Approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici
E’ stato approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. “Un passo importante per la pianificazione e l’attuazione di azioni nel nostro Paese“, precisa il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
I cambiamenti climatici, osserva il ministero nel documento, rappresentano e rappresenteranno in futuro una delle sfide più rilevanti da affrontare a livello globale ed anche nel territorio italiano. L’Italia si trova nel cosiddetto ‘Hotspot mediterraneo‘, un’area identificata come particolarmente vulnerabile.
Il Paese è, poi, storicamente soggetto ai rischi naturali (fenomeni di dissesto, alluvioni, erosione delle coste, carenza idrica) e già oggi è evidente come l’aumento delle temperature e l’intensificarsi di eventi estremi connessi ai cambiamenti climatici (siccità, ondate di caldo, venti, piogge intense) amplifichino questi rischi, i cui impatti economici, sociali e ambientali sono destinati ad aumentare nei prossimi decenni. È quindi “evidente” per il dicastero dell’Ambiente, l’importanza dell’attuazione di azioni di adattamento nel territorio.
L’obiettivo principale del Pnacc è fornire un quadro di indirizzo nazionale per implementare le azioni di contrasto dei rischi, migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche.
Secondo il Piano, è allarme precipitazioni, che nel 2022 sono state ben inferiori alla media climatologica, soprattutto durante l’inverno e la primavera nell’Italia centro-settentrionale, con anomalie precipitative superiori a -40% rispetto al periodo 1991-2020. Diverse aree del Nord Italia hanno sperimentato condizioni di siccità severa ed estrema.
Quanto alle emissioni climalteranti, il dossier prospetta tre scenari: in uno ad elevate emissioni prevede, entro il 2100, concentrazioni atmosferiche di CO2 triplicate o quadruplicate (840-1120 ppm) rispetto ai livelli preindustriali (280 ppm). Questo scenario è caratterizzato da un consumo intensivo di combustibili fossili e dalla mancata adozione di qualsiasi politica di mitigazione con un conseguente innalzamento della temperatura globale pari a +4-5°C rispetto ai livelli preindustriali atteso per la fine del secolo; in uno scenario intermedio, che assume la messa in atto di alcune iniziative per controllare le emissioni, sono considerati scenari di stabilizzazione. Così, entro il 2070 le concentrazioni di CO2 scenderebbero al di sotto dei livelli attuali (400 ppm) e la concentrazione atmosferica si stabilizza, entro la fine del secolo, a circa il doppio dei livelli preindustriali. In RCP6.0, le concentrazioni di CO2 continuerebbero a crescere fino a circa il 2080, impiegano più tempo a stabilizzarsi e sono circa il 25% superiori rispetto ai valori di RCP4.5; in uno scenario di “mitigazione aggressiva”, invece, le emissioni sarebbero dimezzate entro il 2050. Questo caso assume strategie di mitigazione ‘aggressive’ per cui le emissioni di gas serra iniziano a diminuire dopo circa un decennio e si avvicinano allo zero più o meno in 60 anni a partire da oggi. Secondo l’IPCC, per quanto riguarda il particolare scenario RCP2.6, si stima che le temperature medie globali della superficie nel periodo 2081-2100, rispetto al periodo di riferimento 1986-2005, si posizioneranno, per la maggior parte dei modelli globali utilizzati nel CMIP5, in un intervallo compreso tra 0,3°C e 1,7°C.
Brutte notizie per i ghiacciai, che hanno già perso dal 30 al 40% del loro volume. Il cosiddetto ‘peak water’, il fenomeno di aumento temporaneo della portata dei torrenti di montagna causata dall’incremento della fusione glaciale che si esaurisce quando il ghiacciaio si estingue o si ritira a quote talmente elevate da non poter più fondere, è già stato raggiunto nella maggior parte dei bacini glaciali italiani. La temperatura del permafrost sta aumentando in modo significativo in tutti i siti di misura alpini così come lo spessore dello strato di terreno o roccia che annualmente viene scongelato. Queste tendenze continueranno nei prossimi decenni in funzione dell’intensità dell’aumento delle temperature globali. La durata della copertura nevosa nei fondo-valle e sui versanti meridionali fino a 2.000 m si ridurrà di 4/5 settimane e di 2/3 settimane a 2.500 m. Il ritiro dei ghiacciai continuerà ad accelerare così come la degradazione del permafrost.
Altro fattore di rischio sono i fenomeni di dissesto geologico, idrologico e idraulico (inondazioni, frane, erosioni e sprofondamenti) sempre più diffusi e frequenti in Italia e hanno già provocato vittime e gravi danni ad ambiente, beni mobili e immobili, infrastrutture, servizi e tessuto economico e produttivo con ingenti conseguenze economiche (più di due miliardi di euro all’anno) “Sebbene le peculiarità naturali del territorio italiano (caratteristiche geologiche, geomorfologiche meteorologiche e climatiche) giochino un ruolo fondamentale nell’origine di tali fenomeni – ammette il Piano -, diversi fattori antropici contribuiscono in maniera determinante all’innesco o all’esacerbazione delle loro conseguenze”.
Dal momento che i cambiamenti climatici hanno effetti su gran parte dei sistemi naturali, sull’uomo e sui settori socioeconomici, che sono tra loro interconnessi, l’adattamento ai cambiamenti climatici è caratterizzato da una forte intersettorialità e multisettorialità di azione. La pianificazione e l’attuazione di adeguate azioni di adattamento, nonché il monitoraggio della loro efficacia, presuppongono una organizzazione multilivello. La struttura di governance definirà modalità e strumenti settoriali e intersettoriali di attuazione delle azioni del Piano ai diversi livelli di governo. I risultati di questa attività convergeranno in piani settoriali o intersettoriali, nei quali saranno delineati gli interventi da attuare. E, per garantire la circolarità delle risorse, la struttura di governance del Pnacc agirà in sinergia con l’Osservatorio sull’attuazione della strategia nazionale dell’economia circolare.