Gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sono a rischio”

Gli obiettivi definiti dall’Accordo di Parigi “sono in grave pericolo”. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), agenzia delle Nazioni Unite, che in occasione dell’apertura della Cop29 a Baku, in Azeribaigian, ha confermato quanto annunciato la scorsa settimana dal servizio europeo Copernicus e cioè che il 2024 è sulla strada per essere l’anno più caldo mai registrato dopo una lunga serie di temperature medie mensili eccezionalmente elevate.

L’aggiornamento sullo stato del clima 2024 lancia ancora una volta un’allerta rossa per l’enorme ritmo del cambiamento climatico in una sola generazione, messo in moto dall’aumento dei livelli di gas serra nell’atmosfera. Il periodo 2015-2024 sarà il decennio più caldo mai registrato; la perdita di ghiaccio dai ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e il riscaldamento degli oceani stanno accelerando e le condizioni meteorologiche estreme stanno causando danni alle comunità e alle economie di tutto il mondo.

Secondo un’analisi di sei set di dati internazionali utilizzati dal WMO, la temperatura media globale dell’aria in superficie nel periodo gennaio-settembre 2024 è stata di 1,54 °C (con un margine di incertezza di ±0,13 °C) al di sopra della media preindustriale, favorita da un evento El Niño in fase di riscaldamento.

“Da gennaio a settembre 2024, la temperatura media globale dell’aria in superficie è stata di 1,54°C al di sopra della media preindustriale”, si legge nel rapporto, anche se, come precisa la segretaria generale del WMO, Celeste Saulo “ciò non significa che non abbiamo raggiunto l’obiettivo dell’Accordo di Parigi”, che “si riferisce a livelli di temperatura globale sostenuti come media nell’arco di decenni”. Le anomalie della temperatura globale registrate su scala giornaliera, mensile e annuale, infatti, “sono soggette a grandi variazioni, in parte a causa di fenomeni naturali come El Niño e La Niña”.

Eppure, come ricorda Saulo, “le piogge e le inondazioni da record, la rapida intensificazione dei cicloni tropicali, il caldo mortale, la siccità incessante e gli incendi selvaggi che abbiamo visto quest’anno in diverse parti del mondo sono purtroppo la nostra nuova realtà e un’anticipazione del nostro futuro”. Futuro che, per il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres ha l’aspetto di una “catastrofe climatica” che sta colpendo “la salute, ampliando le disuguaglianze, danneggiando lo sviluppo sostenibile e scuotendo le fondamenta della pace. I più colpiti sono i vulnerabili”.